The Project Gutenberg eBook of Ricordi d'un viaggio in Sicilia, by Edmondo De Amicis This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Ricordi d'un viaggio in Sicilia Author: Edmondo De Amicis Release Date: July 20, 2023 [eBook #71232] Language: Italian Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RICORDI D'UN VIAGGIO IN SICILIA *** [Illustrazione: Edmondo De Amicis] “_Semprevivi_„ BIBLIOTECA POPOLARE CONTEMPORANEA Edmondo De Amicis Ricordi d’un viaggio in Sicilia CATANIA CAV. NICCOLÒ GIANNOTTA, EDITORE Libraio della Real Casa _Via Lincoln — Via Manzoni — Via Sisto_ (Stabili propri) 1908 PROPRIETÀ LETTERARIA _ai sensi del testo unico delle Leggi 25 Giugno 1865, 10 Agosto 1875, 18 Maggio 1882, approvato con R. Decreto e Regol. 19 Settembre 1882._ Reale Tipografia dell’Edit. Cav. N. GIANNOTTA Premiato Stabilimento a vapore con macchine celeri tedesche CATANIA — Via Sisto 58-60-62-62 bis — (_Stabile proprio_) — CATANIA DA MESSINA A PALERMO Non avevo più visto la Sicilia da quarant’anni, niente di meno: dall’anno di grazia 1865, nel quale avevo fatto la mia prima guarnigione, come si dice in linguaggio militare, nella città di Messina, di dove ero partito col mio reggimento nell’aprile del 1866 per la guerra contro l’Austria. E fu appunto Messina la prima città che rividi venendo da Roma: con quale commozione, possono immaginare tutti coloro che hanno rivisto dopo circa un mezzo secolo una regione della patria, a cui erano legati dai più cari ricordi della prima giovinezza. Quali mutamenti in questi quarant’anni! Basta dire che nel 1865 non c’era ancora in tutta l’isola un chilometro di strada ferrata in servizio. Si stava costruendo quella da Messina a Catania, e ricordo bene le grida di maraviglia con cui le contadine messinesi, dai colli circostanti alla città, salutavano le prime macchine a vapore messe in esperimento sulla linea, lungo la riva del mare. Ora, venendo dal continente, si attraversa lo stretto senza discendere dai vagoni ferroviarii, che sono trasportati da una riva all’altra sopra un piroscafo. Le piccole città e i villaggi della costa calabrese si sono ingranditi per modo che formano quasi una sola enorme macchia biancastra da San Giovanni a Reggio. Messina s’è inalzata su per i graziosi colli conici che le sorgono da tergo, ed ha allungato le sue grandi ali bianche lungo il mare fino a perdita d’occhi. La mia antica piazza d’armi è scomparsa sotto un nuovo quartiere elegante e ridente; le antiche vie, che già erano ariose e linde, si sono arricchite di botteghe splendide; le piazze si sono ornate di palme; la luce elettrica brilla da ogni parte; i tramway percorrono l’interno della città e si spingon fuori fino al Faro, distante dal centro parecchie miglia; e il movimento della popolazione, specialmente sulla grande strada della Marina, su cui si stende una lunga schiera di grandiosi edifizii uniformi, è pari — in apparenza — a quello delle più popolose e floride città marittime del continente. Eppure all’apparenza non corrisponde la realtà. La bella Messina, privilegiata d’una delle più favorevoli situazioni geografiche del mondo, dove due mari si congiungono, posta quasi a contatto dell’Italia continentale e dotata d’un vasto e sicuro porto naturale, è piuttosto in decadenza che in via d’incremento. Singolare destino della città! Una parte della corrente vitale le è stata detratta dalla vicina Catania, dove sorse un’attività industriale che a lei manca, e da quella stessa piccola città di San Giovanni, che le sorge di fronte sulla costa di Calabria, e che non era al tempo della mia giovinezza che un piccolo villaggio. Una altra gran cagione di danno le fu la perdita del privilegio del _porto franco_ di cui godeva ancora nei primi anni dell’unificazione d’Italia. Essa patì inoltre, e forse più d’ogni altra grande città siciliana, i danni di cui si risentì in generale tutta l’isola dopo il primo rapido sviluppo di ricchezza seguito al 1860: danni prodotti dalla filossera, dalla chiusura del mercato francese, dall’aggravamento spropositato delle imposte, dalla improvvida politica doganale del Governo italiano, tutta rivolta a vantaggio delle industrie e degli industriali dell’alta Italia e a scapito dell’agricoltura del mezzogiorno e delle isole. Così è. Con questa malinconica affermazione ogni cittadino della luminosa Messina interrompe l’inno ammirativo che il viaggiatore nuovo arrivato scioglie alla bellezza incomparabile della sua città nativa. Luminosa — è l’aggettivo che mi è rimasto nella mente congiunto alla sua immagine. Come biancheggiava splendidamente fra l’azzurro vivo del mare e il vivo verde della lussureggiante vegetazione che copre l’anfiteatro dei suoi colli e dei suoi monti! A traverso l’aria limpidissima apparivano così vicine le città e le borgate della Calabria da far pensare che il grido d’un uomo vi dovesse giungere, e la tragica cima d’Aspromonte, — Calvario di Garibaldi, — soprastante a tutte le vette rocciose della catena, mostrava nitida la sua fiera nudità colorata di viola, dolce e triste come il sorriso dell’Eroe ferito, che perdonava ai suoi feritori. Da una parte l’orizzonte del mar Jonio, dall’altra l’orizzonte del mar Tirreno, l’uno turchino carico, l’altro azzurro argentato; e su quello, al di là di Scilla, ancora la costa calabrese seminata di villaggi, che si sfuma lontano in un color grigio e rosa chiarissimo, somigliante a una lunga nuvola immobile. Una veduta immensa, serena, tranquilla. E sul finir di novembre vi circonda un tepore di primavera, e vi carezza il viso un’aria carica di profumi confusi d’erbe, di rose, di aranci, della quale ogni soffio vi fa fremere e sorridere come il bacio d’una donna. Davanti alla giocondità e alla freschezza di questa città d’aspetto così giovanile, che par sorta ieri per incanto dal seno delle acque, ed è forse la città siciliana che serba meno ricordi del tempo antico, quasi vi sembra favola incredibile la sua lunga storia di guerre atroci e di calamità spaventose. Quale strana e terribile storia di tirannie, d’assedii, di invasioni, di pesti, di terremoti, dai pirati di Cuma e di Calcide che la fondarono, alle guerre contro Siracusa, contro Atene, contro Cartagine; e dai Cartaginesi ai Romani, dai Romani ai Saraceni, dai Saraceni ai Normanni, agli Spagnuoli, ai Francesi, fino al formidabile bombardamento borbonico del 1848 e all’entrata trionfale di Garibaldi dopo la vittoria di Milazzo! Periodi di libertà gloriosa e di schiavitù miseranda, epoche di prosperità splendida come quella della fine del secolo XV, e tempi in cui fu ridotta a poco più d’un villaggio, come verso la fine del secolo XVII; e una nuova risurrezione nel secolo passato, e una nuova decadenza nel presente: duemila duecento anni di vita, una maravigliosa vicenda di distruzioni e di trasformazioni, di catastrofi e di fortune: unica cosa immutata è rimasta la sua bellezza. Ma non per questa soltanto ella è attraente ed amabile. I suoi cittadini presentano i caratteri interessanti delle popolazioni di confine che modificano l’indole e i costumi proprii sotto l’influenza degli elementi forestieri con cui hanno più contatti che le altre genti del loro sangue. Nei Messinesi l’indole isolana appare in certo modo ammorbidita e levigata; l’animo loro si apre più facilmente con gli stranieri, le loro maniere sono più cerimoniosamente cortesi, il loro stesso dialetto è più largamente mescolato di vocaboli e di forme importate e meno sicilianamente accentuato che il dialetto delle altre popolazioni dell’isola. Un indizio della mescolanza del sangue di questa città è il numero notevole dei biondi che vi si riscontra. Chi conosce le altre città siciliane avverte pure che vi è assai meno viva che altrove quella espressione di curiosità scrutatrice e quasi sospettosa con cui è generalmente osservato nell’isola il forestiero, che tutti riconoscono al primo sguardo. E non di meno anche a Messina ciò che colpisce più fortemente subito l’Italiano del Settentrione, venuto nell’isola per la prima volta, sono gli occhi dei suoi abitatori. Disse un illustre napoletano che, venendo per la prima volta nell’alta Italia, gli parve che la gente non avesse occhi: noi stessi abbiamo una tale impressione ritornando nel nostro paese dal mezzogiorno; ma ritornando dalla Sicilia in particolar modo. Oh quegli occhi siciliani così profondi, così acutamente scrutatori, così pieni di sentimento e di pensiero, e pur così misteriosi quando il loro sguardo non è spiegato dalla parola o animato da una passione determinata, intorno alla quale non ci possa esser dubbio! Avete già lasciato l’isola, molti ricordi di luoghi famosi e di spettacoli incantevoli del suo mare e del suo cielo si sono già confusi nella vostra mente; ma _vedete_ ancora quegli occhi, un balenìo di pupille oscure come sparse per l’aria, che vi dicono mille cose non ben chiare, e par che vi leggano nell’anima, senza svelarvi l’anima che fiammeggia in loro. Sono esse veramente l’espressione visibile della profondità e della complessità del carattere siciliano, così difficile a definirsi, così vario in sè medesimo, e pieno di contraddizioni, di disarmonie e di lacune; per cui disse uno scrittore dell’isola che il siciliano “pensa e sente come un arabo, agisce come un greco, concepisce la vita come uno spagnuolo.„ Strano carattere, violento e tenace nella passione, debole e mutevole nella volontà, facile egualmente all’entusiasmo e allo scetticismo, eroico nei suoi impeti generosi e pazientissimo nelle sue rassegnazioni indolenti; nel quale quel fortissimo sentimento individuale, che in altri popoli è il più grande propulsore delle iniziative, produce l’effetto di far curvare l’individuo dinanzi all’individuo, di far idolatrare la forza, di assoggettare le moltitudini a pochi padroni, di perpetuare lo spirito del feudalismo nella politica, nelle amministrazioni, in tutti i campi della vita pubblica! _L’uomo_, dotato di facoltà intellettuali e morali ammirabili, è capace di far miracoli; ma _gli uomini_, renitenti all’associazione e ai sacrifici che la concordia impone, sono collettivamente inetti e infecondi. Un grande errore è però il giudicare il siciliano dalla collettività, come la maggior parte di noi italiani facciamo. Egli ha tutto da guadagnare a esser conosciuto individualmente e da vicino. Lavoratore, ragionatore, padre di famiglia, amico, ospite, egli si rivela tutt’altr’uomo da quel che pare visto di lontano, nella moltitudine. Per questo c’è una grande diversità nel giudicarlo fra gli italiani del Continente che hanno vissuto lungo tempo nell’isola e quelli che non v’hanno mai posto piede o non vi passarono che come viaggiatori. Questi sono ingiusti. Questi pensieri mi sorgevano in mente ogni volta che mi soffermavo a guardar lo Stretto nel punto in cui le due coste sono più vicine. Che c’è di più maraviglioso di questo fatto? Poco più di tre chilometri di mare, che si attraversano in trenta minuti, e quel poco d’acqua divide le due terre come un vasto deserto o come una formidabile barriera di montagne. Passano continuamente quel breve spazio, con la maggior facilità, migliaia di persone e carichi enormi di merci; e quello stesso spazio mantiene quasi immutate per secoli diversità profonde di idee e di costumanze, perpetua ignoranza e pregiudizî reciprocamente funesti fra un popolo e l’altro, falsa e deforma mostruosamente le notizie dei fatti, arresta il cammino di grandi fame, ed è causa che uno dei due popoli, che pure ha con l’altro tanti legami di sangue, d’indole, d’interessi, di storia, senta in sè un’indomabile tendenza a viver di vita propria, con leggi proprie, considerando — e non in tutto a torto — come inconciliabili con la sua natura ed esiziali ai suoi interessi la maggior parte delle istituzioni e delle norme che reggono la vita pubblica nella terra posta quasi a contatto della sua! Ed è forse appunto questa uniformità forzata di leggi e d’obblighi, su cui si fondarono per tanto tempo tutte le migliori speranze del suo risorgimento, è forse questa appunto la cagione principale della persistenza delle sue miserie e dei suoi dolori! Ma queste sue miserie chi potrebbe mai sospettare viaggiando per quello splendido “paradiso terrestre„ delle sue coste? Non ero mai andato per terra da Messina a Palermo; feci questo viaggio in una giornata bellissima; ne fui abbagliato e incantato. Questo versante Tirrenico, che rappresenta la quarta parte dell’area totale dell’isola, e contiene oltre un terzo dell’intera popolazione, con una densità molto superiore alla media del regno d’Italia, pure essendo meno maravigliosamente florido del versante Jonico, compreso fra Messina e Siracusa, è per bellezza di paesaggio e per ricchezza di vegetazione una delle più ammirabili regioni d’Europa. È una successione di golfi e di seni dalle curve graziosissime, dominati da alti promontorii dirupati, che si specchiano nel più maraviglioso azzurro marino che abbia mai sorriso al sole. Si percorre il primo tratto, lungo il mare, in vista delle diciassette isole dell’Arcipelago Eolio, che par che sorgano l’una dopo l’altra dalle acque, con le loro belle forme vulcaniche, ardite e leggere, tinte di colori soavi, d’un’apparenza quasi vaporosa. E le pianure verdi, solcate da innumerevoli corsi d’acqua, succedono alle pianure verdi, i boschi ai boschi, i vigneti ai vigneti, e vaghe città biancheggianti sulle alture, e monti scoscesi coronati di chiese aeree e di castelli spagnuoli e normanni e d’avanzi di colonie greche e romane. E fuggono accanto al treno i boschetti d’aranci, le siepi di fichi d’India, le spalliere di áloi, i gruppi di palme, tutte le varietà di piante di tutte le terre italiche, accarezzate e mosse da un’aria imbalsamata che vi desta nel sangue e nell’anima un sentimento delizioso della vita. E quante grandi immagini del passato vi sorgono dinanzi da ogni parte! Su quel ridente azzurro del golfo di Spadafora fu distrutta da Agrippa la flotta di Sesto Pompeo; su quell’altre acque luminose, fra il Capo Orlando e la foce della Zapulla, fu sconfitta l’armata di Federico dalle armate riunite di Catalogna e d’Angiò; laggiù riportò Duilio la prima vittoria navale di Roma; su questa pianura l’esercito cartaginese di Amilcare fu sbaragliato dall’esercito greco di Gelone e di Terone. A grandi lampi vi passa dinanzi tutta la storia dell’isola fatale, intorno a cui gravitò per secoli la vita storica e sociale di tre continenti, e d’in fondo al passato immenso vedete sorgere l’albore d’una speranza: poichè se l’Italia peninsulare, come fu detto con felicissima immagine, è un braccio teso dall’Europa nella direzione dell’Africa, la Sicilia è pur sempre la mano di quel braccio; ed è ancora una grande verità quella affermata dal Fischer, ch’essa possiede una stoffa di colonizzatori di primordine “atta a metter radici sopra ogni terra, a prosperare sotto ogni cielo.„ Chi sa che nell’avvenire dell’Africa non sia il risorgimento dell’“organo prensorio„ d’Italia? Ed ecco Monte Pellegrino, ecco la Conca d’oro, ecco Palermo! DA PALERMO ALL’ETNA Palermo è la città di Sicilia che fece una più maravigliosa cresciuta dopo il 1860. I Siciliani hanno ragione d’andarne alteri. È una grande città. Ma i nuovi quartieri eleganti, le nuove vaste piazze alberate; i nuovi magnifici passeggi pubblici, veri luoghi di delizie, degni di Parigi e di Londra, non hanno mutato la sua antica fisonomia originalissima che è sempre costituita dalle due interminabili vie diritte — Macqueda e Vittorio Emanuele — che s’incrociano nel suo centro; e la sua bellezza più caratteristica è sempre quel centro, quella piazzetta ottagonale dei Quattro Cantoni, che hanno quattro architetture uguali d’ordine dorico, ionico e composito, coperte d’arabeschi e di fregi, ornate di fontane e di statue: — piazza, mercato, foro, cuore di Palermo. A giudicare dal movimento di quelle due strade, di cui una sbocca sul mare, l’altra è in direzione parallela alla riva, si direbbe che Palermo è una città di due milioni d’abitanti. Corrono in ciascuna, da un capo all’altro e dalla mattina alla sera, due torrenti di gente, di carrozze, di carri, di carrette, che continuamente serpeggiano per non urtarsi, che in mille punti s’intrecciano e si confondono, s’arrestano, s’addensano, ondeggiano; è un formicolìo che vi confonde la vista, uno strepito che v’introna la testa, una varietà di veicoli, di carichi, d’aspetti umani, di gesti e di voci, un contrasto di allegrezza e di furia, di fatica e di spasso, di lusso e di povertà, quale in nessun’altra città del mondo credo che si possa vedere. Ma è tutta uno spettacolo di violenti contrasti questa stupenda e strana Città dei Vespri e di Santa Rosolia. Alzando gli occhi di mezzo alla vegetazione magnifica che vi circonda nei giardini e nei parchi cittadini, dove s’incrociano i viali fiancheggiati di leandri e di rose, e s’affollano le palme, i platani, gli eucalipti, le più preziose specie di tutte le flore, vedete un anfiteatro di montagne rocciose e nude, di aspetto terribile, che par che guardino biecamente e minaccino tutta quella pompa ridente della natura. Dal grande viale marino del Foro italico, un vero passeggio da Sovrani, dove corrono centinaia di carrozze aristocratiche, si riesce in pochi passi lungo la vecchia Cala, dove una selva di brigantini, di paranze, di barcacce d’ogni più antica forma, siciliane, napolitane, pugliesi, greche, vi rappresentano tutte le miserie e le calamità della più avventurosa e dura vita marinaresca dei passati secoli. Uscite da quell’enorme labirinto di viuzze oscure e sudicie, che si chiama l’Albergheria, dove brulica una popolazione poverissima in migliaia di fetidi covi, che sono ancora quei medesimi in cui si pigiavano gli Arabi di nove secoli or sono, e vi trovate dinanzi a un “Teatro Massimo„ il più grande e più splendido teatro d’Italia, che costò otto milioni, e di cui fu decretata la costruzione quando Palermo non aveva ancora un ospedale che rispondesse ai suoi più stretti bisogni. V’è prodigalità e magnificenza in tutto ciò che colpisce gli occhi e può dar l’immagine d’una città prospera e potente; ma all’apparenza non corrisponde la realtà. Il popolo è povero e vive con una frugalità anacoretica; una vera borghesia industriale non esiste; l’aristocrazia ricca è assai scarsa. Un’apparenza di splendore dà alla città la passione del lusso, che è universale, e il fatto che Palermo attira con la sua bellezza e con la forza centripeta delle sue tradizioni i Siciliani danarosi d’ogni parte dell’isola. Anche le dà vita nella stagione invernale una numerosissima colonia straniera, specialmente inglese. Ed è a notarsi pure un vivo amore di tutte le classi per la vita esteriore, per le passeggiate, per le feste, per i ritrovi pubblici d’ogni genere; il che agli occhi del forestiero fa apparir la popolazione duplicata. Ho parlato di contrasti. Un contrasto che compendia e spiega tutti gli altri è quello che vi si presenta qualche volta nel Corso Vittorio Emanuele, quando d’in fra i palazzi e le statue e il via vai festoso delle carrozze infiorate, vedete lontano, all’orizzonte del mare che chiude la via, la macchietta nera d’uno dei piroscafi che portano via ogni settimana un popolo d’emigranti. Poichè in quella regione dell’isola principalmente l’emigrazione per gli Stati Uniti ha assunto in questi ultimi anni proporzioni spaventevoli; in quella regione dove l’attaccamento degli abitanti al luogo natìo pareva una volta così tenace da rendere impossibile un’emigrazione importante. Ci son dei piccoli paesi che si vuotano quasi interamente; ci sono città ragguardevoli che hanno perduto quasi un terzo della loro popolazione. E s’ha un bel dire che non la miseria assoluta, ma i cresciuti bisogni e il desiderio d’un benessere prima non conosciuto nè sognato son la vera cagione dell’esodo lamentevole: resta pur sempre che è misera e triste la condizione d’un paese in cui le classi lavoratrici non possono soddisfare i bisogni e le aspirazioni legittime che suscitano in esse la civiltà progredita e la divulgata cultura. Verità che paion sogni quando si passa fra i ricordi di quel tempo in cui il celebre Sceriffo arabo Edrisi chiamava Palermo “il massimo e splendido soggiorno, la più vasta ed eccelsa metropoli del mondo„ ed era veramente la più importante città dell’occidente, il maggior centro politico del Mediterraneo, come nel mondo ellenico era stata Siracusa. Ma ben altri ricordi m’incalzavano per le vie di Palermo. È la Città dei Vespri, ma è anche la Città di Garibaldi. Chi può passare per tutta quella rete di vie tortuose che si stendono fra Porta Termini e il centro senza rivedere la terribile gloriosa fiumana delle Camicie rosse che v’irruppero la mattina del 27 maggio del 1860, inebbriate della propria temerità e della prodigiosa vittoria? E fu davvero un prodigio che ingrandisce ancora nel nostro concetto alla vista dei luoghi dove fu compiuto. Ottocento Garibaldini, seguiti da tre o quattro mila ragazzi Siciliani male armati o quasi disarmati, vincono un presidio di più di ventimila soldati, munito di artiglierie potenti, sostenuto dal fuoco di quattro fregate, protetto da caserme e da fortezze formidabili, padrone ancora di quattro quinti della periferia della città quando la rivoluzione vi è già penetrata. Che eroica epopèa quella battaglia di nove giorni intorno alle Porte e sulle barricate, fra i palazzi e i monasteri in fiamme, nel bagliore degl’incendi di interi quartieri, saccheggiati e insanguinati dal furore di vendetta d’una soldatesca feroce, sotto il fulminìo delle bombe e delle granate dei forti di Castellamare, che colmano le vie di rovine e di cadaveri! A ogni passo vi sorge dinanzi l’immagine luminosa dell’Eroe. Ecco la piccola casa di Fieravecchia dov’egli passò la prima notte dopo l’entrata in Palermo nella tragica ansietà del domani, che poteva essere il fallimento disperato della sua impresa e un eccidio orrendo di tutti i suoi. Ecco il Palazzo Pretorio di dove egli annunziò al popolo fremente d’aver respinto le “ignominiose proposte d’armistizio dei generali borbonici„ e deciso di continuar la lotta fino all’ultimo estremo. E là, nel Foro italico, è il luogo dove, due anni dopo, passata in rivista la guardia nazionale, egli fece impallidire tutte le Autorità regie e cittadine che lo circondavano, lanciando all’improvviso il primo grido della spedizione di Roma, tradotto poi nella formola memoranda di _Roma o morte!_ E più oltre, sulla marina, è quella storica casa di Ugo delle Favare, dov’egli fu ospitato nel 1882, l’ultima volta che tornò alla sua Palermo, già segnato in viso dalla mano della morte, ricevuto da una folla immensa, solennemente silenziosa, che comprimeva con uno sforzo sublime di volontà la propria commozione per “non recargli molestia„ e pareva un popolo di larve addolorate intorno a un Dio moribondo. O grande anima di Garibaldi, come sei ancora viva e raggiante a Palermo! Viva nel cuore del popolo sopra tutto. Per il popolo palermitano Garibaldi è ancora il mito divino e caro di quei primi anni, il discendente di Santa Rosolia, al quale la Santa stessa aveva dato quello scudiscio miracoloso, ch’egli teneva sempre in mano, e con cui rimoveva da sè le palle dei fucili e dei cannoni borbonici. Buon popolo veramente, che può avere molti difetti, ma che possiede in grado eminente la virtù gentile della gratitudine. Non perdona facilmente le ingiurie, perchè ha un fiero sentimento di sè, e facilmente le vendica col sangue, perchè è pronto all’ira, e l’ira fulminea lo accieca; ma non dimentica i benefizi, e chi gli mostra stima ed affetto ricambia d’affetto vivo e durevole. Ne danno esempio i soldati palermitani (e tutti i Siciliani, in genere), dei quali fanno quello che vogliono gli ufficiali che li trattano con affabilità e con rispetto. Strano è che gli si attribuiscono universalmente dei difetti che sono per l’appunto l’opposto di certe sue qualità caratteristiche; cioè, di essere troppo verbosamente e chiassosamente espansivo, mentre è piuttosto chiuso e taciturno; di essere poco tenero della famiglia, mentre alle creature del suo sangue è affezionatissimo; di essere tenace e implacabile negli odii, mentre è caso raro che compia una vendetta a sangue freddo, e anche più raro che la compia a tradimento. Certo, è geloso, ma perchè ama con ardore veemente; è astuto, ma perchè fu oppresso per secoli da un nemico — il feudalismo — contro il quale l’astuzia era un’arma necessaria alla difesa della vita e della coscienza; è superstizioso, ma perchè è dotato d’un’immaginazione fervidissima, e perchè per secoli fu tenuto in un’ignoranza barbarica, e quasi segregato dalla civiltà. E in compenso dei difetti ha tutte le qualità, come disse uno scrittore francese, pertinenti alle razze nobili; le qualità che non si possono sostituire: il cuore, l’entusiasmo, l’intelligenza viva e pronta, lo spirito generoso e poetico. Di qual sentimento della poesia sia dotata questa razza lo dimostrano i suoi canti e le sue tradizioni popolari, ha detto il Renan. E di che profondo e delicato amor proprio (capace, se ben governato, di dar ottimi frutti) essa sia compresa, si può argomentare dal grande caso che fanno i Siciliani, e i Palermitani in ispecie, dei giudizi degli stranieri, o anche più di quelli dei loro fratelli continentali; dal rammarico che manifestano per i giudizi sfavorevoli, dalla grande soddisfazione che lasciano trasparire per i giudizi che li onorano. Questa preoccupazione d’esser mal giudicati dai loro connazionali io trovai in loro comunissima, e mi commosse, e mi rattristò anche un poco, come un segno di diffidenza dei nostri sentimenti fraterni. Ma non si può negare che sia una preoccupazione giustificata da molte ingiustizie. Quanto è consolante il non aver alcuna di queste ingiustizie da rimproverare a noi stessi quando il nostro cuore palpita sotto la carezza amorevole dell’ospitalità siciliana, quando ci sentiamo premere intorno, per le vie di quelle grandi e belle città, quella gran folla piena di vita e di forza e di ricordi gloriosi, nella quale è riposta tanta parte delle speranze della patria, alla quale ci legano tante sacre memorie dei primi anni benedetti della nostra nuova vita! L’immagine delle grandi strade affollate di Palermo m’accompagnò per tutto il viaggio che feci da Palermo a Catania, attraversando l’interno dell’isola, e mi fece parer più solitaria e più triste quella vasta regione, che m’era tutta sconosciuta. Quale differenza fra l’interno e le coste! Le stazioni ferroviarie son quasi tutte sperdute in una gran solitudine, come piccole fortezze sparse in un deserto, a distanza di parecchie miglia dalle città e dai villaggi, che non si vedono, o appariscono lontano, sulla cima di alture rocciose, quasi separati dal mondo. Per vastissime distese di terreno, fin dove arriva lo sguardo, non si vede una casa, non un albero, non una siepe; soltanto qua e là, a grandi intervalli, qualche contadino che ara la terra; e quei pochi lavoratori paiono i superstiti d’una popolazione agricola scomparsa. Valli dopo valli, monti dietro monti, e sempre quello stesso spettacolo d’un bel paese che gli uomini abbiano abbandonato per effetto d’una maledizione misteriosa. E avrebbe la sua bellezza e il suo incanto anche quello spettacolo se parlasse agli occhi soltanto; ma esso dice all’animo nostro una cosa troppo triste perchè la nostra immaginazione vi si possa compiacere con quel vago senso di riposo e d’abbandono che suol provare nelle grandi solitudini. E quella cosa è espressa in una parola antica e pur troppo sempre viva, che riassume mille mali nell’enunciato d’un problema formidabile: _il latifondo_, la gran piaga incancrenita dell’isola. Il latifondo, che vuol dire la campagna senza case coloniche e senz’alberi, e i contadini costretti a vivere nei grandi centri, dove son sottoposti a gravami da cui dovrebbero essere esenti, e donde debbono fare ogni giorno un lungo cammino per recarsi al lavoro; il latifondo che favorisce il furto campestre, l’abigeato, il malandrinaggio, il brigantaggio, e crea una catena di parassiti sfruttatori fra il grande proprietario assente e il lavoratore abbandonato a sè stesso; il latifondo, funesta espressione economica, che, come disse un illustre statista siciliano, filtrandosi, spiritualizzandosi per lungo abito di servaggio nelle menti, nel costume, nella vita intima, separò le classi, le fortune, gli animi, e mettendo in opposizione gl’interessi dei signori con quelli del popolo, e mantenendo questo nell’ignoranza, riduce la maggioranza lavoratrice in condizioni di minoranza legale di fronte ai suoi oppressori, prevalenti nelle Provincie, nei municipi, in tutte le rappresentanze pubbliche, e quindi padroni d’ogni cosa, tiranneggianti a loro beneplacito e perpetuatori della miseria. _Voilà l’ennemi!_ come disse Gambetta. E i quarantasei anni trascorsi dopo l’unificazione d’Italia non l’hanno punto smosso dalle sue fondamenta secolari. La vendita dei beni ecclesiastici, che pareva gli dovesse dare un crollo, non fece per contro che favorirlo, poichè di quei beni s’impinguarono la borghesia e l’aristocrazia, creando un nuovo feudalismo terriero in aggiunta all’antico, abolito soltanto di nome nel 1812. Il tentativo di riforma fatto dal Crispi si spezzò contro un’opposizione minacciosa dei grandi interessati, veri sovrani dell’isola. Nessun’altro uomo di Stato ebbe poi il coraggio di ritentare la prova. Prima cura d’ogni Governo è di reggersi in piedi, e per reggersi hanno tutti bisogno d’essere sorretti dai potenti. E le cose non muteranno fin che non siano diventati potenti i deboli, fin che il numero non sia anche la forza. Ma quando sarà mai, se la forza non è possibile senza la concordia, e la concordia è tanto difficile nell’ignoranza, e riesce tanto facile ai padroni seminar la divisione fra i servi? Ma ecco uno spettacolo che rompe come per magìa il corso dei pensieri malinconici. Lontano, nel cielo sereno, un’enorme piramide azzurra s’inalza, solitaria, stendendo così largamente i suoi fianchi da parere che ricopra una provincia intera; una montagna che dà l’immagine d’un mondo; un prodigio di bellezza e di maestà, che vi fa aprire la bocca come per lanciare un grido d’ammirazione. Una nuvola bianca la corona; un manto candido veste la sua sommità e si rompe più sotto in una quantità di striscie simmetriche scintillanti che somigliano alle frangie di un immenso velo di trina ingemmato; in giro alle sue falde si stendono vaste macchie bianche, che paiono strati di neve, e grandi macchie oscure, che sembrano ombre dense proiettate da nuvole invisibili. E via via che il treno le si avvicina, la montagna par che si dilati e imbellisca: le macchie bianche sono città e villaggi, le macchie oscure sono boschi, aranceti e vigneti; da ogni parte sorgono ville, fioriscono giardini, s’aprono strade, corrono acque, sorride la fecondità, splende la vita. Che maravigliosa sorpresa e che gioia dopo quel lungo viaggio a traverso ai latifondi disabitati e alla triste regione zolfifera! — Ecco l’Etna! — mi dice un Catanese, mio compagno di viaggio —; ecco la nostra gran madre benefica e sovrana tremenda! CATANIA La città di Sant’Agata e di Vincenzo Bellini, si potrebbe chiamare, poichè l’autor della _Norma_ vi è poco men popolare che la Santa gloriosa e soave, patrona sua. Ha il nome di Bellini uno dei più deliziosi giardini pubblici d’Italia, da cui si vedono l’Etna e il mare; a Bellini è dedicato il Teatro massimo, che è uno dei più belli d’Europa; nella piazza maggiore sorge il suo monumento, opera magnifica del Monteverde; in una delle principali vie è segnata d’una lapide la casa dov’egli nacque; nel Museo dei Benedettini è conservata la bara nella quale fu trasportata la sua salma, nel 1876, da Parigi a Catania; nella cattedrale, in mezzo alle tombe dei Re e delle Regine, c’è la sua tomba: l’unica a cui sia superflua l’iscrizione. Quanto è gentile questo culto amoroso della grande città siciliana per il dolce maestro, morto nello splendore della gloria, all’età in cui per altri grandi non è ancora incominciata la fama, e rimasto sepolto per quasi quarant’anni in terra straniera! E come se ne rallegrano in cuore quanti italiani e stranieri visitano la bella capitale orientale della Sicilia! Perchè è ancor vivo nell’anima di tutti quegli che diede all’amore e alla mestizia il linguaggio della più dolce melodia che abbia mai intenerito il cuore umano; e possono mutar scuole e gusti, possono passar torrenti di nuove musiche e aurore e soli di nuove glorie, ma la parola divina che egli ha parlato al mondo rimarrà eterna, ed eterno il suo caro nome: caro nome che, mezzo secolo dopo la sua morte, noi non possiamo pronunciare ancora senza un sospiro di rimpianto, come se a noi stessi fosse stata rapita innanzi tempo la consolazione celeste della sua voce. * * * Catania, con le sue strade diritte lunghissime, arieggia Torino, ma ha aspetto più vario e più gaio per il color più chiaro degli edifizi e per il dislivello del suo suolo, composto in buona parte di vecchie lave vulcaniche; il quale ascende verso l’Etna, sovrastante alla città e visibile da ogni punto. Chi la vede per la prima volta in una giornata serena non si può capacitare che in una città così splendidamente lieta possano infuriare tante tempestose passioni di parte, combattersi tante accanite battaglie politiche. Essa ha l’incanto della gioventù, a cui brilla in viso la coscienza della forza e la fede nell’avvenire. È infatti la città più florida della Sicilia. E non è di fresca data la sua prosperità crescente. Dopo il memorando terremoto del 1693, che la distrusse tutta quanta, Catania rifatta venne prosperando continuamente, e dal 1860 in poi è quasi raddoppiata la sua importanza. Per giungere a questo essa non ebbe che ad aiutare la sorte e la natura che l’hanno privilegiata d’ogni favore. Situata quasi nel punto di mezzo della costa orientale dell’isola, al lembo della più vasta e più fertile delle pianure siciliane, alle falde del gran Vulcano fecondatore, intorno a cui fioriscono le più svariate colture, essa accoglie in sè e manda fuori del suo porto profondo in grande abbondanza ogni specie di prodotti agricoli e minerali, e alimenta fra le sue mura, oltre alle generali industrie cittadine, una quantità d’industrie speciali, che danno una straordinaria attività al suo commercio e attirano Greci, Inglesi, Tedeschi ad accrescerle senza posa con nuovi sfruttamenti e nuove imprese. Ma non è città industriale e commerciale soltanto: è ricca d’Istituti di beneficenza, possiede biblioteche cospicue, è sede d’una delle maggiori Università d’Italia, in cui sono laboratori rinomati di chimica e di fisica, d’anatomia e di zoologia, e rinomatissimi di geologia e di mineralogia; ed è fra i primi d’Europa, visitato da scienziati d’ogni paese, il suo Osservatorio Astronomico, in specie per riguardo alla fotografia stellare, a cui è propizia la maravigliosa limpidità atmosferica, e agli studi geodinamici, ai quali appartiene una collezione di fotogrammi sismici, forse la più preziosa del mondo. * * * La popolazione di Catania è quasi tutta di tipo greco, dicono. Non sono in grado di giudicarne. Sarà forse una mia illusione: mi parve di vedere donne belle e bei fanciulli più che in altre città di Sicilia. Anche vidi generalmente negli abitanti non so che di più vivace e di più aperto, come di gente più contenta della vita. Dell’ardore e dell’impeto delle loro passioni può dare un’idea verosimile, benchè esagerata, il loro valente concittadino Giovanni Grasso, attore dialettale. Il quale (aggiungo di passata) ha in Catania un fratello non ancor ventenne, esordiente nell’arte medesima, ma anche più vulcanico di lui, e violento a tal segno che quando in una scena tragica si caccia le mani nei capelli gli si vede colare il sangue giù per le tempia. Anche hanno fama i Catanesi d’essere appassionatissimi delle feste e d’ogni specie di divertimenti; cosa che male si concilia con la loro quasi assoluta trascuranza del Carnevale. Vero è che di questo, a Catania, secondo l’illustre novelliere Giovanni Verga, tengono luogo le feste di Sant’Agata, che sono un immenso veglione, di cui la città intera è teatro. Che rammarico non averle vedute! Esse hanno conservato l’antico splendore e suscitano ancora l’entusiasmo antico. La bara della martire amata è portata in giro lungo le antiche mura chiusa in un tempietto sfolgorante; tutto il clero le fa corteo; le tien dietro una processione interminabile di pesanti macchine argentate e dorate e di giganteschi candelabri ornati di fiori e di bandiere, reggenti ceri colossali; accompagnano la processione tutte le confraternite e congregazioni pie, e corporazioni operaie e bande musicali innumerevoli venute da tutti i paesi dell’Etna; e al suono delle Laudi alla Santa cantate da miriadi di bocche mesce la sua voce enorme il Campanone del Duomo; quel venerando campanone, vecchio di sei secoli, e cinque volte fuso e rifuso fra il Trecento e il Seicento, che già salutò le nascite e annunziò le morti dei re di Castiglia e d’Aragona e pianse dopo quel tempo tutte le sventure e cantò tutte le gioie di Catania. * * * Non solo l’ammirazione, ma anche la gratitudine mi condusse a visitare il poeta di _Lucifero_, di _Giobbe_, de l’_Atlantide_, il traduttore di _Lucrezio_, di _Catullo_, e d’_Orazio_: Mario Rapisardi, gloria vivente d’Italia, che io non avevo mai conosciuto di persona. È una dolce commozione, anche nella età giovanile, il veder per la prima volta un fratello di arte, che già si ammirava e s’amava da lontano; ma la commozione è molto più viva e profonda quando questa prima visita è fatta nell’età in cui l’uno e l’altro, già avanzati negli anni, sono tra i pochi superstiti della propria generazione letteraria e s’incontrano come due vecchi soldati coperti di cicatrici, dopo una lunga guerra combattuta sotto la stessa bandiera. Sapevo che il Rapisardi era da lungo tempo ammalato, me lo raffiguravo affranto di corpo e di spirito: fu per me un disinganno lietissimo trovarlo in molto migliori condizioni di quelle che avevo immaginato. Benchè malato, egli non dimostra i suoi sessantatre anni: è ancora diritto nella sua alta statura, ha i lunghi capelli ancor nereggianti, e negli occhi un’espressione d’energia vivacissima, tutta la fierezza dell’antico poeta ribelle, fulminatore d’ogni superstizione e d’ogni tirannia, tribuno ardente degli oppressi e dei miseri, apostolo battagliero di libertà e di giustizia. È una figura elegante e fiera di poeta romantico del passato secolo o di rivoluzionario mazziniano dei tempi della _Giovine Italia_. Quanto diverso nella conversazione e nelle maniere dalla immagine che se ne fanno i suoi avversari, e anche la più parte dei suoi ammiratori! Il “bieco arcangelo fulminato„ ha la parola affettuosa e il sorriso gentile; il poeta dal giro di frase ampio e sonante, accusato di magniloquenza rettorica, non ha ombra d’affettazione nè di linguaggio nè di modi; il letterato iroso e superbo parla dei suoi più acerbi nemici con equità serena e ricorda le furiose battaglie critiche, da cui uscì sanguinante, come cose d’un tempo remotissimo, delle quali non gli resti più traccia nell’animo, ma soltanto nella memoria. E anche sorridendo parla della scomparsa misteriosa del busto in bronzo che gli era stato eretto nel giardino Bellini, e che non si potè più ritrovare: impresa compiuta senza dubbio da volgari malfattori per istigazione o mandato di nemici politici, a cui la glorificazione del poeta di _Lucifero_ pareva un’ingiuria a Dio. Cessa di sorridere, però, e s’oscura in viso e fa vibrare lo sdegno nella parola profetando che la viltà della borghesia liberale, clericaleggiante per terrore dello spettro rosso, finirà col dar l’Italia nelle mani del partito cattolico, il quale vi rifarà la rivoluzione a rovescio. Nessuno direbbe che egli è infermo vedendo come balena nei suoi occhi in quei momenti e vedendo come freme nella sua voce l’anima del cittadino e del poeta. Eppure un’infermità nervosa, d’indole non ben definibile resistente a ogni cura lo tiene da anni prigioniero in casa, e gli rende impossibile ogni lavoro intellettuale prolungato; ciò che è la maggiore delle sue afflizioni, anzi l’unica, poichè alla vita solitaria è da lungo tempo abituato; anzi fu per tutta la vita un solitario. — Un sepolto vivo — egli chiama se stesso. Ma tale non è chi ha ancora intera come nei più begli anni la potenza del pensiero, benchè non più resistente a lunghi lavori, nè chi si vede e si sente circondato dalla riverenza amorosa d’una grande cittadinanza, che considera come gloria propria la gloria sua. Questo pensiero mi confortò nel momento dell’addio; ma l’addio fu triste. Pensavo che forse dalla Sicilia egli non si sarebbe mosso più mai e che in Sicilia io non sarei forse mai più ritornato. Lessi nei suoi grandi occhi il pensiero stesso. Le sue ultime parole lo espressero. — Ci rivedremo ancora? — La mia risposta fu l’espressione d’una speranza che non avevo nel cuore. Ci baciammo come si baciano due amici che partono in direzioni opposte per un viaggio senza ritorno. E uscii dalla casa del maestro con l’anima piena di tristezza. * * * O mio benevolo lettore, che andrai un giorno a Catania, ricordati di fare il giro della ferrovia Circumetnea, e dirai che è il viaggio circolare più incantevole che si possa fare in sette ore sulla faccia della terra. Questa ferrovia che, girando intorno al grande Vulcano con un tragitto di più di cento chilometri, allaccia fra di loro tutti i più popolosi Comuni delle sue falde, parve da principio un’impresa utopistica, fu attraversata da mille difficoltà, e non condotta a termine che nel 1895. Ora non si riesce quasi più a capire come non si sia fatta vent’anni prima, tanti sono i vantaggi che ne ricavano i trent’otto paesi grandi e piccoli fra cui è distribuita la popolazione dell’Etna; la quale ha una densità superiore a quella delle parti più popolate della Germania. È una ferrovia che attraversa un paradiso terrestre, interrotto qua e là da zone dell’inferno, e che da Catania donde parte fino alla costa dove si congiunge una strada ferrata del littorale, e da questo punto fino a Catania, è tutta una successione di vedute meravigliose dell’Etna e del mare, di giardini e di lave, di piccoli vulcani spenti e di valli lussureggianti di verzura, di graziosi villaggi e di lembi di foreste di quelle antiche foreste di quercie, di faggi e di pini, che fornivano il materiale di costruzione alle flotte di Siracusa, e che le eruzioni dall’alto e la cultura dal basso hanno in grandissima parte devastate. La strada sale fino ad altitudini di oltre mille metri, discende, risale, passa attraverso a vigneti, a oliveti, a vaste piantagioni di mandorli, a boschi di castagni; corre per ampi spazi coperti dei detriti delle eruzioni, fra muraglie di lava alte come case, fra mucchi di materiale vulcanico rabescato, striato, foggiato in mille strane forme di serpenti e di corpi umani mostruosi, dove non appare un filo d’erba; fiancheggia altri spazi dove la natura ricomincia a riprendere i suoi diritti sulle ceneri e sulle scorie, già disgregate e decomposte dalla vegetazione nascente; passa sopra eminenze fiorite da cui si vedono sotto in conche verdi deliziose biancheggiar ville, chiesette, stradicciuole serpeggianti fra macchie brune d’aranci, di mandarini, di cedri, lungo corsi d’acqua argentati che paiono striscie di neve scintillanti al sole. E durante tutto il tragitto è sempre visibile l’Etna, ma in cento aspetti diversi, cangianti secondo la generatrice del cono che essa ci presenta allo sguardo. La regolarità della sua forma conica, quale si vede da Catania, non è che apparente. A chi le gira intorno essa mostra successivamente enormi pareti dirupate, scalinate immense, piramidi dietro piramidi, che riescono inaspettate come trasformazioni istantanee; appare in qualche punto decapitata del suo cono supremo, in vari luoghi spezzata, ora tutta bianca di neve, ora bianca sulla cima soltanto, qualche volta così diversa dall’immagine fissa che se n’ha nella mente da far sospettare che quella che si vede sia un’altra montagna da cui essa rimanga nascosta! E quanti mirabili aspetti offre la sua cima ora colorata di rosa dal sole, ora ravvolta dal fumo, che s’innalza a vicenda come un gigantesco pennacchio, o s’allunga da un lato come uno smisurato gonfalone ondeggiante, o discende e s’allarga sui fianchi del cono in veli candidi leggerissimi d’una trasparenza di trina! E verso il termine di questo incanto di viaggio si sbocca in faccia al mare, donde si vede ancora disegnarsi lassù, sopra il candore delle nevi etnee, quanto resta dello smisurato castagneto di Cento Cavalli, e dall’altra parte la bellezza sovrana di Taormina, quasi sospesa nell’azzurro. Ed ecco infine la più meravigliosa costa dell’isola, sede dei suoi primi abitatori; maravigliosa per la pompa della vegetazione e per la poesia delle leggende: ecco il vago lido dove fu sbattuto il naviglio d’Ulisse, dove approdò Enea, e pascolò le capre Polifemo; ed ultimo l’arcipelago dei Ciclopi, le sette strane isolette rocciose, quella fantastica fuga di coniche teste nere decrescenti d’altezza, che sorgono dalle acque, come teste d’una famiglia di giganti sommersi, che rialzino la fronte per dare all’“Isola del sole„ l’ultimo addio. O divina Sicilia! Quanti Italiani, che hanno corso il mondo per diletto, morirono o moriranno senza averti veduta! DA SIRACUSA A TAORMINA Quale delle città decadute, o scomparse, del mondo antico ha conservato, dopo Atene e Roma, una così vasta fama come Siracusa? C’è uomo in Europa o in America, tra i meno colti delle classi non affatto ignoranti, il quale nel naufragio delle memorie scolastiche non ritrovi quel nome, e legati con quello altri ricordi confusi d’uomini grandi, di grandi fatti, d’opere meravigliose dell’ingegno umano? E si può ben sapere che la grandezza della città famosa non è più ora che nel suo nome; ma chi non la vide mai si avvicina con la mente così piena delle antiche memorie che, arrivandovi, dal contrasto del suo stato e del suo aspetto presente con la Siracusa della propria immaginazione riceve come la scossa d’un disinganno, dal quale durerà fatica a riaversi. * * * Quella che fu un tempo la città più famosa d’Europa per ricchezza, potenza, cultura — la più vasta del mondo greco — che aveva una area maggiore di quella di Roma fra le mura di Aureliano e poco minore di quella che ebbe Parigi sotto Napoleone III — quella Siracusa contro cui si spezzò la potenza di Atene, e a cui rimase per secoli legata la sorte della Sicilia, da ogni parte della quale accorreva gente a stabilirvisi come in una metropoli inespugnabile, predestinata al dominio del mondo —, non è più che una piccola città ristretta in quella piccola Isola d’Ortigia, dove ebbe nascimento or son ventisette secoli, una modesta sede di Prefettura di men di trentamila abitanti, che ha per presidio due battaglioni di soldati e non ha alcun giornale quotidiano. Anche le sue vie maggiori sono strette, fiancheggiate di case modeste, e le minori così anguste che le carrozze, non potendovi passare, debbono fare spesso dei lunghi giri per andare da un punto della città a un altro vicinissimo, dove un pedone si reca in pochi passi. Nell’aspetto degli edifizi, nell’andamento della vita cittadina, nell’aria stessa degli abitanti c’è un non so che di quieto e di raccolto in cui il vostro spirito si riposa come nella serenità d’un villaggio tranquillo. Hanno in fatti fama i Siracusani d’essere la più mite e gentile popolazione dell’isola. Del passato non rimangono che poche colonne d’un tempio di Diana, poche rovine di bagni, qualche casa dell’epoca normanna. Si può chiamare un resto del passato la celebrata Fontana? La povera Aretusa, cangiata in sorgente da Alfeo innamorato, che la inseguì dall’Elide fino in Sicilia, è chiusa in profondo bacino semicircolare, piantato di papiri e occupato in parte da un giardinetto, del quale un custode tiene le chiavi, e dove i buoni borghesi conducono i bambini a veder guizzare i pesci rossi. Eppure, che maraviglioso fascino hanno ancora le antiche favole mitologiche! Voi vi trattenete là a guardar quell’acqua, fantasticando, cercando intorno qualche cosa, non sapete che cosa, e vi riscotete come da un sogno quando, nell’alzar gli occhi sopra la facciata di una delle case di fronte, vedete annunziato che quella sera si rappresenta _Il Barbiere di Siviglia_. * * * Ma questa Siracusa viva non è la Siracusa vera. La vera è quella grande Siracusa morta che le si stende di fronte — congiunta a lei da un ponte gittato sul mare — sopra quel vasto piano calcareo, dove sorgevano gli altri quattro quartieri della città: Acradina, Neapoli, Epipoli, Tiche: vasto triangolo isoscele, di cui la base è bagnata dal mare e il vertice è rivolto verso l’interno della Sicilia. Non credo che ci sia al mondo altra grande città decaduta che abbia dinnanzi a sè una così meravigliosa immagine del suo grande passato; non credo che esista un altro così ampio, così magnifico, così solenne cimitero istorico com’è questo dei quattro quartieri siracusani scomparsi; appetto al quale scompare alla sua volta la città vivente, o quasi si dimentica. Dico “Cimitero„ poichè le poche ville sparse, i due o tre alberghi, le due piccole chiese di Santa Lucia e di San Giovanni e le case rustiche qua e là disseminate sono come perdute nell’amplissimo spazio. Le rovine colossali lo dominano intero. Dovunque volgiate il passo, anche per i piani erbosi e fra i vigneti, dove le rovine non sono visibili, voi le vedete ancora. Vedete le gradinate grandiose del teatro greco e dell’anfiteatro romano, scavate nella roccia, in gran parte ancora intatte, immagine d’un lavoro quasi sovrumano, che vi sgomenta e le pareti scoscese delle latomie profonde, e le vaste gallerie delle necropoli, e gli acquedotti enormi, e gli avanzi delle antiche mura dell’Acradina; e da tutti questi frammenti della sua ossatura gigantesca la visione della città intera vi sorge dinnanzi, con la sua sterminata cinta merlata e turrita, coi suoi porti affollati di navi, coi suoi templi superbi, coi suoi arsenali, i ginnasi, i mercati, i bagni, i giardini; immensa, bella e terribile, qual’era ai tempi di Dionisio il vecchio. La più maravigliosa delle rovine è il forte d’Eurialo, posto verso la punta del triangolo rivolta ad occidente: una delle più ammirabili opere di architettura militare dell’ingegneria greca: chiave della difesa di Siracusa; dove le muraglie del lato sud si congiungevano. Dovrebbero risonare e scintillare le parole come colpi di scalpello nella pietra per descrivere l’aspetto di quelle quattro torri poderose, di quei fossati profondi scavati nel macigno, di quel cortile interiore dove si riconoscono ancora i ricetti dei cavalli e delle macchine, di quella rete di passaggi sotterranei, dove s’ammassava la cavalleria per le sortite improvvise. Tutto questo è così forte, così fiero, così formidabile, così vivamente ed eloquentemente antico, che il primo senso d’ammirazione vi si muta a poco a poco in stupore, e in qualche momento vi scote un brivido come se la vostra vista intellettuale, per un miracolo, penetrasse a traverso i secoli trascorsi, e le palpitasse davanti di vita vera la storia, che non era prima per essa se non una visione di larve. * * * Di là andai sull’altura, poco distante, che congiunge l’Epipoli, la parte più alta della città, ai monti vicini. È un belvedere incantevole: la riva orientale della Sicilia, l’Etna, la costa calabra, tutto il contorno di Siracusa antica, e il “grande„ e il “piccolo porto„ e i boschi di papiri delle sponde dell’Anapo famoso. Tramontava il sole: l’orizzonte era d’oro, le acque dei ponti d’oro, tutto quanto s’alzava sopra la terra e sorgeva dal mare disegnava le sue forme nell’oro. Dev’essere stato un tramonto simile quello che fece dire al Carducci: _Bello come un tramonto di Siracusa._ Rimasi in contemplazione di quella infinita bellezza. E mi tornò alla mente un vecchio amico napoletano, uno scienziato poeta, ardente d’entusiasmo per le grandezze antiche; il quale, a Roma, m’aveva augurato il buon viaggio con un inno alla città di Dionisio. — Vada sull’altura di Epipoli — m’aveva detto — e volga in giro lo sguardo: avrà un’allucinazione e vedrà un prodigio. Vedrà venire sul mare Jonio le centotrentaquattro triremi di Nicia e di Lamaco, e le giungeranno all’orecchio le grida dell’esercito e del popolo siracusano, spettatori delle battaglie navali dall’alto delle mura e dalle rocce delle coste. Vedrà arrivare dal sud le flotte dei Cartaginesi e Imilcone ed Amilcare rizzar le tende sulle rive dell’Anapo, vicino al tempio ancora biancheggiante di Giove Olimpico. Vedrà venire dal Nord la flotta di Marcello, e i Romani scalare dal porto di Trogilo le muraglie di Tiche, e invadere Neapoli e l’Epipoli, e gettarsi nell’Ortigia presso la fontana Aretusa; _vedrà_ tutto questo quasi con gli occhi della fronte, e _sentirà_ passar nell’aria l’ultimo sospiro di Archimede. Io avevo sorriso allora di quella preannunciata allucinazione. Eppure la esperimentai in parte, trovandomi, là, sia per la vastità del campo delle memorie, sia per la quasi assoluta assenza di circostanti edifizi moderni che mi distraessero; ma più per effetto del silenzio profondo che mi circondava, e di quel mare luminoso e queto, non mutato dai tempi, in cui era rapita la mia fantasia. Sentii le grida dei ventiquattro mila spettatori del teatro greco, plaudenti alla rappresentazione dei _Persiani_, e gli urli delle fiere trafitte nell’anfiteatro romano, e i muggiti dei quattrocento tori sgozzati sull’altar di Gerone in memoria della cacciata del tiranno Trasibulo, e i lamenti delle migliaia di prigionieri ateniesi moribondi di fame e di sete nelle Latomie. E vidi, sì, vidi “quasi con gli occhi della fronte„ formicolare lungo la costa i sessantamila schiavi di Dionisio, che costrussero in venti giorni cinque miglia di mura, e più lontano, i marinai Siracusani, incatenar le navi schierate per imbarazzare l’entrata del porto alla flotta di Demostene; intorno a me, qua e là, assorti come nell’ammirazione del tramonto, uomini immobili e gravi, ravvolti in grandi panni bianchi, che si voltavano l’un dopo l’altro man mano che io li chiamavo con voce sommessa e tremante di reverenza: — Teocrito! Mosco! Bacchilide! Simonide! Pindaro! Eschilo!... un grido altissimo e prolungato passò per l’aria: in un baleno la enorme città disparve, i fantasmi si dileguarono, il sogno dell’antica grandezza svanì. Era il treno della strada ferrata di Catania che passava lungo il mare. “Il sogno dell’antica grandezza!„ Sta bene, purchè non si dica come lo sogliamo dire per consuetudine dell’animo contratto nelle nostre scuole classiche, dove si canta un inno eterno al passato. C’era forse maggior felicità in quella grande Siracusa antica di quello che ce ne sia nella piccola e modesta Siracusa sopravvivente? Non era forse vero in quella più che in questa che la vita, come disse un grande poeta, è una festa per alcuni ed un duro peso per quasi tutti? La grandezza era pagata a prezzo di stragi inumane e quasi continue, di orribili guerre, non contro gli stranieri soltanto, ma contro genti dello stesso sangue e della stessa terra. La prosperità era mantenuta col dissanguamento delle città soggette, comandate da piccoli tiranni, strumenti ciechi del maggior tiranno. A brevi periodi di libertà disordinata si alternavano lunghe dittature crudeli. I grandi monumenti d’arte di guerra erano frutto di fatiche inumane di migliaia di esseri equiparati alle bestie. L’arte era fiorente e onorata; ma Dionisio cacciava in carcere il poeta Filosseno perchè aveva criticato i suoi versi, e un nemico vittorioso distruggeva in pochi giorni o predava e portava in altre terre l’opera gloriosa di generazioni e di secoli..... * * * Non ricordo nella mia vita di viaggiatore ore più deliziose di quelle che passai la sera sulla terrazza del grand’albergo Politi, che sorge nell’Acradina, sopra la Latomia dei Cappuccini. Ah, questi alberghi, queste ville signorili che si alzano sopra le rovine antiche, e v’inaridiscono la sorgente più viva della poesia, che è la solitudine! La famosa Latomia è diventata come un annesso all’albergo, dove scendono signore e signorine a godere il fresco di giorno, e di notte i contrasti delle ombre e dei raggi di luna; sopra una delle rocce che vi si innalzano in mezzo è stato fatto un piccolo giardino pensile, dove si va a prendere il caffè; nei silenzi della profonda cava, piena di memorie terribili, si spandono le note d’un pianoforte, e quelle delle canzonette napoletane con cui i musici girovaghi vengono la sera a rallegrar gli avventori. Che stonatura e che profanazione!... Ma ho forse diritto di protestare io che ne fui complice? Era così bella di notte, vista da quella terrazza, Siracusa, che pareva galleggiante sul mare, tutta scintillante di lumi, solitaria e silenziosa in mezzo alle acque che riflettevano il firmamento splendido; vicinissima, e pure in apparenza lontana, e queta come se dormisse, sognando i suoi duemila e settecento anni di storia! E sembrava che fossero suoi respiri i soffi d’aria molle che venivano a quando a quando nel viso, portandomi il profumo delle rose delle ville vicine e il sentore acre della vegetazione selvaggia lussureggiante sulle rocce di sotto! Che dolce notte, che tepida primavera, che divina chiarezza di cielo e di mare! E quanto m’appariva lontana la mia Torino, che vedevo in quei momenti come una città del più remoto settentrione, tutta bianca di neve e avvolta nella nebbia, quasi perduta ai piedi d’una catena di montagne di ghiaccio; dove non mi sarei ritrovato che dopo settimane e mesi di viaggio! * * * Fu quella la stazione più lontana del mio viaggio. Al ritorno non mi restava a vedere che Taormina, che è a mezza via fra Messina e Catania. Ma non si spaventino i lettori: non avranno ancora da subire la descrizione di quel famosissimo teatro greco, in cui è la scena meglio conservata di tutti i teatri antichi, e che è per se stesso il più meraviglioso bel vedere d’Italia. Tutti ne avranno letto qualche cenno descrittivo in occasione del recente viaggio che fecero in Sicilia i Sovrani di Germania, i quali manifestarono per Taormina una viva predilezione. E poi, che è mai il teatro dell’arte in confronto a quello della natura? Quello che si vede dalla sommità della gradinata, e proprio dal punto che prospetta il mezzo della scena, è uno spettacolo di cui non ha l’eguale nè Napoli, nè Rio Janeiro, nè Costantinopoli. Sotto, la piccola città ridente, che si stende ad arco fra i mandorli, gli aranci, i cactus, i pini; a tergo della città, un semicerchio di monti che slanciano al cielo i vertici rocciosi coronati di castelli e di villaggi; più in là l’Etna enorme, col capo bianco tinto di rosa, che sovrasta al mar Jonio, e par che s’avanzi per immergervi il fianco; a destra e a sinistra quasi tutta la costa orientale della Sicilia, una successione infinita di curve, che sembra la ripetizione ritmica d’un pensiero gentile, dietro al quale il vostro sguardo va da un lato fino a Siracusa, dall’altro fino a Messina; e questa doppia immensa fuga di seni, di promontori, di boschi, di paesi, di giardini ride sopra la bellezza d’un mare e sotto la bellezza d’un cielo di cui non può dare idea la parola umana. Chi può maravigliarsi che davanti a un tale spettacolo l’Imperatrice di Germania abbia lasciato cadere a terra un diamante senza avvedersene? Questo mi disse quello stesso custode del Teatro che trovò il diamante fra i ruderi vicini alla porta e che lo riportò all’Augusta Signora. Ed egli stesso mi riferì con alterezza di cittadino taorminese un motto che aveva udito il giorno innanzi da una bizzarra signora straniera incantata del panorama: motto ch’io metto qui come suggello al mio povero tentativo di descrizione. — “Credo poco all’Inferno; ma credo al Paradiso perchè l’ho visto... ed è questo„. * * * Eppure davanti a quel “paradiso„ io pensavo ad altro. Ricordavo una scena che avevo vista la sera innanzi: di un signore coi capelli bianchi, arrivato all’imbrunire a Taormina, in carrozza; al quale erano andati incontro ragazzi del popolo, studenti, operai, cittadini d’ogni classe, e l’avevano accompagnato fino all’albergo, chiamandolo per nome, tendendo le mani verso le sue mani e gittandogli delle rose. E dietro quel ricordo me ne venivano altri: dello stesso viaggiatore che avevo visto arrivare a Messina, a Palermo, a Catania, a Siracusa, accompagnato anche là da una folla di ospiti festanti, che lo salutavano come gli ospiti di Taormina, con quella stessa espansione d’affetto filiale e fraterno, con quegli stessi accenti in cui vibrava la voce del cuore, con parole che facevano spuntare le lacrime in altri occhi oltrechè nei suoi. Buono e semplice popolo! Gentile e amabile gioventù! Così caldamente innamorati d’ogni bell’ideale che amano ed onorano anche chi ne abbia fatto loro balenare appena un vago riflesso con poca arte e con malsicura coscienza; così ingenuamente generosi che ingrandiscono e abbelliscono con l’immaginazione uomini e cose, credendo che sia loro virtù intrinseca quello che essi mettono in loro di proprio! Ma v’erano altri sentimenti delicati in quelle dimostrazioni. Tutta quella gioventù sapeva che quel suo ospite aveva sofferto dei grandi dolori, e lo festeggiava per consolarlo; pensava, vedendogli i capelli bianchi, ch’egli non aveva più lungo tempo da vivere, e voleva che la sua vita fosse coronata da una delle più profonde e dolci soddisfazioni ch’egli avesse potuto mai desiderare, gli voleva lasciar nell’anima un ricordo che gli desse impulso a lavorare ancora infaticabilmente fino agli ultimi suoi anni; prevedeva che in quella cara terra egli non sarebbe ritornato mai più, e voleva che gliene rimanesse una immagine più bella, più cara ancora di quella che n’aveva riportata quarant’anni innanzi, al tempo della sua prima giovinezza. O cari fanciulli del popolo, operai, studenti, buoni amici sconosciuti d’ogni età e d’ogni ceto, ospiti affettuosi e giocondi, come egli ha ben capito e sentito la gentilezza del vostro intento, e che profonda gratitudine ve ne serberà in cuore fin che gli anni e l’infermità non gli abbiano spento l’ultimo barlume di memoria delle giornate luminose e felici che ha trascorse sotto la bellezza incantevole del vostro cielo e in mezzo alle vestigia gloriose della vostra storia! INDICE Da Messina a Palermo Pag. 5 Da Palermo all’Etna » 37 Catania » 73 Da Siracusa a Taormina » 107 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RICORDI D'UN VIAGGIO IN SICILIA *** Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. 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