Project Gutenberg's Il Conte di Virtù vol. 1/2, by Carlo Belgiojoso This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you'll have to check the laws of the country where you are located before using this ebook. Title: Il Conte di Virtù vol. 1/2 Storia italiana del secolo XIV Author: Carlo Belgiojoso Release Date: November 7, 2018 [EBook #58247] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL CONTE DI VIRTÙ VOL. 1/2 *** Produced by Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) IL CONTE DI VIRTÙ VOLUME I Tipografia del dottor FRANCESCO VALLARDI. [Illustrazione: IL CONTE DI VIRTÙ] IL CONTE DI VIRTÙ STORIA ITALIANA DEL SECOLO XIV NARRATA DA CARLO BELGIOJOSO VOLUME PRIMO TERZA EDIZIONE CASA EDITRICE DOTT. FRANCESCO VALLARDI BOLOGNA MILANO NAPOLI Via Farini, 10. Via Disciplini, 15. Via Monteoliveto, 70. PROPRIETÀ LETTERARIA DELL'AUTORE A GIORGIO PALLAVICINO TRIVULZIO _Mio caro Zio_, _I soavissimi vincoli che mi legano a te, mi danno il coraggio di porre questo lavoro all'ombra di un nome caro e venerato come il tuo._ _La patria nostra ti annovera fra i più benemeriti suoi figli. Il giovane ardente del ventuno non provò mai stanchezza o sfiducia. Otto lustri pieni d'amari disinganni, di lunghi e sublimi dolori, ti fecero maturo ed esperto; e non logorarono punto il tuo cuore. — Ma il caldo patriota è anche solerte amico e cultore degli studi ameni. Tu conservi (io ne ho più di una prova) la piena giovinezza dello spirito per amare le opere dell'arte imitativa e le creazioni della fantasia. La storia fu ed è il campo delle tue ricerche; nè tu badi a chi te la appresta, e sotto qual forma, quand'essa è l'eco fedele delle nostre glorie, o dei nostri dolori._ _L'epoca e le vicende che qui pigliai a descrivere ti sono troppo note. Quando nella tua gioventù chiedesti alla maestra dei popoli una ragione per sperare che l'Italia avrebbe finalmente spezzate le catene che le erano imposte dallo straniero, ti sarai senza dubio arrestato a questo periodo storico per rimpiangere il fallito gioco del destino. Lo scopo d'allora era quello d'oggi: ridonare l'Italia a sè stessa; ma la via per arrivarvi era troppo diversa. Alla privilegiata mente di un uomo, all'impero di una sola volontà, all'ambizione di un eroe, si dovevano sostituire l'affetto, il proposito, la concordia di un popolo._ _Non è per menomare la gloria della nostra impresa, che io ne cercai un raffronto nel passato. Provando che il grande concetto, divenuto oggi articolo di fede per tutti, era nei secoli trascorsi la tacita aspirazione di qualche mente eletta, io avrò aggiunta, se pur ne è d'uopo, qualche altra autorità alla coscienza dei nostri diritti. Sono voti dispersi, che io vo raccogliendo per deporli nell'urna sovrana del grande plebiscito nazionale. Imperocchè noi non abbiam nulla inventato; il merito nostro è d'avere unanimemente voluto._ _Dopo ciò, è inutile che io ti preghi a volermi usar cortesia. Credo anzi, che quando mi si accusasse di essere stato temerario, tentando cosa al disopra delle mie forze, tu sarai il primo a scolparmi. Se in queste modeste pagine vi ha qualche tepore di un affetto non del tutto ingeneroso, il tuo cuore saprà scoprirlo. Alla peggio, tu vorrai tener conto del mio buon volere, e farne ragione di più indulgente giudizio._ _Sii tu dunque il primo a leggere la mia narrazione, e la apprezza come se fosse l'obolo offerto dal povero; essa è quanto so, non quanto vorrei dare._ _Luglio 1861._ _Carlo Belgiojoso_ CAPITOLO PRIMO I. Nel fondo di un deserto chiassuolo, che mette capo alle mura di Pavia, dove queste fanno argine al Ticino, esisteva nella seconda metà del secolo XIV un casolare di sinistro aspetto, sul conto del quale correvano le più bizzarre dicerie. Sorgeva esso a due piani, da una base quadrilatera, in mezzo ad uno sfasciume di macerie ivi deposte da gran tempo ed inerbate di musco e d'ortiche. Cinto per tre lati da una spianata di terra mossa, guardava pel quarto sulle mura, e vi aveva uscita per una porta colle imposte corrose, ravvicinate da chiavistelli irruginiti. Tale edificio, costrutto di bigia migliolite fin sopra la finestra del piano terreno, era coperto pel resto di una rinzaffattura tutta sgretolata. L'avresti detta una torre mozza, danneggiata più dalla violenza degli uomini che non del tempo, cui erasi aggiunto un tetto d'ardesia per destinarla ad abitazione d'alcuno. Dalle sue forme robuste traspariva alcun che di ribaldo; rassomigliava ad un vecchio, che, dal suo reggersi fermo e dal suo fare risoluto, lascia indovinare essere egli stato a' suoi dì un prode. La muraglia era qua e là sparsa di finestre, che più propriamente si sarebbero chiamate feritoie, tanto erano alte e ristrette. Solo una aprivasi più ampia verso le mura, e quella era contornata da un giro di pietre disposte ad arco, entro cui due minori volte coincidevano sull'àbaco di una esile colonna spirale. Grosse spranghe di ferro attraversavano orizzontalmente ogni apertura, ed una grata egualmente solida, ma meno inelegante, chiudeva dietro la colonna la finestra superiore. Se questo edificio sorgesse a' dì nostri, non s'avrebbe fatica ad indovinarne l'origine; fors'anche qualche leggenda tradizionale ci porrebbe sulla via di scoprirne e di tesserne la storia. — Ma lasciando da banda le indagini inutili, v'ha quanto basta per classificarlo tra gli avanzi di quelle bastite, entro cui nel medio evo si ricoverava la prepotenza feudale; ridotti inaccessibili, di cui, più che altra città, andava superba la cospicua sede dei re longobardi. L'imaginosa credulità degli uomini d'allora correva al di là di questa spiegazione, e ravvisando in quelle ruine abbandonate l'ignominiosa decrepitezza attribuita alle fatucchiere, nutriva la credenza che fossero opera d'arte diabolica; che fantasmi e spettri ivi convenissero ogni notte a celebrare riti infami. — Nessuno osava quindi mettere piede là dentro, e neppure avvicinarsi a quelle mura. E se taluno era costretto a percorrere il sentiero vicino, vi si metteva di pieno giorno, e passando biascicava delle preghiere, tenendo gli occhi sur una croce di legno piantata sull'altro canto, a tutela di passaggeri, per scongiurare la tregenda. Nessuno perciò poteva di certa saputa riferire che vi fosse là dentro. Si narrava che strani ed orribili castighi avessero colpiti gli audaci, che in addietro vi erano penetrati. Ma se alcuno non ne era uscito vivo, chi mai osava raccontare tante storie di demonj e di streghe, di catene strascinate, e di flagelli fischianti? Chi ne aveva respirato l'aria pregna di zolfo, chi aveva veduta quella luce più cupa delle tenebre, quel lago di pece e di sangue, — un novero infinito di laidezze e d'orrori? La paura, come quell'arbusto che ha le radici all'aria e vive non si sa come, trova appunto nel vuoto il suo alimento. Gli occhi e gli orecchi di un pauroso vedono ed odono più grandi cose appunto quando si trovano fra le tenebre e nel silenzio. Certo è che quell'edificio non sembrava avere nè padrone nè abitatori. Una miriade di ragnateli ne suggellava gli ingressi, la ruggine aveva saldato il chiavaccio nelle rispettive anella. Il terreno tutt'intorno era in preda ad una vera anarchía di erbe spontanee, vergini ed intatte chi sa da quanti anni: il rúmice, l'appio selvatico ed il verbasco crescevano vegeti e verdeggianti; in qualche parte i cerfuglioni degli arbusti sembravano venire alla prese per disputarsi la padronanza di un palmo di terra. — Un grosso tronco d'edera s'avvinchiava ad un angolo della casa, e svoltosi in più rami ricopriva in varie parti le crepature e lo smattonato; poi con bizzarro contorcimento ripioveva sopra sè stesso, mascherando una piccola porta, ignota a tutti, dove erano le tracce di un va e vieni recente. Una sola di tante dicerie s'appoggiava ad un fatto certo. — Di notte tempo i navalestri, rimorchiando i loro batelli, o vogando attraverso il fiume per mettere a terra i passaggeri (poichè il magnifico ponte non era ancora compito) vedevano un lume dietro la grata della finestra, ed avvicinandosi alle mura udivano talvolta una voce limpida e giovanile ripetere soavi melodie, cui il sommesso mormorare delle acque ed il lontano strepito delle selve agitate dalla brezza notturna aggiungevano incanto. Ma questo fatto così semplice e naturale non calmava punto le apprensioni dei creduli. — Quella luce era sinistra; quelle note racchiudevano la potenza arcana di una fattucchieria; se pur non venivano interpretate come lamenti di vittime, o canti di trionfo d'un orgia infernale. — Non importa, che ci arrestiamo ad indagare la cagione di questo pregiudizio. Ognuno ravvisa subito in esso la meno strana delle tante superstizioni, che formano il tratto caratteristico di quel secolo. L'ignoranza d'allora (chi non lo sa?) non era soltanto la completa nudità, l'inedia ed il torpore dello spirito; ma diventava una rete d'errori, in cui incappavano tutte le menti; era una scienza audace, petulante, infarcita di false dottrine, — sempre pronta a prestar fede alle cose assurde, sempre ritrosa ad accettare le vere. Lasciamo che un intera popolazione, in altre cose valida e generosa, tremi davanti ad uno spauracchio da fanciulli. — Queste fantastiche credenze sogliono essere la poesia della plebe primitiva, sempre amante di cose meravigliose. Meglio è che ci proviamo a sollevare il velo che ricopre un mistero. L'interno del casolare era ben altra cosa. Due piccole stanzette a terreno e due altre superiori, riunite per mezzo di porte e di una scala, costituivano l'interno suo scompartimento. Pareva che fossero state di recente svecchiate e ridotte a commoda abitazione. — Nelle camere terrene eravi il corredo delle masserizie domestiche; nelle superiori spirava una certa quale eleganza per la assettatura delle muraglie e per la forma delle suppellettili. Dominava in queste e in quelle lo stile già in uso ne' paesi nordici, che arrivato a noi conservò il nome di gotico, ancorchè fosse corretto dal classico romano non ancora vieto e disusato: stile più splendido che commodo, più fantastico che bello, condannato dall'arte severa, e pure a quando a quando ricondotto in trionfo dalla nemica d'ogni costanza, la moda. Nella parte interna dell'edificio, cui apparteneva la finestra, che abbiamo accennata, v'era un salotto quadrato a cupola ottangolare con fondo azzurro cosparso di stelle d'oro, limitato da coste di pietra scolpite a fogliami, e riunite in un rosone al vertice della volta. Gli spicchi di questa, che scendevano nel mezzo delle quattro pareti, s'appoggiavano a peducci sostenuti da mensole, e da queste rinascevano altri quattro archi acuti, il cui profilo tagliava l'angolo retto della camera, lasciando sotto di sè uno spazio triangolare capace di un armadio. — Alla rozza finestra corrispondevano internamente solide imposte colle cornici a rabeschi, e i piccoli vetri rotondi, su cui piovevano drapelloni di stoffa. Una bazzana color di robbia dilavata con meandri impressi, ricopriva la parete, lungo la quale erano disposti in ordine seggioloni di vacchetta, fregiati di chiodi lucenti, con appoggiatojo e cimasa ad intagli. — Sorgeva nel mezzo della camera una tavola ottagona, e rinchiudevano gli spazj angolari opposti alla finestra due scaffali con aperture ad arco acuto, e fregi smilzi e leggiadri. Finalmente dal mezzo della volta scendeva una lucerna di terra cotta, a tre luminelli, portata da catene di terso acciajo. L'aspetto esteriore di quell'edificio era dunque un inganno. — L'ordine e l'eleganza, che regnavano al di dentro, avrebbero rinfrancato anche il più timido, appena osasse metter piede su quelle soglie. Ma entr'esse si racchiudeva un secreto; il mistero era una necessità, e l'altrui vigliaccheria tornava opportuna a custodirlo. II. Sul declinare di un bel giorno di primavera dell'anno 1383, una giovane donna, l'abitatrice di quel casolare, tutta sola e profondamente commossa, sedeva presso alla finestra, e meditava. Nell'età delle speranze la poveretta pregustava l'amarezza del disinganno, questa messe infallibile degli anni maturi. — Nessuna cosa esteriore pareva occuparla. — L'occhio al pari del pensiero, dopo avere brevemente errato sugli oggetti circostanti, ricadeva sopra sè stessa, e da' suoi momentanei divagamenti ritornava più languido e sconfortato, come se riportasse la conferma delle ragioni, che gli infondevano un'insolita mestizia. E pure lo spettacolo, che le si parava dinanzi, era lieto. Il cielo splendido e terso, come è spesso fra noi ne' giorni di maggio, offriva le più vaghe degradazioni di tinte, dal freddo azzurro al color d'ambra infuocato. Qualche nuvoletta, rossa e vaporosa sulla parte più elevata della volta celeste, porporina ed opaca presso l'orizzonte, ne accresceva il brio e la trasparenza. E dove una striscia ardente accennava il tramonto, vedevasi sorgere sublime e poderosa la cerchia alpina irta di creste acute ed inviolate, degna corona di chi fu regina del mondo: le nevi eterne, vivificate dalla scintilla del sole, pigliavano l'aspetto di un baluardo di fuoco. A' piè della catena de' monti, un'indefinibile zona di vapori ravvolgeva nell'ombra le minori roccie delle prealpi, le amene ondulazioni dei colli, le popolose borgate dell'alto piano e gli interminabili campi della gran convalle accerchiati sul davanti da foreste, che assumevano il verde proprio di una vegetazione recente e rigogliosa, mano mano che si avvicinavano all'occhio del riguardante. Sul ciglio del fiume le piante e le casupole da pescatori si specchiavano capovolte nelle acque, ripetendone i contorni in un'ombra tremula e prolungata. Il Ticino era attraversato da quel ponte, tuttodì esistente, che a quell'epoca reputavasi una meraviglia dell'arte. — Gli archi di varia corda e di raggio diseguale reggevano un parapetto con colonne destinate a sopportare una tettoja, che, appunt'allora, stavasi compiendo. Ai capi di esso vedevansi due forti, e in varj punti s'agitavano a stuolo manuali ed operaj affrettati al lavoro. Maestose scendevano sotto di esso le acque del fiume, nere all'ombra degli archi, argentine ove riflettevano i colori del cielo; qui e qua popolate dai navigli de' commercianti, che dalla loro forma s'accusavano esperti del mare, da battelli di pescatori ingombri di reti e pettinelle, e da barchette di passaggieri. Le une lente e affaticate risalivano la correntia a forza di braccia, o rimorchiate da cavalli; le altre guizzavano a fior d'acqua colle prore taglienti, sobbalzate da remi, oppure si lasciavano condurre in balía del fiume, e scendevano con esso verso la sua foce. — E l'occhio poteva accompagnare per lungo tratto le tortuosità di quella maestosa vena del commercio, finchè da lungi rassomigliava allo strascico serpeggiante di una matassa di fil d'argento. Ma queste bellezze attraversavano la pupilla della riguardante senza punto fissarvisi. L'animo di lei, per solito sensibile agli spettacoli della natura, era preoccupato da più forti pensieri, e lasciava che i sensi errassero, senza riposar su alcuno degli oggetti circostanti; erale quindi impossibile che la mente si raccogliesse a pronunciare un giudizio; impossibile del pari che il cuore vi rispondesse con un palpito. — Quando l'animo è consapevole dello stato suo, addolorato o lieto ch'ei sia, legge nella natura una parola che lo conforta o lo compiange; trova almanco in essa un'amica che sorride o s'attrista all'unisono con lui; ma quando si agita in una lotta, di cui non prevede il fine, e non ha altra certezza fuor quella d'esser gioco d'un amaro dubio, allora uno splendido apparato di prodigi divien cosa muta ed impotente. La povera donzella accusava la stanchezza del corpo. — Sedeva mollemente accasciata su di uno scranno d'ebano ricoperto di velluto, a spalliera alta, cui potevasi appoggiare il capo. Aveva le braccia distese, non rigide, non cadenti, sostenute sulle ginocchia dalle mani conserte; e tra le mani teneva il fiore della modestia, un bianco ed odoroso mughetto. Al fiore volgeva ella frequenti sguardi; a quando a quando se lo accostava alle nari per respirarne le fuggevoli fragranze; forse anche per imprimere un bacio su quella corolla, che, sbucciando il dì inanzi vicino a lei, era stata testimonio di benaugurati sorrisi. Vestiva un abito di sciamito bruno, alla foggia viscontea, con corpetto d'egual tessuto allacciato sul davanti da un nastrino di seta, che ne avvicinava i margini nella parte più cava dell'imbusto, lasciandoli discosti in alto, dove le forme del petto e delle spalle pigliavano maggior rilievo. Da quest'ampio sparato, e tra la stretta delle cordicelle, sfuggivano i piccoli rigonfii di un bianchissimo lino pieghettato, molle a segno, che accusava ogni andamento delle purissime forme. Le maniche strette disegnavano il braccio, e s'aprivano al gomito per dar escita ad un vezzo di seta candida. Un cordone bruno e bianco coi capi ornati di nappine d'argento le cingeva la vita smilza, poi andava a perdersi tra le ampie pieghe della gonnella, i cui lembi erano dalla luce radente segnati di un contorno vibrato e quasi bianco. I suoi capelli eran bruni, e divisi dalla pura addrizzatura in due trecce, che sparivano dietro l'orecchio, e ne riuscivano inanellate fino a toccar l'omero. Riflettevasi in essi il color dell'aria imprimendo lungo la curva de' parietali due lucide strisce divergenti; e dietro la nuca cadevano libere alcune ciocche, che sembravano umide, tanto erano voluttuosamente molli e pieghevoli. L'occhio grande, nerissimo, velato da lunghe ciglia, era alquanto socchiuso, ma non aveva perciò meno fuoco; lo sguardo, qualche volta subitaneo ed imperioso, più spesso languido e mansueto, era sempre pieno di gioventù e di vita. Sulle labra alquanto tumide e moderatamente vermiglie errava un sospiro dilungato, che le componeva ad una grazia ineffabile. — Descrivere in ogni sua parte quanto fosse vezzosa non è opera di parole; anche il pennello sarebbe inetto all'assunto. Basterà il dire che l'insieme di quel volto aggiungeva all'avvenenza ed alla gioventù quell'incanto che nasce dall'accordo perfetto della fisonomia collo stato dell'animo. — L'amarezza dell'ironia, lo sgomento di un dolore improviso, il ribrezzo del disinganno traducono con segni visibili la passione, ma scompongono l'armonia de' lineamenti, che è il secreto d'ogni beltà; mentre la rassegnata sofferenza le aggiunge pregio, e la rende ancor più soave, mescendo alla purezza della forma l'incanto della virtù. — Quella fanciulla adunque, bella se gaja e sorridente, sembrava ancor più bella or che s'era fatta malinconica e pensierosa. Agnesina (tale era il suo nome) non vedeva più intorno a sè le pareti di quella abitazione, che era divenuta la sua casa, dacchè non aveva più parenti: quelle mura a lei sì care solo pochi dì inanzi, testimonii discreti d'ogni sua azione, conscie de' suoi palpiti e delle sue gioje. — Rade volte, durante il suo breve soggiorno, erasi tolta di là; ma al rientrare in casa aveva sempre salutata la sua modesta cameretta come un'amica, e le care inezie che vi si trovavano, come i depositarii di altretante grate memorie. — Ora non più così — gli sguardi ricadevano indifferenti su quelle suppellettili, che ella era solita assestare e ripulire con tanta cura. Il liuto, lo stromento favorito delle donzelle innamorate, da cui sapeva trarre le più patetiche melodie, pendeva silenzioso alla muraglia. Dalla piccola biblioteca, composta di poemi e di ballate, era stato tolto il suo prediletto canzoniere; ma questo le stava accanto, aperto a caso, senza che l'occhio ricercasse quei versi letti e ricantati altre volte con tanta passione. V'ha delle creature d'una tempera così sciagurata, che non sanno aprire il cuore a lieta realtà, e l'intendono solo a cose meste, povere anime, che vestono un'eterna gramaglia, e, incredule d'ogni felicità, colgono le spine, e sfiorano le rose. Ma la nostra fanciulla non era di queste; noi lo vedremo tra breve. Agnese, accorgendosi che il fiore languiva, rinvenne dall'estasi, e si rialzò per immergerne lo stelo in un calice pieno d'acqua, posto sul davanzale della finestra; poi lo sogguardò alquanto, quasi aspettasse dal suo rinverdire il prezzo della pietosa cura che gli aveva prodigato. — Ma nel rimettersi al posto, le sue mani s'avvilupparono in un filo esilissimo di seta, che le cingeva il collo, e andava a perdersi nelle pieghe della camicetta — In quel movimento ravvisò il piccolo medaglione che eravi appeso. Il pensiero corse rapido ad esso; riconobbe la persona ivi effigiata, e la salutò con un lampo improviso di gioja — gli occhi e il volto ripigliarono l'obliata serenità, le guance si tinsero d'un vivo incarnato; alla sua posa languida fe' succedere un movimento pieno di vita, e schiuse involontariamente le labra, sclamando “o mia buona madre„. Poscia baciò quell'imagine con indicibile tenerezza. III. Su quell'imagine e su quel fiore si raccolsero in una mistica contemplazione i sensi svagati della fanciulla. I due oggetti, per l'origine e la natura loro sì diversi, rappresentavano appunto l'antagonismo dei sentimenti, che faceva ondeggiare il suo cuore, e quella battaglia di passioni, di propositi, di speranze, in mezzo a cui esso combatteva col doloroso dubio della sconfitta — I rimpianti del passato, le realtà della vita attuale, le visioni dell'avvenire scorrevano dinanzi a lei con una successione rapida e piena d'evidenza; ma in quella vicenda quanto chiare e distinte erano le imagini, altretanto rimescolate e indecise riescivano le emozioni; ogni dolcezza ricordata traeva seco una stilla d'amaro, come ogni rimpianto aveva la sua piccola parte di refrigerio. Quel ritratto le ricordava gli anni spensierati dell'infanzia, la cui memoria è sì dolce, quando essa è passata. — Rammentava gli innocenti trastulli, ravvivati da gare, ma scevri d'invidia, la compagnevole giocondità delle amiche, il benevolo garrire della governante, il facile pianto ed il più facile sorriso; poi le prime ingenue vanità, i primi palpiti innocenti. Il cuore ben di buon grado s'impadroniva di quelle care memorie, tentava arrestarne le fuggevoli impressioni, spronava la mente a penetrare in quel labirinto d'inezie, per trarne alla luce ogni arcana dolcezza. — Ma i sensi ottusi dagli acri profumi di quel fiore imbrigliavano la memoria, che ad un tratto si faceva muta ed infida nel resuscitare il passato. Allora un'altra pagina della vita s'apriva agli occhi della trambasciata, e vi leggeva l'indomabile passione, che le cangiò in noja la pace domestica, e le prime lacrime non incolpevoli, e la menzogna pronunziata dinanzi alla propria coscienza; poi vedeva in sè stessa l'orfana imprudente, che aveva abbandonata la casa, col pretesto di un pericolo, che forse non esisteva; docile ai consigli di un sentimento, che era troppo fervido per vantarsi del tutto innocente. A quest'idea un brivido mortale le invase le membra, e già provava i primi sintomi di un dolore disperato, quando la voce di colei, che la vegliava dal cielo, accorse a confortarla, susurrandole in cuore: “colui che tu ami è degno di te.„ Ma il cuor suo era esso indovino? È possibile che una madre svincolata dagli affetti terreni, e in vista di Dio, conforti una fanciulla colpevole? La desolata ripiombava in un altro campo di dolori; e già vedevasi, in pena del suo fallo, abbandonata dall'uomo, pel quale aveva fatto getto d'ogni ben suo — una perplessità angosciosa le entrava nel cuore; e il demone della gelosia v'infiggeva un acutissimo strale. Così quell'infelice, dopo avere ondeggiato fra troppi dolori, e troppo scarse consolazioni, ritornava esausta di forze al punto da cui era partita. La memoria, quest'eco fedele del passato, senza di che la vita sarebbe il nascere ed il morire d'ogni giorno, raccoglie il bene e il male, e lo affida al criterio, perchè lo riordini e lo raffronti. Così dalle cose trascorse può lo spirito umano leggere davanti a sè quelle che lo attendono; a quel modo che le vicende cosmiche di una giornata ci fanno prevedere quelle dell'indimani. Ora quest'indimani, sulla scorta del passato, le appariva ancor più tempestoso. Essa, già d'animo proclive alla mestizia, vieppiù contristata dai presentimenti e da un insolito rampognare della coscienza, ricadeva in una più cupa desolazione, e “Vergine Santa, sclamava tra sè, l'ora è varcata: il sole ormai scomparso dall'orizzonte segna il termine di questa giornata di aspettazione. Che mai sarà, accaduto? Tu non conosci, amor mio, come sia lungo un dì, quando ogni ora, ogni minuto porta seco una speranza delusa? Un palpito di gelosia schianta il cuore; e tu potesti protrarre tanto il mio martirio? Mio Dio, non mi punite dimani con un altro giorno simile a questo; fatemi piuttosto morire... Oh deve essere stata grave la mia colpa, se tanta e sì grave è la pena!„ Rimaneva poscia silenziosa e come assopita; il pensiero di espiare con que' dolori il suo fallo, faceva momentaneamente tacere le angosce della passione gelosa, e la guidava ad altr'ordine di idee. Ciò pareva racconsolarla alcun poco. — La speranza di ottenere il perdono di sua madre era l'unico rimedio contro quel veleno, che le rodeva il cuore. Ne beveva quindi a larghi sorsi. In quel momento avrebbe gradita la morte come il più provido dono della mano di Dio — E già nella mentale aspirazione con cui chiedeva al cielo di riavere l'amore di sua madre, stava racchiusa la tacita preghiera d'essere tolta all'indefinibile imbarazzo di un'esistenza avviata così sinistramente. “Che avanza alla tradita colpevole? continuava ella fra se. Come ottenere l'oblío degli uomini? come far rifluire alla sua sorgente quel sangue che i battiti di un cuore colpevole espandono sulla mia fronte, imprimendovi il marchio della vergogna? Vivrò lontana da tutti; fuggirò la luce del giorno; e poi? Nell'eterna notte che mi circonda, la mia colpa brillerà di una luce ancor più spaventosa. Se io chiudo gli occhi per non vederla, una voce me ne parlerà all'orecchio; se ogni senso langue, quella voce avrà sempre eco nel cuore — reo e giudice ad una.„ Quest'idea, ancorchè fosse feconda di dolori, non era più il coltello di prima. — Da che il cuore aveva consacrato un palpito alla memoria della madre, da che le sue labra avevano pronunciato quel santo nome, la sua mestizia s'era fatta più placida, e la mente riposava alquanto nella fiducia che la pia protettrice le avrebbe di lassù scoperta ed inspirata la via dello scampo. A rinfrancarla, a toglierla alla tortura di tante dubiezze, contribuì non poco una circostanza del tutto fortuita. — Al magnifico tramonto, che abbiamo raccomandato alla imaginazione de' nostri lettori, era succeduto il più mite, il più sereno crepuscolo. Era quell'ora, in cui cessano le fatiche del giorno, e l'uomo e la natura si riposano per ritornare alla vita più gagliardi; quell'ora, in cui le anime degli infelici, stanche da lunga battaglia, possono alfin gustare qualche istante di tregua, e lo spirito umano, se straniero alla febre fittizia de' sociali consorzii, si chiude e s'addormenta inconsapevole d'ogni cosa che gli sta intorno, certo soltanto che tutto di quaggiù ha un termine — il dolore quindi come la gioja. Il cielo era bruno, a quando a quando rischiarato da qualche stella. Il suolo, ancor più bruno, si confondeva in un sol piano suffuso da un'ombra umida e trasparente, di cui sarebbe impossibile tradurre colle parole la vacuità; l'orizzonte soltanto era avvivato da una zona crocea e lucente. L'aria spirava freschissima e calma; il fiume correva placido e deserto. Le barche imborchiate alla riva, resistendo colle loro prore taglienti al corso delle acque, ne accrescevano lo strepito. — Era cessato il lavorío sul ponte; e non restava che una lieve traccia della vita giornaliera nel brillare di qualche lumicino attraverso le impannate trasparenti dei casolari. In mezzo a questo generale silenzio giunse all'orecchio di Agnesina il canto del popolo raccolto in una vicina chiesuola — Aperse le imposte, si prostese quanto era possibile sul davanzale della finestra, e potè meglio ascoltare il pietoso metro, con cui venivano celebrate le lodi della Vergine, e le armonie del salterio, che ne tempravano il ritmo. — Altre preci vi successero, poi un inno d'adorazione, infine un augusto silenzio, accompagnato dai rintocchi di una campanella. Dopo breve istante echeggiarono le volte di un canto di ringraziamento; poscia tutto rientrò nel silenzio, e non si udì che il sommesso fruscio della folla, che si dileguava. Ben di buon grado si vorrebbe far sosta a questo punto; perocchè, se i dolori della donzella valsero a suscitare un primo senso di pietà in chi ci ascolta, assai più gradito dovrebbe essere a lui il vederla tornare vittoriosa dalla prova. La fanciulla, nel rivolgere il pensiero a sua madre, aveva trovato vicino a lei un asilo. Per essa e con essa eravi la pace del cuore; la pace indefettibile e sicura. — Gli affetti non vedono distanze; l'anima sua, avida in questo momento di pigliar il volo al di sopra degli affetti del mondo, ormai non sentiva il peso della catena, che la stringeva alla terra. Ma la dolcezza, ch'eragli piovuta nel cuore, provida quanto la rugiada pel campo inaridito, non avrebbe avuto durevoli effetti, se Agnesina, rimettendosi sulla via de' buoni propositi, rimaneva sola a combattere, e non incontrava una voce amica, che le infondesse coraggio. Quella distanza fra il pentimento ed il perdono, che l'anima ravveduta confonde in un sol punto, racchiudeva una serie di dure ed inevitabili prove. Quale sarebbe, e come lunga e difficile l'espiazione, la fanciulla non sapeva dirlo a sè stessa. — Le religiose armonie avevano appunto dissipato le tenebre, rassodato la volontà, rinfrancato il proponimento. Ne' canti di quei divoti aveva parlato la madre sua. La desolata, sollevandosi alcun poco dalla sua umile posizione, aveva chiesto un ajuto; e la pia protettrice era accorsa a lei. Agnesina, trasportata in quel punto entro le mura del vicino chiostro, avrebbe supplicato colle lacrime agli occhi di potervi rimanere finchè le durasse la vita. Per quanto gravi fossero i sacrificj, che le venivano chiesti come arra di sua fermezza, ella avrebbe acconsentito a subirli, meglio contenta che rassegnata; a condizione però, che il primo atto di sua volontà fosse accolto come un voto saldo ed immutabile. La poveretta sapeva con chi avesse a fare; sapeva che il cuore, pronto talvolta a dar tutto sè stesso in un istante, diviene peritoso e malfermo se gli vien concesso tempo di ritornare sopra le sue generose risoluzioni. — E non s'ingannava. Le scosse ricevute la rendevano dubiosa di conservare il dominio di sè. Ogni atto di volontà, ogni virtuoso desiderio, ogni proposito rassomigliava alle orme stampate nell'arena. — Esse attestano, finchè dura la calma, su qual via fosse diretto il passaggero; ma se ferve la tempesta, non appena impresse, si cancellano. IV. Prima di narrare come escisse la fanciulla da questo bivio, è necessario dire chi ella fosse; se pure non fu già colpa, tacendolo fino ad ora, l'aver chiuso la via al lettore di sciogliere da sè la questione, e d'indovinarne la fine, coll'ajuto della storia. Spettava Agnese alla famiglia de' Mantegazzi, nobile casato di Milano, chiaro per sangue e per ricchezze, uno de' più illustri di Lombardia, al tempo che essa si reggeva a popolo, vantando una serie di caldi propugnatori delle patrie franchigie. Narrano i Cronisti Arnolfo e Fiamma, che nel 983, dopo la morte di Gotofredo, essendo stata conferita la dignità arcivescovile a Landolfo, si destò grave corruccio tra il popolo, per l'insolenza e gli abusi di quel prelato e della sua famiglia. Benchè il dominio supremo della città e delle terre dipendenti spettasse ai successori di Carlo Magno quali re d'Italia, i vescovi ed i conti, come feudatarj, vi esercitavano un'influenza immediata e quindi assai più efficace. Nel decimo secolo, morto Ottone II a Benevento nella guerra contro Crescenzio e succedutogli a soli tre anni Ottone III, l'arbitrio de' feudatarj e de' conti era giunto a tale misura, che dire si potevano padroni assoluti, anzichè vicarii di un principe lontano. La giustizia stava pel popolo, sì mal governato da chi doveva essergli modello di pietà e di pace; ma l'interesse (come avvien sempre) creava de' parziali all'autorità ed alla potenza di chi sedeva in alto. Alle parole di sdegno del popolo risposero le più odiose concussioni di chi lo reggeva. — Riuscite vane le rimostranze, i malcontenti ruppero in clamori sediziosi, indi in aperta rivolta. In quell'epoca i governanti non possedevano tutti que' mezzi, che valgono oggidì a sorreggere il potere contro la volontà di un popolo mal governato. L'uomo valeva l'uomo: il ferro della malconcia sbirraglia, che assiepava la persona del principe, non era meglio temprato del ferro, di che s'armava il popolano. — L'esito d'ogni contesa dipendeva più dal numero, che dall'impeto e dalla sagacia de' combattenti. Si venne alle mani; e dopo vane avvisaglie toccò all'arcivescovo una piena sconfitta, sì che a stento ebbe salva la vita, ritirandosi dalla città co' fratelli e cogli amici, e abbandonando alla discrezione de' vincitori il padre, che vecchio e stremo di forze non si era condotto al campo. L'arcivescovo Landolfo dopo la rotta si diede con ogni potere a raggranellare forze per riavere la sede perduta. Stipendiò raccogliticci, largheggiò agli avventurieri le rendite della sua chiesa, e con un esercito abbastanza poderoso si fece incontro ai Milanesi nel campo di Carbonaria, sfidandoli a battaglia. Ma anche qui la sorte gli fu avversa; e per la seconda volta dovè ritirarsi davanti all'irrompente foga del popolo. In questa battaglia, oltre a un gran numero di prodi, periva miseramente un tal Tanzino de' Borri, riputato il fiore de' cavalieri milanesi. Un suo famigliare o scudiero, accecato dal dolore di tal perdita, rientrando in città, corse come forsennato al palazzo dell'arcivescovo, e, non sapendo su chi sfogare la sua vendetta, uccise Bonizone, vecchio capitano, padre dell'arcivescovo. — Questo scudiere chiamavasi Mantegazzo; ed è da lui, dice il Fiamma, che ebbe origine la famiglia di questo nome. Altri storici, e fra questi il Giulini, non s'accomodano in niun modo a tale racconto dei vecchi cronisti; credendo vituperoso, che una nobile schiatta proceda da sorgente sì impura. — Ma poichè i posteri non hanno merito delle virtù, nè colpa dei delitti degli avi, pare che non si faccia torto alle successive generazioni nel ripetere questa istoria, e nell'ammetterla come probabile, fin tanto almeno che non ci sia dato di trarre in luce qualcosa di più degno o di meno incerto. Checchè sia dell'origine di questa famiglia, è fuor di dubio, che subito dopo il mille, essa era insigne e potente. Nella storia milanese si fa parola di un Boschino Mantegazza condottiero d'armi del secolo undecimo. Egli fu signore e patrono di una vasta terra, situata sul confine dei contadi di Milano e Pavia, in vicinanza di Vidigulfo, resa celebre da una sanguinosa battaglia seguita nel 1061 fra le popolazioni delle due città: in essa fu tale la strage, che tutto il suolo rimase coperto di cadaveri. — Da questo fatto quella terra, acquistò il nome di Campomorto; e da Boschino ereditò la famiglia sua l'investitura della medesima. — Il capitano milanese fece edificare un tempio votivo sul campo della battaglia; e ad eterna testimonianza di sua vittoria fondò ed arricchì con splendida dote un albergo pei pellegrini. Giovanni suo figlio combattè giovinetto a Campomorto; e, scampato prodigiosamente all'eccidio di quella giornata, coltivò per lunga serie d'anni le arti della pace, e fu per equità e per senno tenuto in gran conto presso i suoi concittadini. Fregiato del titolo di padre della patria, venne eletto árbitro in varie contese civili, e nel 1123, essendo giunto ad età quasi decrepita, definì e compose le scandalose dissensioni tra le podestà clericali di Milano. Tra i consoli della città nell'anno 1143 havvi un altro Giovanni Mantegazza, che non sapremmo dire se fosse figlio o nipote del primo. Tutti i decreti e le sentenze che si promulgarono durante la republica milanese, emanavano dai consoli, che solevano apporre a tali atti nome e suggello. — Ma a rendere meglio accetta la legge, quasi sempre ai nomi de' consoli seguivano quelli di alcuni cospicui cittadini, che ne avevano sorvegliate le deliberazioni, garantendo colla loro adesione l'incolumità della republica. Quest'adunanza, che aveva un officio consultivo e, a proprio dire, costituiva un senato, chiamavasi collegio dei sapienti, o con altro nome _credenza_. Tra i membri di essa riscontriamo nel 1156 un Guglielmo, nel 1170 un Ardicio ed un Algiso, tutti della famiglia Mantegazza. Un secolo più tardi, quando la libertà de' Milanesi era travagliata dalle ire di parte fra Torriani e Visconti, a frenare la potenza de' primi, che accarezzando le passioni del popolo erano saliti a minacciosa grandezza, surse Ottone Visconti arcivescovo e capitano, egualmente insigne. — Fra le sue imprese più segnalate, dirette ad infiacchire la fazione avversa, è dagli storici singolarmente celebrata la presa del castello di Seprio, dove Guido da Castiglione, parziale de' Torriani, racchiudeva il nerbo della sua forza. Ottone, raccolti all'uopo i valligiani d'Ossola, li armò di tutto punto, ed inebriatili colla promessa di ricco bottino, li condusse la notte del 28 marzo 1287 sotto le bastie di Seprio; mentre le scolte torriane, infingardite da lunga tregua, s'abbandonavano al riposo. Il numero e l'impeto degli assalitori e la rilasciata disciplina degli assaliti decisero in brev'ora le sorti di questo fatto d'armi. — Le porte del castello furono súbito abbattute; e le guardie nemiche, calate le armi, rimisero nelle mani del vincitore le chiavi della rocca. — Ottone diè libera uscita agli armati, e assecondando la sospettosa gelosia del popolo milanese, comandò che venisse spianato quel covile della tirannide, e ne proibì in perpetuo la riedificazione. Questo avvenimento accresceva la potenza de' Visconti di quel tanto, che era stato tolto a' Torriani; ma risvegliava ad un tempo contro Ottone que' sospetti, che prima aveva egli suscitato contro i suoi nemici. Imperocchè presso la maggior parte de' milanesi, a mantenere le apparenze della libertà, aveva contribuito fin allora il fatale equilibrio dei due emuli partiti. La sorte, concedendo la vittoria ad Ottone, non solo non sciolse la questione, ma non giunse tampoco ad assopirla. Gli amici de' Torriani e de' Visconti parteggiavano per questi o per quelli a seconda degli impulsi momentanei, e pigliando legge dall'interesse; ma il popolo, che in cima ad ogni suo più caldo affetto, poneva quello della libertà, consentaneo a sè, disertava di solito la causa del potente, per accostarsi al partito del debole: giacchè dal vincitore poco poteva sperare, tutto aveva a temere. La sconfitta de' Torriani a Castel Seprio aveva dunque ristorato il partito dei vinti. Gli sguardi de' popolani cangiavano punto di mira, senza rendersi perciò meno sospettosi. Già si mormorava in Milano contro la fortuna d'Ottone; ed i più ardenti cittadini pronunciavano fuor d'ogni mistero parole sediziose. Ottone pertanto ricorreva al solito mezzo de' potenti; la forza. Lasciando che una gran parte di popolo arrovellasse in cuor suo, oppose agli sdegni di esso tutto l'apparato delle sue armi. — Allora si vide la città brulicare di sgherri istrutti a sciogliere le capannelle, a frenare le discussioni, ad impedire i tumulti. Ogni porta della città fornì alla signoria un drapello di 50 uomini guidati da un capitano; ed è a quest'epoca, se prestiamo fede a Tristano Calco, ed al Corio, che si instituì col nome di Provisione, una magistratura di dodici individui, eletti ad ogni bimestre e sedenti nel Broletto vecchio, per provedere in un coll'arcivescovo alla sicurezza della republica; magistratura che, snaturata nelle varie fasi storiche di Lombardia, conservò il suo nome fin presso a' nostri giorni. La vigilanza del Visconti non fu soverchia. Quando la forza materiale soffoca la parola, il pensiero matura in silenzio. — Chi tenta uccidere un'idea, comprimendola in ogni sua spontanea manifestazione, rassomiglia a colui che s'avvisa di togliere la vita ad un arbusto, spiccandone i freschi germogli. Ei spesso non ottiene il suo intento, anzi fa opera da buon cultore; poichè, sotto questo modo di persecuzione, il virgulto rassoda la fibra, e, se nacque debole e mal fermo, cresce poi vegeto e vigoroso. Le cospirazioni allignano tra le strettezze ed il bujo; Ottone il sapeva. Forzando ad un ingiusto silenzio il suo paese, previde che quel ringojare inesaudite tante giuste aspirazioni avrebbe spinto il popolo a tramare in segreto contro la sua autorità. — Non andò guari infatti, ch'ei scoperse una imponente congiura. Un tal Ruggiero Damiani, preso in sospetto di favorire il ripristinamento della fazione torriana, venne imprigionato. Fermo da principio a respingere ogni accusa, fu posto alla tortura; nè questa fallì al suo tristo scopo, perchè l'infelice svelò tra i tormenti le fila di una vasta cospirazione, e numerò, veri o falsi, i nomi de' suoi complici. Troviamo ravvolto in quella congiura, anzi fra i principali autori di essa, un Paolo de' Mantegazzi. — Meditò costui con Guido Cusani, con un Cutica, un Maineri e un Bescapè di richiamare i della Torre e di collegarsi col marchese di Monferrato. — Ottone, poichè, ebbe conosciuti i suoi avversarj, cessò dal temerli, ancorchè numerosi e potenti. Sventata la trama, fu pel suo secolo assai mite nel punirla. Fiaccò il nemico col dividerlo ed impoverirlo: lasciò da banda i supplicj che lasciano un postumo di livori e di vendette, e relegato il Mantegazza in Bobbio, i suoi compagni in altre terre, usufruttò i beni de' taglieggiati a pro dello stato. V. Anche in mezzo al trambusto delle fazioni e fra l'attrito di una vita civile esercitata in publico ed allo scoperto, il governo del Comune milanese, mite e provido rispetto ai tempi, attendeva all'ordinamento delle sue leggi. Fino al secolo duodecimo erano leggi le consuetudini patrie sancite dalla sapienza de' nostri maggiori, convalidate dal tempo e dall'uso, ed aventi forza obligatoria per tutti. A questo modo l'autorità della legge era fondata sul vero spirito di essa, potendosi dire, a rigor di parola, essere la volontà dei più l'árbitra della republica. Legislatori erano i capi di famiglia. — La pratica di un'arte, l'onorato esercizio di un'industria, e financo, quale testimonio di matura esperienza, la sola canizie quand'essa è incontaminata, erano titoli ad eleggere, o ad essere eletti rappresentanti del popolo. La _malliola_, tavola metallica somigliante allo scudo dei Celti, che percosso da un martello rendeva un suono stridente, li chiamava a raccolta; poichè in allora le campane erano un oggetto di lusso, e le lettere d'avviso non sarebbero state comprese da quella buona gente, la più parte illetterata. La publica piazza, di cui talvolta un lato soleva coltivarsi ad ajuole (come lo attesta il nome di broletto), era il luogo di convegno; ed uno sgabello ricinto da una balaustra costituiva la _parlera_, ossia la tribuna degli oratori. Ma la legislazione, che emanava da un tale sistema, semplice nel suo concetto come gli uomini d'allora, diveniva nella applicazione farraginosa e poco maneggevole: perocchè mancando le disposizioni generali e sommarie, che provedono al più gran numero di casi, reggevansi i singoli a norma dei tempi e delle circostanze. Erano miste colle buone consuetudini le meno buone; alcune venivano esautorate da un condannevole disuso; altre, perdurando ancorchè inutili, paralizzavano e rendevano inefficaci le necessarie. — Vero è, che quella grande famiglia viveva in una specie di stazionarietà morale; ma questa era più apparente che reale. Il mondo a passi lentissimi, compiva pur sempre nelle indispensabili sue fluttuazioni un piccolo movimento verso la civiltà, la quale, proscrivendo a lungo andare le viete costumanze, creava nuovi bisogni. Infine tutte queste leggi, le necessarie come le superflue, le stabili e le transitorie, le politiche e le economiche erano sparse e confuse; taluna scritta fuor d'ordine, tal altra perfino non registrata in alcun documento publico, e raccomandata soltanto alla memoria di chi doveva farla osservare. Non è a dire che in quella mole di decreti e di leggi non vi fosse del buono; ve n'era e molto, fatta ragione ai tempi: ma quel tanto andava confuso tra il superfluo e l'improvido, non come il grano prima di essere svestito e vagliato, che pur sempre è grano; ma come l'oro natío ammalgamato col terriccio, che pare materia vile, finchè non è sottoposto agli argomenti dell'assaggiatore. Il novarese Brunasio Porca, assunto alla podesteria di Milano nel 1216, fu il primo che avvisasse a raccogliere le consuetudini del Comune in un corpo di leggi. Chiamò egli a sè alcuni fra i più discreti personaggi della città, e li invitò ad occuparsi con giurato zelo di tale officio. — La compilazione fu condotta a termine con grande studio: ma solo molti anni più tardi la città nostra ebbe il primo suo codice, diviso in 18 rubriche e riconosciuto sotto il nome di _Statuti_. Per essi fu determinato la spettanza di ciascun magistrato. Il podestà, investito del potere esecutivo, doveva vegliare all'esatto adempimento delle leggi; ma non poteva nè alterarle, nè in caso di dubio applicarle senza l'approvazione delle _credenze_. Stabilivasi di quali membri, e di quanti, doveva comporsi ogni credenza, variandone il numero e l'importanza a seconda della questione cui era chiamata a definire. Affidavasi infine ad una speciale magistratura il sindacato della gestione dei podestà, de' Consigli e degli officiali della republica. — La prima promulgazione degli Statuti fu fatta solennemente dalla loggia degli Osii nel 1251, essendo podestà Giovan Enrico da Ripa. Ma le leggi non possono essere immutabili in una società, che s'avvia al suo incivilimento. Gli statuti perciò apparvero ben presto incompleti; nuove leggi si dovettero emanare, onde riempirne le lacune; e intanto queste aggiunte, volute dalla necessità, ingrossavano ad ogni istante, e creavano gli antichi imbarazzi. Solo un secolo dopo, nel 1348, Luchino Visconti affidò ad un collegio di sapienti la nuova compilazione degli statuti. — Componevasi quel collegio di _giurisperiti_ e di _morum periti_: dotti i primi, gli altri gente onesta ed esperta. Appartenevano ai primi, per dir di alcuno, un Leone Dugnani ed un Manfredo Serizoni, personaggi già cospicui per avere onorevolmente trattata la pace fra i milanesi e la corte d'Avignone; gli altri erano cittadini estranei alle cavillazioni del foro, ma in quella vece esperti degli usi del paese e bene accetti ad ogni ordine di persone. Con poche varianti furono gli statuti riordinati e messi in pieno vigore nel 1396 durante il governo del primo duca, e ressero inalterati il nostro paese finchè divenne provincia di Spagna. — La Spagna, che imprese a civilizzare il nuovo mondo col ferro, riportò da esso, co' tanti milioni in oro ed argento, una tristissima esperienza di governare i soggetti. Ripudiate le antiche violenze, che cangiano i popoli conquistati in altretanti nemici e tengono vive le speranze della rivincita, divisò d'abbatterli, spegnendo in essi ogni sentimento patrio, ogni coscienza de' proprj diritti. Arrivò a questa meta per varie vie, e con diverse arti; nè ultima tra esse fu per noi quella d'infirmare e d'abolire gli statuti patrii, per sostituirvi le sue _nuove costituzioni_, ammasso incóndito di leggi strane ed improvide, che partorirono forse più funesti effetti delle catene e dei supplizj. Ho fatto cenno dell'origine della nostra legislazione come per incidente, condotto a ciò dalla circostanza che nelle varie fasi di essa ebbe sempre parte alcuno della famiglia, di cui è discorso. — Ne valga un esempio. — Nell'elenco de' più cospicui personaggi di Milano fatto nell'anno 1277 da Marco de' Ciocchi, cancelliere della curia, onde sottoporre alla scelta dell'arcivescovo tutte le persone degne d'essere elette a rivedere e correggere gli statuti, troviamo registrato il nome de' Mantegazzi. Successivamente, in epoche prossime a quella cui risale la narrazione, parecchi di questo casato ebbero posto distinto nella storia patria. Ne citerò alcuni a compimento delle poche notizie, che ho raccolto intorno ad esso. Antoniolo Mantegazza fu tra i dodici questori l'anno 1409. Bertone congiurò coi Baggi e coi Del-Maino contro il duca Giovanni Maria Visconti, e lo ferì mentre attraversava i suoi appartamenti per recarsi alla chiesa di S. Gottardo il giorno 16 maggio 1412. Giovanni fu difensore della libertà del popolo l'anno 1447, durante la breve e fortunosa republica ambrosiana. Nel 1518 quando Isidoro Isolani pronunciò innanzi al Senato, agli ambasciatori ed al Lautrecht, legato di Francesco I, un ampolloso discorso intorno alle vicende del ducato di Milano, e ne portò alle stelle le glorie e gli eroi, nominò tra questi i Mantegazzi. Altri di tal nome spettarono più tardi a quell'insigne collegio di sapienti, di cui disse il Crescenzi. “Non uscirono dalle academie d'Atene tanti filosofi legislatori, quanti dal milanese collegio eminenti dottori; che se non hanno dato legge agli imperi, hanno almen dato legge co' loro sensi alle leggi degli imperatori[1]„. Si dirà che queste notizie ci fanno deviar troppo dall'argomento. — È vero; ma, nel chiederne scusa a chi legge, l'avvisiamo fin d'ora, che quante volte ci verrà dato di scordare le private e minute vicende per risalire alle publiche e più importanti, non mancheremo di farlo; persuasi che il benevolo lettore, invece di accusarci d'aver violate le leggi dell'arte, ci saprà grado d'avere per un momento posposto l'accessorio al principale, il racconto alla storia. VI. Quando nacque Agnesina, la famiglia sua viveva affatto privatamente in Milano. Tale abbandono delle publiche cure durava spontaneo da più anni; dall'epoca, in cui l'avo della fanciulla (Boschino egli pure di nome) aveva colle armi alla mano spento un resto di vitalità della fazione torriana, suggellando col sangue de' suoi concittadini e col suo il termine delle discordie intestine. — Questo fatto gli ebbe aggiunto tale autorità, che incontrando egli un dì le soldatesche imperiali ostilmente atteggiate presso la curia (Cordusio) le costrinse a ringuainare le spade, già pronte a ferire gli inermi, colla sola sua presenza e al patriotico grido di viva Galeazzo Visconti. Ma dato giù il bollore di quella vittoria, alla stretta dei conti, ben s'avvide che il frutto di essa era scarso ed amaro. — Pungevalo anzi tutto il pensiero d'avere coll'opera sua cresciuta di troppo la potenza dei Visconti a danno della libertà, e più ancora s'inaspriva all'idea che gli amici cangiati in padroni erangli divenuti ingrati. — E in cuor suo la sconoscenza di coloro, pe' quali aveva speso il sangue de' suoi fratelli, era una piaga, che non aveva rimedio. Ripose le armi, e abbandonò la città, giurando che egli e il figlio suo non le avrebbero mai più imbrandite. Ritiratosi nella sua terra di Campomorto, pose ogni studio a rassodarne il suolo, da lunga mano intristito e selvatico; e, colla scorta delle dottrine agricole, edite appunto allora ne' dodici libri di Piero de' Crescenzi bolognese, fece rifiorire i campi, migliorò lo stato de' suoi coloni, e risvegliò l'emulazione de' vicini. — Spedì il figlio Maffiolo all'Università di Bologna, che allora era già in fiore; poi a Firenze; indi a Pisa, dove erasi inaugurata una cattedra di commenti alla divina Comedia; lo richiamò infine a Pavia, quando i dotti d'Insubria ivi convenuti preconizzavano le glorie di quell'Università, che pochi anni dopo veniva fondata ed arricchita dal secondo Galeazzo. Maffiolo entrò nei disegni del padre, e li assecondò religiosamente. Consacrandosi allo studio delle lettere e cooperando al loro risorgimento, riescì utile alla patria, anche senza pigliar parte alle troppo frequenti sue lotte. — Cercò ed ebbe cara l'amicizia dei dotti; e, fissatosi di nuovo in Milano dopo la morte del padre, usò famigliarmente col Petrarca, che alternava la sua dimora fra la città ed il suburbano Linterno. Guidato da sì grande maestro, ripigliò con maggior calore lo studio de' classici. Per avviso di lui, e colla sua scorta, frugò nelle polverose pergamene de' chiostri, lesse, decifrò gli antichi codici, e se non ebbe la fortuna di diseppellir tesori, potè almeno vantarsi d'aver avuto parte nell'illustrare un brano delle _questioni tusculane_, le quali, al dire del maestro, erano state sì maltrattate dagli scrivani, da credere che riescirebbero cosa nuova allo stesso loro autore. Fra i cinquanta copisti, che esistevano a' suoi tempi in Milano, ei potè a buon dritto vantarsi d'essere il principe, e ne diede prova riproducendo il Tesoro di Brunetto Latini su candidi fogli usciti dalla cartiera di Pace da Fabiano, che poco prima aveva tratto dalla Germania l'arte di fabricar carta di lini. Il suo lavoro fu condotto a tal grado di correttezza e di perfezione da svergognarne il Crotto da Bergamo, l'Aldo de' suoi tempi. Maffiolo possedeva quanto può rendere felice un uomo. — In quel secolo di continue violenze, di gare e di lotte incessanti, egli, tra i pochi privilegiati, godeva la vera pace del cuore; non la pace noncurante ed egoistica, che vive di sè, e si fa scudo co' proprj interessi alla pietà de' mali altrui; ma quella vigile ed operosa, che scongiura il male prevenendolo, che fa ravvisare le cose di quaggiù dal lato meno tristo, che guida ad accomodarvisi senza pompa di rassegnazione. — Egli era ricco: e, per la sobrietà de' suoi costumi più ricco de' suoi pari, tesoreggiava su quanto altri chiamano necessità della vita, per essere largo coi bisognosi. — La sua stessa dottrina riesciva tanto più atta a crescergli stima, in quanto che era una potenza nuova e superiore: e il vulgo ammira e venera ciò appunto che meno comprende. — Nè il suo elevarsi fra i pochi dotati di una più vasta cultura di spirito, lo rendeva schivo e difficile colla folla degli ignoranti; anzi, rifuggendo dalle vuote dottrine, che evaporano in cavilli e scilomi, cercava quella, che ha una pratica applicazione, e che lo rendeva utile di consigli e d'opera a coloro, che ricorrevano a lui. — Lo studio dei classici era la parte più riposata della sua esistenza; il nerbo di essa consacrava a definire private querele, a comporle, a ravviare le imprese più ardue, a proteggere gli oppressi ed i pusilli. — E, cosa rara, seminando beneficii a piene mani, non si doleva (come avviene per solito) di raccogliere ingratitudine; forse perchè soleva trattare con tal classe che non isdegna riconoscere l'altrui superiorità; e, senza forse, perchè, condotta a termine una buona azione, si gittava tosto e tutto cuore in un'altra, senza aspettare o pretendere mercede qualunque delle compiute. Il cielo lo aveva giustamente premiato accordandogli la più bella, la più saggia compagna in Gabriella degli Omodei, fanciulla milanese, che accoppiava alla più squisita leggiadria del corpo quell'eletto profumo di virtù, che si rassoda cogli anni, e prepara un largo compenso alle fuggevoli attrattive della giovinezza. Troppo lungo e difficile sarebbe il porgere un ritratto fedele di questa duplice beltà; quando essa raggiunge l'ideale della perfezione, meglio è lasciarla indovinare, che tentare di descriverla. — La virtù modesta non vuol troppa luce; e l'inestimabile tesoro di dolcezze, che una sposa bella e virtuosa reca in mezzo alla sua famiglia, è cosa che, se è ben compresa dagli animi gentili, riesce sempre, a dispetto di ogni magistero di parole, un enigma per chi incrudì il suo cuore nell'attrito delle passioni vulgari, ed apprese a dubitare di ogni cosa, e sopra tutto d'ogni cosa buona. La prima fase di così felice unione fu, come l'aprile dei poeti, fiori e speranze. — Entrambi facevano mille progetti per l'avvenire: discutevano intorno alla sorte de' loro figli, come se ne avessero già un subbisso: facevano i più dorati sogni sull'ineffabile felicità di vedere ringiovinito e perpetuato il loro amore nell'amore della prole. Ma ogni anno traeva seco una speranza delusa; e, benchè la privazione non rallentasse menomamente i legami d'amore, il dubio fatale della solitudine lasciava loro nel fondo del cuore un vuoto, che niun altro affetto poteva riempire. Passarono due lustri senza alcun mutamento. Maffiolo, nella speranza di rendersi più propizio il cielo, ritrattò il voto, forse troppo severo, di suo padre, e promise solennemente, che se avesse avuto un figlio maschio, lo consacrerebbe alle armi. — Passato il governo di Milano nella signoria de' Visconti, giurò di scordare gli antichi livori, e di difendere la patria nella potenza de' suoi signori con quanto avrebbe di più caro, la vita del proprio figliuolo. — E Gabriella?... Stempravasi, poverina, in preci, in pie offerte, in ardere ceri benedetti; nè tralasciava di consultare empirici ed indovini, per aver rimedi e scongiuri contro la fatale sua sterilità. Correva l'undecimo anno di matrimonio. Gabriella non era più la giovane donna, dalle gote color di rosa, dalle labra sempre sorridenti, dalle forme esili e pieghevoli. La leggiadria della sposa cedeva alla bellezza della matrona; bellezza più maestosa e severa, quantunque alcun poco sbattuta dal languore proprio alle donne defraudate delle gioje materne. — Maffiolo non aveva contratto dall'assueta convivenza la fatale freddezza sì facile in chi gode, di pieno diritto e senz'ombre, un tesoro. — Egli trovava nella sua sposa gli stessi pregi; anzi parevagli che la mansueta rassegnazione, a cui da qualche tempo era composto il suo viso, gli crescesse soavità ed avvenenza. Sedeva egli un giorno nel suo studio davanti ad uno stipo, e tutto curvo sullo scannello, s'occupava a colorire il frontispizio di un elegante libro liturgico ad imitazione di quelli, che aveva ammirato presso i frati minori di Firenze, insigni in quest'arte. Era un ricchissimo esemplare di caratteri gotici estremamente smilzi, dipinti a varii colori e ripartiti con elegante artificio sur un lucido foglio di cartapecora. La riga superiore, più majuscola e quadrata, era colorita di vivacissimo minio, ed ogni contorno chiudevasi da minute pagliette d'oro. Le altre variavano di tinte e di forma; l'una pavonazza e d'argento, l'altra di schietto oltremare, l'ultima tutta d'oro. A legare insieme quel quadro correvano in ogni senso i più bizzarri ghirigori, che parevano gittati giù a caso; alcuni di essi, appena visibili, legavano l'una lettera all'altra, altri gonfii e sfogliati lasciavano sbucciare qua e là fiori e frutta di squisitissimo lavoro. Una cornice, miniata alla stessa foggia, correva in giro alla pagina; e ciascuno de' suoi membretti rinchiudeva differenti meandri coloriti con pari vivezza ed armonia. Solo ai quattro angoli v'erano spazii liberi, entro cui bamboleggiavano puttini, e svolazzavano bende di vario colore in campo dorato. — Tutti questi ornamenti segnati con alquanta aridezza mancavano di rotondità e rilievo; ma in cambio brillavano per la soavità del disegno: scopo unico, a cui miravano a que' giorni i ristoratori dell'arte. Maffiolo, tutto occupato nell'imprimere un sorriso sul volto di uno di quegli angioletti, e nello staccare l'oro arsiccio delle chiome da quello del fondo, non s'accorse di una sorpresa, che gli veniva preparata dietro le spalle. Gabriella a passi misurati e leggieri entrava inavvertita nel gabinetto; e giunta fin presso allo stipo, tendendo le braccia sopra la spalliera della sedia, imponeva leggermente le mani sugli omeri dello sposo, mentre si curvava su di lui, tanto che il suo volto gli giungesse all'orecchio, e gli impedisse di volgersi e ravvisarla. — In questa postura gli sussurrava intanto con voce sommessa alcune parole, che, per un tratto squisito di pudore, non soffriva gli fossero lette in viso. “Oh mille volte benedetto il Signore, sclamò Maffiolo, levandosi da sedere, e sciogliendosi da quella stretta, per abbracciare alla sua volta chi le annunciava la buona novella. Sposa mia, mia dolcissima Gabriella, soggiungeva, compendiando in questo affettuoso vocativo tutta la piena della sua tenerezza: tu dici il vero? il cielo ci ha dunque esauditi? Non saremo più soli: non morrà il nostro nome con noi?„ Poi staccandosi alcun poco da lei, e ponendole una mano sotto il mento, tentava di fissarla negli occhi. Ma con ingenua ritrosìa Gabriella facevagli violenza, evitando di incontrare i suoi sguardi, vergognosa forse di non sapere esprimere la propria commozione altrimenti che colle lacrime: quindi ella pure esclamava: “Oh benedetto, mille volte benedetto il Signore.„ Il manoscritto, imaginatelo, non riescì a quella perfezione, cui pareva avviato. Da quel dì, e per una lunga serie di giorni, invano si sforzò Maffiolo di incatenare la sua mente sui consueti lavori. — La fantasia correva sfrenata in un campo d'ipotesi l'una più ridente dell'altra; il dabben uomo aveva obliato ogni sua diletta abitudine, fuor una: — quella di far del bene quanto e a quanti poteva. CAPITOLO SECONDO VII. Vuoi tu scoprire la virtù vera, ed imparare a conoscerne le gradazioni infinite? Studia l'uomo colpito dalla sventura: il campo, fatalmente, non sarà sterile alle tue ricerche. — La sventura rassomiglia al crogiuolo sottoposto all'azione del fuoco: questo scompone la materia, respinge le particelle vili o superflue, ritiene le nobili: quella, scuotendo ogni fibra, ed elaborando i più nascosi sentimenti, fa che brilli in piena evidenza, libero e scevro da pregiudizj, ogni riposto àtomo di tolleranza, di generosità, di rassegnazione. — Dietro un tale procedimento, quante volte la più gretta esistenza si rialza bella di un sublime eroismo? quant'altre volte per esso troviamo l'orpello in cambio dell'oro, e la virtù dei tempi felici ridotta a ciurmeria da scena? — Il dolore è quaggiù l'aureola del giusto; e, mercè la sua proprietà depuratrice, diviene spesso la redenzione dell'uomo colpevole. Maffiolo subì una terribile prova; più terribile per lui, perocchè la sventura si versava sul suo capo, mentre sognava allegrezze. — Pure ne uscì degno della sua antica virtù; quel dì, in cui esultò al dolcissimo annunzio che era divenuto padre, segnava l'ultimo periodo di vita dell'amata sua donna. Un malore violento ed indomabile la riduceva in pochi giorni alla tomba. Dipingere gli spasimi di Maffiolo sarebbe impresa più che ardua, temeraria. — Non creder sempre a quel dolore, che erompe in istrida e contorcimenti. La ferita da cui geme il sangue in abbondanza non è di solito la più dolorosa; quella invece, che non mostra nè cicatrice nè grumo, sanguina nelle cavità, e cagiona strazii senza misura. — Maffiolo, dopo un primo istante di gioja, previde a qual patto il cielo aveva appagato le sue brame. L'avvenire era oscuro; la speranza in vero vi mesceva qualche conforto; ma colla speranza era il dubio, col dubio l'angoscia. Lo stato di Gabriella si fece tosto assai grave; e l'infelice sposo, che non l'ignorava, sapeva mostrarsi calmo e confidente in faccia all'inferma, per non aggravarla del suo dolore. — Preparato ad una probabile separazione, fece tesoro di quegli ultimi giorni; non si staccò mai dal letto dell'ammalata; e le prodigò cure e conforti coll'intelligente solerzia delle donne, che hanno il privilegio della pietà operosa verso chi soffre. Le ore passavano lente; ma i progressi del male erano rapidissimi. — Al quindicesimo giorno Gabriella era in fin di vita. — Consapevole del doloroso sacrificio ma rassegnata al volere di Dio, ella invocava, spirando, ogni benedizione sul capo delle amate creature, che era costretta ad abbandonare. Un cupo e disperato dolore pingevasi sul volto di quanti le stavano intorno; quello della morta era calmo e sorridente. Il pallore diafano delle sue carni e le candide pieghe dei lini circostanti la rassomigliavano ad una statua di marmo coricata leggiadramente sopra un sarcofago. Maffiolo non abbandonò la spoglia della sua cara donna alla pietà venale dei piagnoni. Egli volle ornarla degli abiti di sposa e cingerla sulle tempia di una corona di sempiterni; egli stesso la depose nella bara; poi la seguì alla chiesa, e l'accompagnò alla terra di Campomorto, dove scese con lei a visitare la stanza mortuaria de' suoi maggiori. Muto, affranto, privo del conforto di una lacrima, volle compiere fino all'ultimo il doloroso officio: e gli bastarono le forze. — Quando vide scendere il feretro allato a quello di suo padre, ruppe il silenzio per comandare, che fra le due bare si lasciasse uno spazio capace di una terza. Poveretto! egli sperava di raggiunger presto i suoi cari. Ma non appena rivide la sua diletta creatura, ripudiò ogni idea funesta, e si pentì d'aver disamata la vita. Le sembianze della bambina, per una privilegiata intuizione dell'amore, gli ricordavano quelle della perduta compagna. Davanti ad esse il suo dolore aveva finalmente ottenuto uno sfogo; per vederla bisognava vivere: egli tornò ad amare la vita. L'infanzia d'Agnesina (tale era il nome della fanciulla) fu, come spesso, una serie di giorni sereni colle rade vicende di lievi rabbuffi, inseparabili da una educazione amorosa e severa ad un tempo. — Suo padre, benchè inclinato all'indulgenza, non spingeva la tenerezza fino al punto di divenir cieco sui difetti della bambina. Egli poneva tutto il suo amore a svolgere nel cuore e nella mente di lei le virtù materne. Agnesina era bellissima; guardandola pel minuto rassomigliava molto alla madre; gli occhi avevano la stessa forma, la stessa tinta; era simile il contorno del volto, pari la soavità del sorriso. — Ma la bellezza di costei aveva qualcosa d'essenzialmente proprio. — Le gote assai colorite e lo sguardo sicuro e penetrante le davano un'aria alcun poco maschile. Un non so che d'avventato e di fiero rivelava un carattere forte ed una volontà decisa. — Non mentivano gli amici di Maffiolo quando gli dicevano, che Agnese riuniva in sè i pregi dei due sessi. E infatti il presagio s'andava ogni anno confermando. La fanciulla aggiungeva ad una beltà sempre crescente una prontezza di spirito ed una vigoria di membra non comuni al suo sesso. Sfuggiva volontieri alla vigilanza della sua governante: ne' giochi non isdegnava associarsi ai fanciulli coetanei; onde, spregiate le bambole, sovente pigliava spasso alle infantili finzioni di opere vigorose ed ardite. In ogni esercizio del corpo, essa non era meno snella nè meno audace de' suoi compagni. Le gonne non le davano impaccio a correre ed a saltare; seguiva sempre i più audaci, e faceva coraggio ai più timidi. Se qualche volta la sua storditaggine le fruttava una caduta, oppure qualche graffiatura o ferita, sapeva nascondere a tutti l'inconsideratezza e il castigo, e dissimulava il dolore ed il sangue con una forza d'animo superiore alla sua età. Quando poi era sola o rifinita di forze, piuttosto che rimettersi in balía della governante, amava introdursi nello studio del padre ed assistere alle sue letture. Ci è lecito dubitare che ne comprendesse per intero il senso: forse le bastava di connetterlo a modo suo dietro qualche frase o parola meglio intesa; forse anche si compiaceva soltanto di gustare la tuonante magniloquenza de' dialettici, o l'armonia dei poeti provenzali. Ma quando poi udiva ripetere in iscorrevole vulgare le storie di magnanime gesta, d'imprese generose, oh con quant'anima ella vi pigliava parte! Come era commossa al sentir narrare le sciagure della gente virtuosa; come s'irritava alla consueta tirannia de' potenti; con quanta sospensione d'animo attendeva lo scioglimento del racconto; e se vedeva premiato il buono, e punito il malvagio, oh come le sgorgavano libere e soavi le lacrime!.. Questo ritorno alla squisitezza de' sentimenti muliebri non era frutto soltanto di una fantasia fervida e subitanea. — Le impressioni ricevute dalla lettura o dai racconti duravano in lei il tempo necessario a toglierle il riposo, ad interdirle le solite ricreazioni, a renderla, lunghe ore, intieri giorni, impensierita e silenziosa. Gli accessi di sensibilità non si restringevano ad un cruccio intimo ed infecondo di buone opere; poichè a temprare lo strazio, cagionatole dal male altrui, usava dell'unico ed infallibile rimedio: quello d'alleviarli con quanti mezzi fossero in poter suo. E siccome non sempre giungeva a recar consolazione a chi le aveva cagionato dolore, pagava il suo debito di carità verso la sventura ovunque ella fosse, dove prima l'incontrasse. — La fanciulletta aveva, nell'ingenuo suo linguaggio, parole di conforto per tutti: la sua era l'eloquenza, che conosce le vie del cuore; quella che tempera i mali altrui col dar certezza d'averli almanco compresi, col ridestare la speranza in chi soffre; alla peggio, coll'associarsi a lui nella preghiera e nel pianto. Alla miseria positiva e materiale soleva offrire più facile ed adequato soccorso; si spogliava con spensierata prodigalità di quanto era suo proprio, per fino de' più cari oggetti, de' più vagheggiati giojelli; taciamo delle molte volte, che divideva col povero, non veduta da alcuno, la refezione ed il pane. Queste erano le sue gioje delle ore tranquille. — La solita pompa di trastulli, d'ornamenti, di vezzi, le tante inezie, sì care all'età sua ed al suo sesso, non erano cose per lei. — Ristorato l'animo con una buona azione, Agnesina tornava ad essere la storditella di prima. Poco o nulla aveva ad operare l'educazione sul suo cuore, poichè esso era ottimo; ed ogni studio doveva riporsi a conservarlo tale. Quanto a domare alcun poco l'inconsideratezza del suo carattere, meglio ch'altro, valeva il crescere nell'età. Sui dieci anni, infatti, ella aveva perduto pressochè interamente quel fare baldo ed irrequieto, sì disdicevole ad una fanciulla; ai dodici, era divenuta tanto composta e riservata da essere modello alle compagne. — Ma il suo cuore era sempre lo stesso: anzi quell'imbrigliare ogni sua libera manifestazione, non faceva che infervorarne vieppiù i sentimenti, e renderne più validi e durevoli gli slanci. Meno facilmente essa giungeva a contenere, entro gli angusti confini della feminile cultura di que' poveri tempi, la sua sete di cognizioni; la quale era in lei fatta più imperiosa dal non comune accoppiamento di un intelletto maschio, e di una fantasia vaporosa ed effrenata. — La smania di vivere fuori del mondo reale, nelle vicende vere o sognate degli eroi e de' cavalieri, aveva fino ad una certa età trovato pascolo nelle narrative delle fantesche; ma ben presto il loro corredo di panzane s'era esaurito, ed i racconti riescivano stucchevoli e scolorate ripetizioni. Per servire al suo ardente desiderio, con una rara prontezza si fece esperta nel leggere, dote rara a que' tempi, nelle donne sopratutto; l'intelletto suo, senza gravi studj, le aperse la via a comprendere le fatte letture, e la feminile astuzia le insegnò l'arte di procurarsi un pascolo allo spirito, anche fuor di quello che il padre con rigida parsimonia, dopo aver scelto e vagliato, le concedeva per passatempo. VIII. Fra i libri (per non parlar de' classici greci e latini, che s'andavano moltiplicando nelle biblioteche de' monasteri, e tacendo de' pochi che per ridonar vita alle scienze, raccoglievano i briccioli sconnessi dell'antica filosofia) fra i libri, dico, non v'era gran cosa a scegliere: ancorchè la lingua vulgare avesse già raggiunto la pienezza della sua vita, e fosse divenuta, come ne dice l'Alighieri, la favella “non esclusiva d'alcun paese, propria di tutti i dotti d'Italia„[2]. Già esistevano la divina commedia, e il canzoniere; ma queste sublimi creazioni, che gittavano le basi tanto solide e benaugurate della nostra letteratura, mancavano di mezzi per diffondersi e rendersi popolari. Le scarse e scorrette copie bastavano ai pochi educati a comprenderle: anzi l'alimento spirituale soverchiava lo svogliato appetito degli intelletti. Tanto è ciò vero, che del poema di Dante, per buon numero d'anni, non si conobbe che la prima parte: il resto aspettava chiosatori, copisti, e, più che altro, menti idonee alla lettura, capaci di interpretarne il senso. Anche prima di quest'epoca però, la parola, se non esercitava tutto il suo impero sulle menti e sul cuore d'un popolo inselvatichito, lo conservava almanco sui sensi; perocchè dove il cielo è splendido e la natura ridente, l'uomo, anche fuor d'ogni educazione, apprende a gustare il bello, e s'avvia grado grado, quasi per istinto, al culto delle arti. La soavità del provenzale e del rustico romano, l'intercalato ricorrere delle rime; la temprata misura del verso lasciavano freddo il cuore, ma allettavano l'orecchio. Le attonite plebi, adescate da melodie incomprese, accerchiavano volonterose i reduci di Francia o di terra santa, che cantavano nelle _trovate_ gli amori e le imprese de' cavalieri. I legami sociali, in que' secoli, erano allentati in ragione appunto della poca civiltà; (se pure è vero, che la civiltà giunga sempre al suo scopo di unificare la famiglia umana, stringendone i rapporti ed accomunandone gli interessi). Ben più certo si è che in niun'epoca come in quella, si vide l'arte della parola, divenir l'opera di lavori associati, come avviene delle industrie della mano. I primi poeti, che creavano una favella ed una letteratura senza pure saperlo, non elaboravano frasi e parole nel secreto del loro telonio, curvi ad uno stipo, col capo nel palmo di una mano, carteggiando coll'altra i codici della lingua; ma sfringuellavano per lo più all'aperto, inspirati dall'aria libera e dal sole, e in mezzo ad una folla di emuli; quasi che gli sforzi de' singoli, raccolti in uno, riuscissero a dare un miglior sviluppo all'impresa. Questo accomunarsi aveva un'altra ragione. — Quando si vede uno stormo di passeri piombiare all'improviso sul piano, ognuno asserisce, che là vi deve essere l'aja o il seminato. — Per una pari induzione, ne' secoli scorsi, l'assembrarsi de' trovatori lasciava indovinar vicina una corte bandita. Il giullare, se ha fame, canta; ma ben pasciuto gorgheggia a ricisa; egli non è mai avaro di sè. — Infatti, allorchè Raimondo principe di Linguadoca si mostrò liberale verso i trovatori, questi convennero in folla alla sua corte, e lo pagarono a mille doppii della lena, che la regale munificenza loro aveva ridonata. Riuscirono pertanto a fondare presso di lui la prima academia di dotti, ove i discepoli della _gaja scienza_ gareggiarono nell'illustrare con soavissimi canti un eterno paradiso d'amori, di feste, d'imbandigioni. Farà meraviglia il sapere che le poetiche fole non riescissero a noja dello stesso Federico Barbarossa, allorchè si dava gran pensiero d'assestare, come ognun sa, le cose d'Italia. Poteva allora ripetersi ciò che Orazio disse della Grecia, “che la terra vinta domò il suo feroce vincitore„. Giovati dalla loro mitezza, e più benemeriti delle lettere italiane, furono i re di Sicilia Federico e Manfredi. Questi incoraggiarono le palestre erudite, e tennero splendide corti d'amore; talora ricreandosi allo sfoggio de' più carezzevoli concettini, tal altra tentando essi pure l'arduo sentiero d'Elicona. Sull'esempio dei grandi principi gli stessi tirannelli si diedero a blandire la genía de' trovatori, per esserne alla loro volta blanditi. Nominiamo fra questi gli Estensi, e per non parlar d'altri, quella fiera insaziabile di Ezzelino, che mentre decimava col patibolo le popolazioni, rinveniva dal suo furore, e sorrideva al patetico canto di Sordello, come Saulle all'udir l'arpa di Davide. Per tal modo, le aule de' principi erano, se ci è lecito il dirlo, le grandi officine, ove si perfezionava quella lingua perciò detta _aulica o cortigiana_[3] ed i trovatori gli operai, che la elaboravano; mentre i _menestrelli_, più degeneri adepti delle muse, la spacciavano al minuto pel popolo. Il cantar versi era dunque un mestiere; e qual mestiere! giacchè, per dir tutto, scese ad essere non altro che una squallida forma della mendicità. Sulle soglie de' palagi o tutt'al più nel tinello, sui mercati o nel trivio, si vedevano rapsodi cenciosi ed affamati, che strimpellando note sulle tremule corde, cantavano questo o quel brano di poesia, movendo a pietà i passaggeri, e accattando il pane. — Povere lettere, la lira d'Euterpe, in mano a costoro, era divenuta l'ignobile colascione del paltoniere! Ma intanto i primi vagiti della nostra letteratura mercè loro si diffondevano per tutta Italia: e i poveri cultori di essa, che per aggiungere qualcosa del proprio alla merce altrui, s'ingegnavano di spiegarne il senso con chiose e racconti, e d'imprimerli nella memoria degli uditori, sposando la parola al ritmo delle melodie popolari, erano i più solerti propagatori di quella soavissima favella, che allora nasceva a tante splendide glorie. — La fame che aguzza l'ingegno, faceva per tal modo anticipatamente i buoni officii della stampa. IX. Agnesina, sempre pietosa verso i poverelli, poteva forse non esserla con questi miseri rivenduglioli di dotte inezie, ogni qual volta, a caso od attirati dalla fama delle sue beneficenze, si presentavano al castello di Campomorto, preludiando qualche canto d'amore? La fanciulla invero li prediligeva; ma la sua pietà non era scevra affatto d'interesse; da loro aveva conosciuto ed appreso molte canzoni provenzali; e, siccome l'ospitalità di Campomorto era passata in proverbio, i menestrelli s'ingegnavano di rendersi sempre più accetti alla bella protettrice, facendo raccolta di cose nuove per poi cantarle al suo cospetto, o traducendo in iscritto le vecchie e più celebri canzoni, ed offrendole, ginocchio a terra, alla nobile castellana. A questo modo Agnesina aveva conosciuto le poesie di Piero delle Vigne, edite alla corte di Sicilia un secolo avanti quelle dell'Alighieri, e condite di così soave dolcezza, che non sembran primizie, per solito agresti, ma frutti colti a perfetta maturanza. Conosceva per tal mezzo le flebili querimonie di Nina poetessa sicula e di Dante da Majano, che amoreggiarono sconosciuti di persona; quella dimorando in Palermo, questi a Firenze; d'altro non nutrendo i loro affetti, che di rime e d'aspirazioni. Possedeva a memoria i versi di Guido Guinicelli bolognese, che fu padre e maestro di quanti “Rime d'amore usâr dolci e leggiadre„[4] e le amorose canzoni di Cino da Pistoja, indirizzate alla bellissima Selvaggia, e quelle più ancora gentili del Petrarca alla tanto celebre Avignonese. Ma troppo non si dilettava di quella poesia leziosa e ciarliera, che ha soltanto per iscopo di far vibrare le corde sonore di una lingua armonica, non lasciando del resto in fondo al cuore di chi legge, che un senso di mesta vacuità, che toglie ogni nerbo, ed esala in inutili sospiri. — Aveva letto il _Dittamondo_ di Fazio degli Uberti, non tanto per ammirare l'ingegno dell'autore, quanto per accusarlo di plagio e di fallito scopo; e più ancora per deplorare la bassa adulazione, con che lisciava le nequizie de' grandi, vendendo la sua penna alla vigliacca protezione di un mecenate. Piacevale all'incontro Fra Guittone d'Arezzo, l'inventore della scala diatonica, ancorchè dai critici fosse tassato d'aver fatto uso d'uno stile barbaro, perchè ravvisava in lui l'uom dotto, cui la poesia non è gioco di parole, ma espressione libera ed ardita di nobili sentimenti; e ricordando come egli deponesse il pacifico sajo per imbrandire la spada, ammirava più che altro quelle franche parole, colle quali il frate guerriero commendava una disciplina, che non vuol digiuni, cilicii e povertà, ma impone a' suoi discepoli di “odiare e fuggire il vizio, di amare e seguire la virtù; e di rendersi degno di quella nobiltà nemica del far villania ad alcuno, amica del valore, della verità e della sapienza[5]„. Le opere di questi eletti ingegni la ricreavano; ma la trilogia dell'Alighieri la riempiva d'una ammirazione e d'un estasi, che a quando a quando assumeva la forza di un terrore grave e religioso. Sollevandosi collo spirito nelle regioni sconosciute, dove si svolge il gran mistero della vita futura, trovava il più gradito alimento alla fantasia ed al cuore: quella ardentissima di cose meravigliose e terribili, questo temprato a' vigorosi sentimenti, a gentili corrispondenze d'affetto, al più nobile sdegno d'ogni vile azione. — In quel mistico pellegrinaggio correva una via d'orrori e di dolcezze sempre ed egualmente sublimi. Fremeva alla terribile vista delle bolge: s'inteneriva alle patetiche note di Francesca, d'Ugolino, di Sordello; e si sentiva inondata da un'ineffabile serenità, levandosi fra i cori delle anime elette, che beveano l'immortale beatitudine in un oceano di luce, fino a vedere il sorriso di Beatrice, .... che si facea corona Riflettendo da sè gli eterni rai.[6] Agnesina, non estranea alle dotte chiose de' contemporanei, esperta dei dolori e delle speranze onde fu tessuta la esistenza dell'altissimo poeta, potè in parte penetrare e comprendere il mistico senso delle sue parole. — Sentiva pertanto come fossero nobili e giusti i suoi sdegni, e trovava nella storia della sua vita la ragione evidente d'ogni sua querela. — Porgeva quindi un tributo d'ammirazione al grande poeta italiano; ma non ammirava meno in lui il soldato di Campaldino e di Pisa, l'orrevole ambasciatore di Firenze, e l'esule minacciato del rogo, che, dopo aver provato come sa di sale il pane altrui, muore lontano dalla sua città, ucciso ma non vinto dalle sciagure. Di fanciulle però, che come Agnesina giungessero a tanto, non ve n'erano molte. — Abbiamo noi ragione di credere, che oggidì coll'attuale civiltà, ve ne sia un numero maggiore? Quale differenza fra l'educazione intellettuale d'allora, e l'odierna? Quella sì arida interdiceva spesso ai meno vulgari ogni famigliarità colle lettere; questa troppo frondosa vorrebbe convertire le più deboli intelligenze in altretante enciclopedie. Eppure (diciamolo, non per cieca ammirazione di quanto è antico, meno ancora per vaghezza di professare opinioni strane), anche il vecchio sistema aveva il suo lato buono. — Tutta la scienza d'allora racchiudevasi in pochi libri; il campo delle ricerche era ristretto; facile riesciva il percorrerlo, e l'acquistarne una meno imperfetta conoscenza. — Oggi la mente di chi studia erra sbalordita fra una miriade di dotti esemplari; li guarda, li sfiora, ma, come l'uomo in mezzo alla folla, di rado giunge a scoprirvi un'amico. Affrettata dalla moltiplicità delle sue operazioni, spesso è costretta a giudicare coi giudizj altrui, accettando le apoteosi dei sommi, come un fatto, senza aggiungervi la convinzione del proprio ossequio. Tacciasi poi di quella falsa cultura de' mezzani ingegni, che spinge i più arditi a far guerra a quello appunto che men si conosce. — L'educazione è pertanto una corsa alla sfuggita. Si può conoscere un paese, poichè se ne attraversarono colla rapidità del fulmine i campi, i fiumi, le terre? Quando si pellegrinava col bordone e colla sporta, si giungeva a vedere poco; ma quel poco era almanco visitato a dovere. Dio mi scampi dall'accusa di volere con queste parole giustificare l'ignoranza de' nostri buoni padri, e peggio ancora di raccomandarla alla nostra generazione, quasi fonte di moralità, come pretendesi da alcuni. Ancorchè tale argomento sia del tutto estraneo al proposito, poichè vi ci sono ingolfato senza saperlo, dirò che ogni uomo ha il dovere di educare il proprio intelletto, ed il corrispondente diritto di averne i mezzi, e che l'umana famiglia, prescindendo dall'obligo di offrire a tutti i suoi membri un congruo alimento dello spirito, ha il suo più alto interesse di rifrugare fin nell'infimo vulgo, perchè il genio vi può essere nascosto, ed una scoperta fortunata può pagare mille e mille inutili ricerche. L'oro ed il diamante s'occulterebbero eternamente nel suolo, se la mano dell'uomo temesse d'insozzarsi, rimovendo il limo e la terra. — Solo mi pare, che in quest'epoca, in cui le più profonde ricerche dei dotti sono rivolte all'economia d'ogni forza motrice e produttiva, si dovrebbe pure cercar modo d'impedire, che molte belle intelligenze lussureggino di una vana pompa di foglie, a danno de' frutti, che con più savia cultura potrebbero offrire a tempo opportuno ed a vantaggio universale. X. La saggezza sparsa nelle parole o negli scritti è simile ad una merce preziosa più o meno gradevolmente messa in mostra, onde altri s'invogli di farla sua. Chi ascolta o legge con profitto la riconosce, l'ammira, la desidera; per possederla fa quindi di buon grado de' sacrificj, e spende per essa, quasi fosse moneta, il corredo delle sue vecchie idee, e dei pregiudizj i più accarezzati. — Ma v'ha un'altra saggezza più solida e vantaggiosa; quella che si svolge spontanea col lungo uso della vita, quando si è attore o testimonio de' suoi guai, delle sue illusioni, delle inevitabili amarezze, che le vanno congiunte. — Questa, che nasce in noi, e resta tutta per noi, chiamasi _esperienza_. Agnesina possedeva la prima, ma non poteva aver fatto rilevante acquisto dell'altra; perchè giovine troppo, e troppo lontana dal mondo, non vedeva l'umano consorzio che da un lato solo. L'epoca in cui essa nasceva fu tra le più disgraziate della storia nostra. Era un continuo stare in armi per compiacere alle velleità ambiziose della Signoria, mentre l'improntitudine de' capitani, sfruttando ogni valore cittadino, registrava un pari numero di guerre e di sconfitte. Per giunta di mali, Milano entro il periodo di pochi anni veniva più volte travagliata dalla pestilenza; la cui comparsa, dovuta alla rilasciata osservanza delle leggi emanate ne' tempi anteriori, era un _si salvi chi può_ per la parte più agiata della popolazione; un terrore ed una strage pei tanti infelici, che venivano abbandonati ad affrontarla, quasi vittime espiatorie dell'ira divina. Nelle sventure publiche pertanto aveva la nostra fanciulla vieppiù rinvigorita quella tempra robusta che le era innata. Giungeva essa a riconoscere la vera origine di tanti mali; gemeva sulle sorti della sua misera patria, non con una pietà lamentevole ed infeconda, sibbene collo slancio di un'anima ardente, apparecchiata a dar tutto, anche la vita, per ricomprare, almeno in parte, le lacrime di tanti suoi cari. Ma queste belle disposizioni, questa efficace scuola di sventure, che risvegliavano in lei il santo desiderio di rendersi utile a' suoi simili, posponendo in ogni caso le sue alle pene altrui, non valevano a premunirla contro i pericoli proprii alla sua età, ed al suo sesso. — Anzi quello stesso oblio di sè, quel nobile abbandono, con che imprendeva ogni opera sua, non facevano che moltiplicarli e renderli più gravi. Ella ingenua ed inconsapevole delle arti turpissime, con che il mondo menzognero suole farsi gioco dell'onore muliebre, troppo facilmente attribuiva agli altri quella lealtà e quel candore, che erano privilegio dell'animo suo. A metterla in guardia contro tali pericoli, le mancava l'egida materna. Tolta alla nutrice, era stata consegnata ad una governante, per nome Canziana, la miglior pasta di donna, che invecchiata nella casa dei Mantegazzi, serbava per ogni individuo di essa una gratitudine ed una devozione senza pari. Quanto costei amasse la sua piccola allieva è impossibile dirlo. — È legge del cuore umano, che la nostra più sviscerata tenerezza ricada di preferenza su coloro, la cui età è, per così dire, il complemento della nostra. Fanciulli amiamo quindi i nostri maggiori; adolescenti i coetanei; adulti i figli; vecchi i figli dei figli. — Canziana, che aveva portato in collo il padre d'Agnesina, ebbe la consolazione di reggere i primi passi della figlia di lui. E non venne meno al suo incarico; nè mai, per quanto fosse grave la custodia del tesoro d'altri, cadde nella solita crudezza delle persone mercenarie. Vegliavala con amore ad ogni ora del giorno; la compiaceva in ogni onesto passatempo, le raccorciava in quanto potesse i piccoli accoramenti naturali all'età sua, e imbietoliva all'udirne commendare la bellezza e l'ingegno; volendo per sè la sua parte di gloria d'averla, come ella diceva, tirata su cotanto vistosa. Ma chi mai tien luogo della madre? quale cura può supplire alla provida tutela di colei, che ne diede la vita, e ne guida al pieno godimento di essa, scortandola di un'amore vigile, operoso, sapiente? Qual'è il cuore, per quanto dolce ed affettuoso, che abbia l'arte divinatrice di leggere i nostri bisogni e di sodisfarli prima che sieno tradotti in preghiera? Dove è quell'assiduo ed instancabile zelo di far lieta la nostra esistenza, preparandoci da lunga mano, senza misura di sacrificii, tutta la possibile felicità? Dove infine (la più sublime delle prove d'amore) quella saggia severità che ammaestra la madre educatrice a sopportare le nostre lacrime; a provocarle, se fia d'uopo; ad esigerle, onde l'animo nostro s'avvii sul cammino della vita forte de' proprii trionfi, e preparato alla annegazione e al disinganno?... Agnesina era giunta ad uno di quei momenti più solenni della vita, in cui l'affetto materno può colla sua azione immediata cangiare indirizzo ad un'intiera esistenza. Ma Agnesina era orfana: e tra l'orfana e l'angelo che la vegliava dal cielo, non esisteva che un mistico legame d'amore. Nella derelitta era vivo e santo il culto delle materne virtù, da cui emanavano tante e sì care memorie, ed a cui risalivano altretante benedizioni. — L'amore invece della creatura celeste, sorvolando gli interessi terreni e servendo ai fini imperscrutabili di Dio, permetteva che la povera fanciulla fosse posta a dura prova, onde ne escisse rabbellita dalla più umile e perciò la più sublime delle virtù, la rassegnazione. XI. In una bella giornata sul principiar del settembre 1382, Agnesina trovavasi al castello di suo padre, dove le frescure anticipate dell'autunno e la cara libertà della campagna la facevano àrbitra di consacrare tutto il suo tempo alle più gradite occupazioni. Suo padre in quel giorno era assente. Egli accorreva non di rado a Milano per accudire a' suoi interessi o per vedere e consultare amici. — In tali occasioni, la donzella soleva comandare che non s'aprissero i battenti del castello a chicchessia; e, più per naturale riserbatezza, che per avviso del padre o della indulgente Canziana, non metteva piedi fuori di esso; supplendo il vasto giardino al suo istintivo bisogno di respirar aria libera e di darsi moto. La più gran parte della mattina aveva ella divisa fra le sue consuete occupazioni; un po' coi libri, il resto coll'ago. — Scendeva poscia a percorrere in lungo e in largo l'ampiezza della sua volontaria clausura, a visitare il colombajo, l'ovile, le arnie, e dopo aver governato ed innaffiato i suoi fiori, pieno il grembiale di una fresca raccolta, si ritirava sulla bassa ora, per tesserne una ghirlanda, nelle sue camere situate nella parte più alta del castello. Ivi da un terrazzino a poggiuolo assai sporgente godeva ella tutto il largo di un'amena veduta, spingendosi collo sguardo, dove non lo impedivano le macchie d'alberi disseminati nelle vicine campagne, fino all'orizzonte conterminato dalle montagne liguri. — Aveva sott'occhi il suo bel giardino; a prati ed ajuole simmetricamente disposte e assiepate da mortella; i primi lussureggianti di una verdura opaca, le altre screziate di mille colori. — Nel mezzo, ove le viuzze imbianchite da fina arena s'incrocicchiavano, eravi un'ampia vasca, dominata da un gruppo di tritoni e di nereidi assai poveramente scolpiti, e ammantati di musco e d'alghe spontanee, in mezzo alle quali sgorgava un misterioso velo d'acqua, agitando la superficie crassa e verdognola della piscina. Fuori del ricinto, nell'aperta campagna vedeva i contadini affaccendati nello stendere, sovvolgere, ammontare il fien grumereccio; udiva cantare a tutta gola le giovani villanelle, che in un male arnese, proprio a dar rilievo a forme tonde e robuste, s'affaticavano nella ricolta; non belle, non vispe come ci vengono dipinte negli idillj, ma dimentiche di sè e prodighe di una lena che vince gli stenti e la fatica. Agnesina, a tal vista, faceva anch'essa quel confronto, sì spontaneo a chiunque viva alla campagna, tra l'allegria operosa del povero, che non pensa al dimani, e l'accigliata taciturnità del ricco, che non vive per l'oggi, e si agita e spende ogni sua forza nel tentare di sciogliere il problema dell'avvenire; pensava come sieno felici coloro, cui un lavoro adequato alle forze offre una mercede adequata ai bisogni. — Meditava, come ognuno di noi avrà fatto mille volte, che bene e male, ricchezza e povertà, gioja e dolore non sono sempre cose assolute: onde la casuale strettezza di un ricco sarebbe dovizia sfondolata per chi provò la fame; e infine concludeva, che la vera ricchezza è in noi, se lungi dal voler costringere il destino a piegarsi ai nostri desideri, sappiamo piegar i desideri all'impero di quello. — Cose tutte, che da che è il mondo, sembrano ovvie e piane a chi le dice o le consiglia; e che diventano dure ed incomprensibili per chi ha la mala sorte di doverle ascoltare e mettere in pratica. Vagando così colla mente da cosa a cosa, da pensiero a pensiero, la fanciulla aveva condotto a termine un'odorosa e leggiadra ghirlanda: stesala sul parapetto del terrazzino, e scossi dal vestito e dal grembiale i ritagli di fogliuzze e di steli, chiamava a sè Canziana, onde que' fiori fossero, come al solito, deposti nella chiesuola sulla lapide venerata; quando in alzar gli occhi un'ultima volta sul bel quadro, che le stava davanti, vide levarsi lontan lontano un denso polverío, in mezzo al quale si agitava una turba indistinta, che sembrava avviata verso il castello. — Per veder meglio si fè visiera colla destra, ed aguzzando lo sguardo ravvisò, che era una numerosa comitiva di cavalieri e di pedoni. Se Agnesina fosse stata timida, un certo quale sgomento doveva essere il primo e più naturale effetto di una comparsa così strana ed inattesa. — L'aspetto di quella turba era tutto guerriero: sebbene lontana e ravvolta nella polvere, le punte scintillanti delle aste l'attestavano fuor d'ogni dubio. — Nè quelli erano tempi, in cui il passaggio, o l'arrivo d'armati movessero soltanto la tranquilla curiosità della gente. Le milizie serbavano la disciplina finchè erano sotto gli occhi de' loro signori; lungi da questi, fuori delle città o sviate dalle strade principali, esse dimenticavano ogni legge, e quando pure non fossero dirette ad operare in nome de' capi qualche ribalderia, approfittavano d'ogni occasione per scorazzare e far guerra al minuto. — Per ciò le ville de' conti e dei feudatarii, munite di quanto potesse renderle deliziose al di dentro, possedevano il corredo esterno d'agguerrite castella; avevano fosse, ponti, torri, vedette e tutti quegli argomenti che bastassero a togliere il ruzzo del capo alle bande temerarie: ed i vassalli, al martellare della campana feudale, smettevano le marre, e s'armavano di lance e stocchi a difesa del loro padrone. Senza arrestarci ad esaminare quanto la donzella fosse piacevolmente sorpresa da quella apparizione, e perchè invece Canziana se ne adombrasse a segno da porre in esame l'opportunità di chiudere e sbarrare le porte, effetti opposti procedenti da troppo chiare ragioni, diciamo che fosse quella comitiva, d'onde ed a quale scopo venisse da quelle parti. XII. Nella divisione dello stato di Milano fra' tre fratelli figli di Stefano Visconti, e nipoti dell'arcivescovo Giovanni, era toccata a Galeazzo II Pavia col suo territorio e le città del dominio poste a mezzodì ed a ponente. — Milano, proprietà comune fra lui, Barnabò e Matteo, ripartivasi in tre quartieri, ognuno dei quali aveva un signore proprio ed un palazzo di sua speciale residenza. Poichè fu morto Matteo (di veleno, s'intende, per essersi lasciato sfuggire di bocca, che quel condominio non gli andava a sangue) il fratello Galeazzo, reso cauto dalla lezione, pensò d'abbandonare la sua mezza Milano alla insaziabile ingordigia di Barnabò, e ritirossi a Pavia, dove fece costruire quel castello che ancora si vede, e che fu a' suoi tempi la più magnifica e la più forte reggia di un principe: onde il Petrarca, abilissimo lodatore, ebbe a dire che, se Galeazzo con altre opere aveva superato i più potenti principi d'Europa, con questo incomparabile edificio aveva vinto se stesso. Dominava esso verso mezzodì la città, e dal lato di levante accedeva ad un grandioso parco ricinto, che stendevasi lungo la riva sinistra del Ticino e del Po, ed occupava un'ampia zona di terreno per venticinque miglia quadrati tra Mirabello e Belgiojoso[7]. Il castello di questo borgo, già delizia de' Visconti, ove sì spesso accorreva Luchino a nascondere le sue vergognose tresche, faceva parte di quella signoria. Il suolo non del tutto spoglio di qualche naturale amenità, perchè reso variamente declive dalle sponde dei due fiumi, era coltivato a praterie ed a boschi, a quando a quando interrotto da casolari di un'apparenza rustica, ma non priva di eleganza. E dove la natura era stata più avara suppliva l'arte, coltivando poggi e macchie, aprendo stagni è canali, fingendo delizie ed orrori, che parevano opera del caso. Nell'artificioso assetto di quel podere, s'ebbe riguardo a favorire specialmente la custodia e l'incremento della selvaggina; essendo la caccia, come prima e poi fu sempre, il più gradito spasso de' prìncipi. Niente infatto meglio di essa traduceva in un leggier passatempo le gravi difficoltà della guerra: per essa la codarda prepotenza godeva di aver vittorie sempre facili e certe; e la sete di sangue si sbramava in un numero indefinito di vittime più o meno mansuete. Nel parco de' Visconti, raccoglievasi dunque gran copia di selvaggina, ed a seconda della stagione si davano cacce d'ogni maniera. — Venivano a ciò con gran cura allevati levrieri e bracchi, incrociandone le razze, educandoli ad uno ad uno a puntare, ad inseguire, a rendere la preda. Si nutrivano falchi ed astori di Norvegia, di Germania, d'Africa. A luoghi opportuni tese e paretai uccellavano i volatili nostrali o quei di passo. Si custodivano in ricinti cervi e daini: ne' serragli cinghiali. Ed a determinate epoche dell'anno i canattieri e i boscajuoli mettevano alle prove i loro allievi, e davan conto de' fatti loro. Buon per essi se i signori ritornavano dalla partita, paghi di una lunga carneficina e ringalluzziti dalla vanità di tante più o meno facili conquiste, abilmente apprestate dai cortigiani. Guai, se accadeva il contrario. Guai a colui che osasse turbare in qualsiasi modo il divertimento de' prìncipi, o se di nascosto avesse ardito, per ghiottoneria o per naturale difesa, usufruttarne i rilievi. — Le leggi contro costoro erano severissime e senza misura brutali. Chi non ha letto od udito, come un contadino convinto d'aver colto un lepre, fosse costretto da Barnabò a mangiarlo crudo e non scuojato? che un giovine fu messo a morte perchè narrò d'aver sognato d'uccidere un cinghiale? E quando al signor di Milano venne in pensiero di distribuire in custodia ai vassalli i suoi 25 mila cani, quanti furono puniti con battiture e con taglie gravissime, perchè quegli animali nelle rassegne erano giudicati troppo asciutti o pingui troppo, o non abbastanza tersi di pelo! La caccia, il primo esercizio dell'uomo, la sua prima fonte di alimento e di vita, era qui ed altrove fatta privilegio de' signori ed elevata al grado di diritto regio ed esclusivo. Gli emblemi di quest'arte venivano considerati come segni di grande onore; per ciò non di rado gli alti personaggi erano effigiati sulle medaglie e sui tumuli con un falco in pugno. Di questa mondana grandezza erano vaghi gli stessi monaci. Gli abati di Francia ne facevano il più gradito passatempo; ond'è fama che per consuetudine o per privilegio, posassero il loro falco allato dell'altare, mentre vi celebravano i divini officii. Federico II quello stesso che fu re di Sicilia, soleva trar seco alla guerra gran corteggio di falconieri, affine di avvicendare i pericoli delle battaglie colle piacevoli emozioni della caccia. Essendo egli letterato compose un libro sugli usi di essa, e suo figlio Manfredo vi aggiunse delle note. — Carlo Magno proibì la caccia ai servi sotto pena di morte. — Celebre è la legge dei re di Borgogna che condannava il possessore furtivo di un falco a dover prestare all'animale rubato sei once della propria carne; e, se crediamo a Froissard, il sultano Bajazet, irritato dalla lentezza d'uno de' suoi sparvieri, condannò a morte tutti i suoi guardacaccia — due mila persone all'incirca. Per tal modo tradivasi il voto della natura in una delle sue primitive e più semplici leggi, facendo scopo della vita quanto non dovrebbe esserne che mezzo. Il potente dilettavasi di questo fittizio travaglio, quasi volesse fuggire la noia degli agi consueti. La preda, caduta nella ragna o tra gli artigli o contro un'arma, era per sè cosa vile, ma valeva il sangue di un uomo come occasione di mostrare un effimera valentía, e di dar pascolo all'innata voluttà di tutto ciò che sa di violento. XIII. Sull'albeggiare di quel dì, in cui Agnesina trovavasi sola a Campomorto, una sfucinata di falconieri, di canattieri, di paratori muniti d'aste, di schidoni o di randelli, tenendo falchi montati sulle grucce o cani a lassa, stavano aspettando il signor di Pavia alla porta del castello. Nella corte d'onore scudieri e valletti divisati s'affaccendavano ad insellare i palafreni, ad allestire e a caricare sulle bestie da soma il bisognevole per una numerosa e splendida comitiva, che, per invito del principe, disponevasi ad una giornata di caccia nel vicino parco. Giangaleazzo, figlio ed erede di quel Visconti, che aveva eretto il castello di Pavia, e vedovo di Isabella di Francia, che il fece conte di Virtù, non era fra i cavalieri de' suoi tempi il più amante di tale esercizio. — Di carattere mite e pensieroso, egli non soleva compiacersi di mostrare, più che non conviene, il lusso e lo spreco che tanto offende la miseria del popolo, e che tanto lo abbaglia. — Preferiva starsene tranquillo nel suo palazzo fingendo di leggere negli astri, o meglio studiando nella storia e ne' consigli de' saggi; l'arte di governare. — L'opinione publica, giudicando i procedimenti de' suoi tre primi anni di regno, non vi aveva ravvisato alcun tratto che la guidasse a pronunciare un giudizio netto sul conto di lui. Chi lo diceva pio e mitissimo; chi quella stessa mansuetudine tassava di pochezza ed insipienza. — Nessuno avrebbe osato chiamarlo un genio, un novatore, un guerriero. Il conte, ne' suoi interessi, favoriva l'opinione dei più; e ben di buon grado frenava le improntitudini giovanili, ogni qualvolta il far mostra di una studiata apatìa lo faceva padrone di spender tutta la vita ne' suoi progetti, lentamente avviati ad una gran meta. Quando poi un troppo lungo silenzio cresceva fede a qualche ciarla grossolana, quasi che il principe fosse fuggito o infermo, o consumasse tutto il dì in preghiere, ei dava una smentita a tutti cavalcando in publico a qualche rassegna d'armati o ad una splendida caccia. — Ma non andava tant'oltre da vincere affatto l'errore universale. — Esciva circondato sempre da una poderosa scorta di cortigiani e d'uomini d'armi, non tanto per impaurire la plebe e temerla in rispetto, quanto per mantenere credito alla generale convinzione, ch'ei fosse timido e malfidente, e che, ben lungi dall'occhieggiare il fatto altrui, si tenesse pago di conservare, quanto meglio potesse, il fatto proprio. V'erano taluni, pochissimi però, che, vivendo da anni alla corte, ed avendolo conosciuto fanciullo e giovinetto, non dividevano il comune pregiudizio. Costoro avviluppando il loro pensamento in una reticenza, spesso giudicata come espressione di una servilità che ammutisce quando non può in niun conto adulare, s'accontentavano di crollare il capo, dicendo “vedrete a suo tempo:„ e costretti a spiegarsi più chiaramente soggiungevano: “colui sa pelar la gazza senza farla stridere.„ Questa sentenza s'appoggiava a poche ma abbastanza valide ragioni antecedenti. All'anno cui risale il nostro racconto, Giangaleazzo varcava il quinto lustro. Solo poco tempo prima, quando viveva suo padre, essendo da lui rivestito dei diritti sovrani sopra una parte dello stato, si era mostrato generoso e sprezzante d'ogni pericolo, armeggiando contro Ottone marchese di Monferrato e contro gli Inglesi capitanati da Hawkwood; ma la fortuna, negandogli la meritata, vittoria, aveva cancellato dalla mente del popolo, che giudica sempre dal successo, la ricordanza delle sue prove di valore. Quelli, che non s'erano dimenticati come fino dall'adolescenza si mostrasse amicissimo dei dotti e fautore de' buoni studj, asserivano non potersi chiamare uomo da poco colui che dettava di ragione civile con Baldo e Fulgoso, che discuteva di filosofia con Ugo Sanese, d'astrologia giudiziaria con Biagio Pelacane, di belle lettere con quel Piero Filargo, da Candia, grecista riputatissimo, che s'acquistò più tardi la tiara sotto il nome di Alessandro V. — Ma vantar studii e cultura con un popolo ignorante era, ed è, come parlare di bei colori a un cieco nato. I pochi suoi ammiratori, salendo a ritroso il corso della sua vita, vi rilevavano fino dai primi anni alcuno di que' tratti che non lascian dubio d'ingegno svegliato e di ferma volontà. Fra i molti che non sfuggirono alla penna de' cronisti, trascrivo il primo, che richiamò l'attenzione di tutti sulla puerizia di lui, e fece concepire a suo riguardo le più belle speranze. Dicesi che essendo egli fanciullo di soli cinque anni, si spingesse un dì per curiosità nella gran sala ove sedevano a consiglio i ministri di suo padre. Interrogato da costui quale fra que' grandi riputasse il più saggio, il fanciullo, girato lo sguardo, ed esaminato il viso d'ognuno, additò il Petrarca. Della qual scelta essendo grandemente lodato dal padre e dai cortigiani, prese coraggio, e, fattosi incontro al poeta con molto garbo e con fanciullesca ingenuità, gli stese la mano e lo condusse a sedere sul trono del principe.[8] Questo ed altri simili fatti, il suo amore agli studj ed il suo valore sul campo, non avevano perduto ogni prestigio sull'animo di alcuni; ma i più, dimentichi de' vecchi racconti, o non curandoli, o valutandoli col proverbio, che i frutti primaticci uccidono la pianta, guardavano al presente sbiadito e vuoto, e giudicavano il conte colla più ovvia delle ragioni — l'attualità de' fatti. Giangaleazzo, l'abbiam detto, aveva il suo perchè nel lasciar che il mondo non s'occupasse di lui. XIV. La comitiva dileguossi a briglia sciolta pe' campi. I più abili cavalieri facevano prodezze sulle loro cavalcature, ora reprimendone i salti e le corvette colle trinciate, ora lanciandoli, colla voce e collo sprone, a saltar fossi e sbarre, ed a raggiungere pei primi e di tutta carriera una meta fissa. — Più tranquilli dietro loro procedevano in ragione d'anni e di prudenza i personaggi gravi e i vecchi cortigiani. Montati su mansuete chinee, e più o meno bene seduti in arcione, si tenevano all'ambio, e s'avanzavano di conserva ragionando fra loro del tempo e dei tempi, plaudendo alle nobili gare della gioventù, deplorando la mancanza delle dame, e facendo eco alle parole del principe ogni qual volta accorreva in mezzo a loro, e risvegliava le morose cavalcature collo scalpitare del suo destriero. — Non s'era mai veduto Giangaleazzo tanto ilare come in quel dì. La sua fronte era spianata; aveva il sorriso sulle labra; motti e cortesie per tutti. Giunto il principe nel luogo più opportuno alla caccia, si suonò a raccolta; ed i drappelli dispersi risposero alla chiamata in un istante. — Scavalcarono i più, affidando le briglie a' scudieri, poi ruppero in brigatelle, camminando per ischiere lungo la campagna. — Tolti i guinzagli ai cani, si distribuirono i falchi. Se vi fossero state dame, nulla di più cortese e di più conforme all'uso dei tempi che il presentare ad esso i migliori. Tra' cavalieri, ognuno a caso o secondo il proprio gusto scieglievasi il suo. Que' di Norvegia bianchi come colombe, ed adorni di giojelli al collo ed agli sproni, erano serbati pei personaggi più distinti: gli spennacchiati e dormigliosi, poco più destri degli allocchi, si regalavano ai giovialoni, per farne argomento di risa. — I superbi animali ergevano la testa, sparnazzando e battendo il becco di sotto al cappuccio, che si faceva scender loro sugli occhi onde renderli più avidi di luce e di preda. — Chi voleva dar prova d'intendersi di caccia, pigliava il falco sull'indice della destra, e lo rivolgeva contro il corso dell'aria; se esso, rialzandosi forte sul petto, sapeva star saldo al posto, v'era ogni ragione per crederlo ottimo predatore. I cani erravano qua e là pel piano, per le fratte, cercando, frugando, seguendo al fiuto le peste del selvaggiume. Quando s'arrestavano d'improviso coll'occhio fisso, e coll'orecchio teso dando indizio di vicina preda, “in guardia, — sclamavano i più vicini — Atteone punta, Diana dimena la coda, mira come que' bravi distendono il corpo, come fissano ed accennano il covo„. Allora era un leva leva tra' cacciatori; il dar comando ai cani di scovar la preda, il togliere cappuccio e correggiuolo a un falco, erano un punto solo. Questo, in men che io nol dica, pigliava il volo, raggiungeva il selvaggiume, e ghermitolo piombava, o cadeva con esso a terra, “Bravo, bene, che superbo colpo!„ gridavasi da ogni parte, se il predatore era stato pronto a ghermire ed a rendere la preda, e sopratutto se la cedeva intatta. Quando, compito il dover suo, ritornava alla mano del padrone, e rassegnavasi al cappuccio ed al geto, lo si regalava d'una imbeccata; se era stato indocile o vorace, lo si puniva, con un tuffo nell'acqua fredda. Tali vicende, con un corredo di mille episodi serii e burlevoli, durarono tutto il mattino. I carnajuoli dei cacciatori erano il più bel trofeo della giornata. Di tratto in tratto si vuotavano per appendere su di un carro costrutto all'uopo starne, beccacce, gallinelle, pernici, lepri e lontre ed altri animali, che favoriti dalla legge e dalla natura del suolo, non emigravano dai nostri paesi come oggidì. Ma la lena de' cacciatori pel caldo e pel lungo camminare erasi rallentata non poco. I cani marciavano raccolti, col muso basso, colle lingue arse e penzoloni; qua e là i cacciatori, ove appena lo permettesse l'ordine della marcia, sedevano all'ombra, ad aspettare i compagni. Al varcar la proda di un bosco, tornò gradito a tutti il vedere levata in mezzo ai campi una tenda, sotto cui era imbandita una sontuosa mensa. I paggi destinarono i posti, e diedero l'acqua odorosa alle mani de' cavalieri; questi poi s'affrettarono a far onore alla tavola, sparecchiando. — Il rapido succedersi di ghiottornie, d'intingoli, di frutti d'ogni paese, d'ogni genere, la vaghezza delle vivande o sparse di sapori colorati o ricoperte di foglie d'oro e d'argento, e più ch'altro la copia e la generosità de' vini, che, con frase consacrata, potevano chiamarsi topazi o rubini fusi in coppe di cristallo, ridonarono ben presto ai commensali la perduta vigoria, e ristabilirono il primiero buon umore. Intanto i valletti ed i cacciatori, ritirati i falchi ed appajate le mute stanche, apprestavano cani ed armi proprie ad altra caccia più importante. Era ordine del Conte, che il dì inanzi si aprisse lo steccato delle fiere, e si mettessero in libertà i due più grossi e feroci cinghiali. — I boscajuoli armati di puntoni dovevano aizzarli, e metterli in fuga; studiarne poscia le peste e riferire al mattino, dove press'a poco, si fossero annidati. Ciò fu eseguito appuntino — Tolte le mense, ogni cavaliere riprese la propria cavalcatura, al cui pettorale era stato affibbiato un mantello svolazzante, cautela di uso onde difenderne le gambe dai morsi della fiera. I cani destinati a scovarle ed a metterle al corso, fossero segugi o bracchi da séguito, portavano collare a sonagli; gli alani, istrutti ad arrestarla ed a combatterla, l'avevano ferrato e guernito di punte acute. “Da qual parte?„ — chiesero i cavalieri poichè furono in sella ed ebbero impugnato un'asta colla cocca di finissimo acciajo. “Dal lato della fornace,„ — rispondevano i valletti, segnandone colla mano la direzione. — I più esperti sfilavano di trotto; i prudenti si dimenavano in sella cercandovi l'appiombo, e pigliando pretesto d'ogni cosa per lasciare ad altri il vanto ed i pericoli dell'antiguardo. “I signori si tengano vicini gli uni agli altri; disse loro il capo della caccia, — perchè i vecchi scaltri fanno talora il sornione, se ne stanno appiattati, e rimontano cheti cheti la via.„ All'apparato, alle armi, alle parole de' cacciatori, che vantando le gesta del mestiere non ne dissimulavano i pericoli e le difficoltà, alcuno tra que' signori, quelli precisamente che avevano spiegato il maggior valore a tavola, sentirono inagrirsi sullo stomaco le delizie di essa. Partirono essi pure per ischiera, ma alla retroguardia; solo uno, il più prudente, uno di coloro che nella folla de' cortigiani sogliono essere tollerati quando giovano a riempire una lacuna, chiamato a sè un cacciatore, quello che gli aveva mostrato un poco di pietà nell'ajutarlo a salire in sella, gli disse: “Informatemi ben bene di quanto è a fare, perchè io di simili cose, non m'intendo... e, a quel che pare, non è affar tanto netto... cotesto.„ “Non temete, o messere, quando sappiate maneggiar l'arma da quel cavaliero che siete, Egeone ed Atalanta... “Egeone ed Atalanta?„ interruppe l'altro, meravigliato all'udire questi nomi. “Sono costoro i due più badiali, i due più feroci grugni del serraglio: ma non temete, vi replico: avranno di grazia il chinar la gnucca sotto la punta del vostro spiedo — Un tantino di destrezza, un poco di sangue freddo, occhio al ceffo dell'animale, e poi a tempo giusto... taffe, una stoccata solenne sul ceppo delle corna e buona notte.„ L'istruttore stava per andarsene, parendogli d'aver svelato tutti i misteri dell'arte sua; ma poi, fatto accorto di aver dimenticato un salutare avviso, ripigliò: “Sopratutto badate, o Messere, a non ferir mai un cinghiale da quella parte ove siete voi stesso. — La fiera volta il grugno dove sente il dolore, e se non può morder l'assalitore, strazia e morde ogni cosa vicina. — Ecco dunque che cosa vi convien fare; date di sprone al cavallo, o sciogliete la briglia perchè non s'impenni; poi, supposto che abbiate la fiera a sinistra, appoggiate tutto il corpo sulla staffa manca, e stendetevi tanto all'infuori che possiate percuoterla pure alla sua sinistra parte. Vibrato il colpo, rilevate l'asta e avanti; l'animale non vi seguirà, ne do parola; cercherà chi lo ha ferito al lato opposto, dove voi non siete, e digrignerà invano il dente. — I cani faranno il resto, se pur non vi garba d'avere tutto il vanto della vittoria, e di ritornare alle prese. — Il cinghiale ferito soffia e grugnisce a far paura; se non può fuggire, si difende colle zampe, si getta a terra, si vòltola nella polvere, si rialza, e spicca salti come un capriuolo. — Giù da cavallo, date di piglio al coltello pugnale, e fatelo finito con un colpo nel collo o tra le costole; e se si avventa contro di voi, tanto meglio, ei vi mostrerà una golaccia svivagnata; vibrate il pugnale là dentro piegando l'arma all'insù. Ferito al cielo della bocca, egli è bello e spacciato.„ La lezione era semplice e presto compresa, ma racchiudeva una evidente petizione di principio; perchè infin de' conti voleva dire: abbiate coraggio, e la vostra paura si dileguerà. — È dunque ben naturale che colui se ne restasse indietro a coglier pratelline. XV. Dopo tre ore di un errare affannoso ed incerto, dopo aver cento volte data la traccia ai cacciatori, ed altretante avergliela fatta smarrire, Atalanta scovata ed inseguita da un subisso di cani, cadde in un gruppo di armati, che le si precipitarono a dosso e l'uccisero. Ognuno di quei prodi, che ritrasse il ferro sanguinoso e lardato, credette avere il merito dell'impresa: ma i colpi erano troppi, l'onore della vittoria, divisa fra tanti ed ottenuta a troppo tenue prezzo, riducevasi ad una gloriuzza di niun conto. Ben più diede a pensare Egeone. — All'estremo settentrionale del parco esisteva un bosco di querce vetuste fasciate di musco e di edera, i cui rami consociati gittavano un'ombra fitta sur una grillaja soda ed arsiccia, lasciando tra fusto e fusto lo spazio sufficiente a potervi circolare uomini e cavalli. Ivi si fece alto, e si suonò a raccolta: quella doveva essere l'ultima prova, non potendosi credere, che la fiera uscisse di là, stretta per un lato dai cacciatori, per l'altra dal ricinto. La foresta era attraversata da un fosso, che serviva di scolatojo alla vicina campagna. Nella stagione piovosa travolgeva esso fuori del parco, per un ampio squarcio protetto da una grata di ferro, la piena delle acque; ne' mesi asciutti mostrava il suo alveo brecciato di bigi ciottoloni, interrotto di tratto in tratto da pozze verdognole e da fanghiglia. Le sponde ora erte e ristrette, ora espanse e corrose, qua e là guernite di pruni e scopeti, offrivano alla fiera inseguita un momentaneo nascondiglio, un punto di difesa e di resistenza. Il conte erasi collocato sulla riva destra di quel rigagnolo: gli altri distribuiti a' suoi fianchi in una schiera semicircolare, discosti tra loro non più che un mezzo trarre di balestra, dovevano ad un segnale convenuto avanzarsi, battendo la via diritta e stringendosi gli uni agli altri fino all'angolo del ricinto, ove il bosco era più folto, ed il rigagnolo usciva dal parco. I cani intanto guidati da boscajuoli avrebbero stanata la fiera, cercando di ridurla al centro della selva ed all'agguato. Un frastuono indescrivibile prodotto dal succedersi di pedate sorde e concitate, che pestavano fruscoli e foglie, dal latrare o dal guajre de' cani, dal rantolo asmatico del cinghiale, pose in avviso la brigata; e rapido come un lampo fu il commuoversi de' cacciatori, l'accorrere de' boscajuoli, l'apprestar l'armi e il battere de' cuori. — Ma chi l'avrebbe mai preveduto? Egeone, dopo aver stancato i cani con un correre vago, tortuoso e talora perfino retrogrado, scese nel cavo, e percorrendolo in tutta la sua lunghezza con una celerità prodigiosa, si lanciò, con quanta era la forza del suo grugno, contro l'inferriata, la fracassò ed usci all'aperta; intanto che i cacciatori, vedendo allontanarsi troppo i cani e credendoli sbandati, davano il segnale del richiamo. La maggior parte rispose al comando, e si raccolse; tre soli meno docili o più coraggiosi, correndo sulle orme della fiera, uscirono fuori con essa. Il cinghiale, fatto accorto del vantaggio ottenuto, riprese lena, e, volgendosi ai pochi che l'inseguivano, col sangue freddo di un gigante che castiga una mano di ragazzacci temerarii, fe' capitombolare il primo con un colpo di zanne, diè un morso all'altro, e soffocò sotto il peso delle sue enormi zampe il terzo più avventato, che osò porre il dente nelle sue carni. — Libero dai nemici, cercò con più calma un nascondiglio. Ma il guajolare prolungato degli alani porse avviso dell'accaduto; e il conte, licenziando chi non avesse animo di seguirlo, ripigliò la marcia, risoluto d'escire dal parco, di scorrere i campi e di non arrestarsi finchè avesse rintracciata ed uccisa la fiera. Una parte della comitiva accettò di buon grado la proposta, e si rimase; l'altra, punta dal desiderio di vedere la fine della partita ed animata dall'esempio del principe, mosse con lui alla più vicina escita del parco, e di là si sparse nella campagna. I valletti intanto colla voce rabbonivano i cani; ed i capi della caccia meditavano un nuovo piano di attacco. Dall'uno all'altro campo, da questa a quella foresta corse la comitiva per molte miglia, lasciando dietro a sè casali, borghi, castella, senza venir a capo di nulla, finchè toccò la terra di Campomorto, nel luogo, ove, come si è detto, fu veduta dalla bella castellana. La cavalcata, docile da principio ai comandi nella speranza di un incontro, e nell'interesse di un buon esito, percorreva poscia quelle vaste e verdeggianti praterie sciolta, sbandata, divisa per gruppi a due a tre, che ragionavano di tutt'altro, che di caccia. Discorsi leggieri e piccanti, su questo o su quel argomento, tenevano luogo dei frustrati diletti: ma non andò molto che frasi languide e comunali, un dialogare frammezzato da lunghi silenzii, o meglio un silenzio assoluto appena interrotto da parole insignificanti, davano a vedere, che la lena era sfiancata, e che in sua vece andava crescendo la noja del correre senza scopo e senza frutto. Anche le grida de' canattieri e l'abbajare de' cani, e i lazzi buffoneschi del servidorame, cedevano una seconda volta al generale silenzio: l'unica protesta possibile a quella turba; perocchè nessuno avrebbe in altro modo osato dire al suo signore essere tempo di smettere un'impresa, ormai riconosciuta vana. — Ed anche tale protesta veniva sfruttata dalla momentanea lontananza del conte, che a caso o ad arte, per capriccio o per dimenticanza di sè, errava chi sa dove, lontano da' suoi, in balía de' suoi pensieri e dell'instancabile suo leardo. “E il conte? dove è il conte?.... è avanti? è rimasto indietro? se n'è ito? ci ha piantato?„. — Tali erano le parole che corsero sulle labra di tutti, appena fu avvertita la mancanza di lui. Era questa per taluni una semplice interrogazione, per altri un logico argomento a conchiudere, non esservi più nulla a tare, e potersene ognuno ritornare pe' fatti proprii. “Sarebbe bella, prese a dire un tale, a cui la docilità cortigianesca non aveva fatto dimenticare l'abitudine tanto accarezzata degli agi consueti: sarebbe bella che, dopo aver corso invano sulle peste del selvaggiume, ora dovessimo affannarci a cercare i cacciatori.„ “Sua Signoria, soggiunse un altro, ponendo prontamente un correttivo su quelle parole, che racchiudevano un confronto poco rispettoso, non può essere lontana da noi: e la fosse, è dover nostro di stargli ai fianchi.„ “Si suoni a raccolta, interruppe il primo per tagliar la questione; Sua Signoria ritroverà sùbito il cammino smarrito.„ “Che Dio ci guardi da una simile sconvenienza! volete che egli si disturbi a cercare de' suoi servi? tocca a noi ad andargli incontro. Non più indugi, che l'ora è già tarda. — Voi (ed indicava un gruppo di cacciatori) pigliate la destra; voi (e ne accennava un altro) battete a manca: il rimanente pel bosco; animo, messeri, si tratta del principe.„ E la comitiva, scomposta a brigatelle, s'avviò senza aggiungere parola, sulle vie designate. Il cortigiano poltrone trovò il da fare anche per se: “È necessario, osservò egli, che qualcuno s'arresti sul luogo, _caso mai_, il principe passasse di qua.„ Ed egli e qualche altro fannullone pari suo si tolsero il difficile incarico di rimaner al rezzo, aspettando l'occasione poco probabile d'avere qualcosa a fare. “Vedete, cavalier mio, soggiunse uno de' cortigiani al suo vicino, correndogli sulle orme e pronunciando a spizzico le parole come lo comandava il sussulto dell'ambiadura, quel messer Santagio se ne sta colle mani in mano; e poi gli udremo dire, che senza di lui...„ “Pur troppo, ripetè l'altro non senza un po' di stizza, sempre il primo a farsi avanti per accattare; sempre l'ultimo quando vien l'ora di snighittirsi...„ “Dio gli perdoni la sua sfacciata poltroneria: quel che mi rode è il vedere come egli giunga a farsi credere il più zelante, il più destro tra noi — egli, che quando ha il corpo satollo, ha l'anima consolata. — Oh vorrei vederlo pentito d'essere rimasto colà! — Spenderei un occhio, perchè mentre noi andiamo in traccia del conte, il cinghiale venisse a cercar di lui.„ “Ah, ah, interruppe l'altro gavazzando, che bel spettacolo il vederlo, messer Santagio, appollajato su un albero!.. „ Ma non appena ebbe dette queste parole, egli si pentì di godere del male altrui. Represse quella risata come una bestemmia escitagli in fallo, e soffermandosi di colpo, fissando in viso il compagno, riprese con un tuono sommesso e piagnoloso: “Ma se quel brutto incontro toccasse invece a noi: a noi sì scarsi e sì sprovisti....„ “Impossibile....„ “Impossibile! non vi comprendo.„ “Il conte ci precede, n'è vero? state certo che fin dove si spinge il conte non vi è, nè vi può essere nemmanco il più lontano sospetto di un pericolo.„ “Manco male, conchiuse l'altro rasserenandosi. Il conte è uomo prudente „ — ed, appoggiando sulla parola, amiccò il compagno con un fare, che voleva dire: se egli non ha paura la dobbiamo aver noi? Queste parole insulse scambiate fra due insulsi individui, non dovevano sfuggirci, perchè feconde di una doppia osservazione. La prima affatto generale ci fa conoscere, che la greggia de' parassiti, cresciuta all'ombra delle sommità sociali, fu, è, e probabilmente sarà in ogni tempo, eguale a sè stessa. — Mansueta fino alla pecoraggine in faccia ad un padrone, ha artigli e zanne per dilaniare un suo pari. — Vile dicontro al pericolo, trova nel fondo dell'anima tutto il coraggio del livore e dell'odio nei momenti di tregua. — Trista ed astiosa, essa fa guerra agli inferiori colla superbia, agli eguali colla maldicenza, a chi le sta al di sopra coll'ingratitudine. L'altra tutta speciale al caso nostro ci guida a conchiudere che Giangaleazzo era riescito a meraviglia a trarre in inganno sul suo conto coloro che lo spiavano da vicino. Il giudizio sfavorevole pronunciato da quelli stessi, che strisciando nella polvere gli giuravano sul viso ossequio, per poi metterlo in canzone dietro le spalle, varcava indiscretamente le soglie della corte, e addormentava i prìncipi emuli o rivali nella placida confidenza, che nulla avevasi a paventare da lui, tutto da lui si poteva ottenere. XVI. Al lato opposto della foresta, lontano dal luogo su cui si separavano que' gentiluomini, il terreno presentava un profondo avvallamento, vecchio lavoro delle acque che, nello imperversare delle stagioni, ivi affluivano copiose ed irrompenti. Non erano radi in allora gli esempi d'inondazioni parziali e disastrose; perocchè le acque dell'alto piano non defluivano dapertutto, come oggi, con sistemata misura e per numerosi canali; nè si usufruttavano con tanta economia a fecondare le nostre campagne. Tal fiata in quel burrone travolgevano esse con tremendo rovinío alberi poderosi, frantumi d'abituri o suppellettili; ma, non appena il cielo si faceva sereno, tornavano a correre pure e placide sul fondo dell'alveo. — Ne' tempi calmi non rimaneva altro testimonio della potenza loro, fuorchè la riva scoscesa, dimagrita dalle corrosioni, fin sul vivo della ghiaja, qua e là collegata da una rete di radici, che ne facevano una diga inespugnabile. Contr'esse si sfogava tutta l'ira del torrente squassandole e torcendole talvolta come fuscelli; gli sterpi, invece, ed i fruttici, cresciuti su più dolce pendio, sopravivevano alla burrasca, rilevati quasi ed inorgogliti dalla superata fortuna. A conti fatti, era quel rigagnolo un gran beneficio per gli abitanti del contado, che perciò solevano chiamarlo la _providenza_. Infatti, dove era rapido, per mezzo di gore, metteva in moto le macine; dove l'alveo era più espanso, serviva ad abbeverare i bestiami, a trarre acque per gli usi domestici, a spurgar lini o masserizie. Un giorno, quel giorno della caccia, sulla bassa ora scendeva una contadina da un sentiero a scaglioni al guazzatojo per lavarvi le sue misere biancherie. — Camminava essa lentamente, come glielo consentivano il peso del paniere che reggeva da una parte, e l'agitarsi d'una vispa e paffuta creatura, che si portava in collo dall'altra. La poveretta non aveva altro bene al mondo, che quel suo bambino; nè l'indulgenza materna la rendeva cieca, poichè per verità egli era sì bello e vivace da far superba a buon dritto una donna più di lei fortunata. — Ma quella esistenza parassita e già sì robusta logorava le forze della buona madre. La faccia sbattuta di costei portava nelle rughe premature le tracce non dubie del suo diuturno deperimento; una serietà languida e macilenta teneva quel posto, su cui, solo pochi anni addietro, brillava il franco sorriso della gioventù. Una certa quale avvenenza traspariva sotto quei guasti, come i pregi di un dipinto attraverso le ingiurie del tarlo e dei corrosivi. Vero è che gli affetti non la rendevano accorta di quegli stenti: vero è che non s'era mai fissata nello specchio, e che l'unico specchio della sua materna felicità era la faccia rubiconda e sorridente del suo bimbo. — Ma il sacrificio non cessa d'aver merito, perchè la virtù sa cangiarlo in diletto — non è meno apprezzabile la forza, quando è sostenuta e raddoppiata dal coraggio. Povera donna! povere sopratutto le madri del contado! Avrete ben veduto le cento volte i loro mariti godersi in pace un'ora di requie, e dormire placidamente all'aria e all'ombra? Avrete osservato, che l'opera loro non subisce sindacato o censura; che in seno alla famiglia essi godono ogni preferenza, ed hanno posto d'onore al desco e accanto al fuoco. I dì festivi sono, a rigor di parola, giorni di riposo per essi: anche i più sobrj si danno buon tempo; e l'allegria, o nata spontanea dalle forze ristorate, o nutrita da qualche insolita libazione, non è straniera a' loro crocchj. — Provida spensieratezza in vero, che facendoli per brev'ora liberi di sè e dimentichi degli stenti abituali, prepara alle fatiche del dimani un braccio più vigoroso. Ma alle donne di solito e alle madri sempre è interdetto ogni ricreamento. Dopo d'aver diviso cogli operai d'altro sesso, non in ragione delle forze, i lavori della campagna, esse ritornano al casolare per ritrovarvi nuove e non men penose fatiche. Il governo di fatto della famiglia è esclusivamente affar loro; esse provedono al nutrimento di tutti; a tutti rattoppano i logori panni; sono le infermiere de' vecchi, le governanti de' bambini, le serve della casa. I lavori dell'ago e del fuso sono ozio e riposo per esse. — Fortunate se non sono costrette a vegliare la notte al giaciglio dell'infermo, ed alla culla del bimbo insonne. — In chiesa soltanto le poverette riposano davvero; perchè ivi la fede ricorda loro, che ogni sofferenza, per quanto grave, è il seme invisibile, che, a suo tempo, le farà ricche di inestimabili frutti. Eppure (sarò io peritoso nel dire ciò che ho veduto?) non è infrequente il caso che anche quest'unico e supremo conforto del povero venga amareggiato dall'incauta severità di chi ha il mandato da Dio di rialzare i pusilli e di consolare gli afflitti. — Vidi, più di una volta, anime elette, sotto il martello di troppo austere dottrine, smarrire nella ricerca d'una impossibile perfezione la coscienza della propria rettitudine; e dubiose di lasciare i più sacri doveri insodisfatti, e sconfortate nel non avere forza a troppo difficile cómpito, dimenticare ogni affetto, ogni legame domestico e divenire gravi a sè, alla famiglia ed alla società. — Oh se a queste timide creature s'insegnasse che il _giogo del Signore è soave_, rinascerebbero a nuova vita, forti abbastanza per operare miracoli di carità! La nostra donna non era di questo numero; essa amava la vita, perchè amava il suo caro angioletto. — Giunta che fu al margine del ruscello depose il paniero; poi, colla mano resa libera, accarezzò la testa e le spalle del bimbo, e se lo strinse amorevolmente sul seno, intanto che coll'occhio cercava dove collocarlo vicino a sè, al sicuro d'ogni pericolo. A due o tre passi da quella sponda, su cui una schiera di pietre bigie fissava il posto ad altretante predelline per le lavatrici, il terreno dolcemente declive era sparso di zolle verdeggianti. Là presso, dove uno spiazzo d'erba ricinto dai polloni recentissimi di un albero apprestava la più morbida cuna, pensò la madre di collocare il suo caro bambolo. Ma prima, lo palleggiò, lo fece sorridere, gli prodigò tutti que' vezzosi peggiorativi, che nel linguaggio della tenerezza materna hanno un sì eloquente significato. — Lo depose poscia, lo coperse de' panni e lo ricoperse, quante volte il bambino con maliziosa insistenza rimoveva da sè ogni cosa ghignazzando: e non sarebbe stata la prima a stancarsi di quel trastullo se la bisogna non l'avesse richiamata al lavatojo. — Gli porse quindi non so qual vezzo, e, dopo averlo ravvolto ben bene ne' lini, se ne andò, senza perderlo di vista. — Il piccolo derelitto fece sulle prime la ciera imbambolata; ma si rasserenò tosto che s'avvide, di poter far rivolta contro la tirannia delle fasce. — Scioltosi da tutti gli impacci, a piacer suo distendeva le picciole membra; e cinguettava in un linguaggio che nemmeno la madre sapeva comprendere. In fine velò l'occhio, e s'addormentò. La donna intanto, con tutta la solerzia di una esperta massaja, stendeva sulla pietra que' suoi cenci, li diguazzava una o due volte, e, dopo averli ben battuti e contorti, li sommergeva di nuovo; per tornar da capo colle stesse operazioni, finchè ne uscissero non candidi, ma forse un po' meno sudici e certo assai più lisi. Ad un tratto, scossa da un insolito agitarsi di foglie, senza levare il capo ed interrompere il lavoro, stette in attenzione. “È un soffio di vento, pensò tra sè, che non giunge fin qui al basso. Ma no, soggiunse poi girando lo sguardo, le piante vicine sono immobili; lo sono perfino le foglie delle tremule che mi stanno di faccia.„ — Cessò dal lavoro e si rialzò sui ginocchi, volendo ascoltar meglio, e sperando di ridere del suo inganno. — Quel fruscío tra fratta e fratta durava non solo, ma pareva avvicinarsi. — Fu allora in piedi d'un salto, l'orecchio teso, l'occhio spalancato: e vide che là, donde veniva lo strepito, le cime degli arbusti ondeggiavano, come se alcun che di gagliardo le rimovesse per farsi strada. Colla scorta della ragione, quand'essa fosse sempre l'àrbitra de' nostri sentimenti, era facile trovare più di una causa del tutto innocente a spiegar que' fatti. Ma il cuore, e sopratutto il cuore di una madre, è troppo spesso profeta di malanni; le sue ubbíe sono così subitanee e profonde, che il dominarle d'un tratto, non è piccola vittoria. — Esse non danno tempo a far riscontro tra le opposte probabilità; colgono all'improviso e di fronte, vestono le forme vaghe del presentimento, l'aspetto terribile di un fantasma. Dire quanti e quali pensieri balenassero ad un istante in quella mente, non è cosa agevole; bisognerebbe sapere dipingere i sogni proteiformi di chi ha la febre, fare la storia di tutte le strane superstizioni di quei poveri tempi. La troppo fedele memoria colla prestezza del lampo le schierò sotto agli occhi la possibile realtà delle mille ed una fiabe, di cui s'accendono le vive fantasie dei contadini negli oziosi convegni de' presepi; vide spettri, ombre, tregende, fattucchieríe. La ragione faceva capolino tra quella pressa d'errori, come un raggio di sole attraverso a un temporale, e gridava alto alla sua volta finchè il cuore l'intese. “Non potrebbe essere un uomo, diceva, che passi a caso e pei fatti suoi la foresta? — È di pien giorno; sono queste le terre del Signore di Campomorto. — I malviventi non fanno guerra che alle legna del padrone; e v'hanno de' guardaboschi per loro. Chiunque sia, non vorrà far male a una povera donna, meno ancora ad un bambino.„ Così, banditi per un momento i terrori vaghi e puerili, pareva camminare a gonfie vele e colla scorta della ragione alla scoperta della verità. — Ma la verità, o ciò che ne aveva l'aspetto, le fuggiva dinanzi come il fuoco fatuo sospinto da un'aura incostante. “Un uomo..., pensava tra sè, insospettita. — Ma se è un uomo dovrà pur rispondere — conviene che io l'interroghi.... Olà, chiunque siate, galantuomo, gridava a tutta voce, cercate la strada maestra?... siete fuor di via. Olà, rispondete....„ — e fece silenzio, attendendo. Ma non una parola, non un segno di vita. “Non può essere, continuò ella che il più innocuo animale smarrito da qualche mandriano erri pel bosco? io, io tremerò perchè esso non mi risponde? Pazza che io sono.„ — Ed impadronendosi di questa ipotesi colla ostinata tenacità di chi sommerso nell'acqua abbranca un virgulto, sentì rinascersi in cuore la fiducia, anzi la certezza del proprio salvamento. Ma il conforto non durò che pochi istanti; quanto ancora durava l'ignoranza della causa vera di quel trambusto. Il cuor suo aveva providamente goduto quel po' di tregua per prepararsi ad una scossa più forte. Infatti una pedata pesante, un fiatar greve, un rantolo profondo precedevano la comparsa dell'essere misterioso. — Le fronde e gli arbusti s'aprivano al suo passaggio. Già ne esciva un orribile teschio, un grugno nero, lurido, zannuto: il grugno d'Egeone. La donna a quella vista credette gettare un grido e chiamar soccorso; ma le sue fauci strozzate da uno spasimo convulso non mandarono che un debole lagno. Volle correre, volare su quella china, e le sue gambe irrigidite non marcavano che passi lenti ed incerti. — L'istinto materno la chiamava a proteggere il suo bambino, od a dividere il pericolo con esso lui; ma una mano di ferro la tratteneva inerte al suo posto. “O Madonna santissima, ajutatemi voi! sclamò la poveretta, giungendo le mani in atto di preghiera — O me tapina! la mia creatura! Gesummaria, Gesummaria!„ La sua situazione divenne ancora più deplorabile, da che le si aggiunse lo sgomento d'essere a un filo di perdere i sensi. Già s'accorgeva che le sue membra non le obbedivano. Mentre la tenerezza materna metteva nell'animo suo quella febre, che centuplica il coraggio, era pur doloroso l'accorgersi, che le forze venivan meno, che essa forse sarebbe stata spettatrice inerte di una scena di sangue. Pure ne' momenti gravissimi, un estremo comando della volontà può operare prodigi, e vincere anche le leggi della natura. — Il perchè ella giunse a dominare sè stessa, e non svenne; un calore nuovo ravvivò, come per prodigio, il suo sangue aggrumato, e lo diffuse per tutte le membra! — Potè quindi rialzarsi, tentar alcuni passi, correre difilata sul pendio. Già non era lontana dal bambino, che uno stendere delle braccia, quando, ahi poveretta! un passo falso la fece traboccare, nel momento appunto, in cui l'orribile belva s'arrestava a fiutare il corpo del piccolo dormente. CAPITOLO TERZO XVII. Dicesi che la Venere di Cleomene non sia il ritratto di un'unica bellezza, ma il riassunto di quante esistevano a' suoi dì in tutta la Grecia. La natura ci negò dunque un tipo vivente di ciò che lo spirito umano sa concepire di più bello e sublime; ma nell'offrirci all'incontro qualche esemplare di quanto vi può essere di più sozzo e ributtante, eguagliò, se non vinse, le creazioni della più bizzarra fantasia. La bellezza sta nell'armonia e nell'equilibrio delle parti; cosa più presto detta che compresa, e in ogni caso più facilmente compresa che trovata. L'esclusivo predominio di un'odiosa prerogativa, e l'assoluta mancanza d'ogni buona e bella dote generano quella privilegiata turpitudine, che con parola un po' ardita si potrebbe chiamare la perfezione della deformità. È questo il momento di porre sott'occhio al lettore uno di questi esemplari; ma c'è d'uopo che la fantasia di lui ci soccorra, perchè, da soli e col solo mezzo delle nostre povere parole, dubitiam forte d'essere da meno all'assunto. La ferocia tetra e frenetica, che nei bruti non è per solito disgiunta da venustà di proporzioni e da tratti di maschio vigore, in Egeone, come in tutta la sua razza, s'accoppiava ad uno speciale rilassamento di forme, ad una laidezza tanto più mostruosa, quanto meno decisa. Nulla invero di più ributtante che quell'immane corpo in cui tutto il meccanismo del moto e della forza era nascosto da uno strato fluttuante d'adipe senza contorni e senza costrutto — espressione infallibile di cupa ed insaziabile voracità. Dicasi lo stesso del colore; era nè bigio nè bruno, ma fosco ed ambiguo. La pelle cosparsa di macchie e piazzette era qua coperta di setole irte, là spelazzata a segno da mostrare, in tutta la sua stomachevole nudità, una cotenna floscia, da cui gemeva un untume nauseabondo. L'occhio, che nella maggior parte degli animali è tracciato orizzontalmente, in questo, come nella serpe, scendeva lungo la direzione del teschio, segnato da una piccola fessura a fior di pelle, entro le rughe delle palpebre gonfie e molli come i margini fistolosi di una ferita. Uno sguardo bieco, guizzando tratto tratto dalla pupilla injettata di sangue, rassomigliava al corruscare intermittente di un insetto fosforico. La bocca smisurata, composta sovente ad uno sbadiglio ferino, lasciava travedere due curve _difese_ tarlate e giallognole, ma formidabili, dietro cui si schierava un doppio rango di molari che presidiavano le fauci. La lingua bavosa e cosparsa di papille aspre spaziava in quella voragine ora lambendo le zanne, ora lisciando le labra, quasi prelibasse la voluttà di un pasto insanguinato. Un ringhio non alto come il ruggito del leone, ma selvaggio al par di quello, gli usciva dal petto rimbombando cupamente nella cavità di un torace ampio e riquadrato. Il collo era corto e sepolto, ma l'innata voracità e l'istinto di fiutar checchessia, gli facevano sporgere il grugno di modo che il dorso, la cervice, e la nuca descrivevano una linea sola. Più ispidi su quella gli si arruffavano i peli in segno d'impazienza e di furore, e le zampe irrigidite straziavano il suolo, sciupando le erbe e sollevando il polverío dello sterrato. Ai tempi di cui parliamo, una gran parte del suolo che costituisce la nostra ubertosa pianura era occupata da lande e selve vergini, in mezzo alle quali gli animali selvatici vivevano, e si moltiplicavano al riparo d'ogni offesa. Il cinghiale però, che in altre terre a pari condizione di clima e di terreno cresceva a segno da divenire lo spavento delle popolazioni, non fu mai indigeno di questo paese. Nelle foreste montane degli Abruzzi ne esistono tuttodì; e sono l'oggetto delle più avide ricerche: ma degeneri dalla natía ferocia, confinati dalla crescente cultura dei terreni in pochi recessi, ed ivi pure perseguitati, costituiscono una preda ghiotta, e nulla più. Il cinghiale è onnivoro. Famelico, e lo è spesso, gradisce ogni prodotto de' boschi e de' terreni selvaggi. Ma la sua delizia è la carne. — Irritato, si difende contro l'uomo, lo assale, lo lacera, lo uccide. In balía a sè, e sicuro d'ogni molestia, s'accosta di buon grado a chi s'espone inanzi a lui senza difesa, morde le membra di un uomo dormente, ed a preferenza si pasce delle carni tenere e palpitanti dei bambini. XVIII. La povera donna, non avendo conoscenza di simili animali, non sapeva render conto a sè degli istinti e nemmanco del nome di quello, che le stava di fronte: ma l'aspetto suo sì strano ed orribile le incuteva un indicibile terrore. Eppure il coraggio, che aveva poco prima vacillato alla minaccia d'un pericolo, rinacque in lei dinanzi alla certezza di esso. L'amore materno centuplicò le sue forze. Ricomporsi, rialzarsi e stendere il corpo quanto era necessario per raccogliere il suo bambino nelle braccia, fu un atto solo. Ma il cinghiale vedendo, accostarglisi alcuno, addentò i panni del bambino, e lo sollevò da terra; poi si rivolse indietro, e di buon passo rientrò nella foresta. Imaginatevi il cuore della infelice contadina[9]. Il cinghiale non rendeva la sua preda, nè si apprestava a difenderla; ma fuggiva dinanzi ai passi della donna, eludendo i suoi tentativi, col piegare ora a destra ora a sinistra, come meglio gli tornava conto. Il bambino, squassato brutalmente ad ogni moto subitaneo di chi lo portava, vagiva a far pietà. La madre all'udire que' lagni, raddoppiava d'ardore, di coraggio, di proposito: tentava per vie indirette di raggiungere e di sorprendere l'avversario: di tratto in tratto, e come glielo consentiva l'ansia mortale di quella corsa, metteva strida, per spaventare la fiera, o per chiamar soccorso. — Ma la fiera le trottava sempre davanti, e non si lasciava avvicinare, — Il bosco era o sembrava deserto; nessuno rispondeva alle grida della desolata. Ad un certo punto, s'apriva tra gli alberi uno spiazzato, cui mettevano capo varii sentieri. Per uno di essi il cinghiale vi giunse tutto trafelato; ma vistosi allo scoperto e meno sicuro di sè, s'arrestò, quasi volesse retrocedere e rintanarsi nel più fitto della foresta. D'improviso un nitrito alto e penetrante ruppe quell'angoscioso silenzio. — Il cinghiale vi rispose con un grugnito profondo; la donna con un battere più libero del cuore, con un respirare più largo, che le annunciava il ritorno della speranza. Ma incerti l'uno e l'altra non movevano passo. A quel primo avviso altri ne seguivano, e meno dubj, dell'avvicinarsi di un cavallo. La sua zampa ferrata risuonava anche sul terren disfatticcio; e le intricate viuzze del bosco non gli facevano sospendere un passo ritmico e veloce. La donna spingeva lo sguardo verso quella parte del bosco, da cui arrivava l'annuncio di un probabile soccorso. Non era illusione. — Il calpestío continuava, e si faceva sempre più distinto. L'occhio non tardò a farsi garante di ciò che l'udito aveva scoperto. Cominciò ella infatti a discernere da lontano fra i fusti e le foglie, un non so che di colorito e di mobile, che a tratto a tratto si mostrava e spariva. Quello screzio andava di mano in mano assumendo forma, finchè apparvero in tutta evidenza i colori vivaci di un'assisa da cavaliero, il muso bigio del leardo, il bagliore de' fibbiagli e delle armi. “Oh Vergine santa! sclamò ad alta voce la donna, facendosi incontro al ben arrivato, e stendendo verso lui le braccia in atto di chiedere soccorso. — Accorrete o messere, presto, accorrete. Per pietà, per le anime de' poveri morti, abbiate compassione di noi...„ Non fa d'uopo che si dica chi fosse quel cavaliero; ognuno l'ha già riconosciuto. Smarrito nel bosco e condotto, per caso od in balía de' suoi pensieri, lungi dai cortigiani, il Conte di Virtù andava in traccia di un sentiero per ricongiungersi a' suoi, quando le grida lo fecero avvertito di un vicino pericolo. Fantasticando nella ricerca della cagione più probabile di quell'allarme, gli balenò súbito alla mente il sospetto, che alcuno fosse alle prese col cinghiale. — Diè di sprone al cavallo verso quella parte, attraversando il bosco con quanta celerità gli era consentita dalla sua foltezza, e non curando il continuo flagello dei rami che gli sbarravano la via. Giunto sullo spiazzato, vide che non s'era male apposto, e d'un salto fu a terra. Il leardo, avute le redini sul collo, non abusò della libertà accordatagli; s'arrestò, e levato alto il capo, parve cercare collo sguardo il suo padrone e richiamarlo a sè con un nitrito. XIX. Volgere le offese contro il cinghiale, tenergli dietro, assalirlo, ucciderlo, erano cose facili a chi aveva prontezza d'armi e di coraggio. — Ma nel caso presente, perchè la vittoria non venisse sfruttata, o perchè non costasse troppo cara, ci voleva assai più tattica che valore. — Il nemico traeva seco nella ritirata un prezioso ostaggio. Il conte, a tale considerazione, moderò il passo, ed accennò colla mano alla donna che facesse sosta, prevedendo che la fiera, riavutasi dal momentaneo turbamento di un'aggressione, avrebbe obedito alla sua inerzia naturale. — E infatti, al cessare d'ogni movimento, s'avviò dessa colla sua ordinaria lentezza nel bosco, trascinando seco e sempre allo stesso modo, la preda. — Il cavaliere, tenendo fisso lo sguardo a quel punto in cui il fruscío de' rami e l'ondulazione degli arbusti accusavano il passaggio del cinghiale, legò in un attimo il cavallo ad un albero, impugnò l'asta, ed avvicinatosi alla donna, le disse sommessamente: “coraggio.„ — Poscia lesto, in punta de' piedi, evitando ogni strepito, diede una giravolta; e, per una via più lunga, si diresse verso quella parte del bosco, dove, a suo intendimento, erasi nascosta la fiera. Con arte finissima si era questa collocata in una posizione quasi inespugnabile, acquattandosi ai piedi di una quercia due volte secolare, entro un covo formato da una siepe di radici contorte e scalzate. Il principe, poichè l'ebbe veduta, non l'affrontò, essendovi troppo grave pericolo per la vita del bambino, che giaceva a terra presso le zampe dell'animale; ma valendosi di quella teoria, che abbiamo udita dalla bocca del guardacaccia ad istruzione di un male esperto, studiava il modo di costringere l'avversario ad un movimento di fianco, che gli permettesse d'impadronirsi anzitutto della preda. L'asta che egli impugnava, come tutte le armi che servivano a tal genere di caccia, aveva una lama acutissima fatta a zagaglia; tagliente cioè da un lato, dall'altro fornita di spine lunghe e ricurve, a guisa delle frecce de' selvaggi, che, penetrate nel corpo, non possono ritrarsi dalla ferita senza squarciarne orribilmente i margini. Con ciò e col mezzo di uno spuntone più lungo e del pari ricurvo, che esciva dal collo della lama dove la cocca bipartita in due branche si stringeva al troncone, diveniva cosa meno difficile il ferire l'avversario nella parte opposta a quella in cui si trovava il feritore, e trarlo nell'inganno di cercare il nemico dov'egli non era. Tale maneggio, inutile forse colle altre fiere d'ordinario più snelle, dava tempo a preparare nuove offese contro questa, sempre tarda ed impacciata ne' suoi movimenti. Il conte vedeva adunque il cinghiale; ma questo non si accorgeva di essere veduto. — Il primo, s'avanzava pian piano, guardandosi dal tentare offesa, che non fosse un colpo sicuro. L'altro, interamente ricomposto dalla fiducia di trovarsi solo, vagheggiava in uno spensierato riposo la squisitezza della rara ghiottornía che s'aveva dinanzi; fiutava cupidamente il bambino, e ne leccava i panni e le carni. La creatura, appena fu deposta a terra, riavutasi dagli squassi sofferti, cessò dal piangere. Poco lungi, sulle pedate del suo difensore, levavasi la madre in punta de' piedi, drizzando, fin dove era possibile, lo sguardo per indovinare che avvenisse. — Lo sgomento d'alcuni istanti prima erasi cangiato in un'angoscia più profonda ma meno disperata. Quando il conte fu discosto dal cinghiale non più che la lunghezza dell'asta, si arrestò. Prima che il cinghiale levasse il capo, egli stese il braccio, drizzò l'asta, la fece scorrere sopra il dorso della fiera senza punto toccarla, poi, inclinatala con prontezza, la percosse ai lombi collo spuntone; ma il fece sì leggermente che potè ritirar l'arma all'istante. Scoppiò a quell'atto la mal repressa rabbia della belva. — Al sordo grugnito fece succedere uno strido furibondo, che echeggiò nella foresta. Spalancò le fauci, corrugando il labro superiore e componendolo ad una smorfia, che pareva il sogghigno di un demonio; poscia, poggiandosi fortemente sulle zampe anteriori, e curvando il dorso colla scorrevole pieghevolezza di un verme, si voltò verso quella parte da cui credeva venirle l'offesa. Approfittò il conte di quel movimento per far due passi in avanti, stendere una mano e sollevar da terra il bambino. — Impadronitosi della preda, retrocesse fino ad incontrare la madre; la quale tosto raccolse nelle braccia la cara creatura: con qual gioja, con quante benedizioni lo pensi il lettore. Il cinghiale, non appena s'accorse dell'inganno, meditò la vendetta. Quatto quatto, a passi misurati, strisciando il ventre a terra, si fece incontro al suo nemico; e quando gli fu vicino, sostò di bel nuovo, accosciandosi un istante in atto di misurare un salto. Il furore aveva dato a quel pigro colosso una precaria agilità: un momento ancora, ed esso avrebbe investito con tutte le forze delle sue membra, e coperto con quanta era la sua mole, il corpo dell'avversario. Ma il conte che lo dominava per l'altezza della statura, per l'agilità delle membra e per l'imperturbato impero dello sguardo, non pose tempo di mezzo, e, côlto il destro in cui la belva alzando il muso gli presentava indifeso il petto, vibrò di bel nuovo l'asta, e tentò colpirlo nella regione del cuore. — I muscoli di ferro di una tigre sarebbero stati squarciati da quella lama egregiamente temprata, scossa da un braccio robusto ed intelligente; ma la cotenna di quella belva estinse il colpo, opponendovi la resistenza tutta propria, ad una sostanza molliccia e sfibrata. — Il ferro rimase quasi innocuo nelle cellule della pinguedine, ed il cinghiale, irritato ancor più dal dolore della ferita, si preparò a slanciarsi, con maggior impeto e con ira indicibile, contro il suo feritore. Importava al conte d'aver libera l'arma, e non poteva ritrarla; gli uncini, ond'era sparsa la costa della lama, si piantavano ne' margini adiposi ed escrescenti della ferita. La forma e la tempra velenosa di quell'arma rendevano certa la morte di chiunque ne fosse tocco a sangue; ma l'effetto de' suoi colpi non era immediato. — Il conte non ripetè più che una volta il tentativo di ritirare la zagaglia. Vedendo che a quelle scosse il cinghiale si contorceva orribilmente, e mandava strida spaventevoli, senza punto scemare le minacce, pensò che fosse più saggia cosa l'abbandonare il troncone e metter mano al pugnale. — Egli previde, ciò che infatti avvenne. Consisteva quel pugnale in una lunga lama fina e forbita, di sezione triangolare, tagliente sul filo ed acutissima. Una guardia di acciajo lavorata a trafori proteggeva l'impugnatura, coperta d'una guaina di cuojo granito, che ne rendeva più fermo e facile il maneggio. — Esciva essa dalla più famosa officina degli _spadari_, e portava l'impronta della maestranza sul principio della lama. Più avanti, in mezzo a' bizzarri ghirigori tracciati a niello, erano scolpite in caratteri greci le parole: _in te vincam_. Quell'arma aveva la sua storia. — Era stata l'indivisibile compagna di Galeazzo, padre del Conte di Virtù, allorchè militò in terra santa; e la portava al fianco quando nel 1343 fu insignito del cingolo militare in Gerusalemme. — Ad essa, in più occasioni, egli fu debitore della vita. — È fama, che tiepida del sangue di un infedele, fosse dal novello cavaliere deposta sui gradini del santo sepolcro, e che da quell'atto di pietà ritraesse il privilegio di rendere incolume chi la portava. Reduce dalla Palestina, Galeazzo l'affidava ad un artefice di Damasco, perchè v'incidesse quelle parole di buon augurio. Il conte indietreggiò alcuni passi per calcolare la portata degli strani e convulsi movimenti della fiera. — Questa ora s'ergeva sulle zampe posteriori, ora s'appiattava, ora balzava di un tratto da un posto all'altro, soffiando, grugnendo e mordendo il troncone dell'asta. Anzi in quella foga, cui la spingeva un improvido istinto di liberarsi da quella puntura, non faceva che inacerbirne gli strazii; e con essi crescevano, se pur era possibile, i furori. — L'asta, abbandonata dalla mano del cavaliere, strisciava a terra dalla parte dell'impugnatura. Ad ogni movimento retrogrado della fiera, essa scorreva indietro radendo il suolo, e ad ogni sua spinta in avanti, trovando nel terreno una resistenza invincibile, si configgeva nelle carni, approfondiva e lacerava la ferita. Imaginate quale strazio; quanto furore! L'estremità del male sospinse la belva ad un estremo tentativo. Aveva gli occhi fuori dalle orbite, le membra convulse e palpitanti, le zanne atteggiate a mordere, ed insozzate da una bava cruenta. — Non potendo correre di fronte, per non rinovare le trafitture, spiccò con una agilità felina un salto, e vi impresse tal impeto, che dominò d'un tratto la posizione del suo avversario. — Il peso della sua mole e il movimento impresso dal furore compivano involontariamente l'atto aggressivo. Il cinghiale si gettò, o meglio cadde come corpo morto, sulla persona del conte, e lo stramazzò. Ma cadendo costui, volle fortuna che il braccio dritto gli restasse libero. Strinse egli allora il pugnale, e vibrandolo di tutta forza, glielo ringuainò fino all'elsa tra te coste. Ben s'avvide quanto gli costasse cara la vittoria; ma non si perdette d'animo. Stretto fra le branche della sua vittima, cui i spasimi dell'agonia davano un vigore fittizio, sentiva lacerarsi a brani il giaco di cuojo, le sottovesti e i lini; gemeva sotto un peso insopportabile che gli toglieva il respiro; soffocava dalla nausea di un alito fetente; sentiva effundersi sulla nuda carne delle spalle e del viso la sanie sanguinosa, che la fiera eruttava: ei vinceva, e moriva ad un tempo d'ansietà, di schifo, di terrore. E non era tutto; l'animale boccheggiante non aveva compiute le sue vendette. Alla mostruosa ampiezza della sua bocca, la spalla denudata di un uomo era un nonnulla. Egli la coprì delle sue labra, la strinse tra le zanne come in una morsa di ferro; squarciò la pelle, s'addentrò nelle carni, trafisse i muscoli, fino a far scricchiolare le ossa. Dopo ciò, bevve un largo sorso di sangue, diè i tratti, e spirò. Il conte, che fino allora non aveva abbandonata l'elsa del pugnale, e lo scuoteva per inacerbire la piaga del suo avversario, dovette alla fine cedere agli insopportabili spasimi della sua ferita. Oppresso da un peso enorme, che gli toglieva il respiro, indebolito dalla perdita del sangue e dallo strazio delle carni, si sentì venir meno le forze. Una nube gli velò la mente; un pallore mortale gli si effuse sul volto: tentò invano di chiamare soccorso; chiuse gli occhi, e svenne. XX. La donna, riavuto il suo bambino, non mise il cuore in pace, prevedendo che il modo con cui esso le veniva restituito, era il principio, non lo scioglimento della questione. Non aveva essa armi o forza, nè possedendone, avrebbe saputo impiegarle. Ma la sua mente, poichè ebbe diretto a Dio un atto fervidissimo di ringraziamento, scese alla realtà delle cose che le si paravano dinanzi, e si agitò dolorosamente vedendo il suo liberatore caduto in quello stesso pericolo, dal quale egli aveva poco prima, con tanto coraggio, sottratto un'altra vittima. — Pregava quindi il cielo, che la illuminasse sul modo più acconcio a soccorrerlo. Con occhio fisso ed attonito aveva assistito a quella scena di calma provocante, che precedeva la lotta. Dalla fermezza del conte aveva tratto buon augurio per lui; quando vide scorrere un rivo di sangue dal petto del cinghiale, credette confermato il suo presagio. — Ma non tardò ad accorgersi dell'inganno. Allorchè la fiera con quel furore, che abbiam tentato descrivere, si scagliò moribonda sul suo avversario e lo stese a terra, la povera donna mise un grido, e, volte le spalle ad uno spettacolo cui non le durava la vista, corse, come disennata, nel bosco chiamando ajuto. Un branco di que' cavalieri che, come si è detto, errava in traccia del suo padrone, udì quelle grida, ed entrò in sospetto di qualche serio avvenimento. Ognuno di essi, libero di sè o chiamato a dare il suo parere a quattr'occhi, avrebbe deciso di non badare a tanto; ma nessuno osava proporlo: quanto a coraggio, mancava loro fin quello della viltà francamente e publicamente professata. Il perchè, tutti proseguirono la via battuta; attratti, per dir così, dalla voce della sventura; ma silenziosi, col broncio sul viso e colla paura nel cuore. Quando alla fine, dopo breve corso, comparve dinanzi a loro la donna, l'animo di que' prudenti, scorgendole in volto i tratti di un'angoscia mortale, non si rasserenò. — Una serie di domande piovve su lei; “Che è? che avvenne? a che quelle grida? parlate in nome di Dio...„ La donna, come meglio seppe e come glielo permetteva il turbamento dell'animo, raccontò il fatto. E benchè la sua narrazione fosse talvolta prolissa, tal altra insufficiente ed interrotta, l'essenziale d'un grave pericolo per un cavaliero, apparve come una verità incontrastabile, alla quale non era lecito rispondere in altro modo che coll'accorrere prontamente al soccorso. Giunti sul luogo del combattimento, videro quello che già sappiamo. È inutile descrivere le impressioni cagionate da quello spettacolo sull'animo di ciascuno. — Il timore non era svanito del tutto; in molti rimaneva il sospetto che la morte del cinghiale fosse apparente. Anche sulla sorte del conte s'arrestava il pensiero de' cortigiani, e si mesceva a un doloroso dubio. La sua disgrazia reclamava il rimpianto di tutti quelli, che credevano impossibile trovar un ozio più beato e più pingue. — Tutti facevano corona al corpo esamine; e ciascuno, affettando un'aria mesta e compunta, voleva farsi credere il più fido ed affezionato de' suoi servitori. Due canattieri si fecero avanti per liberare il conte dall'enorme peso che lo schiacciava. Vi si avvicinarono cautamente, coi coltelli impugnati, pronti a ferire se la belva avesse dato segno di vita. Ma non vi fu bisogno d'altro che di braccia vigorose per levare da terra il cinghiale, e sciogliere le strette, con cui s'era avvinghiato alla sua vittima negli ultimi momenti della lotta — Le branche della fiera ancora tiepide, conservavano l'inflessibilità che loro era stata impressa dal furore convulso, che precedette la sua morte. Sciolto il nodo e gittata in disparte la fiera, i cortigiani, dando ancora più rilievo al loro aspetto pietoso e commosso, si avvicinarono al conte per prestargli soccorso, se pur non era troppo tardi. Lacero, insanguinato, colla testa cadente all'indietro, giaceva egli in una fanghiglia rosseggiante. Il volto avea livido, l'occhio socchiuso, le guance infossate da una magrezza improvisata dagli spasimi. — Da un ampio straccio praticato nelle vesti, vedevasi a nudo la ferita, contornata da grumi, in mezzo ai quali gemevano stille di sangue ancor rosso e tiepido. Era quello l'unico sintomo di vita. — Uno de' suoi, inginocchiatoglisi a' fianchi, gli pose una mano sul petto e gli cercò il cuore. I compagni, collo sguardo fisso nel volto dell'esploratore, aspettavano una decisione suprema, e dalla faccia di lui sparuta, mesta, solcata da rughe, che esprimevano nel modo il più solenne la gravezza di quell'istante, s'atteggiavano ad un aspetto di dolore, che forse era troppo uniforme per sembrare del tutto veritiero. Ad un tratto, il viso di colui si rasserenò, le labra dianzi spenzolate si rialzarono, le profonde rughe della fronte sparirono; il suo aspetto sembrò porre una riserva alla sentenza pronunciata poco prima con una taciturnità troppo eloquente. — Levò lo sguardo, e con ippocratica gravità disse agli astanti. “Il cuore batte: sì leggiermente però, che sembra vicino ad arrestarsi del tutto; presto, togliamolo da questo luogo, ed affrettiamogli i soccorsi dell'arte.„ XXI. Mezz'ora dopo, un convoglio di cavalieri preceduto da una bara, formata da rami d'albero spiccati di fresco, entrava nella corte del Castello di Campomorto. Era steso su di essa il Conte di Virtù. Dal suo volto era sparito quel lividore cagionato dal peso, sotto cui dianzi soffocava. Una pallidezza trasparente annunciava il ritorno alla vita ed il ravviato corso del sangue. Un cavaliere gli reggeva la testa; un altro, premendogli leggermente i polsi, li consultava ad ogni tratto, assicurando i compagni, essere ormai rimosso ogni sospetto di morte. — Quanto alla ferita non era lecito pronunciare; certo ella doveva essere gravissima. Le pedate della comitiva erano distinte da continue stille di sangue, che dopo avere inzuppati i lini, in cui era avvolta la ferita, piovevano dalle foglie, onde, era tessuta la bara. La notizia della dolorosa avventura precedette al castello l'arrivo dell'ospite. — Agnesina, compresa da pietà e da ammirazione verso chi aveva esposta la sua vita con tanto coraggio e con sì prodigioso successo, si chiamò fortunata di potere essere utile ad uomo che soffre. Il cuore della fanciulla era troppo franco e sicuro di sè, perchè, anche in faccia ad un impegno sì nuovo ed improviso, potesse nutrire il più lieve imbarazzo, la più piccola timidezza. — Ella medesima, ajutata da Canziana, allestì con ogni sollecitudine un letto nel migliore appartamento; poi andò incontro al Principe, che, ancora fuori de' sensi, veniva trasportato sulle braccia de' suoi, nell'interno del Castello. Intanto che lo si poneva a giacere, uomini a cavallo correvano a spron battuto sulla strada di Pavia e di Binasco in cerca di medici e di persone dell'arte — Fra la gente del séguito era un arrabbattarsi continuo, una foga di correre e di chiedere, una gara di servigi, quanto solleciti altretanto inopportuni. — Gli uomini del contado strabiliavano ad udire il fatto; e si dolevano di non essere accorsi in aiuto dell'eroe. — Le comari proponevano rimedj d'ogni specie, erbe, bibite, balsami d'effetto sicuro, il tocca e sana d'ogni male: e ciascuna di esse aveva una serie di prodigi da raccontare a rinforzo della proposta: peccato che in quel parapiglia non si trovasse un orecchio che avesse pazienza d'ascoltarle. Agnesina e la sua governante (ma più quella che questa) conservavano in mezzo al trambusto un contegno alieno da ogni smargiasseria — Volevano essere operose, e perciò cominciavano dal mostrarsi calme. La nobile presenza della donzella impose silenzio ai garriti delle donne, alle vanterie dei contadini, alle verbose sollecitudini de' cortigiani. Vedendo che costoro s'inchinavano dinanzi alla sua dignitosa bellezza, credette poter giovarsi di quest'atto di riverenza per chiedere loro d'essere introdotta nella camera dell'infermo, proponendosi di vegliarlo fino all'arrivo dei medici. Agnesina (lo abbiamo detto nel parlare della sua infanzia) era, pe' suoi tempi e fra le donzelle sue pari, un prodigio di sapere e di cultura. — A quei dì l'arte salutare, studiata e praticata in grande nelle scuole e nelle corsìe degli spedali allora nascenti, era ne' luoghi lontani dalla città interamente abbandonata agli empirici, che, con nessun'altra dottrina fuor quella di una pratica grossolana, riescivano non infrequentemente a strappare qualche vittima ad inevitabile morte. La necessità pertanto di giovare a sè ed a' suoi, quando e dove non era facile l'aver soccorso dagli altri, impegnava ognuno a farsi pratico nella cura de' mali ordinarii e di più facile guarigione. — L'ignoranza ed i pregiudizii del popolo furono sempre favorevoli a questo contrabando della scienza; ed anche in oggi il vulgo, pronto a deridere i serii dettami della dottrina, perchè non v'intende nulla, accoglie di buon grado le più assurde e le non meno misteriose prescrizioni di un cerretano o d'una femminetta; forse perchè l'ignoranza è dote comune fra loro. — E siccome l'empirismo, nella maggior parte de' casi, si giova di sostanze semplici ed innocue, così ogni suo prodigioso successo non è altro che un tributo di lodi alla natura, che, abbandonata alle proprie forze è, soventi volte, medica esperta di sè stessa. Anche Agnesina aveva studiato i _semplici_, e dalla applicazione di essi otteneva spesso i più felici risultamenti. Vivendo gran parte dell'anno in mezzo ai poveri campagnoli, conosceva quale suol essere la causa principale de' loro malanni; e alcuna volta seppe rimoverla e prevenirne le conseguenze; più spesso giunse ad arrestarne il corso. La carità era il suo sovrano rimedio, la panacea infallibile che rilevando il povero dal suo languore, distruggeva il germe di malattie insanabili e di morti premature. Quando poi o per la propria insufficienza o per quel mistero in che si cela la più squallida miseria, non giungeva in tempo ad impedire il male, ella sapeva mitigarne la gravezza, somministrando con sano criterio que' rimedj, che richiamano le forze ristoratrici della natura. Se la sua scienza era limitata e il novero de' suoi farmaci ristretto, lo zelo e la pietà, con cui li amministrava, non avean confine, e ne centuplicavano il valore. Ne' casi di qualche importanza ella stessa preparava e porgeva le pozioni; nè s'allontanava dall'infermo finchè non avesse veduto gli effetti del rimedio: esperta fino d'allora della necessità di attraversare la falsa compassione della gente vulgare, che crede rendere la salute ad un malato, accontentandone ogni strana voglia, o rimpinzandolo a suo dispetto. Nel medicare e fasciare le ferite, arte più pratica che induttiva, poteva chiamarsi abilissima; perocchè le continue guerre de' Milanesi contro gli Imperiali, e i Firentini, quando Bologna era il pomo della discordia fra Barnabò Visconti e Giovanni da Oleggio, riempiendo la città nostra di feriti, che per solito s'abbandonavano alla cura ed alla pietà de' cittadini, le avevano offerta l'occasione di fare una vasta esperienza. Agnesina, recatasi al letto del principe, si sentì commossa fino al pianto nel mirare quel volto sì nobile e leggiadro, su cui la vita fuggente aveva impresso le tracce di una lotta eroica, chiusa dagli spasimi di una terribile agonia. — Predominata da una pietà imperiosa, non pensò chi ella era, nè chi fosse l'uomo, che le stava davanti; vinto il naturale riserbo d'una fanciulla, e risoluta di mettere in opera quanto era in lei per alleviare i dolori dell'infermo, respinse quella sensibilità morbosa ed inerte che guida alle lacrime, e rifugge dalla vista del sangue. Gli si avvicinò quindi senza esitanza; con una mano lieve ed esperta staccò ad uno ad uno i panni, che aderivano cruenti alla ferita; ed ajutata da Canziana, che le reggeva una sottocoppa piena d'acqua tiepida, lavò diligentemente la piaga, facendovi scorrere sopra un lino umido e finissimo. Allora solo potè rilevare quanto fosse vasta e profonda la piaga; quanto acuti dovevano essere stati i dolori; come sarebbe lunga e penosa la cura: ma in cuor suo si rallegrò pensando che la guarigione era certa. Ripetuta più volte la lavatura, che poneva a contatto della viva carne un umido lenitivo e refrigerante, il volto del malato sembrò rianimarsi alcun poco. — Ma Agnesina (le faremo noi torto di questa debolezza?) che augurava in cuor suo ogni bene a colui, temeva di vederlo troppo presto ritornare all'uso de' sensi. — Dinanzi ad un corpo inanimato ella si sentiva più sicura di sè; ove gli occhi del cavaliere si fissassero ne' suoi, dubitava della propria fermezza. — Se poi avesse udita la sua voce, chi sa? avrebbe forse arrossito: ma di che?... del bene forse che ella operava? Nessuno oserà condannare la fanciulla se chiedeva di non essere disturbata nella sua operazione. Anche il chirurgo de' nostri giorni addormenta coll'ètere l'infermo, per non sentire una pietà che potrebbe essere fatale agli interessi dell'arte e del cliente. Compiuta la prima parte della medicatura e ripulite diligentemente le incisioni profonde, che attestavano la formidabile potenza delle zanne d'un cinghiale, Agnesina si fece dare dalla governante il bisognevole per la fasciatura. Sopra uno strato di faldella morbidissima stese un unguento composto con sugo di dittamo, riputatissimo a sanare le piaghe ed a calmarne i dolori; e, rinversatolo sulla ferita, lo fece aderire, appoggiandovi lievemente la mano. L'infermo allora si scosse di bel nuovo; e con un brusco corrugare delle ciglia accusò un dolore più intenso. Ma quel sintomo fu passaggero. La fronte gli si spianò ben tosto, e il volto riprese la sua consueta immobilità. — Una circostanza però dava già credito al rimedio. Dopo quella doglia momentanea, l'immobilità dell'infermo non rassomigliava, come prima, all'inerzia, di un cadavere, ma alla calma di chi dorme. Con una perizia, che farebbe invidia ad un maestro dell'arte, e che è spontanea alla donna, istintivamente abile a tutto ciò che giova alla umanità sofferente, la fanciulla fasciò in una lunga benda l'omero dell'infermo, e vi assicurò la medicatura. — Rimessa poscia ogni cosa in ordine, si ritrasse dietro i drappelloni che piovevano dal sopracielo del letto; aspettando con impazienza il risultato delle sue cure. — Canziana era con lei; operosa, compassionevole, esperta essa pure, la buona donna; ma dobbiam dirlo? la pietà della fanciulla era altra e ben più nobile cosa. XXII. Il sole era già scomparso dall'orizzonte. L'Esculapio, fatto chiamare da Pavia, lottava fra due opposti principii: la fretta dell'invito e la sua flemma abituale. Ma dopo maturo esame cedeva all'aforismo _festina lenter_, tanto a lui prediletto e merendava in tutta pace, intanto che un famiglio poneva il basto al suo ronzino, da lui per vezzo chiamato Bucefalo. Levatosi dalla mensa, colla stessa pace visitava uno per uno i suoi ferri, e li chiudeva in un astuccio. Calzava poscia un paro d'enormi stivali, e ben bene imbaccuccato scendeva in corte; dove, abbracciata la moglie e non so quanti figli, raccomandò la casa ai famigliari, fece il segno della croce, inforcò Bucefalo e partì a un piccolo ambio, nella beata illusione di correre veloce come il pensiero. I cortigiani raccolti in una gran sala, ristauravano le forze con una sontuosa cena, libando alla salute del conte, a cui predicevano la guarigione per l'indimani, onde torsi dall'impaccio di durare nel cerimoniale del dolore. — Il malato, a parer loro, non aveva altro bisogno che di riposo, ed essi, dimenticatolo tra le allegrie della mensa, servivano a' suoi interessi con tutto lo zelo del mestier loro. Cacciatori, canattieri, valletti trincavano intanto nel tinello, gridando a testa, e buffoneggiando. Anche Canziana era ita a dare gli ordini opportuni: a provedere cioè il bisognevole per ospitare tanta gente. Nella camera dell'infermo, accanto alla proda del letto, trattenendo quasi il respiro per non turbare la calma dell'assopito, stava Agnesina immemore di sè e d'ogni cosa sua; profondamente ma non dolorosamente commossa, da che ogni sintomo le faceva sperare prossimo il buon successo delle sue prime cure. Quell'essere sola non le era grave: anzi compiacevasi di non avere a dividere con altri la sodisfazione de' suoi pietosi officii. Avrebbe bramato di poter chiamar inutili e tardivi i servigi del chirurgo che si attendeva; perchè ogni merito fosse suo. L'aspetto del Conte, ben lungi dall'inspirarle peritanza, le infondeva una sicurezza affatto insolita: era come se l'avesse incontrato altra volta, come se al suo destarsi fosse certa d'essere riconosciuta da lui. — Ma desiderava e temeva ad un tempo che egli si risvegliasse; affrettava col pensiero il momento di mirarlo negli occhi, di udirne la voce; eppure era ancora dubiosa se avrebbe avuto il coraggio d'affrontare tutta sola i suoi sguardi, e di rispondere senza tremare ad una sua dimanda. — Mistero del cuore umano, che non m'arresto a spiegare, poichè ognuno dirà di saperlo meglio comprendere che definire. Lotta di sentimenti ovvii e spontanei, onde si genera in noi quel dualismo di forze, che la filosofia degli antichi attribuì con troppo facile soluzione ai principii del bene e del male, che si contendono l'impero della nostra volontà. Ma dove poteva esservi male in quanto operava Agnesina? Libera da ogni affetto che non fosse santo, nuova alle passioni che intorbidano la vita, ignara delle arti che insidiano la verginità della mente, accudiva al più nobile, al più santo dei doveri. Quell'interna commozione non poteva dunque essere un'avviso della coscienza fin allora incolpevole; era e doveva essere il presentimento del pericolo ancora lontano; l'istintivo e geloso amore della propria spirituale conservazione. Un ultimo raggio di luce entrava dalla finestra socchiusa, e diradava debolmente le tenebre, in cui era immersa tutta la camera. Non bisogna omettere una circostanza, che vale, meglio che altro, a far conoscere lo stato del cuore della fanciulla. Al crescere della oscurità, l'animo di lei, che in tutt'altro ordine di cose si sarebbe affievolito, sembrava rinfiammarsi. Di pieno giorno, o sotto l'influsso di una luce artificiale, avrebbe durato in quella indecisione, che la stringeva all'inerzia: la solitudine ed il bujo le diedero animo ad un tentativo. Il letargo dell'infermo era troppo protratto. Ella che credeva d'avere i mezzi per scioglierlo, rimproverò sè stessa di dappocaggine, se fino a quel momento le era mancato il coraggio d'adoperarli; ponendo ogni suo scrupolo sotto la salvaguardia della responsabilità che pesava su lei sola, tutrice in quel punto della vita e della salute d'un uomo. Tolse quindi da un armadio una fiala di aceto medicato, atto a dare una scossa energica a' sensi intorpiditi; e versandone alcune goccie sul lembo di un pannolino, bagnò le tempie del malato, indi glielo porse sotto le nari. L'infermo, riscosso di colpo, aperse gli occhi, li girò intorno ed articolò alcune voci confuse. — Incoraggiata da quel successo, la fanciulla ripetè la bagnatura. L'occhio del malato parve riavere la facoltà visiva; il suo labro riacquistò la parola. Guardò, e vide: parlò, e chiese dove fosse. Ma la sua dimanda rimase ad un tratto sospesa. Colpito da un'estasi improvisa, egli fissava lo sguardo sulla donna di angelica bellezza, che si vedeva allato, di cui non sapeva spiegare la meravigliosa apparizione. Conscio d'aver la mente confusa e trovando nel séguito delle sue avventure un vuoto inesplicabile, ei dubitò di sè, de' suoi sensi; e credette sognare. — Con un movimento inavvertito levò allora un braccio, e corse colla mano agli occhi, per rimoverne la nebbia. Quel atto gli ridestò una puntura acutissima all'omero; il dolore della ferita gli fece trovare il filo degli avvenimenti; per esso gli tornarono alla memoria ad uno ad uno i terribili istanti, che avevano preceduto una densa notte piena d'inesplicabili sogni. Quel dolore, per quanto aspro, lo confortò; poichè gli dava certezza d'essere vivo e sveglio. Stese la mano per assicurarsi della presenza di colei, che gli stava allato — Ah quanto fu lieto in accorgersi che non era un sogno! Egli toccò, egli strinse la mano d'Agnesina. Se alcuna volta ci accade di vedere un incendio, che investa quanto ha vicino, e consumi quanto investe, la prima e la più ovvia delle domande è: — quale ne sarà stata la cagione? E per solito ci sentiamo dire che la più perdonabile delle trascuranze, la più lieve delle imprudenze generò quello spettacolo di desolazione. — Or bene: prima di entrare nella storia di un lungo ed infelice amore, torna a conto l'accennare il piccolo fatto che lo cagionò. Quando ci saremo arrestati un momento su di esso, e ne avremo calcolato la potenza e seguito il primo sviluppo, non accadrà che una passione, perchè nata per prodigio, sia accolta come un'invenzione da novelliere. Quella stretta di mano a cui il conte ebbe ricorso per riaver fede ne' suoi sensi, e che la fanciulla gradì, perchè il rifiutarla era atto di scortesia discorde dall'innata gentilezza dell'animo suo, fu il primo e solenne pegno di un legame indissolubile. Ma se l'estrema conseguenza di quell'atto fu una sola per entrambi, non doveva essere identica la prima impressione che esso preduceva su due cuori d'indole omogenea, ma ben diversi tra loro. La sensazione d'Agnesina era un misto di rammarico e di dolcezza: questa vinceva quello solo perchè il bene, che ella provava, era inatteso. Le balenò nel cuore la speranza d'aver trovato ciò, che rassoda e completa un'esistenza già esperta di mancare d'alcuna cosa, senza sapere che domandare, ed a chi. — Quella momentanea gioja era però attraversata da una vertigine, che ravvolgeva il tutto nel mistero; e quel mistero le era penoso. — Provava ella l'ansia di colui che si accosta ad un pendío rapidissimo, su cui l'arrestarsi è difficile, più difficile il governare la corsa, impossibile il retrocedere; e cercava d'essere giustificata se, per legge di un destino ineluttabile, ella fosse discesa. Ammirava sui nobili lineamenti dell'uomo, che le stava davanti, l'eroismo della carità spinto fino al sacrificio della vita; vi leggeva il valore temprato dalla mitezza, la sapienza congiunta alla semplicità, la bellezza rilevata dalla gagliardia. — Il caso, che lo aveva condotto nella sua casa, ed affidato alle sue sollecitudini, fu da lei interpretato come un decreto della providenza. Le parve infine che le cure, prodigate a lui sì felicemente, le accordassero, qual premio, il diritto di vegliar anche per l'avvenire alla sua incolumità. Pensieri sì varii, sì nuovi, sì disparati s'incrociavano nella sua mente con una rapidità che rifugge alla più minuta suddivisione di tempo. — Ogni sentimento non si sviluppava solo e distinto, ma rimescolato cogli altri in un tutto, d'onde emergeva quello stato indefinibile, che è ad un tempo desiderio ed angoscia, gioja ed amarezza. Ma non una parola escì da quel labro, non uno sguardo tradì l'interna lotta dei sentimenti. — Soltanto un lievissimo rossore le accese involontariamente le gote, ed anche quello svanì inosservato all'occhio discreto del cavaliero. Costui, anche in altro momento e nella pienezza delle sue forze, avrebbe riconosciuta ed ammirata la beltà d'Agnesina. Il suo occhio penetrante avrebbe distinto sull'angelico volto di lei quel raro e sublime pregio dell'avvenenza, che, sotto diafani lineamenti, lascia trasparire le doti ancor più belle dell'anima. — Egli dunque l'avrebbe ammirata e compresa; ma tra le gravi sue preoccupazioni, in mezzo a tante cure, la memoria di una fanciulla non sarebbe stato il suo unico pensiero, nè avrebbe a lungo sopravissuto. Riavendosi da una terribile scossa, rinasceva, direm quasi, ad una esistenza vergine e nuova; gustava il pieno uso de' sensi, il facile respiro, il ritorno delle forze come un dono lungamente desiderato. E colla vita non ricomparivano tosto le cure accigliate, i disinganni, le pene, che ne erano in addietro compagne inseparabili. Simile a chi ricupera la vista, vedeva la luce non le ombre, il bello non il deforme della natura. Agnesina dunque appariva dinanzi a lui, come ad un adolescente, cui tutto sorride. La sua bellezza esercitava sovra sensi ringioviniti un impero assoluto. Lo stesso languore cagionato dal dissanguamento, quanto aveva tolto alle facoltà riflessive ed alla memoria aggiungeva alla fantasia, la quale, dopo una momentanea sosta, sembrava ripigliare maggior slancio e calore. All'occhio dell'infermo la fanciulla era la bellezza incarnata, alla mente di lui era la vigile providenza; la viva ed incontrastabile apparizione dell'angelo, che veglia alla nostra salute. XXIII. “Dove sono io?„ disse il conte, con più chiara parola, come se la dimanda fosse rivolta a sè stesso. “Signore, voi siete a Campomorto, rispose Agnesina con voce debole ma soave; siete nella casa di un vostro servo. Poichè il cielo vi condusse qui, permettete che qui si compia il miracolo della vostra salvezza.„ “Sento, o madonna, che il cielo mi è propizio e lo benedico. Per quanto sia stato grande il pericolo, che ho corso, questo momento di calma me ne compensa ad usura. — È bello il potere smarrire un momento la vita, quando ci è dato riprenderne una nuova, che cancelli la prima, o solo la rammenti per convincerci che il cambio è tutto a nostro vantaggio.„ Queste parole, sotto cui si velava una condanna del passato ed un confronto colla situazione attuale, non ebbero risposta. — Ma il tacere di Agnesina non era assoluto silenzio. — Col capo chino, cogli occhi abbassati, sembrava invitare quella voce a ripeterle suoni tanto graditi. — E ciò avvenne ben presto. “Non vi chiederò, o madonna, ripigliò il conte, di narrarmi che è accaduto. Sarebbe far violenza alla vostra virtù. — Voi mi direste il vero; ma non tutto il vero....„ “Come, o signore?„ proruppe attonita la fanciulla. “Tacereste la più nobile, la più bella avventura di questa giornata.„ “Io non tacerò che il più potente signore è ad un tempo il più valoroso fra i cavalieri.„ Non si vuole passare sotto silenzio che in dire queste parole, l'occhio di Agnesina incontrò uno sguardo del conte, e che invano tentò sfuggirlo. — Un leggiero rossore le si effuse di nuovo sul viso; — la sua voce tremante svelò l'interna commozione. — Agnesina si pentì d'aver parlato. Il conte, accortosi di quell'imbarazzo, ben lontano d'approfittarne, avrebbe volentieri troncato il discorso, se avesse saputo come e dove trovarne un altro. Ma un sentimento di modestia, non ripugnante ad un carattere virile e guerriero, non gli permetteva di accogliere, senza restrizioni, le lodi di una fanciulla. Il silenzio che teneva dietro alle parole di lei, aveva l'aria di una accettazione incondizionata. — Egli dunque così l'interruppe: “Ricordandovi una nobile azione, io intendeva svelar quella che voi inconsapevolmente compite al letto dell'infermo.„ Agnesina, vedendo esserle ormai impossibile di sfuggire alla riconoscenza del conte, pensò di prendersi quella parte di essa che le era strettamente dovuta, raccontando per filo e per segno quanto accadde. — Solo una cosa ella disse di meno vero: e noi le perdoneremo. — Lasciò credere che i personaggi della corte si fossero allontanati dalla stanza solo un momento prima del suo risvegliarsi. Fece anzi di più, ed insistette, perchè le fosse permesso di correre a narrare a tutti la buona novella, e ad invitare i suoi intimi a ritornare presso il loro principe. Ma costui che leggeva nel cuore della fanciulla, e conosceva che timidezza soltanto e non timore le consigliavano quella proposta, gradì la gentile offerta, e nello stesso tempo ripigliò il filo del discorso, per impedirne l'esecuzione. “Voi, madonna, pensate che que' messeri esulteranno all'udire che il loro signore sta meglio?„ “Credete, che il loro volto attestava il più grave cordoglio?„ “Non il cuore, o fanciulla;„ e pronunciò queste parole con un tuono così severo e deciso, che sembrava voler dire: non mi si parli oltre di ciò. Anche avuto riguardo ai tempi, cui risale questo racconto, ci sembra di dovere affermare, che in queste poche parole vi era un'amarezza alquanto esagerata. — Ma il conte in faccia ad Agnesina cedeva, involontariamente forse, ad un consiglio del cuore, che gli apprendeva a mostrarsi dinanzi a lei sotto il punto di vista il meno lieto, poichè esso era il più favorevole alle sue speranze. Si rimonti all'origine d'ogni forte passione. Il tratto di esistenza che precede il suo nascere suol essere colorito di tinte opache affinchè acquisti brio ed incanto, ciò che vi si sovrapone. — Un affetto che ponga radice in mezzo alle gioje della vita, è di solito un appetito de' sensi, ed è, come ogni appetito, fuggevole. E allora e poi importava al conte il far conoscere ad Agnesina, che le grandezze del mondo non rendono pago il cuore; che sebbene ogni volere altrui sembrasse piegarsi inanzi ad un suo cenno, egli, il principe, nutriva in larga copia, come il più misero de' suoi vassalli, desiderj incompiuti, ed amare delusioni. — Avrebbe voluto lanciare lungi da sè la maschera lusinghiera della potenza e dello splendore per mostrarle un cuore immiserito e desolato. Tutto ciò era verità, ma era verità stata sempre nascosta agli occhi di tutti; perchè il conte sdegnava di mendicare la compassione altrui. — Se Agnesina, senz'arte alcuna, giunse poscia a raddolcire il suo orgoglio, gli è che dessa, senza pure saperlo, aveva già trionfato del suo cuore. Sulla sera Canziana, a passo misurato trattenendo quasi il respiro, e portando una lucerna, cui faceva vèntola colla mano, entrava nella camera dell'infermo, ed accostandosi al letto di lui, diceva sommessamente ad Agnesina: “E così?... “Buona nuova, rispondeva l'altra.... “Tanto meglio, mille volte meglio. In questo punto è arrivato il medico di Pavia. — Magari ei fosse venuto qui a mettere polvere sullo scritto!„ Canziana, convien dirlo, non aveva gran concetto degli uomini della scienza, e soleva ripetere che le bestie sanno curarsi bene senza bisogno di medici e di argomenti. — Ella però voleva, diciamo anche questo, medicare co' suoi empiastri tutto il mondo, non eccettuata la gente sana. Preceduto da' cavalieri e da' servi, l'archiatro entrava poco dopo nella camera del malato. E, per vero, egli aveva un fare sì tronfio ed insipido, da rendere scusabile la sfavorevole prevenzione della governante. Buon per l'infermo, che la prima medicatura aveva già ottenuto il migliore risultato. Il medico si limitò dunque a regalargli qualche consiglio condito delle sue più gonfie parolone. — Volle sfasciar la ferita, esaminò, palpeggiò, soffiò e concluse che non v'era nulla a fare: ma si dolse in cuor suo, che gli fosse sfuggita di mano una bella occasione di far parlare di sè: “Peccato, mormorava tra' i denti, che non siavi nemmeno una vena rotta: io vi avrei applicato il mio diaspro, infallibile nell'arrestare le emorrogie. Peccato che i dolori sian calmi: sarebbe stato mirabile l'acquetarli di un tratto, ungendo lo stromento feritore con sangue di volpe.„ E simili altre corbellerie, che allora erano pigliate sul serio, anche dagli uomini serj. Ma rassegnandosi nel pensiero d'essere, anche malgrado ciò, compensato generosamente, augurò la buona notte a tutti, e si ritirò nella sua cella. Prima di addormentarsi però lesse una pagina di quel gran filosofo d'Avicenna, dove insegna che quanto si opera al mondo esiste già fuori di esso ne' moti e nelle idee degli astri. — “Tutto sta, aggiungeva egli, nell'aprir l'occhio a segno da veder fino lassù.„ Egli intanto li chiudeva entrambi ad un beatissimo sonno. Ne' giorni seguenti la salute del conte progrediva di bene in meglio. I cavalieri erano licenziati, e se ne ritornavano a Pavia. Se ne andava pure il medico colla coscienza d'aver fatto molto, per la salvezza del principe e pel bene della patria. Due valletti soltanto dividevano colla castellana e colla governante le cure del convalescente. XXIV. Il conte ebbe altre occasioni di parlare da solo a sola ad Agnesina. Egli si valse di tali colloquii per ringraziarla dell'ospitalità ricevuta, per benedire la sorte che lo aveva condotto presso di lei, per esporle nel modo il più schietto qualche episodio della sua vita. — Ma in ogni parola stava l'anima sua. Lodasse la calma presente, o rimpiangesse il funesto passato, Agnese era sempre la mistica eroina de' suoi concetti. “La più bella virtù di una donna, le diceva un giorno, è la pietà; il più bel pregio della virtù è l'ignorare sè stessa. — Perdonate, o fanciulla, se parlando io oso distruggere questa incantevole inscienza de' vostri meriti; perdonatemi, perchè io non ho il coraggio di tacere e di sembrare un ingrato.„ Un'altra volta, rammentandole il modo un po' brusco col quale aveva interrotte le sue parole a proposito de' cortigiani, — “Agnesina, le diceva, vi parrà strano che, in mezzo a tanta dovizia, io sia solo ed abbandonato come il più misero de' mortali. — Eppure la cosa è così. — Non prestate fede al commovente cerimoniale, con cui fu festeggiata la mia salvezza.„ Agnesina commossa non dissimulava un amaro cruccio nell'udire tali parole. La comprese il conte, e ripigliò: “Non crediate già, che io metta tutto in un fascio. Il porre in evidenza il male è rendere omaggio al bene — Dei buoni parleremo poscia; ma per trovarli bisognerà escire dalla cerchia di coloro, che mi strisciano intorno.„ “Ma perchè vi circondate di tali persone, quando altre ve ne sono, che vi amano davvero?„, soggiunse la donzella con calore. “Chiedetelo a vostro padre, all'integerrimo Maffiolo. Egli fu sulla soglia della casa Visconti, ma se ne ritrasse; e perchè il fece a tempo, portò seco quanto aveva di più prezioso: la sua onestà.„ “Allora permettetemi che io dica che voi siete bene a compiangere.„ “Fatelo che ne avete donde. Ogni mia arte è riposta nel saper trarre partito da quella greggia, perchè non sia del tutto improduttiva. Coloro possono diventare le nostre armi, i fili arcani de' nostri negozj; amici non mai. — Ad essi confidiamo un secreto quando ne torna conto che tutto il mondo lo conosca. Accarezziamo con affettata parzialità colui sul quale si vuol far cadere la sfiducia de' compagni. Siamo lieti o mesti in faccia a loro non come lo richiede lo stato dell'animo, ma come c'importa che il mondo ne giudichi. Accogliamo i tristi senza esame e senza paura; ma se ci si presenta un uomo onesto, diciamo tosto fra noi: questo non è il suo posto.„ Agnesina ascoltava con grande interesse e con pari accoramento le parole del conte: ma non ne indovinava la cagione e lo scopo. Lungi dal riconoscere il sentimento che ella aveva destato nel cuore di lui, appena s'accorgeva di ciò che passava nel suo. Era grandemente commossa nel vedere un uomo sì potente e sì mal giudicato, invocare con umile parola la pietà di un'umile fanciulla. — E poichè di pietà il cuor suo non era povero, ella ne era larga fino alla prodigalità; senza pensare, l'incauta, che questo affetto faceva velo ad altro meno innocuo sentimento. Canziana vedeva, sorvegliava, dirigeva ogni cosa senza giungere a colpire nel segno. Quando in ossequio ai doveri, che le erano imposti dalla sua età e dalla fiducia di messer Maffiolo, seguiva più da vicino i passi della fanciulla, e ne sindacava con feminile sottigliezza ogni atto, ogni sguardo, ogni parola, rinveniva dei dubii (se pur v'era dubio), e si consolava dentro di se ripetendo, che Agnesina era un angelo. Avrebbe però voluto che il padre affrettasse il suo ritorno, e si meravigliava della troppo lunga assenza. Al cadere d'ogni giorno, si pentiva di non avere inviato a Milano un messo per informarlo di ciò che era avvenuto al castello; ed ogni mattina si destava nella certezza che quel dì non sarebbe passato senza rivederlo. Anzi, come talvolta Agnesina erasi mostrata inquieta sul conto di suo padre, ella s'affrettava a consolarla, numerando i molti casi di un'assenza eguale o più lunga; e le parlava de' molti suoi negozj, della sollecitudine, con cui soleva mettersi a discrezione degli amici; e cercava di sollevarla dalla molestia del sospetto. XXV. Una volta Agnesina, per rallegrare la mesta solitudine del convalescente, dava mano ad un volume, ed apertolo a caso leggeva una ballata provenzale. Raccontavasi in essa la storia di un grande e generoso principe, che reggendo i suoi vassalli con mitezza e liberalità, aveva guadagnato l'amore di tutti, e s'era meritato il nome di padre de' suoi soggetti. Pure egli era sempre mesto, e dentro sè invidiava la serenità dell'ultimo di essi. E d'onde ciò? Egli amava una donzella ricca d'ogni virtù e bellissima; ma umile per natali e per fortuna. — Quell'amore era inoltre consentito dalla rispettosa vassalla. — Due cuori battevano di un sol palpito; ma un abisso s'apriva fra quelle due esistenze, nè umana sapienza trovava modo di colmarlo. — Che fece il principe? “Un momento, disse il conte interrompendo la leggitrice, qual consiglio dareste voi a quello sventurato?„ Agnesina, che infervorata nel racconto non aveva conosciuto quanto fosse pericoloso, avvezza alle poetiche fole de' tempi, e a quel perpetuo inneggiare d'amore, che, a forza d'abuso, pareva rendersi innocuo, proruppe con insolita franchezza: “Io direi al principe: — fra quel trono, che vi circonda di splendore, e quell'affetto, che vi promette felicità, scegliete.... Fortunato chi ha la scelta libera fra due tesori.„ “Ma ben più fortunato colui, ripigliò il conte con accento ancor più vivo, che può posseder l'uno senza perder l'altro: non è vero?... Continuate la vostra lettura, essa è molto interessante: vediamo come il vostro poeta scioglie la questione.„ Agnesina, che aveva pigliato a caso quel libro, che a caso lo aveva aperto, sentì dentro di sè una dolorosa incertezza nell'affidarsi alla decisione di esso. Il che vuol dire che, nella sorte di quella vassalla, ella forse già travedeva la sua. — Ma il chiudere il libro le pareva cosa troppo ardita; un tal atto l'avrebbe accusata assai più che non il proseguire in essa. — Ella dunque continuò; ma la sua voce era tremante, il suo volto rassomigliava ad un amico di buon cuore, che, per soverchia schiettezza, tradisce il secreto. “Il principe, proseguì ella, non ebbe il coraggio di abbandonare la famiglia de' suoi soggetti. Visse lontano dall'amica sua, fu infelice: ma non mancò ai proprii doveri...„ “Egli era un eroe, colui, soggiunse con qualche amarezza il conte. — Credete però che esempii di sì prodigiosa virtù non li udrete mai che dal labro dei menestrelli. — Se il fatto fosse vero, ogni uomo esperto del mondo vi direbbe, che la virtù di quel principe nasce soltanto da freddezza di cuore — Ai poeti è permessa qualche licenza; il vostro autore se ne pigliò una, chiamando amore ciò che era soltanto una velleità passaggera.„ “Eppure, quel principe a me pare grande; ed io l'amo e l'ammiro.„ “La schiettezza avrà pure il suo merito ai vostri occhi. Ed io, confessandovi tutto che penso, guadagnerò su voi quello che una diversa opinione forse mi toglie. — Io non mi sentirei da tanto; e se amassi come colui, vorrei collocare la donna de' miei pensieri al di sopra di me; felice di sedere sui gradini del suo trono.„ Il conte rimbeccava colle stesse armi le eroiche spavalderie del provenzale. E la fanciulla ne era commossa; ma non si diede ancora per vinta. “Io, ripigliò per ultimo Agnese, stendendo inavvertitamente la mano, che il conte raccolse nella sua, e baciò con rispettosa cortesia: io non accetterei quel seggio. — Udite le ultime parole della ballata=La donna regna nella sua soggezione quando possiede il cuore di colui, a cui donò il suo.=„ In quel momento entrò l'affaccendata Canziana. Essa non raccolse che il suono di quelle ultime parole; non vide che un libro, il libro consueto ed innocente, su cui erano rivolti gli occhi della leggitrice — Suppose qual che era infatti; che Agnesina tentasse con quella lettura di rallegrare le noje del malato. — Contenta quindi della fanciulla e di sè, si sentiva tôrre giù dal cuore un gran peso. — Povera donna! CAPITOLO QUARTO XXVI. A notte fitta, mentre tutto era quiete, si udì improvisamente un battere concitato al portone del castello, come se alcuno chiedesse in fretta e in furia l'entrata. I cani vaganti facevano eco alla dimanda con urla e latrati. Il portinajo, sceso a vedere che fosse, spedì un raggio di luce della sua lanterna attraverso ad un uscialetto praticato nell'imposta, e vide che un pellegrino, ravvolto in una vestaccia nera, con un mantelletto cosparso di conchiglie, ed un cappello a tesa larga ed arricciata, picchiava alla più bella col bordone stretto fra le due mani, imprecando e bestemmiando contro i malcreati, che non accorrevano ad aprire. Il portinajo era uomo abbastanza sollecito; ma l'aspetto dell'arrivato questa volta lo rendeva non a caso meno lesto del solito. Passava egli in esame quell'incognito dal cucuzzolo alle calcagna; vedevagli un viso arcigno e torbido, due occhi che sotto ciglia aggrottate brillavano di una luce infida; rilevava una barba inculta che pareva posticcia; poi un fare misterioso, che gli dava l'aria d'un poco di buono. Tutto ciò, e quel furioso arietare contro la porta, i mille cancri e i cento mila diavoli spediti al suo indirizzo, gli ponevano in cuore qualche incertezza su ciò che dovesse fare. — Ma vinse il dover suo, e diè risposta al chiedente: “Ohe, ohe, non gettate abbasso la porta — Chi è, chi batte a quest'ora?„ “Che ti pappi il diàscolo, portinajo dell'inferno, urlò il pellegrino; è un secolo che grido ai sordi — Apri.„ “A quest'ora si apre soltanto a chi dice il suo nome e le sue intenzioni — Come vi chiamate, e che volete?„ L'incognito invece di rispondere, interrogò: “Dimmi, o cerbero sdentato, il signor di Pavia non è forse qui?„ “È qui.„ “Malato, a quanto si dice.„ “Presto guarito, la Dio mercè.„ “Ho bisogno di parlare a lui. — Fa l'ambasciata, e presto e súbito, che non ho tempo da perdere.„ “L'ambasciata? soggiunse il portinajo con nuova esitanza, e in nome di chi?...„ “In nome mio. — Va alla malora, seccafistole.„ “Ditemi chi vi manda, o vi lascio la buona notte, e torno a pollajo.„ Il pellegrino pronunciò fra' denti non so che bestemmia, ma dovette arrendersi. — Avvicinatosi, quanto era possibile, allo sportello, disse a voce bassa: “Fa che il Conte di Virtù sappia sùbito, che un tale venuto da Milano, e ch'egli ben conosce, desidera parlargli. — Se vuol sapere chi è, digli, che si chiama...„ e pronunciò il suo nome. “Ma tieni fra i denti questa parola, finchè lo puoi. — Va difilato, e intanto lasciami entrare, e prestami da sedere, che ho le gambe aggranchiate dalia stanchezza.„ Il portinajo aperse la porta, e mostrò una panca al pellegrino: poi andò per l'ambasciata, affidando la custodia del forestiero a due grossi alani, che gli si aggiravano intorno ringhiando. Intanto che il portinajo va pe' fatti suoi (cosa non troppo spiccia perchè tutti dormivano a quell'ora) noi diremo chi fosse quel personaggio. — Poichè il lettore dovrà incontrarlo molte volte nel séguito del racconto, tanto fa ch'ei lo conosca a dirittura. V'ha degli uomini che nascono così tristi da lasciar credere che niuna legge, nessuna educazione, nemmanco l'interesse, varrebbero a rinsavirli ed a migliorarli. Essi sono nell'ordine morale quello che nella natura fisica sogliono essere certe costituzioni orribilmente deformi, che la scienza oppignora ancor vivi, per esporli a suo tempo in un museo di patologia. Il nostr'uomo, quanto all'animo suo, era di questo numero. — L'egoismo, la doppiezza, la perversità fuse insieme, facevano di lui il tipo dell'uom malvagio; l'astuzia vi aggiungeva l'arte di usare a proposito e con certa parsimonia i suoi mezzi, onde in caso di mala fortuna poter sempre, com'egli diceva, cascare in piedi. La sua nascita era un mistero. Nelle vicinanze di Medicina, terra del Bolognese, una povera donna, nello spazzare la neve che ostruiva la porta del suo casolare, vide un bambino appena nato, ravvolto in luridi cenci e deposto in un tegolo, che gli serviva di cuna. — Lo raccolse, lo riscaldò, lo nutrì; e poichè essa aveva una nidiata di figliuoli, ve lo aggiunse, imponendogli il nome di Benvenuto e dicendo: — “che tu lo sii davvero: è un atto di carità, che facciamo: il Signore ce ne terrà conto„. In quella famigliuola egli era infatti riguardato come un figlio; nè più, nè meno. — Ottenne le più solerti cure durante la fanciullezza; ed una congrua misura di pane e di lavoro nell'adolescenza. — Solo non in egual proporzione gli spettavano le bravate della massaja, e gli scappellotti del castaldo. Perocchè il lupacchino mostrava già i primi istinti della sua natura malvagia, e morsecchiava senza pietà quella mano, che lo aveva beneficato. Un bel dì (aveva egli dieci anni, ed era incaricato della sorveglianza del porcile) spingendo davanti a sè i due più tondi e più luccianti tra' suoi allievi, diè le spalle alla capanna coll'animo risoluto di non ritornarvi più. Viaggiò tutto il giorno finchè credette d'essersi tanto allontanato da rendere vana ogni ricerca. — Sulla sera si nascose in una foresta; e vi trovò un placido sonno, come se quel giorno fosse del tutto simile agli altri. Il dì vegnente licenziò i suoi due allievi, cedendoli a taluno, che passava: e questa volta non fu indifferente, come nel dividersi da' suoi benefattori; ma tripudiò, poichè intascava non so quante monete. Da questo momento, egli credette esser libero e ricco: con quello scarso peculio pensò poterla durare tutta la vita. — Miserabile! quel denaro che non valeva ad assicurargli l'indimani, bastava a sviluppare nell'animo suo il germe del male, che ancora vi stava latente. Di là i primi colpevoli desiderj, le voglie imperiose, le indeclinabili necessità. Esaurite quelle poche monete, e ciò avvenne assai presto, era mestieri procurarsene delle nuove: con ogni mezzo però all'infuori che col lavoro. — Egli sapeva mettere la mano sulla roba d'altri: ma alla arrischiata violenza della rapina preferiva l'arte più sicura di uccellare la buona fede altrui. Possedeva il tetro talento dell'intrigo e il freddo calcolo, che lo circonda d'infallibili mezzi. Tentò le prime prove; vi riuscì, e fe' baldoria: ritentò, fu scoperto e tradutto davanti alla giustizia. XXVII. La pena non deve essere vendetta; è il rimedio che la società amministra a' suoi membri infermi, affine di guarirli, o di migliorarli. — Ma come poteva raggiungere sì nobile scopo la legge d'allora, se poco vi si accosta l'odierna? Il carcere nasconde il reo, non lo guarisce; è il palliativo che tempera il sintomo, e lascia vivere nella sua interezza la cagione che lo riproduce. Che anzi in quella fogna, in cui s'ammonticchiano colpe e misfatti, errori della mente e perversità di cuore, la miseria ed il vizio, il germe del male si feconda e vegeta come il seme d'erba cattiva in un letamajo. I più scelerati, che non hanno nulla ad imparare, insegnano; i meno colpevoli, docili alla lezione, a poco a poco ricingono il triplice bronzo, che fa tacere ogni sinderesi; tutti infine, immersi nel contagio, contraggono quella pandemia, che sostituisce all'elemento vitale un'aria satura di veleni. Benvenuto entrò in carcere cattivo; ne uscì pessimo. — Nella vergognosa scioperataggine della prigione fece dell'abituale tendenza all'ozio una seconda natura; prelibò le lubriche teorie del libertinaggio, vagheggiando il momento di tradurle in pratica; conchiuse infine che il vizio è tale idolo, che ben merita un culto arrischiato. — Con queste idee riguardò nella legge non tanto il nemico che si combatte, quanto l'avversario leale, che facilmente si elude. Alle minacce delle gride e dei bandi oppose il raggiro, la menzogna, lo spergiuro. — Una volta con tai mezzi ingannò i giudici: si sottrasse un'altra all'ergastolo colla fuga: ruppe il bando, mentendo nome ed aspetto: scampò al patibolo vendendo alla giustizia i nomi dei suoi complici. Saltando a piè pari una gioventù piena d'avventure e d'ignominie, arrestiamoci ad esaminare i primi anni della sua maturità, in cui egli comincia ad essere attore del nostro racconto. Quando si conosce il luogo da cui si parte e quello a cui si arriva, riesce facile l'indovinare la strada intermedia che si è percorsa. Nell'anno 1369 Benvenuto trovavasi a Pavia. Da qualche tempo egli viveva in pace colla giustizia, non che fosse divenuto migliore, ma perchè si era messo all'ombra di un potente, e sapeva contenersi entro i limiti di quella cauta malvagità, che la legge non giunge a colpire. Colla giovinezza, passò in lui la sfrenata prodigalità. Voleva essere economo, avendo, com'egli diceva, una numerosa covata di bamboli a nutrire, e ne' suoi bamboli affamati egli raffigurava i suoi viziacci. Egli era d'alta statura, di forme robuste, di movimenti più rigidi che franchi. Aveva un star ritto della persona, che pareva rialzarlo fra gli eguali, ma che indicava arroganza, non coraggio. Il volto era improntato da certo maschio vigore, che faceva dire a chi lo vedesse per la prima volta: il bell'uomo! ma non vi era chi lo rivedesse, senza apporre una riserva al suo giudizio. Tutti in fine concludevano che il bell'uomo doveva essere un gran furfante. Le tinte floride del viso prevenivano in suo favore; una certa fronte alta e libera lo qualificava uom d'ingegno, ma il suo sguardo era sinistro. Invano avresti cercato discernere il nero delle sue pupille incavate nell'orbita, e sepolte sotto una folta gronda di peli. Guardandolo a poca distanza, le due occhiaje, ravvolte in un'ombra tetra, parevano le luride cavità di un teschio. Le sopraciglia, scendenti nel mezzo del viso e quasi congiunte tra loro, sembravano le misteriose insegne di satana vestito di forma d'uomo. — I capelli, radi a' due lati sulle tempie e scendenti ad angolo acuto nel mezzo della fronte, crescevano rilievo a questa apparenza. — La voce era non più simpatica dello sguardo: cupa, misteriosa, alquanto nasale. Egli or gridava, or parlava sì basso, da non essere inteso; sempre però senza inflessione de' suoni e senz'armonia. Sulla piazza più frequentata della città, da una impalcatura di legno abbellita all'ingiro delle più stravaganti pitture, Benvenuto, in abito da cantambanco, dispensava alla stupida plebaglia i tesori delle scienze occulte; polveri e boli d'infallibile effetto, di meravigliosa potenza, rimedj per guarire ogni male fino la gelosia de' mariti, filtri per avere degli amanti o mantenerli fedeli, l'arte di rendere sonniloqui i dormienti, e di scoprire i segreti della propria ganza. — Distribuiva a dozzine, a centinaja, amorosi strambotti ed oscene figure. — Leggeva l'avvenire, la buona e la mala fortuna, a chi, stendendo la mano per dargli una moneta qualunque, gli porgeva il palmo da esaminare. — Offriva poi su di una immensa cartaccia, stranamente delineata, il grande spettacolo de' cieli, diviso nelle sue dodici case; mostrava quali erano le potenti, le medie, le infime; e come e quale influsso avessero sulla vita e sulla felicità dei mortali. Il suo uditorio era sempre affollatissimo; e fu allora, che cessò d'essere chiamato Benvenuto, pigliando dalla patria e dalla professione il sopranome di Medicina. Le sue predizioni erano sempre spacciate con un linguaggio ad arte ambiguo e misterioso; onde, checchè avvenisse, il profeta avesse sempre ragione; il torto era di colui che lo aveva franteso. Sapeva d'altronde che è gran diletto del vulgo l'assistere a ciò che non comprende. Gli bastano le parole tuonanti, la voce stentorea, e i bisticci insensati. — Ei gliene prodigava a bizzeffe. Intanto spremeva gli spiccioli dalle tasche de' poverelli che accorrevano a lui per sapere, per scoprire, per risanare. Oggi piativano il pane per conoscere se dimani, o l'anno appresso, o prima di morire, sarebbero ricchi; e, confortati dai lieti presagi del ciurmatore, calmavano la fame odierna colle ridenti illusioni dell'avvenire. A questo modo le vili monete, ammucchiate nella soffitta di Benvenuto, formarono ben presto somme considerevoli. A suo tempo egli le cangiava in bei ducati d'argento e in scudi d'oro; ed avviava con essi un altro ben più pingue commercio. Consisteva questo nel dare a mutuo somme più o meno rilevanti, a chi stretto da urgente bisogno glielo chiedeva colle preghiere, colla importunità. Guai a chi avesse tentato sedurlo con promesse; egli diceva di non voler stringere negozioni con alcuno, ma si compiaceva ad ajutare chicchessia, appena il potesse. — E questo “appena il potesse„ era la chiave de' suoi secreti, la posta del suo illecito gioco. Non cercava mutuatarj, perchè la gente accorreva da lui, preferendo lasciarsi dar la corda da un tristo, anzichè, togliendo a prestito con tutte le regole del foro, mettere a nudo le proprie vergogne. Medicina al primo invito, non rispondeva; ad una preghiera, rimetteva la cosa a tempo; e, quando alla fin fine assentiva, non dava adito a parlare di condizioni, dicendo che ve ne doveva essere una sola e semplicissima: quella cioè che i patti del mutuo fossero stesi da lui. L'usura soleva essere una e modica per tutti: dimodochè il chirografo, irreprensibile sotto ogni aspetto, sembrava un atto scritto davanti a notajo. — Ma la mangeria stava per tutti in un punto; vale a dire nella cifra del capitale mutuato, che subiva una addizione più o meno importante a norma dei casi; e nella data fittizia del mutuo, che, allo stringere del contratto, stabiliva un credito precedente, in favore del mutuante; credito che di fatto non poteva esistere. A tali durissime leggi piegavano la fronte con più o meno cruccio, ma colla rassegnazione della necessità, coloro che, avvolti in negozii spallati, chiamavano fortuna il ritardare, fosse anche di un giorno, l'inevitabile ruina. — Vi si adattavano di buon grado, quasi senza nemmanco curarne le conseguenze, i giovinastri scioperati, che, occhieggiando un'eredità, non attraversata che da un fil di vita di qualche vecchio parente, amavano darsi buon tempo, e far de' brindisi alle future grandezze. — Vi accorrevano infine altri imbroglioni, suoi pari, falliti od affamati a segno, che tutto che offrisse loro da vivere un giorno, era un gran favore della providenza. Oltre ciò, Medicina col suo genio negli intrighi, col suo essere con tutti e dapertutto, col fiutar sempre egli interessi degli altri, sapeva fornirsi a dovizia di una merce, che egli poi rivendeva a peso d'oro. Era questa la promessa del secreto. Fervevano a que' tempi in Pavia le ire di parte suscitate dal mal governo di Galeazzo Visconti e dalla memoria rinverdita del più tollerabile dominio de' Beccaria. In varie città dello stato, a Voghera anzitutto, già si manifestavano i prodromi della rivolta; e varie famiglie pavesi, legate coi malcontenti, ne favorivano lo sviluppo. — La trama de' vogheresi fu scoperta e soffocata ne' supplicj. Il castellano di Voghera e suo figlio, erano mandati alle forche, e sessanta cittadini creduti rei di quella congiura non fallivano alla delira investigazione de' giudici, confessando la loro complicità fra gli strazii della tortura. — Tremavano gli scontenti di Pavia; ed avevano il capo basso e l'aria compunta, per non dar nell'occhio agli inquisitori. — Ma l'avveduto Medicina, che sapeva dar di naso dapertutto, li conosceva ad uno ad uno; e quando incontrava questo o quello, a quattr'occhi e con un'aria di mistero, come se fosse tutto cuore, chiedeva conto de' fatti loro, dei pericoli scampati, di quelli che ancora li minacciavano: e, per tal modo, finiva d'impadronirsi d'un secreto, il cui deposito doveva costar gli occhi del capo agli incauti. Eppure colui, che in cima ad ogni pensiero poneva il culto de' suoi più vili interessi, in qualche rarissima circostanza ed in via di semplice eccezione, aveva saputo transigere colla insaziabile sua voracità di denaro. — Forse che egli provasse alcuna volta gli inviti della coscienza, o che cedesse alle attrattive della virtù? Mai no. Ciò avveniva quando un'altra passione, più imperiosa ma non più nobile, lo inebriava colle visioni d'altri lusinghieri allettamenti. — Eccone un esempio. XXVIII. Medicina era tra gli accreditati clienti di un certo Bertolino de' Sisti pavese, che teneva osteria in una delle più deserte strade della città. Ancorchè la professione costringesse l'oste a praticar sempre con abbietti furfanti, egli s'era serbato onesto, servizievole, discreto: insomma era una perla d'uomo. Il ciurmatore, sparecchiato il suo palco ed insaccati i suoi terzuolini, accorreva ogni sera a quella bettola, e vi faceva buon fianco, gustando gli intingoli più ghiotti regalatigli da Messer Bertolino, ed ingolando la sua posca, che gli sembrava fino siroppo, quando gli era versata da Maria, la figlia dell'oste. Le sue fermate colà s'andavano prolungando per più ragioni. — Dimezzava ogni boccone per far tempo; perchè intanto, vigile sempre sugli interessi altrui, provedeva ai proprj. A questo fine, teneva conto d'ognuno che andasse o venisse; ammiccava le facce nuove con quella penetrazione che di colpo indovina; e dalle vecchie conoscenze succhiava novità e commenti. — Ma cadeva in un nuovo mondo quando era al cospetto della bellissima Maria; per lei, obliata la sua bieca taciturnità, veniva a paroline inzuccherate, con lei lodava perfino la bevanda inacetita della sua cantina, e nel pagare lo scotto non rivedeva il conto, anche quando v'era somma d'avanzo. Quale fosse la cagione di questo repentino mutamento, ognuno l'indovina; ed ognuno forse avrà già preveduto, che il germe di un sentimento educatore caduto in animo tanto abbietto non doveva recar buoni frutti. Anche il liquore più generoso e l'acqua più pura, deposti in vaso immondo, s'intorbidano, si guastano, sanno di muffa. Bertolino faceva il suo mestiero con zelo e con coscienza. — Sempre attento a che nessuno osasse fare oltraggio alla sua cara figliuola, non guardava poi tanto pel minuto agli svagati dileggini, se alcuna volta si permettevano di esternare con parole, condite di un'equivoca galanteria, la loro ammirazione. — “Fin qui, egli diceva, quelle frasche non ripetono che una troppo chiara verità„. Maria, egualmente bella che savia, viveva in quella tresca, senza che la sua bellezza, e l'ingenuità del suo cuore, ne venissero meno. — Pareva che ella evitasse il contatto d'ognuno; che quell'aria pregna di miasmi inverecondi non ascendesse fino a lei. Accorreva sollecita a chiunque la dimandasse; accudiva a tutto; tutti rendeva paghi; ma non alzava mai gli occhi, e non diceva parola, che non fosse strettamente richiesta dal suo mestiere. Se fosse possibile rappresentare il demonio in atto d'adorare un angelo, converrebbe ricorrere a questa imagine per dare un'idea precisa della pietà tenera e compunta, che il ciurmatore provava ogni volta s'incontrasse in Maria. Quello stesso contegno asciutto e riservato, che la rendeva severa ad ogni parola dubia, fuggevole ad ogni superflua chiamata, lo incapricciavano tanto più, in quanto che di solito in que' convegni incontrava una loquacità, libera e sfrontata, sollecita sempre, e troppo, a prevenire ogni suo desiderio. Quel malvagio era dunque forzato ad inchinarsi davanti alla virtù modesta, che non provoca per vincere, ma disarma per non combattere. — Più e più volte egli era venuto colà col fermo proposito di smettere tante insipide monellerie, tanti vuoti sospiri, e di andar per la via più dritta: ed altretante volte aveva dovuto confessare a sè stesso la propria impotenza. Fuori dell'osteria egli intavolava progetti infallibili, nutriva fermi propositi, per la giornata, pel momento stesso del suo arrivo; dentro di essa e sotto l'influenza di due occhi, che non si volgevano su lui se non a caso, rimetteva tutto ad un dimani, che non arrivava mai. Ma a lungo andare, il genio del male doveva nutrire la speranza di un trionfo. Gli eletti profumi della virtù, che comanda riverenza, languivano inavvertiti, quelli della voluttà facevansi ogni dì più acri ed inebrianti. Per uscire alla fine da quella puerile riservatezza, che lo conteneva sempre alle stesso posto, egli ripudiò l'improvida temperanza, che da qualche tempo, in ossequio alla sua nuova passione, aveva adottata. — Da frequenti e più laute libazioni aspettò ed ottenne la rabida petulanza necessaria a spianargli la via. Chiese a Bertolino, e pagò pronti contanti e senza stiracchiature, quanto aveva di meglio nella sua cantina. Il dabben uomo, non vedendo in ciò che il lecito suo guadagno, accorreva a servirlo; egli stesso toglieva la polvere alle più venerande bottiglie, le sturava e mesceva al suo avventore l'oblío d'ogni rispetto, preparando a sè ed alla sua casa una fatale esazione d'attentati e di oltraggi. Ben s'avvide Maria di quanto accadeva in suo danno. Ella aveva scoperto già da tempo che le occhiate del ciurmatore non erano casuali ed innocenti; aveva raccolto alla sfuggita le parole di lui, e benchè non ne comprendesse bene il senso, perchè velate da plateali eufemismi, non pertanto ignorava le procaci intenzioni di chi osava pronunciarle. Dir tutto a suo padre fu il primo, il più spontaneo partito che le si parò alla mente: e fu sul punto di farlo. — Ma la ragione, coll'esempio d'altre simili procelle scongiurate dalla sola prudenza, ne la sconsigliò; mostrandole l'inopportunità di muovere querela per vaghe supposizioni, ed il pericolo di produrre uno scandalo, i cui effetti ricadrebbero per intiero su lei e sulla sua casa. Forte della propria virtù, certa che nè promessa nè minaccia avrebbero mai potuto smoverla da' suoi propositi, vigorosa così di nervi come d'animo, pensava di poter sfidare le indirette provocazioni di un uomo rotto dalla crapula e destituito d'ogni attrattiva. Se le fosse stato meno spregevole, avrebbe dubitato di sè; l'odio, in questo caso, era il talismano della sua salvezza. — Nella sorda guerra, che le si moveva, prese il partito di evitare gli scontri, e di lasciarsi vedere il meno possibile. Tacque pertanto, e riescì qualche tempo a meraviglia ne' suoi piani. Solo, per maggior cautela, indusse suo padre ad associarle, negli officii di famiglio, un garzoncello; dicendogli, che il suo negozio andava prosperando, che ella non bastava alle chiamate di tanti avventori, che dalle sue lentezze forse taluno avrebbe potuto pigliar disgusto e sviarsi, e cose simili. Il padre, cieco d'amore per sua figlia, benchè non vedesse altra novità nella sua taverna fuor quella che messer Medicina beveva vernaccia e non più vin da torchio, aderì di buon grado alla dimanda; assoldò un vivace giovinetto, e lo pose sotto gli ordini di sua figlia. Medicina, che ormai non aveva più alcun dubio sui sentimenti di lei, indovinò sùbito che fosse quella novità; e, se da principio l'accolse con stizza mal repressa, l'accarezzò più tardi come una tacita sfida, come un insulto, che dimandava vendetta. Da quel giorno non aspettò che Maria s'avvicinasse al suo deschetto per affrontarla co' suoi motti svergognati. Egli stesso, ogni volta che ne ebbe occasione, sopratutto se il padre era lontano od occupato d'altre faccende, moveva in traccia di lei, talora cercando impietosirla colla preghiera, tal altra investendola col sarcasmo e colla minaccia. Quanto durasse questa vergognosa lotta, non lo sapremmo dire. Certo è che dei due contendenti, il più saldo era Maria. — Ferma sempre ne' buoni propositi, ella non aveva d'uopo di fare appello alle sue forze, per trovare armi a custodire le proprie virtù. — Medicina invece, infiacchito da una passione brutale, non sapeva rendersi conto se più valesse l'odio o l'amore per lei. Avrebbe voluto vederla morta; ma prima saperla disonorata. — E se egli non giungeva ad essere l'assassino del suo onore, ch'altri almanco lo fosse; purchè ella cessasse di portare in trionfo una virtù balda ed invulnerata. — Nelle sue notti insonni egli accarezzava visioni di sangue. Il pugnale, immancabile ministro delle sue vendette, riposava da gran tempo nella guaina; perchè da gran tempo non aveva provato un inferno simile a quello, in che era sospinto da una donnicciuola. “Ucciderla, egli pensava tra sè, e poi uccidermi... Ma a qual pro?„ gli gridava in cuore una voce codarda, per avvertirlo che i patti di una simile vittoria erano troppo gravi. Spaventato del suo stesso furore, rinveniva a più mite consiglio; ma solo perchè il suo cuore riposasse quanto era d'uopo a riaver lena e ad erompere nei suoi vagheggiati delirj. “Ucciderla sì, urlava poco dopo, scannarla; ma io vivere per maledire la memoria della sua vantata virtù; vivere non più per lei, ma contro di lei, perchè la vendetta non si estingua colla debole vita di una feminetta, ma continui su quanti l'hanno amata...„ Col riapparire del giorno, quegli accessi di follia si acquetavano alquanto. Medicina non disconosceva l'importanza e la probabile necessità de' suoi progetti di sangue; ma avrebbe voluto tentare di giungere, per altra via e con minori pericoli, allo stesso scopo. “Non hai mai veduto, diceva egli a sè stesso una mattina dopo una veglia d'inferno, una bella parete, su cui sia steso di fresco un bianchissimo getto lisciato colla nettatoja? Il più meschino furfantello, a cui quel liscio e quel pulito non garba, dà egli fuoco alla casa per sì poco? — Mai no; ei lo sfregia e lo deforma in men che io non lo dica. Imita il baroncio, o Medicina; insudicia quel biancore, che ti fa specchietto, e metti in disparte il pugnale.„ XXIX. In mezzo a tante e sì opposte passioni, che avevano per altro comune la sorgente da cui scaturivano, i progetti di Medicina, elaborati tra le angosce delle sue veglie, rassomigliavano alle discussioni di certe adunanze turbolente, in cui la tesi primitiva fatta a brani, per così dire, dagli agitati oratori, devía dal suo punto di partenza, e, dopo aver errato su di un terreno ignoto, decide alla fine ciò che non si era nemmanco pensato di proporre. La prima idea del ciurmatore era rivolta al possesso di Maria, ad averla ad ogni patto, non escluso quello di farla sua per tutta la vita, ne' modi onesti, dando cuore per cuore. Ma la conclusione, a cui arrivava, dopo una lunga vicenda di tentativi e di sconfitte, dopo mille progetti ed altretanti pentimenti, era affatto diversa, era opposta. — Egli deliberava di ferirla nell'onore, di far strazio del suo nome: il tramite, che congiungeva questi due disegni così disparati fra loro, non deve essere un mistero per chi sa, come il delirio dell'amore lo avesse condotto a quello della vendetta. Ora lo scelerato poteva giungere al suo scopo per due vie. La prima, che sodisfaceva in parte alle antiche idee, gli presentava qualche difficoltà, ma gli prometteva un doppio compenso. Bisognava aspettare il momento opportuno d'esserle vicino, affrettarlo, prepararlo coll'astuzia, se era d'uopo; la brutale passione avrebbe poi fatto il resto. — L'altra era più facile e sicura, tanto che la sfrontata arditezza di quel malvagio quasi si vergognava di seguirla. Un racconto qualunque, fosse pur fondato su di una lieve apparenza, o su di una menzogna, bastava a dar vita alla più micidiale calunnia. — Spettava a lui l'ordirla, a lui il fidarla alla loquace maldicenza delle comari; ed in un sol giorno il vitupero di Maria sarebbe sparso a mille e mille esemplari nel mondo. Ravviata la fiammella, non avrebbe poi mancato di soffiarvi dentro, per tener vivo l'incendio. — Medicina ebbe ricorso al primo dei due partiti, perchè in esso vi erano per di più tutti gli elementi alla buona riuscita del secondo. Un dì o, diremo meglio, una sera, perchè era bujo fitto, il ciurmatore s'avviava, come di solito, alla taverna, giurando solennemente entrò sè di mostrarsi altr'uomo da quello che era stato fino allora. — A caso, in quel momento le due camere terrene, che formavano la sala e la credenza del taverniere, erano stivate di gente. S'adombrò sulle prime come alla vista d'altretanti testimoni della sua ribalderia; se ne rallegrò poco dopo, vedendo che tutti avevano gli occhi sul proprio desco; tutti erano infervorati ne' discorsi. Quel ridotto aveva il più squallido aspetto. — Si discendeva in esso per quattro gradini di mattoni collocati a coltello. Le muraglie cosparse di macchie e di strisce, riflettevano qua e là le tracce ora fosche or lucenti di un'umidità abituale. Il pavimento, coperto di un pattume fangoso, era ingombro de' nauseanti rilievi delle mense. Sfilavano all'ingiro i rozzi deschetti coperti da grossolane tovaglie, su cui erano impresse le glorie dei pasti di una settimana. Dalle lucerne rade e bisunte pioveva una luce sinistra più intensa al basso, nella parte superiore offuscata da una nuvola di fumo, che si svolgeva dai lucignoli negletti. — Era la più bella scena per un pennello fiammingo; ma sarebbe stato ben più serio e svariato tema per un filosofo, che volesse entrare nelle midolle di quella riunione scioperata, e definirne uno per uno i sentimenti, i gusti, il linguaggio. Medicina al suo entrare, salutò le vecchie conoscenze, e senza accostarsi ad alcuno, andò a sedere in un angolo della credenza, a fianco della porta che metteva ad un corridojo ed alla cantina. — Scelse quel posto, il meno ambito d'ogni altro, per isfuggire agli occhi di tutti, e perchè o presto o tardi per quella porta sarebbe passata Maria. Per mettere in perfetta quiete ogni possibile apprensione di Bertolino, comandò che gli fosse recato quanto aveva di più squisito, e chiese non uno ma due fiaschetti; non la solita vernaccia, ma la più spumante delle sue malvagíe. Bertolino, a quell'ordine, metteva sossopra tutta la casa; perchè avventori così splendidi gli fioccavano di rado. Spediva il garzone in cantina, la figlia a cercare biancheria di bucato; ed egli accorreva ai fornelli, dove in una pentolina di terra fumava un intingolo, che non poteva temere confronti, perchè era l'unico. Il ciurmatore non mangiò; aveva una gravezza sullo stomaco che gli toglieva ogni appettito; ma pur, non volendo dare a conoscere che qualcosa gli frullava pel capo, si finse a meraviglia il diluvione delle altre sere, facendo scorrere a terra quanto aveva sul piatto, ed invitando il cagnuolo della casa a cenare in sua vece. — Fe' miglior viso ai due fiaschi. Il primo bicchiere gli aperse la via agli altri; e con un po' di proposito, se non colla voglia consueta, diede fondo ad entrambi. Però quella malvagía gli sembrava insipida; e se non l'avesse riconosciuta agli effetti, quanto al gorguzzolo non sapeva giudicarla migliore del solito agresto. Brillava sul volto di lui il fuoco sinistro di quella mezza ebrietà, che centuplica le forze, e lascia sopravivere quanto senno è necessario a guidare un'impresa arrischiata e ribalda. Le sue guance, già di solito colorite, erano ardenti come quelle di un febricitante; l'occhio lucido ed injettato guizzava per ogni dove, codiando tutti e tutto. Le labra imporporate dal vino, sciogliendosi di tratto in tratto dalle strette, cui venivano assoggettate da un convulso digrignare dei denti, mostravano il livido delle morsecchiature, e si atteggiavano in modo da lasciar dubio se preparassero un sorriso od una bestemmia. L'interno della bettola aveva intanto ripreso un aspetto più tranquillo. Alle grida degli avventori succedevano le calme discussioni. — Un gruppo s'occupava d'una importante sfida coi dadi. I giocatori circondavano il tavoliere, muti se scuotevasi il bossolo, vivi e loquaci al gittare le sorti. Chi non era della partita, arrischiava di traverso una moneta, scommettendo per la fortuna di questo o di quel dadajuolo. Bertolino era del numero; e, per distoglierlo in quel momento dalla sua occupazione, non avrebbe forse bastato un comando di Medicina. — Questi vedeva, e taceva aspettando soltanto che la partita fosse ben bene impegnata. Il garzone sedato sur una banca, abbandonate le braccia al tavolo ed il capo tra le braccia, dormiva placidamente. — Solo Maria, che pure avrebbe potuto starsene un po' tranquilla, attendeva a riordinare il salotto, a rimettere gli utensili nell'armadio, ad ammucchiare le stoviglie, a ripiegare le biancherie. — Quel darsi moto la faceva essere più sicura; ella sfuggiva con quest'arte all'insistente persecuzione di uno sguardo odioso. — Correva quindi dalla sala alla credenza, da questa al corridojo, e ritornava sollecita per ricominciare la stessa corsa; tutto ciò senza dir parola, senza far strepito. L'androne era perfettamente oscuro. — Quando Medicina pensò che fosse venuto il momento di mandare ad affetto i suoi disegni, visto che Maria vi si era inoltrata, le tenne dietro a passo leggiero coll'intendimento di raggiungerla in capo ad esso. Quella febre fittizia, che commove la volontà e rinvigorisce la mano, se l'era procurata ad arte, per aver fermezza e coraggio all'opera; ma i piani di questa erano stati concetti e maturati nel completo possesso della sua ragione. Visitò giorni prima la stanza, l'uscio, l'andito attiguo, e non risolvette di metter mano all'impresa se non quando ebbe la certezza d'uscirne trionfante ed impunito. Entrando quindi nel corridojo, fu sua prima cura di chiudere dietro a sè la porta che lo separava dalla credenza. — Sapendo che il chiavaccio era unto, lo fece scorrere nelle anella; certo che non avrebbero mandato cigolío. — Due passi più avanti all'altezza di un uomo v'era una finestruola sguernita di grata, e protetta solo da un'imposta sconnessa. Ei salì mettendo il piede al sicuro, l'aperse, protese il capo all'infuori, e riconobbe, alla luce delle stelle, che all'intorno non v'era anima viva. Questa doppia precauzione aveva per iscopo di impedire che le grida di Maria, ove questa gli usasse il mal garbo di alzar la voce, giungessero fino alle orecchie della gente che era al di fuori. La finestra era stata aperta allo stesso fine, perchè l'aria libera si portasse via con sè ogni parola un po' calda, ogni gemito mal represso; ma più ch'altro aveva avuto di mira di schiudersi alle spalle una ritirata in caso di sorpresa. — Medicina conosceva perfettamente la situazione della casipola; sapeva che quella finestra guardava in un orto; che quell'orto, cinto da una siepaglia disfatta, metteva ad una delle più deserte vie della città. Tutto ciò non fu che l'affar di un momento: ma quel momento bastò alla fanciulla perchè s'accorgesse di tutto. — Nella fitta oscurità, che regnava in fonde dell'androne, ella aveva acquistato tanta sensibilità delle pupille, che, alla fioca luce della finestruola, potè riconoscere chi l'inseguiva. — Comprese e inorridì: comprese che la fuga era impossibile, e che le grida erano vane. — Raccomandò a Dio non la sua vita, ma l'onor suo; e rincantucciata in un angolo, più indignata della sceleraggine altrui, che intimidita dal proprio pericolo, attese gli eventi. “Maria, prese a dire il ribaldo con un tuono sommesso ed ipocrito, che vi ho mai fatto io perchè mi vogliate tanto male?„ “Vi giuro o Messere, soggiunse la fanciulla con calma dignitosa, che io non risponderò ad alcuna delle vostre dimande, se non dopo che avrete aperta quella porta.„ “Non volete che questo? l'aprirò quella porta a piacer vostro, fra un istante, subito; ma ad un patto....„ “Aprite dunque;„ l'interruppe la fanciulla rafforzando la voce su quel _dunque_ quanto illogico, altretanto solenne ed imperioso. “Piano, piano; un momento, prese a dire Medicina, mutando stile, — se l'ho chiusa non lo feci a casaccio....„ “Aprite, vi ripeto per l'ultima volta.... se no....„ “Minacce: e a chi e perchè?.. ben sapete che io non sono un fanciullo, e che prima di operare ci penso due volte.... Se la pillola vi sembra amara, meglio è per voi ingojarla di un tratto.... Ma che? soggiunse in tuono di scherno, mi volete far credere che sulla gruccia della civetta stia appollajata una colomba? — La modestina, la beatina! oh vè, la fenice delle fantesche da cánova! Vergogna! Vi debbo apprendere io a fare il vostro mestiere?.. Ah, ah.... ma avete anche voi i grilli..., li abbiam tutti; anch'io ho i miei; non fosse altro quello di basire dalla passione. In grazia vostra, vedete, me ne vo, tutto sciolto in lacrimuzze, pel buco dell'acquajo.„ La povera fanciulla fremeva, all'udir quelle parole svergognate, ma non fiatava. Il pericolo si faceva più grave, più imminente; ed ella non aveva ancor trovato nè scampo nè ripiego. — Ma il coraggio non le era per ciò venuto meno. Quel tacere crebbe la parlantina e l'ardire del ribaldo. Egli, che s'aspettava una salva d'ingiurie, credette leggere in quel silenzio il principio di una rassegnazione mansueta. “Non hai niente a ridire, o fanciulla. — Meglio così. — Già un giorno o l'altro ti bisognerebbe cascare nelle unghie di qualche nibbiaccio. — V'ha nella tua taverna d'assai peggio di me.„ E in dire queste ed altre parole, della cui impudenza la nostra penna da qui in avanti non si vuol far complice, egli tentò avvicinarsi a Maria. — Stendeva le braccia a caso, e le agitava a guisa di un nuotatore inesperto. Mezzo brillo com'era, a quella luce semispenta egli non giungeva a scorgere che cosa avvenisse davanti a sè. Ma il luogo era ristretto, e Maria non poteva sfuggirgli. — Alla fine, dopo una serie di tentativi inutili, alternando svenevolezze ed imprecazioni, giunse a ghermirla per un braccio, e, tiratala a sè di viva forza, la strinse alla cintura fra i suoi artigli di ferro. Ma se l'uno impiegava membra maschie, rinvigorite in quel punto da una passione selvaggia, l'altra, povera e debole donna, aveva per sè l'agilità della prima gioventù, la prontezza dei movimenti, l'uso completo di tutto il suo senno. Con un moto inatteso e rapido, ruppe Maria la cerchia che la stringeva, e, spinto lontano da sè lo sciagurato, corse a rimpiattarsi presso alcuni ordigni accatastati nell'angolo del corridojo, perfettamente dicontro ad una porta semichiusa, che mascherava la scala della cantina. Il candido fazzoletto, che le copriva le spalle, ripercosse la scarsa luce di riflesso, che si effondeva dalla finestra, e svelò al ciurmatore il posto, in cui s'era ricoverata la sua vittima. — Tanto bastò perchè egli tornasse all'assalto. Inferocito nel vedersi respinto, ed a quel modo e da una debole donnicciuola, corse a lei, spiccando un salto simile a quello di una fiera, che assale la preda al varco. — Covava egli nell'animo i più neri propositi; agitava in pugno uno stiletto risoluto di far sangue e di ucciderla, dopo averla straziata in ogni maniera. Non sapremmo dire quanto durasse quest'ultima lotta; ogni minuto doveva sembrare un secolo. Non ci è dato nemmanco di poter riferire esattamente fin dove giungesse la temerità di quell'assassino. Ci affretteremo però a rassicurare i nostri lettori, che Dio diede in quel punto ad una povera creatura quanti mezzi bastarono a rimovere l'instante pericolo, ed a farla vindice dell'oltraggio ricevuto. Quando Medicina ritornava a' suoi tentativi, ormai sicuro del trionfo, quando Maria era ridotta a tal stremo di forze da sentir dubio di sè, l'assalitore agitavasi e combatteva sull'orlo di un precipizio. — Bastò alla fanciulla, in quel momento, il men vigoroso de' suoi sforzi; Medicina, malfermo sulle gambe e costretto ad indietreggiare, cercò invano un punto stabile su cui riavere l'equilibrio. — Le sue calcagna, scorrendo sullo spigolo del primo scaglione, scivolarono al basso; tutto il corpo, deviato dal suo centro di gravità, cadde all'indietro; la testa, urtando fortemente nelle imposte dell'uscio, le spalancò e si aperse di sotto un precipizio. — Entr'esso ruzzolò capolevato quell'immane corpaccio, battendo la nuca sulle soglie di pietra, e lacerando le spalle e le membra sugli orli de' gradini; nè s'arrestò che quando, con orrendo tonfo, giunse sul pavimento della cantina. Maria era salva. XXX. Il ciurmatore fu tratto a stento da quel trabocchetto, e ne usci più morto che vivo. Quanti erano accorsi ad ajutarlo, attribuivano l'accaduto ai fumi del vino: nè allora nè poi nacque sospetto sulla vera sua cagione. Medicina, certo che la fanciulla non avrebbe toccata quella corda, avvalorò della sua asserzione la comune diceria; e confessando d'avere a fare una grossa penitenza, sopportò rassegnato alcuni giorni di malattia, che gli lasciarono tutta la libertà di provedere ai casi suoi. Quando tornò alle sue abitudini, egli era ancora l'uomo di prima; se non che, mostrando d'avere imparato ad essere sobrio, s'accontentava di beverne qualche rara volta una mezzetta, e giurava che non avrebbe passato i termini nè pure a nozze. — Del resto, egli era sempre grande amico di Bertolino; e pareva che gli si mostrasse ancora più affezionato, dopo le sollecite cure che gli si prodigarono in casa sua. Il contegno di lui con Maria era irreprensibile, — Non cercava di incontrarla nè da solo nè in faccia ad altri; ma se il caso gliela conduceva dinanzi, e se il fuggirla poteva sembrare villania, egli era sempre l'uomo socievole, e non mancava di salutarla e di indirizzarle qualche parola cortese: di quelle però, che si attagliano a tutto, e che, sotto il velo d'un complimento comunale, possono, fra persone che s'intendono, nascondere il veleno dell'ironia. La fanciulla ben s'avvedeva di ciò; ma perdonando al suo seduttore un po' di stizza per lo smacco ricevuto, persuasa che il tempo vi avrebbe posto rimedio, finiva per chiamarsi sodisfatta di lui, dicendo tra sè: che quella crollata gli aveva rotto il capo, ma racconcio il cervello. Ella s'ingannava. — Medicina si ritraeva solo quanto era necessario per ricominciare da capo. Faceva come il pilota, che per trarsi dagli scogli, che gli impediscono il passo, indietreggia, e scandaglia con prudenza, finchè trova la via sicura, a cui abbandonare tutte le vele. — Il caso gli presentò ben presto questa via; e la perversità dell'animo suo ve lo sospinse fino alla meta. A Bertolino de' Sisti veniva un giorno presentato un ordine sovrano, in forza del quale la signoria pigliava possesso di un suo poderetto confinante col parco de' Visconti. — Quest'atto era del tutto arbitrario; il modo con cui veniva messo ad esecuzione non aveva ragione legale. Nondimeno bisognava piegare la fronte. L'insaziabile cupidigia del potente signore, traeva seco tutte le conseguenze della necessità che non ha legge. Figuratevi il dolore del dabben uomo, che in quelle poche zolle aveva ogni ben suo, e se le teneva care perchè erano la sorgente della sua modesta agiatezza, e l'orgoglio avito della sua famiglia, illustrata già pel corso di un secolo da quel possesso allodiale. Figuratevi la sua disperazione quando s'accorse che quella non era nè vendita nè permuta; ma una cessione a tutta perdita, perocchè, come egli diceva, non gli veniva fatta nè dimanda nè proposta, ma gli si portava via la roba sua, senza dire “guarda„; e dovea chiamarsi fortunato se gli si dava un cencio di carta che almeno salvasse a' suoi figli il nome, se non il possesso, di quel poco ben di Dio; anzi bisognava dir grazie se il fisco non mandava alle forche e lui e la figlia, e tutto il parentado, per divenire l'erede dei Sisti, e tenersi il fatto loro in buona coscienza. Però di questo bolli bolli non faceva parola con tutti, sapendo, che la giustizia (quale giustizia!) gli teneva gli occhi addosso. Il consigliere, il testimonio della sua passione, il depositario de' suoi secreti era Medicina; egli, che previde forse un tale momento, se pur non l'affrettò co' suoi maneggi, alimentava in lui qualche debole speranza, impiegando le più belle frasi, che dir possa un amico. Ma non era soltanto il balsamo delle parole, che egli versava con affettata sollecitudine sulla piaga del povero taverniere: a tempo e luogo dava libero corso agli sdegni, che, a dir suo, gli invelenivano la vita; assumeva la parte dell'offeso, mandando imprecazioni contro l'autore di quelle ribalderie; ripeteva, che era tempo di mettere fine a tanti soprusi; che la giustizia, quando non si può ottenerla, bisogna farsela da sè, e chiudeva il suo dire con una reticenza, che aveva tutta l'aria di una minaccia. Bertolino che, a quel poco che n'abbiam detto, ognuno riconosce per l'uomo il più mansueto del mondo, all'udire quelle parole risorgeva alquanto dal suo abbattimento, e si sentiva nascere in cuore un non so quale ardore guerriero fino allora sconosciuto. — In que' colloquj, tenuti in istrettissima confidenza, egli concludeva sempre, essere nelle disgrazie che si riconoscono gli amici; — e stringeva la mano a Medicina! Un giorno costui, dopo le solite tirate, gli lasciò travedere, che la cosa non era poi affatto disperata, — che non si lasciasse andar tanto di spirito. Il giorno seguente fece un passo avanti, insistette sulla necessità di ottenere giustizia; disse che, per ottenerla, bisognava cercarla. Al terzo dì, entrando nella taverna con un viso più accigliato del solito e mettendo maggior riserbo nelle parole, gli si fece vicino, e gli disse piano all'orecchio: “ho a dirvi cosa importante; ma che nemmeno l'aria ci ascolti.„ Bertolino meravigliato di questo invito, e nello stesso tempo confortato dalla speranza di potere finalmente udire qualcosa di decisivo, avrebbe voluto chiarir sùbito il mistero. — Medicina nol volle. Si stabilì che il colloquio avrebbe avuto luogo dopo la chiusura dell'osteria: e così fu. “Amico mio, — gli disse il ciurmatore, poichè furono soli, versando da bere a Bertolino, che in quel momento sembrava l'avventore e non l'oste, — cosa servono tanti accoramenti, tanti piati? che ve ne viene in scarsella? Quando avrete pianto gli occhi, a conti fatti, restate ancora il poveretto di prima, e peggio.„ “Avete ragione, disse l'altro, e intanto sospirava, ma.... l'è grossa, vedete, e non la mi vuol passare....„ “Non la vuol passare? — soggiunse con una certa leggerezza disinvolta il falso amico, quasi volesse fargli scendere nell'animo inavvertitamente la cosa che stava per dirgli. — Io ne' panni vostri non mi starei lì da quasi un mese a rodermi inutilmente le viscere. Ma non capite, che vi vogliono far crepare; per ridere poscia di voi?„ “Cosa fareste voi che la sapete lunga? sentiamo...„ disse l'oste, a cui non erasi data invano l'imbeccata.... La cosa che stava per aggiungere il ciurmatore era assai grave, e voleva essere amministrata a piccole dosi, onde non producesse un effetto contrario a quello che se ne aspettava. — Egli dunque la pigliò alla lontana. “Vi sono de' nostri che pensano fare grandi cose a pro di noi tutti — gente, che ha sangue nelle vene e ducati in scarsella. Quell'affare di Voghera, voi lo credete finito? ed a quel modo? Finito, perchè nè in piazza nè qui nella vostra bettola udite parlarne. — Le zucche, Bertolino mio! Ne vedremo delle belle, se Dio ci dà la vita. Guardate — e in dir questo colmò la caraffa del compagno e poi la sua — io ho tanta fede in quella buona gente, che voglio bere alla salute di loro ed alla nostra, poi alle vendette di Voghera, e infine alla vostra fortuna„.... E in dir ciò, Medicina di proposito, l'altro macchinalmente, vuotarono le tazze. L'oste, soprafatto ma non istrutto da quelle parole, non vedeva più chiaro; ma cominciava a provar diletto di quella mezza oscurità, che gli poneva dinanzi agli occhi qualche visione lusinghiera. “Alle corte — continuò a dire Medicina quando vide che le sue parole non cadevano in fallo — bisogna venir fuori da questo viluppo, poichè vi ci siamo cacciati. Già il cielo ne dice: ajutati che ti ajuterò.„ “Dunque?„ “Non mi fate il broncio, figliuol mio, se per oggi vi lascio tutta la vostra curiosità. Risponderò dimani, quando anch'io avrò chiesto a chi si deve, e fiutato ben bene, dove.... il dove lo so io.... Andate intanto a dormire; ed a rivederci dimani, alla istessa ora, e davanti a un fiasco simile a questo.„ Detto ciò, se ne andava, dandosi una fregatína di mano e dicendo: “gli è una buona pasta d'uomo costui; un po' testardo; ma non monta. Tanto torna la gatta al lardo, che ella vi lascia la zampa.„ XXXI. Il piano di una vasta cospirazione, meditata da un pezzo e ormai matura, che Medicina svelò il giorno dopo all'oste, era accompagnato da quel corredo di circostanze minute e verosimili, che aggiungono fede al più strano racconto. V'era più che bastasse per convincere Bertolino. Inetto a penetrare da sè nel midollo di queste faccende per lui del tutto nuove, egli accettava checchè gli venisse detto coll'ingordigia di un affamato, che ingoja il cibo senza masticarlo. — Ascoltava attonito, ma non incredulo; prometteva ciecamente di fare quanto gli venisse ingiunto, non mirando ad altro che a rivendicare il fatto suo; e non pensava, l'incauto, che quelle promesse lo legavano ad un patto terribile, che gli poteva costare la vita al solo sognarne. È inutile il tener dietro alle ciance dilungate di Medicina. La cospirazione non esisteva che nella fantasia di lui. Quel metterne a parte un uomo, che aveva grande interesse a prestarvi fede e braccio, era il tranello, in cui sperava cogliere il padre di Maria, per quel perchè già noto a tutti. A creare un delitto, e sopra tutto un crimenlese, non era necessario nè un grande apparato di indizii, nè il concorso di molte circostanze, nè l'esecuzione materiale d'un atto aggressivo. Bastavano delle apparenze; bastava un'accusa indeterminata, financo la calunnia. Chi sa d'aver meritato l'odio altrui, non a torto ne sospetta e ne teme la conseguenza. — Che ciò potesse accadere sotto la dominazione dei più esecrati fra i vecchi tiranni, noi certo non ne dobbiamo far meraviglia, e molto meno oseremo dubitarne; imperocchè, senza punto interrogare le cronache di quel secolo, troviamo registrato, a lettere di sangue nelle memorie di jeri, non pochi fatti che comprovano questa terribile verità. Bertolino, dal momento che aveva ascoltato le parole del ciurmatore senza correre a farne denunzia, era reo di morte. Tutt'al più era a disputarsi quale supplizio, dallo spedito capestro all'eterna quaresima, gli verrebbe inflitto. — Ed egli mesceva al suo assassino! Costui, con arte diabolica, aveva cominciato dal sollevare nell'uomo il più mansueto l'ira che gli bolliva secretamente nel cuore senz'altra manifestazione che rimpianti e sospiri innocui. Il cruccio convertì poscia in livore. Abituò il suo animo alle idee del sangue; gli parlò in nome de' suoi doveri di cittadino e di padre; lo fece sicuro dell'ajuto di innumerevoli compagni; gli rammentò infine la cacciata de' Beccaria, ed il supplizio di frate Jacopo Bussolari, perchè si convincesse aver egli a rifar ciò, che era stato operato da quelli stessi, che ora parlavano dal trono in nome della giustizia, mentre la calpestavano. A questo modo dall'una all'altra parola, da questo a quel proposito, spianando la via ad ogni difficoltà, lo condusse all'estremo di quell'ebrezza, che altro non chiede se non un ferro di cui armare la mano ed un petto in cui immergerlo. Se alcuno dubita, che Bertolino osasse tanto, gli dirò che quanto ei si dispone ad udire è confermato da tutti gli storici.[10] Solo avrei a confessare di non aver saputo svolgere convenientemente tutto l'apparato delle seduzioni, che tolsero ad un uomo onesto la coscienza de' proprii doveri, e ne pervertirono il senno ed il cuore. Ciò che deve far meraviglia non è tanto l'improviso coraggio di Bertolino, quanto la profonda e sapiente perversità del suo falso amico. — Se l'assassino compie il delitto con un'arma spuntata, il nostro stupore non si arresta alla insufficienza dello strumento, ma risale all'audacia del braccio che se ne valse. Il dì seguente, verso il cader del sole, dopo un più lauto pranzo, in cui Bertolino bevve a chiusi occhi la sua completa demenza, i due compagni s'avviarono fuor di Pavia, e penetrarono nel parco dei Visconti da quel lato, in cui il ricinto interrotto mostrava dalle sue morse il progetto di un ampliamento. Ivi esisteva il poderetto del taverniere. — Costui vedeva levarsi sul bruno velo dell'aria i contorni maestosi degli alberi, che egli stesso aveva piantati; vedeva le tracce dell'ultima messe da lui raccolta e le recenti stoppie che aspettavano il nuovo mietitore. Distingueva, ancorchè già fosse bujo, i tralci carichi d'uve, che egli ne' suoi sogni aveva pigiate ed imbottate cento volte. — L'umidità acre e velenosa, che si levava dai campi, gli inzuppava le vesti e gli intirizziva le membra; ma il sangue, rifluendo al cuore ed accelerandone i battiti, rinfocolava i propositi e l'ardimento. Medicina sapeva che a quell'ora per una di quelle stradicciuole doveva passare il Signor di Pavia di ritorno al castello. “Animo,„ disse al compagno, accorgendosi che questo era assiderato, e batteva i denti. Bertolino non gli rispose. “Animo, dunque, non mi fate il fanciullo.... Ma che avete?„ Il povero uomo non si trovava in istato di dir parola, tante erano le emozioni, che lo assalivano in quel punto. Ben se ne avvide il compagno, e, temendo che il coraggio gli venisse meno in sul più buono, si trasse di sotto alla guarnacca un fiaschetto vestito, e glielo porse, dicendogli: “Bevetene una buona tirata: qui regna la mal'aria, bisogna cacciare il freddo; chè se vi piglia il granchio allo stomaco, dimani comincereste a piatire colla quartana, e Dio sa fin quando.„ La bevanda, che Medicina teneva in serbo, era un liquore da lui preparato secondo il recipe di Guido Bonatto, il più celebre professore di scienze occulte del secolo. — L'ingrediente principale era l'umor vitreo estratto dall'occhio del gallo; piccolissima dose di esso, quando fosse bene elaborata, bastava ad infondere il coraggio della disperazione nel cuore dell'uomo il più pusillanime. — La sostanza eroica, è bene saperlo, era sciolta nello spirito delle vinacce con aggiunta di ginepro e di genziana. Povera scienza occulta! L'oste, in mezzo a tanto sbalordimento, e sotto l'azione del doppio veleno propinatogli nelle istigazioni e nella bevanda del ciurmatore, era ridotto ad uno stato di completa ubriachezza. In quel momento egli non aveva ombra di senno: forse avrebbe ucciso la sua diletta Maria, perchè non era in grado di riconoscerla. Di tutta la vita, egli non ricordava che una cosa sola; la sua ingiusta povertà. Un solo pensiero gli regnava nella mente; la ricerca del mezzo più acconcio per ottenere pronta giustizia. — Egli si sarebbe gittato ai piedi del suo nemico implorando grazia in nome di Dio, e per l'amore di sua figlia, colla stessa commozione, con cui lo avrebbe colpito nel petto; purchè ottenesse il suo intento. Aveva tra le mani un pugnale, senza sapere chi ve lo avesse posto. Aspettava una persona, senza pure conoscerla. La prima creatura, che gli si fosse messa davanti, sarebbe stata la vittima designata. Ma Medicina colle sue infernali ciurmerie aveva scambiate le parti; la vera vittima era l'infelice a cui egli aveva tolto la ragione, e nelle cui mani affidava insidiosamente il ferro dell'assassino. Medicina, che aveva udito lo scalpitare di una cavalcatura, abbandonò il suo compagno, e si ritirò. A pochi passi alcuni uomini armati lo aspettavano. — Costoro, vistolo e scambiato un segnale per farsi conoscere, s'appiattarono con lui dietro il tronco di un albero. Il cavaliero avanzava; Bertolino non si curava neppure di nascondersi. Quando furono di contro l'uno all'altro, questi si scagliò furiosamente contro chi gli passava dinanzi, e, levando la destra, vibrò a caso il pugnale. Ma la punta, che non poteva far danno perchè ottusa e mal temprata, non giunse pure a toccare le anella della finissima maglia d'acciajo che indossava il principe. Un branco di sgherri piombò sul feritore, e, strappatagli di mano l'arma, l'aggratigliò strettamente. Medicina era il primo e il più zelante tra quelli. Per buona sorte l'infelice prigioniero trovavasi in tale stato di demenza, che non potè riconoscere il suo giuda. XXXII. L'indimani di quel fatto fu uno di que' giorni che la storia consegna alla sua più luttuosa pagina, perchè sia feconda di un grande insegnamento. Quando l'uomo insuperbisce di sè, e s'inebria dello spirito sovrumano che riscalda la sua creta, si specchii in quella: egli troverà di che stupire, di che piangere. La leggano i posteri finchè l'abbiano scolpita nella memoria; imperocchè se dai fatti gloriosi egli apprende ad amare gli eroi; dalla storia de' suoi traviamenti imparerà assai più: a superare, a vincere sè stesso. Ecco in poche parole il tristo séguito di quel fatto. La città, allo spargersi la notizia dell'attentato, assunse un aspetto di lutto generale. Da ciò s'apprende che fin d'allora esisteva quella falsa civiltà, che insegna a mentire publicamente. — Nel cuore di molti, forse in quello de' più, la mestizia non era altro che l'amara delusione di un colpo fallito. Il secolo permetteva queste aspirazioni scelerate. I mali erano estremi; pareva lecito il ricorrere agli estremi rimedj. Il vero e profondo sgomento esisteva; ma in quali individui? nel servidorame sfaccendato e leccone che aveva associata alla vita del principe la propria fortuna; ne' devoti, che stavano per raccogliere il frutto di lunghe adulazioni; ne' mozzorecchi largamente stipendiati a puntellare il trono colle sceleraggini. — V'erano pure di quelli che deploravano l'acciecamento di Bertolino, che si dolevano di cuore nel vedere messe le sorti del paese nella mano di un farnetico, che si fa interprete di un voto inconsulto. — Questi erano gli uomini illuminati; quindi la minoranza. Il pericolo del principe fu da tutti creduto gravissimo. Chi ha seguito con noi i disegni ed i maneggi di Medicina saprà che pericolo non vi fu; perchè tutto era preveduto. Il delatore aveva creato un delitto, per assecondare i suoi sentimenti d'odio e di vendetta, per buscarsi il pingue proveccio della denuncia secreta. Si celebrò la salvezza di Galeazzo con feste religiose e civili. Fu chi la chiamò un miracolo. Il popolo cantò l'_A Dio lodiamo_; come avrebbe cantato il _miserere_. — Dimenticò i suoi rimpianti, i suoi sdegni nelle gazzarre. Corse in folla al torneo ordinato dal principe; vi si satollò di stupore e d'allegrezze; e ne ritornò cantando _osanna_ a colui contro il quale, un giorno prima, aveva in secreto scagliato bestemmie e maledizioni. E la giustizia? decretò la più grave delle pene al povero demente; e, perchè giovasse l'esempio, lo raccomandò alla perizia del più famoso carnefice. Questo ne fece sfoggio; trascinò il reo per le strade di Pavia a coda di cavallo, mentre, zelante come il medico che sorveglia ogni sintomo dell'infermo aggravato, sogguardava il moribondo, e ne consultava i polsi, temendo che la vita di lui gli sfuggisse troppo presto. La natura del condannato non potè reggere a lungo; fu necessario affrettare l'estremo supplizio. — Legato per ciascuna delle gambe al fornimento di due barberi sboccati, venne fatto a quarti da quegli ammali, sospinti furiosamente, a colpi di nervo, in direzione opposta. La sua agonia fu benedetta da un monaco: le esequie furono celebrate sopra una catasta di legna, entro cui si raccolsero e s'abbruciarono le membra stracciate. La sua tomba fu l'aria, che disperse le ceneri. La morte del povero demente destò profonda impressione. Egli era reo, e la colpa davanti ai giudizii umani non poteva essere perdonata: ma la pena, perchè intemperante, risvegliava nell'animo dello spettatore qualcosa di pietoso, che ne falsava lo scopo. Il supplizio diveniva la caparra del perdono del cielo; l'uomo, tradito al carnefice come un colpevole, usciva dalle sue mani riabilitato dal martirio. Qui non hanno fine gli orrori di quella giornata; v'ha assai di peggio. La giustizia umana, dopo aver messo a morte un pazzo, colmava la misura della iniquità, premiando l'omicida. Il vero autore del doppio misfatto, colui che aveva creato l'assassinio e l'assassino, riscuoteva una vistosa somma di denaro, e si meritava la fiducia e la protezione di colui, che fu salvo unicamente dall'apparenza di un pericolo inventato per affrettare l'altrui ruina. Ma la più laida mercede di tanto delitto non gli fu data da alcuno; gli uscì spontanea dal fondo dell'animo, in cui fermentava da tempo il lievito corrotto della vendetta. — Quando, due giorni dopo la morte di Bertolino, egli incontrò Maria sola, incadaverita, coperta di un sajo bruno, esultò più assai di quella sera, in cui sognava di trionfare della sua virtù. Nè il commovente aspetto del dolore, nè quello ancora più solenne dell'innocenza, bastarono a porre un freno alla sua instancabile persecuzione. Studiò ogni passo di lei per attraversarlo colla sua presenza; giunse alcuna volta a susurrarle all'orecchio qualche parola. — Un dì, in cui ella usciva di chiesa, le disse piano e con un sogghigno infernale “a poco a poco i gruppi verranno al pettine.„ Quelle parole erano un insulto ed una minaccia. Ne tremò Maria; ma l'infelice non aveva altro rimedio che il piangere ed il pregare. Povera fanciulla! la perdita del poderetto le aveva cagionata la morte del padre, questa la conduceva alla più squallida miseria. La taverna fu chiusa, e l'orfana, portando seco il tenuissimo avanzo del suo patrimonio, trovò un rifugio mal sicuro in una lurida soffitta. Coloro, che tante volte l'avevano festeggiata, e che conoscendola sì bella e sì ben proveduta posero gli occhi su lei, e se l'augurarono in isposa, scomparvero tutti, quando della sua doppia dote le restava soltanto la più caduca. Il destino che sembrava averla condannata al più terribile isolamento, non riempiva l'eterno vuoto della sua esistenza che coll'imagine spaventevole del ciurmatore. Fosse caso o studio, ella doveva sempre incontrarlo. Circa un mese dopo, ritornando sull'imbrunire alla sua stanza, trovò l'uscio mal rabbattuto. Lo scosse spaventata, entrò, e si vide dicontro Medicina. Stremata dai lunghi patimenti, e certa dell'impossibilità d'avere soccorso, non ebbe nè la forza per resistere, nè la destrezza per fuggire. Mise un debole grido, e cadde svenuta sul pavimento. Il ribaldo si dolse di quest'accidente perchè dinanzi ad un corpo inanimato non poteva vomitare quel veleno di vituperj e d'oltraggi, che da lungo tempo gli pesava sul petto. — Pel resto!.. Ma la providenza vegliò ancora su Maria. Mentre lo scelerato, alla luce sinistra di un lumino da lui acceso, ritto della persona, coll'occhio torvo e le labra atteggiate all'insulto, stava contemplando la vittima, ormai tutta sua, che non gli chiedeva più nulla, che tutto abbandonava indifeso, s'udì al di fuori un alternare concitato di passi, come d'alcuno che s'affrettava ad arrivare. Medicina si pose in ascolto, sospettò, comprese. — Trasse dal fodero un coltellaccio, spense il lumino, e si mise in guardia. Un giovinetto, tenendo in una mano una lanterna cieca, nell'altra un pugnale, passò la soglia della stanzetta, e drizzò un raggio sul volto di Medicina. Non gli fu mestiero di guardarlo a lungo, perchè l'aveva veduto entrare pochi istanti prima. Ma quella luce era il giudizio del colpevole; al giudizio tenevano dietro la sentenza e la pena. Le lame de' due armati s'incrociarono in una lotta breve, ma decisiva. Pareva che il coltello dell'assassino non avesse nè filo, nè punta; strisciava di piatto sulle carni del giovine, senza recargli alcun danno. L'altr'arma invece, guidata da più che disperato ardimento, s'aperse strada nel petto dell'assassino e lo ricacciò, come morto, sul suolo. Il liberatore prestò a Maria i soccorsi necessarii per richiamarla ai sensi. — Quando la fanciulla rinvenne, si trovò sdrajata sul letto, e vide al suo fianco il giovine che la vegliava. I tratti di quel volto non le erano ignoti; ma un piglio franco e pago di sè dava a quelle sembianze un rilievo di vita affatto nuovo. Lo guardò meglio, lo riconobbe — era il garzone della taverna. Il poveretto non s'era avveduto della bellezza di Maria, e non aveva neppure sognata la felicità di poterla amare. Ma quando, separato da lei, si trovò d'esserle eguale almeno nella povertà, la trovò bellissima, e l'adorò in secreto. In faccia alla figlia del suo padrone egli non aveva mai osato levare lo sguardo; dinanzi all'orfana infelice, derelitta, trovò un ardimento tutto nuovo, e volle e seppe essere il suo angelo tutelare. Ricco le avrebbe offerto gli agi della vita, un compenso almeno ai molti rovesci della fortuna; inetto a tanto, s'accontentò di vegliare alla sicurezza di lei, pensando, nella sua giovanile sagacia, che la bellezza accompagnata dall'inopia è spesso troppo difficile carico alla virtù. — Il garzone rimase, quanto era necessario, vicino alla sua antica padrona, ma al momento di separarsi, non ne provarono dolore, giacchè entrambi spontaneamente ad una voce si dissero; a rivederci. — Maria volle compensare il suo liberatore accordandogli la mano ed il cuore. Questi disse che il premio era troppo grande, ma l'accettò con tal gioja, che non si può descrivere. Fra l'uno e l'altro non si allentò mai il legame reciproco del beneficio e della gratitudine. A poco a poco, coll'assiduo lavoro, ridonarono alla propria famigliola qualche agio, e furono felici, “Per riconoscere la sola felicità possibile al mondo, diceva Maria, bisogna cercarla fra chi ha patito; il confronto la fa scorgere; e in ciò, concludeva ella con un sospiro, io non ho che a ritornare in me stessa.„ CAPITOLO QUINTO XXXIII. Medicina, che era stato creduto mortalmente ferito, guarì e troppo presto, sì che potè ritornare in brev'ora alle antiche abitudini e ripigliare il corso appena interrotto delle sue sceleratezze. — Spiantò la bottega da cantambanco, che gli fruttava meschinissimo guadagno e troppi pericoli; poichè il popolo, che aveva finalmente riconosciuto chi egli fosse, tentò un giorno di scassinare a colpi di pietra la sua baracca. Lo sfavore del publico gli mantenne e gli crebbe la fiducia del signor di Pavia, che aspettandosi da lui altri servigi, lo chiamò presso di sè ad un officio secreto. Espertissimo nell'arte di impadronirsi de' fatti altrui, destro nel fingere amicizia e nel provocare incaute confidenze, potè talora scovare il vero o creare de' sospetti più o meno fondati: ma quando intorno a lui ogni viso divenne impassibile ed ogni labro muto, ei ricorse alle più strane supposizioni, alle misteriose e generiche accuse: ottimo mezzo a tener viva nell'animo del suo padrone quella paura, a cui stipendii egli traeva una vita dorata. E in ciò il principe assecondava mirabilmente le intenzioni di colui; perocchè ombroso e diffidente per indole, andava accattando tutto ciò che cresceva i suoi sospetti. L'arte moderna non è povera di veritiere rappresentazioni del vizio nel suo più schifoso aspetto. Sollevato il velo ipocrita che ricopre il lezzo della società, vi si mostrano il furto, l'assassinio, la prostituzione in tutta la pompa della loro deformità. Ma la spia è tale un mostro, che non ha ancora trovato la penna di fuoco che osi ritrarlo. Egli è peggiore dell'omicida, del ladro, del falsario, perchè tutti i delitti di costoro stipendia ed adopera a' suoi fini. Egli uccide nella vita e nella riputazione quello pria che altri, a cui stese la mano d'amico. Vende la libertà e l'onore altrui, solo perchè non langua il suo mestiero. Machiavelli disse che gli uomini si debbono spegnere o vezzeggiare[11]; il delatore fa l'uno e l'altro, vezzeggia e spegne ad un tempo. Non è egli di solito un'energumeno, ebro dallo spirito di parte, che adoperi ogni suo mezzo ad indebolire una fazione avversa; ma si fa carnefice de' suoi simili senza provar sdegno o passione; nè come il carnefice porta il suo viso sul palco. — Talvolta sfugge la piena luce, ed è invulnerabile perchè anonimo, tal'altra assume l'inviolabilità di chi è rivestito di un publico officio, ed usufrutta il braccio di un potente, di cui diviene l'árbitro. Il tiranno può farvi grazia: la spia non mai. La folla, in mezzo alla quale si nasconde un delatore, prova apprensione ed angoscia, come al dubio che nel suo mezzo s'aggiri un idrofobo. Ognuno s'allontana, l'adunanza si scioglie: meglio è l'essere prigioniero nella propria casa, dice o pensa ciascuno, che affrontare il pericolo di un morso inavvertito, che infonde il veleno, e prepara una morte certa e spaventevole. Vero è che questo mostro, parto ibrido del dispotismo e della legge, vive talvolta all'ombra della stessa materna potenza; ma ciò non lo sottrae al marchio della publica infamia, alla esecrazione di tutti gli uomini, a quella fin anco dei meno onesti. Medicina continuò ad essere la spia di Galeazzo secondo; morto lui, il Conte di Virtù, che aveva inaugurato il suo governo con leggi più miti, nella certezza di non avere nemici fra' suoi soggetti, bandì dalla sua corte quel sospetto collettore di accuse secrete. Conobbe allora, che cacciato fuori dal castello e confuso tra la feccia, verrebbe accolto come un verme, su cui corrono a gara i piedi dei passanti per calpestarlo. Chiese, supplicò, in ginocchio, nella polvere; ma il bando non fu revocato. Siccome però la confidenza nelle proprie forze non si spingeva tant'oltre in Giangaleazzo da fargli credere di non avere nemici o rivali, e temendo anzi che la gelosia gliene creasse ogni giorno tra' suoi vicini, così pensò il conte che la scaltrezza del ciurmatore avrebbe potuto giovargli come un arma secreta a conoscerne le intenzioni, ad isventarne le insidie. Passò quindi Medicina dalla casa del Conte di Virtù a quella di Barnabò Visconti, e, pel merito di varie commendatizie, vi fu ricevuto come dotto in astrologia e negromanzia; carica in quel momento vacante alla corte. Ivi, supplendo ai diplomi coll'ir tronfio e col largheggiare di buoni augurj, acquistò credito a segno da far dimenticare i troppo mesti responsi di Andalone del Nero, astrologo di Luchino: il più celebre, che mai s'avesse un principe di quel secolo. Barnabò, che non credeva ad altri fuorchè a se stesso, e non accordava a chicchessia il diritto di volgergli un consiglio, perchè avrebbe temuto di perdere il diritto di scapricciarsi a talento, aggradiva le parole di Medicina come lazzi da buffone; e, vantandosi d'ignorare fino l'alfa della scienza, ne conculcava i principii, e ne derideva le applicazioni. Per tal modo, la vuota dottrina de' suoi soggetti (perchè il nome del principe escisse dalla folla) lo costringeva a proclamare un'ignoranza, che, per caso, era principio di vera saggezza. Medicina accumulava in sè i mestieri e gli stipendj. Al lucro fisso del suo impiego nominale, Barnabò aggiungevagli qualche straordinaria largizione, quasi a compenso di martoriarlo colla sua incredulità: ed oltre ciò, onorandolo del nome di sollazzevole buffone, gli soleva dire che la sua dottrina gli andava a sangue, perchè un dotto meno geloso della dignità della propria scienza, non avrebbe sperato di trovarlo mai. Finalmente a giorni determinati, col pretesto di andare in volta per scoprire o raccogliere erbe, per consultar questo o quel collega, egli abbandonava il palazzo, esciva tacitamente dalla città, e correva di volo al castello di Pavia, dove le sue visite, accompagnate da una minuta relazione di quanto si diceva o si faceva alla corte di Milano, venivano bene ricevute e meglio pagate. — Fu in una di queste corse ch'egli dovette recarsi a Campomorto ed al castello dei Mantegazzi, ove noi lo abbiamo lasciato. XXXIV. Il Conte di Virtù, che nei rapporti co' suoi soggetti fu il più mite tra i principi del suo tempo, persuaso che sul campo e ad armi eguali sarebbe sempre stato vinto da vicini più forti di lui, ebbe ricorso a quelle arti, che più tardi il secretario fiorentino spiegava ai regnanti dicendo che “loro è necessario saper usare la bestia e l'uomo„, cioè la forza e la legge, e che “essendo a ciò necessitati, debbano di quella pigliar la volpe ed il leone[12]„. Forte di questo principio, che egli praticò prima che altri lo insegnasse, mirava a divenire potente, mostrandosi debole; addormentava i suoi emuli, fingendosi alieno da ogni ambizione; e, intanto che la sua spada era oziosa nel fodero, esercitava una importante influenza sugli stati vicini, sollecitando in secreto i partiti, scoprendo o sventando i disegni de' suoi avversari. Fu tra i primi ad accreditare, presso le corti dei principi amici, gli inviati della sua corte muniti di lettere patenti piene d'ossequio, e d'istruzioni secrete piene di astuzia. — Medicina, ne duole il dirlo, poteva considerarsi da questo lato come un informe abbozzo d'uomo diplomatico. Non gli mancava l'arte di nascondere i fatti proprii e di scoprire gli altrui; di trattare con apparente leggerezza le cose gravi, e di dar aria di importanza alle lievi. Intanto, servendo ed ingannando entrambi i suoi padroni, costringeva la fortuna a versargli i suoi favori a due mani. Era ben naturale che il Conte di Virtù accogliesse súbito il suo inviato; poichè s'aspettava qualche importante rivelazione. Ordinò quindi che fosse condotto al suo cospetto; e mentre colui s'inchinava profondamente, traendosi il cappuccio, egli, recatosi a sedere sul letto, aperse con lui il dialogo. “Notizie?„ “Le solite a un dipresso.„ “E il tuo padrone che fa?„ “Il mio padrone è il Conte di Virtù, che Dio conservi„, soggiunse Medicina con accento ipocrito. “Hai il solito rapporto in iscritto?„ “Sì illustrissimo„ — e in dir ciò trasse di sotto l'abito un portafogli, che slacciò per cavarvi una carta. Nel porgerla al conte, s'inchinò umilmente verso di lui, poi rialzatosi diè di piglio ad un doppiere, fe' lume sullo scritto, e disse: “perdonerà Vostra Grazia, se le presento degli uncini in cambio di caratteri. — Ma la fretta e la paura...„ Il conte era tutt'occhi e leggeva la relazione seguente, che trascriviamo colle stesse parole di Medicina: “_Adì 30 Augusto hujus anni domni al hora XIV el domino Barnabove dixe queste parole al suo famulo et vestro = Messer Johanne Galeacio non se move dil suo palatio de Tesino per tema di noi: verum el prenzipe de Mediolano quando se delectasse de videre et osculare il suo dilectissimo nepote, no harria che a mouere puocchi fidi militi, et currere ad Pavia; et cvm gran festa et clamore saria receputo da i boni Pavesi = Et hoc dixit ridendo quasi ad lacrymas et cum malitiâ mvlta._ “_Deinde el che duoppo intervenne in Mediolano magna grameza per la sententia de duoi citadini condemnati a la forcha: caussa el hauere cazato nel bosco de Maregnano de proprietate del predicto Domino._ “_Item el camparo de Lambrate fu inguerzito cum uno spuntirolo roxo nel ochio destero, per hauer passato ultra la stangha de la strada privata del predicto Domino._ “_Item XII contadini furono mulctati et VII tirannice uerberati per mala custodia de cani.... ad jussum Magistri canateri predicti Domini._ “_Item_....„ Ma qui sarà meglio che tagliam corto col nostro referendario, e che entriamo noi al suo posto a raccontare meno barbaramente, se non con più evidenza, l'ultimo fatto di quella strana relazione. Ma per ben farci intendere, ci conviene tornare un passo indietro. Barnabò Visconti, che aveva diviso con Giangaleazzo lo stato e l'eredità del fratello Matteo, non tenendo in comune che la città di Milano, ambiva ad accrescere la propria signoria a spese del nipote. — Il carattere di costui sembrava favorire i suoi disegni; e il primo tentativo non avea fallito; perchè Giangaleazzo mostrava di non aver coraggio di metter piedi in Milano, benchè vi avesse una residenza inespugnabile nella rocca di Porta Giovia. Se non che, Barnabò colla sua politica astiosa e frenetica (o meglio colla sua nessuna politica) pensava tirare una bellissima posta giocando a carte scoperte; e siccome possedeva tutte le città che occupavano la parte settentrionale dello stato, stimò che nulla meglio gioverebbe ad indebolire il suo consorte, quanto il porglisi accanto sul limite meridionale, acquistandovi qualche terra o città, ed impedendogli di riquadrare i suoi possessi coll'aizzarlo ed inquietarlo ad ogni istante. Trattò a questo fine con Feltrino Gonzaga della cessione di Reggio; e ne stipulò la compera al prezzo di cinquantamila fiorini d'oro. Somma equa riguardo ai tempi, ed all'importanza del territorio ceduto; scelerata se si pensa all'inconsulto assenso del popolo, che fremeva al nome di Barnabò, e che si disperava al solo dubio di doverne sopportare il governo. Checchè fosse, Reggio ed il suo distretto divennero proprietà della casa Visconti; e Barnabò, per rassodare il suo dominio, non ignorando che in alcune castella del territorio s'aggregavano de' malcontenti pronti ad una riscossa, quando l'intruso signore osasse intimarne la resa, catturò Francesco Fogliarti fratello di Guido, uno de' più caldi nemici de' Visconti e il più potente fra i castellani di quella terra. Benchè tra il Visconti ed i fratelli Fogliani non vi fosse mai stata alcuna ruggine, Barnabò ritenne Francesco prigioniero di guerra, come una caparra dell'obedienza dei baroni reggiani. Lo fe' chiudere perciò nel più squallido carcere, privandolo di luce, e di cibo, minacciandogli tormenti e patibolo, quando non sapesse indurre il fratello a sottomettersi al nuovo signore. La sola libertà che s'avesse il prigioniero, era quella di scrivere elegie a' suoi, per dipingere loro il suo stato deplorabile e supplicarli ad averne compassione. Barnabò, che aveva tutti i requisiti del tiranno, fuorchè la finzione, approvava ed incoraggiava queste veritiere pitture della sua ferocia; perchè riponeva sempre il supremo de' suoi diritti nell'incontrastata facoltà di opprimere; e perchè, in questo caso, valevasi della sua vittima come di un mezzo per indurre i nemici a piegarsi a' suoi voleri. Le querimonie dell'infelice Francesco Fogliano trovarono eco ne' cuori dei Reggiani riboccanti di un insuperabile odio contro la dominazione del Visconti. Il fratello di lui si confortava colla speranza, che Barnabò non avrebbe osato spargere il sangue d'un innocente. — Ma intanto si preparava a farne vendetta, non a liberarlo. La resistenza dei Reggiani aveva preso dimensioni le più imponenti; l'ingiusta prigionia di un loro concittadino attizzava gli sdegni. Ai baroni ed ai signori, che l'avevano progettata, si unì parte del popolo; a questa, alcuni cittadini d'altre province. In Milano se ne parlava sommessamente, e non a caso; molti cospicui personaggi vi pigliavano parte da lungi col suffragio, col consiglio, col denaro. Ma Barnabò sfidò il dolore e l'ira dei Reggiani mandando a morte lo sciagurato ostaggio: ed, aggiungendo lo scherno alla crudeltà, volle ch'egli fosse appiccato alle mura della stessa sua patria. Il giorno in cui Reggio vide il migliore de' suoi figli subire la morte dei malfattori, la città ribelle parve domata. La storia, che riferisce fedelmente le grida disperate di un popolo che impreca contro la propria servitù, sarà sempre un eco debole ed infido di quel dolore cupo ed arcano, che divora dignitosamente l'oltraggio, ed aspetta. — Guai a colui che intollerante degli indugi, divora il seme, e non aspetta ch'egli porti frutto. Nulla v'ha di più sapiente che il frenar l'ira, per farne tesoro ai migliori momenti. — Forse il silenzio a prima giunta può sembrare viltà: ma noi, che per trista sorte ne fummo maestri, potremo insegnare, che esso non è soltanto la difesa del debole, ma diviene vittoria quante volte elude le speranze della tirannide; la quale sovente affretta un primo atto di crudeltà per provocare i risentimenti dell'oppresso ed avere pretesto ad altri e più gravi oltraggi. Lo sgomento di Reggio si era diffuso fino a Milano. — Prima che vi giungesse la notizia della morte di Francesco Fogliano, correvano per la città voci sinistre sulla sorte di alcuni cittadini. Parlavasi di una grande congiura scoperta, di gente condotta prigione, di un nuovo e terribile processo, che doveva iniziarsi. Il primo annuncio di una sciagura non è per solito al disotto del vero. Ognuno sulla fede di tante crudeltà vedute, traduceva a suo modo, ma sempre con terribili colori, il risultato di quell'avvenimento. Chi ne conosceva il filo taceva; chi era ignaro dei fatti credeva scolparsi dichiarandolo, ma non era perciò più tranquillo; tutti prevedevano nuovi tormenti e nuovi tormentati. Volgeva su questo argomento la relazione di Medicina, ed il Conte di Virtù, che dallo scritto di lui non sapeva cavare quanto bastasse ad appagare la sua curiosità, gli volgeva ad ogni istante la parola: “Tu non mi accenni il nome di alcuna tra le vittime?„ “Messer no; la cosa è tanto recente; d'altronde sono parecchi, sono molti, e m'ero serbato l'officio di nominarveli a voce.„ “Ebbene?„ prese a dire il conte con aria d'interrogazione e d'impazienza. “Le bujose dovrebbero essere già popolate — v'ha posto per un Biglia, per Anselmo Borri, per due degli Osii, un Martin Lanzani, uno de' Mantegazzi....„ “Un Mantegazza, e quale?„ chiese il conte meravigliato. “Perdoni Vostra Grazia, non ve lo saprei dire — ve n'è più d'uno di questo nome, ed io....„ “Messer Medicina, fate meglio il vostro mestiero, o vi rinunciate del tutto — Questo servirmi a mezzo mi pone in sospetto — pensate ai casi vostri.„ Medicina non sapeva comprendere la ragione di quella minaccia. Egli non rammentava in quel momento d'essere in casa d'un Mantegazza; e molto meno poteva conoscere che quel nome risuonava caro alle orecchie del conte. — Attribuì quindi il rimprovero ad uno di que' ticchii dei grandi signori, cui, per l'essere suo, era abituato da un pezzo. In cuore non se ne curò punto; col viso finse d'essere commosso. Tutto raumiliato si prostrò davanti al suo signore, con quel fare mansueto, che sembra voler dir “batti„, e che perciò disarma. “Signore, abbiate pietà del vostro più fedele servitore, sclamò l'ipocrita: se non vi manca che una sua prova di zelo per convincervi chi egli sia, comandategli di correre tosto a Milano a pigliar notizia del fatto. Prima che spunti il giorno, Medicina, vivaddio, vi porterà la risposta.„ “Allora partite: ma che nessuno sappia il motivo della vostra corsa; che nessuno al mondo prima di me conosca ciò che voi avete veduto ed udito.„ Medicina, senza aggiungere parola, si pose la destra sul petto in aria di obedienza, e di promessa; fece un inchino ancora più profondo dei consueti; ed escito fuori, chiese una cavalcatura su cui montò di un salto, e partì di galoppo per Milano. XXXV. Quella notte parve eterna al conte; più lunga e dolorosa di quelle che dianzi aveva passato fra l'insonnia e la febre. L'annuncio del ciurmatore gli aveva fitto nel cuore una spina, a togliere la quale non valevano ragioni. Il silenzio e la solitudine che lo circondavano, non erano i mezzi più acconci per dissipare un funesto presentimento. Egli conosceva Maffiolo solo per nome e per fama; ma ne apprezzava altamente la virtù. Ora cominciava a venerare in lui il padre d'Agnesina; tremava per esso, e più ancora per la sorte dell'amata donzella. Riandò colla mente ogni probabilità che Medicina si fosse ingannato nell'udire o nel ripetere quel nome. — Posto anche che il nome fosse vero, molti erano dello stesso casato in Milano; e riposava qualche momento sulla speranza di un errore di persona. — Alla peggio, quando fosse caduto il sospetto di Barnabò su Maffiolo, egli impiegherebbe ogni suo mezzo per dissiparlo; tenterebbe ciò che non aveva mai osato prima, i buoni officii, le speciali raccomandazioni, le preghiere; purchè Agnesina non avesse a soffrire. — Ma gli effetti d'ogni ragione consolante erano passaggieri. Tutto dipendeva dalla esatta conoscenza dei fatti; l'incertezza è per sè sola un tormento, che avvelena anche le cose liete. Se la pigliava quindi colla insufficienza di Medicina, colla sua lentezza, coll'eterna durata di quella notte; implorava il ritorno della luce, e più volte era disceso al balcone per vedere se inalbava. Medicina intanto, cacciando a viva forza le calcagna nel fianco del cavallo, e flagellandolo ad ogni passo sulla groppa, era volato a Milano. Ivi cercò e rinvenne; interrogò e seppe quanto gli era necessario. La sua missione fu coronata d'un ampio successo. Egli ritornava quindi colla stessa velocità a Campomorto, carico di notizie raccolte dalla testimonianza di chi aveva trovato in casa dei Mantegazzi, e confermato da uno scritto chiuso a sigillo e diretto ad Agnese. Quando Medicina pose il piede nella stanza del conte, era ancora notte; la piccola lampada che ardeva, mandando una luce vacillante, attestava la veglia del conte. Ma questi aveva abbandonato il letto; e ravvolto in un'ampia guarnacca di velluto bruno, sedeva davanti ad uno scrittojo, col capo tra le mani, fantasticando ed aspettando. Egli aveva distinto ben da lontano il galoppo del cavallo, aveva udito il cigolío dei perni del portone; teneva conto del tempo necessario per scavalcare, per salire, per giungere alle sue stanze. — E quando udì che alcuno bussava alla sua porta, non potè trattenersi dall'andargli incontro. “Ebbene?„ disse egli colla sua solita formola interrogativa. “Grandi notizie, o mio signore...?„ “Dì presto: buone o grame...„ “Ciò dipende dagli interessi di chi le ascolta...„ “Parla: dimmi, che avviene di Maffiolo Mantegazza?„ “È al sicuro dalle ire di messer vostro zio: parola d'onore.„ “Fuggito forse?„ “Fuggito appunto, e per non ritornare mai più.„ “Ma dove, ma quando?...„ Medicina in vero esitava, non sapendo se la notizia che egli recava sarebbe bene o male accetta. Ad ogni modo avrebbe voluto, che non andasse sfruttato il merito dell'opera sua. Invano studiava il volto del conte per indovinarne i desideri; su quella fisonomia non leggeva altro che l'impazienza. “Hai tu paura di dirmi tutta la verità? — ripigliò il Conte colla amorevolezza propria di chi è lieto d'aspettarsi una buona nuova — e che? credi tu forse che io goda del male altrui? Se Maffiolo Mantegazza è fuggito, tanto meglio: Dio vegli su lui... e lo conduca a salvamento.„ “Dio veglierà su lui, non ne dubitate„, soggiunse Medicina, arrestandosi sulla frase, che lasciava sottintendere in certo modo la nuda verità “Messer Maffiolo non è più in balía degli uomini. Egli....„ “Non è più in balía degli uomini!!„ “Si, o Messere, poichè egli è morto.„ “Maffiolo è morto?...„ sclamò il conte con accento di desolazione. “Maffiolo è morto!...„ ripetè il ciurmatore, scomponendo la frase nelle sue sillabe e pronunciandole con tuono patetico. “Ma quando, e per mano di chi?„ “Jeri, e per mano propria.„ “Se ne conosce il motivo?„ “Vi è ogni ragione per credere ch'egli pigliasse l'unico disperato partito che lo sottraeva ai fanti di giustizia, pronti a mettergli le ugne addosso.„ Il conte si coperse il volto colle due mani, e con parole soffocate, che niuno avrebbe potuto comprendere, susurrò tra sè. “Che avverrà mai di sua figlia?... e lo amava tanto....! povera Agnesina....!„ Il ciurmatore, meravigliato di una sensibilità così nuova, desiderava mitigare l'asprezza della notizia, e non sapeva come farlo. “Mi fa male il vedervi tanto afflitto, o signore„; prese egli a dire. Si scosse a quelle parole il conte, e dimandò: “Sai tu i particolari di quest'avvenimento?„ “Una lettera dello stesso messer Maffiolo diretta a sua figlia chiarirà l'arcano. Eccola:„; — e la consegnò al principe. Pensava tra sè il conte, se quello scritto doveva essere posto nelle mani d'Agnesina, perchè fosse resa consapevole della sciagura dalle stesse parole di suo padre. Ma ciò era forse quanto ucciderla. — Assunse pertanto sopra di sè il carico di informarla, sperando che l'amor suo gli avrebbe suggerito le parole più proprie a così doloroso officio. Ripose la lettera di sotto al giustacuore, ed alzando gli occhi su Medicina, gli disse: “Ora narra, e con tutta chiarezza, quanto è a tua notizia.„ “Vi parlerò per bocca di un testimonio, che vide quanto era possibile vedere — soggiunse Medicina con una voce sì commossa, che non sembrava più quella del cantambanco. — Fino da jeri mattina alcuni ceffi scomunicati, che appestavano di bargello a un miglio, facevano la ronda lungo la via, dov'è la casa dei Mantegazzi. Messer Maffiolo non mise piede fuori della porta. I vicini, che avevano annasato i birri, cominciavano a rallegrarsi nella speranza, che il buon messere l'avesse data a gambe. Così fosse stato! egli invece era rinchiuso nel suo studio, in mezzo a un monte di carte, che, dicesi, ripassava una per una; questa riponendo, quell'altra gittando alle fiamme. I fanti, vogliosi di far preda, senza dar nell'occhio alla plebaglia, che quando vuol giustizia sa farla in via sbrigativa assai meglio che il capitano, attendevano la notte, per fare il colpo. — Dicesi ancora che Messer Maffiolo informato di tutto, aspettasse l'ora opportuna per cavarsela, e che a ciò corressero intelligenze col vicinato: anzi che vi fosse una scala già pronta, perchè potesse discendere da un finestruolo, e per gli orti scantonare alla sorda. — Tutti sogni della buona gente, che vorrebbe liberarsi dalla pena di compatire e di operare. Non v'era nè soccorso, nè scala, nè tampoco un uomo; nessuno volle risicare la propria per la pelle altrui. — Venne infine quella sciagurata notte. Messere non era mai uscito dal suo studio. Alcuno, che lo vide, attestò che egli era sparuto, scarno, quasi contrafatto, che sedeva davanti al suo stipo, scribacchiando come uno che ha più cose a dire, che tempo per enumerarle. — Un servo tentò distoglierlo da quella occupazione, rammentandogli essere l'ora della cena; egli rispose all'invito chiedendo gli venisse portata una lampada, e tirò avanti nel far correre la penna e nel rovistare le carte. — Quando fu bujo fitto, il servo udì scorrere il chiavaccio alla porta dello studio; e quante volte s'accostò ad essa per agguatare dalle fessure, nulla vide nè udì.„ A questo punto il narratore fece una breve pausa, dubitando che non gli fosse prestata attenzione: perocchè il conte, appoggiata la testa nel cavo della mano dritta, sembrava assorto nei proprj pensieri. Ma quell'istantaneo silenzio lo scosse, e gli fe' levare lo sguardo con tale espressione, che non lasciava dubio che egli provava grande interesse nell'udir quel racconto, ed equivaleva ad un comando espresso di continuarlo, senza dimenticarne alcun incidente. Medicina quindi ripigliò: “Quando io giunsi in Milano doveva essere all'incirca mezzanotte. Entrando per la porta, udii la tabella ferrata di non so quali monaci dar il segno del mattutino. — Faceva bujo come in gola del lupo: il cielo era rannuvolato; le case tutte chiuse. Non vidi un solo lume ad una finestra, non incontrai un lampione per la via; non udii una pedata che battesse il lastrico[13]. La vostra bella Milano, sì vivace e popolosa durante il giorno, sembrava un sepolcro. — Durai fatica a rintracciare la casa dei Mantegazzi, benchè mi fossi proposto di recarmi a quella del signor Maffiolo, che sapeva essere presso la Torre dell'Imperatore, non lungi dal monastero della Vecchiabbia. Quando misi capo nel terraggio, uno splendore di fiaccole mi fece riconoscere la casa che io cercava. La porta era spalancata, e sulla soglia stava un branco di zaffi, allumando all'ingiro con sospetto. — Scavalcai da lontano per non dar nell'occhio, legai la mia rozza trafelata a un pilastrino; e avanti. — Due di quelle guardie, appoggiate agli stipiti della porta l'una rimpetto all'altra, tenevano le alabarde incrociate. Per verità, non era necessario usar tanta precauzione, perchè al di fuori era un deserto. Sul mio passo le alabarde si rialzarono tosto, perchè il cencioso guarnaccone, lo aveva lasciato sul basto della cavalcatura; e mi mostrai ai soldati col giustacuore fregiato del vostro potente biscione. — Nell'interno della casa era un nugolo di fanti: alcuni appostati agli usci, altri radunati nell'androne. Brillava loro sul volto la contentezza del bottino; e preludiavano l'orgia collo schiamazzo e le sorsate. “Io mi avvicinai ad uno di loro, e chiesi: — Che avviene? — Un affare di nulla, prese egli a dire; un pulcino da condurre a pollajo — Chi è egli? — Messer Maffiolo Mantegazza — E il perchè?... Ne sappiam noi! ci dicono di venir qui, di far la guardia, di catturare.... sanno forse i vostri tomaj dove voi pensate di andare? — E il prigioniero ove trovasi? — In quella camera, rispose il bravaccio additandola; colà il capitano ed un giudice frugano e tasteggiano fra le carte, peggio che se quei cenci fossero aste e pugnali. Ma c'è voluto del buono, vedete, a penetrare là dentro; si dovette abbattere la porta, che messere non volle aprire, ancorchè ne lo pregassimo con tutta civiltà. “Il bravaccio mezzo brillo continuava a blaterare, quand'io già lontano da lui tentava d'introdurmi nella stanza del prigioniero, — Alla porta nuove difficoltà; il giudice aveva dato ordini severi. Io finsi d'averne de' più severi de' suoi; fatt'è che entrai. “Vostra Grazia[14] per certo pensa che io m'abbia un cuore di macigno, eh! ella non va lontano dal vero. Ne ho vedute tante a questo mondo, che ci ho fatto il callo. Eppure bisogna dire, che coll'andar avanti negli anni si arrivi al tenerume, perchè questa volta anche senza i soliti piagnistei, m'ebbi una stretta al cuore così nuova, che quasi credetti fosse compassione. “Vi degnate voi d'ascoltarmi? — Messer Maffiolo sedeva nel fondo della camera col corpo addossato al leggío, e il capo sur un libro, che gli faceva l'officio di capezzale. Io fissai quel volto; gli occhi erano chiusi, ogni tratto rigido ed immobile: vi rimaneva solo un'impronta di dolore, che la vita fuggendo non s'era tolto seco. “Col consenso del curiale, che mi riconobbe, mi avvicinai a lui, e lo scossi; non diè segno di vita; gli posi una mano sulla fronte, era di marmo; una altra al cuore; mùtolo del tutto. — Constatata la morte, il curiale fece insaccare quante carte credette appartenere alla giustizia, ed il capitano affidò la custodia del cadavere a' suoi sgherri. L'uno e l'altro dopo ciò se ne andarono. “Io stava per partire con loro, allorchè, non so per qual ragione, dovetti arrestarmi un momento; allora pensai che avrei potuto conoscere, meglio che il curiale, qualcosa di quel garbuglio. — La stanza era stata frugata, tramestata, sconvolta in ogni sua parte; io la frugai di bel nuovo, e non invano; perchè in un canto scopersi una coppa, probabilmente ivi riposta da poche ore. Benchè fosse vuota, le sue pareti erano umide e crasse; e nel fondo stagnavano alcune gocce di un liquido denso e verdognolo, che alla vista ed al fiuto riconobbi subito per uno stillato di tossico. — Il curiale se n'era ito coll'intima convinzione, che messer Mantegazza fosse morto di un colpo: pover'uomo! “Finalmente era per andarmene anch'io, contento di avere almeno qualcosa di più positivo da aggiungere alle vaghe conclusioni della giustizia, quando vidi a terra un non so che di bianco e riquadrato, che mi sembrò essere ivi dimenticato o perduto. — Mi affrettai a raccogliere quel nonnulla, e per tal modo giunsi a sottrarre alle ugne degli sgherri quella lettera, che v'ho testè rimessa, perchè vi degniate di consegnarla a madonna Agnese. — Quello scritto dirà ciò che noi e la giustizia non giungeremmo mai a sapere.„. XXXVI. Il lettore, io spero, non si sarà lasciato cogliere al laccio dalle parole alquanto raddolcite di Medicina. Egli conosce troppo e troppo bene la vita di colui, per aver fede in un subitaneo ritorno a sensi più umani. Volendo però giustificare tal mutamento, diremo che Medicina questa volta cangiò di linguaggio, perchè colui che l'ascoltava aveva cangiato d'aspetto. Il conte fingeva d'ordinario di porgere una svogliata attenzione ai racconti del suo messaggero: ascoltava come colui che è preoccupato da altri più gravi pensieri; sapeva mostrarsi impassibile a ciò che gli veniva svelato, fosse anche un mistero carpito con grande arte e con pari pericolo da chi lo serviva. — Che l'opera di lui avesse in gran conto, lo mostrava solo dalla liberalità de' suoi compensi: a tal segno, che lo stesso Medicina, non facile di solito a provare sazietà di denaro, soleva dire: che il conte pagava splendidamente la noja d'ascoltarlo. Ciò era studio in Giangaleazzo, non natura. Col lungo esercizio però, l'abitudine di temperare i suoi intimi sentimenti aveva preso tale consistenza, che a vincerla non bastavano le ordinarie agitazioni della vita. Ma lo scaltro aveva davanti a sè un tale non meno scaltro di lui. Costretto dal suo difficile mestiere a vendere, non lasciava passare l'occasione, appena gli si presentasse, di comperare. Cedeva a denaro i secreti della corte di Barnabò, quest'era il patto espresso; ma se ne riserbava uno tacito per sè, quello di scovare alla sua volta i secreti del castello di Pavia. Perciò, mentre il conte riannodava le svariate relazioni di Medicina, questi leggeva o pretendeva leggere sul volto di quello pensieri e progetti. E quando i due sguardi, diretti entrambi ad indovinare e scrutare, s'erano incontrati, rimanevano confusi dalla reciproca scoperta, e cercavano di sfuggire col minor scandalo possibile dal comune ritrovo, come due amici che inconsapevolmente s'abbattono a fare la corte ad uno stesso idolo. Che Medicina non fosse molto addietro in tali arti, lo proverà l'aria patetica con cui aveva intonato la sua relazione: con ciò egli metteva d'accordo le suo parole e i sentimenti di chi l'ascoltava, per spianarsi la via a meritarne confidenza, o per aver la chiave del secreto; e frugarvi dentro e rubacchiarvi a sua posta. Di costui si è detto più di quanto è necessario per rischiarare i sentieri tenebrosi, che egli soleva percorrere. Pur troppo si dovrà tra breve tornare a lui; ma non ci avverrà mai di dover mutare o correggere il primo giudizio. — Ne incumbe intanto l'obligo di dire qualche parola intorno al conte, di cui fin qui ci siamo occupati solo alla sfuggita. Un'ordinata rassegna delle sue gesta verrà esposta nel séguito: basta per ora un piccolo e fedele abbozzo del suo ritratto morale. Si è già detto come la sua infanzia fosse accompagnata da felici pronostici: dicemmo che nella sua gioventù egli si mostrò grande amico e protettore degli studiosi; ma, a differenza de' prìncipi della sua epoca, non faceva pompa di trarre dietro a sè un codazzo di piaggiatori saccenti. — Proteggeva l'uomo, per onorare la scienza da lui professata; ed onorava la scienza non perchè fosse una delicatura degna degli agi di un principe; ma perchè da essa aspettava lume e guida per sè. — Onde disse bene, parlando di lui, Paolo Giovio “che presentendo egli tutte le cose, e quelle ancora che erano a venire, pareva che reggesse la fortuna col consiglio[15].„ Splendida era la reggia di suo padre; dal sommo Petrarca all'ultimo giullare, dalle corti d'amore alle facili ghiottorníe de' servi, tutto era principesco e magnifico. Giangaleazzo sfuggiva a quelle vanità; le giostre e i tornei, per quanto fossero esercizii atti a rassodare la vigoría delle membra, sfruttavano il guadagno nelle tresche e nelle illecebre. Giovinetto abbandonò quindi la corte, e mentre ivi si dilapidava l'erario per iniziare e stringere grandi alleanze spesso fatali a chi è debole, egli impugnava le armi a più nobile scopo; per difendere cioè il retaggio de' suoi, dagli attacchi dell'ambizioso marchese di Monferrato. La fortuna gli fu alcuna volta propizia, più spesso avversa. Dalla vittoria apprese la scienza delle armi, e contrasse quello spirito guerriero, che doveva un giorno essere l'unico e vero alleato de' suoi grandi disegni. — Ma ben più proficua maestra gli fu la sventura; perocchè niuna lezione è più salutare ai prìncipi, quanto quella che gli vien data dalla fortuna, cieca del pari con tutti. — È bene che l'uomo, dinanzi al quale tutto cede, apprenda che vi ha forza alla quale conviene ch'ei ceda alla sua volta. Da quelle sconfitte dunque imparò egli a vincere: — sul campo alcuna volta; in ogni caso sè stesso. Benchè non si inebriasse, come gli altri prìncipi della sua casa, al fumo de' grandi parentadi, pure, ossequioso verso suo padre, aderì alla proposta di matrimonio con Isabella figlia di Giovanni il _buono_: onde illustrò il suo casato col sangue di S. Luigi e colla dote della contea di Virtù. Ma impalmò la sposa e la perdette entro breve tempo; con nozze ed esequie sì splendide, che furono da prima la meraviglia, poi la ruina dei popoli, forzati a pagare quelle prodigalità con insopportabili tributi. Nei sette anni dopo la morte di suo padre, durante i quali ebbe diviso lo stato con Barnabò, attese a migliorare l'interna condizione dello stato. — Come l'agricoltore, che pone mano ad un terreno derelitto, comincia dallo sbarbicarvi le erbe velenose o parassite, e, ridonando al suolo le sue forze primitive, lo pone in istato d'offrire sùbito e spontaneamente qualche frutto; così il Conte di Virtù, all'intento di migliorare la cosa publica, prima che a fabricar leggi ed a versarle a piene mani, volse ogni sua cura a togliere l'abuso, vera gramigna che impedisce lo sviluppo delle sagge istituzioni. Cominciò dal principe e dalla corte. — Impose a sè ed alla sua casa una maggior parsimonia nelle spese: distribuì più equamente i vecchi debiti: richiamò, in vigore l'esatta osservanza degli statuti, l'arbitrio dei giudici represse con pene severe; la sua propria volontà sottopose all'impero della legge. Per tal modo, potè sùbito far gustare al popolo il vantaggio della sua amministrazione. Le prime economie parvero il ritorno alla ricchezza; la cessazione degli atti arbitrarii ebbe aspetto di libertà. Tornò utile alla buona fama del suo governo la tristissima, che aveva accompagnato quello di suo padre. Galeazzo II succedendo al governo popolare ravvivava in suo danno le recenti memorie della libertà perduta; e il Conte di Virtù, succedendo all'inventore della quaresima, colla sola abolizione di tanti atroci supplizj, appariva il più umano dei prìncipi. Egli soleva dire che nel maneggio degli affari proprii ed altrui non v'ha miglior cosa dell'ordine[16]. Quest'ordine stabilì meravigliosamente in tutti gli officii del suo stato. E benchè ciascuno di essi fosse diretto ad uno scopo suo proprio, ed avesse spese ed uomini speciali, sicchè poteva agire colla necessaria indipendenza, pure egli, raccogliendo la somma delle cose nelle sue mani, seppe legare in un solo e precipuo interesse le disparate amministrazioni, di modo che tutte convergevano allo scopo supremo, il bene della patria. Se crediamo al citato storico, egli inventò o richiamò in vigore l'uso di affidare allo scritto ogni petizione e reclamo, ogni arbitramento e sentenza. Scomparve per lui quella fatale costumanza di provedere a molte bisogna con giudicati improvisi ed arbitrarii, quasi sempre desunti dalla volontà del principe o maligna per sè, o male interpretata: onde nei rovesci opponevansi rimedj che palliavano il sintomo ma non toglievano il germe del male; e quel po' di bene, se pure poteva chiamarsi con questo nome ogni improvido slancio di generosità, era operato a caso; come vien viene; senza tener conto che il dare all'uno è togliere all'altro. Le commissioni pertanto, le leggi, le spese erano registrate su grandi libri, per mano di uomini di non dubia fede; e quei registri, a tempo debito, erano riveduti da censori scelti dal principe; ed all'esame del principe venivano sottoposte le operazioni degli stessi censori. Il Giovio ne dice d'aver veduto quei grossi volumi di pergamena, in cui si registrava l'andamento ordinario d'ogni ramo d'amministrazione. E tale esattezza richiedeva il principe nelle annotazioni, che tutte e partitamente si dovevano registrare le entrate e le spese: particolareggiandole di modo, che, in fin d'anno, non solo si conoscesse quanto erano costate le armi o le opere publiche o la publica beneficenza; ma risultassero altresì le spese fatte pel mantenimento della corte; rendendo stretta ragione degli spettacoli, delle onoranze prestate ai forastieri, e perfino descrivendo minutamente i banchetti e le feste. Tutto ciò che ai dì nostri è la prima e più ovvia applicazione dei principj economici, era a quei tempi come una mammola colta sotto la neve; perocchè i prìncipi solevano chiamare publica necessità ogni loro individuale desiderio, e, ad appagarli, mettevano la mano nell'erario, riputato inesauribile finchè rimanesse l'ultima moneta all'ultimo dei soggetti. Ma le istituzioni di Giangaleazzo non miravano soltanto a fondare un sistema di economia; esse preparavano a lui il tesoro della esperienza; ai posteri il materiale per una storia veritiera. Imperocchè solevasi registrare ogni atto publico, ogni importante avvenimento; e si teneva copia di tutte le corrispondenze coi capitani e coi potentati stranieri; onde chi volgesse gli occhi a quelle carte, avesse dinanzi a sè la relazione fedele di quanto era accaduto negli anni antecedenti; e da quella pigliasse norma a deliberare pei successivi. Da tale procedere, riputato dagli Statisti di quel tempo come un effetto di meschinità e grettezza, nasceva la generale disistima in che era tenuto il suo governo dai signori vicini, e specialmente da quello di Milano. L'esercizio dei diritti eminenti non tolerava il sindacato della publica opinione; quindi la cautela che Giangaleazzo poneva nel prendere ogni deliberazione, il suo rispetto verso la coscienza publica, e infine quel suo dar conto di tutto a tutti, anzichè farlo degno di lode per la sua popolarità, lo accusavano di inettezza e di codardia. Ben più grave censura si meritò da' suoi emuli, quando negli anni seguenti, con umiltà affatto nuova, abrogò decreti e statuti da lui stesso poco prima emanati; e tali deroghe non pose all'ombra del sovrano suo arbitrio, ma giustificò col peggiore degli scandali, ingenuamente confessando d'essersi ingannato. Mentre in Milano i più sacri diritti soggiacevano all'incertezza cagionata da un governo pazzamente arbitrario, in Pavia le cose correvano piane; forse troppo piane pei tempi: talmente che la lunga pace, la individuale libertà, la publica sicurezza, mentre tutto il mondo era trambusto ed armi, parevano languore e letargo. In Milano il clero strillava sotto il continuo flagello di Barnabò. La santa Sede tentò di intimorire il Visconti, scagliando contro lui più volte i fulmini delle censure ecclesiastiche, ed infiammando popoli e prìncipi ad una crociata. È ben noto come Barnabò trattasse i legati del Pontefice, sul ponte di Marignano, quando fè loro scegliere il rinfresco del fiume, o il pasto della bolla pontificia. Altri condannò al rogo, perchè avevano osato muovergli alcun rimprovero.[17] Non rispettò nè amici, nè privilegi; si bruttò d'enormi delitti, di violenze inaudite, ma combattè a oltranza quei pregiudizii, che oggi ancora s'atteggiano minacciosi, e che erano allora tanto formidabili da fiaccare ogni spada, da far chinare ogni testa. Quanto soffrisse il popolo milanese da quella lotta intestina fra i due poteri, il civile e l'ecclesiastico, non è facile a dirsi. — Un'assoluta neutralità era impossibile dove era in gioco la coscienza; accedendo al clero, temeva esso per la vita minacciata dal tiranno; accostandosi a questo, tremava, a più forte ragione, per la salute dell'anima. All'incontro in Pavia, le due podestà agivano di buon accordo; per cui il popolo poteva obedire all'una senza incorrere nelle censure dell'altra. — Si dovrà dire per ciò che Giangaleazzo fosse tanto pio, quanto era empio Barnabò? Non torna a conto l'occuparci per ora di tale questione; molto più che bisognerebbe prima chiedere di qual pietà vuol parlarsi. Ve ne ha una che si accoppiò sempre colla più tetra tirannide. Gli atti devoti di Galeazzo II vanno all'infinito; nessun altro principe fu largo, come lui, alla chiesa ed ai poveri: nessuno più di lui fu esatto nell'adempimento dei doveri di pietà. Digiunava una volta alla settimana, e distribuiva in quel giorno l'elemosina di un fiorino a tutti i _poverelli in Cristo, per la salute dell'anima sua_. In leggere la nota delle sue giornaliere beneficenze, quale ci vien riferita dal Giulini,[18] bisognerebbe dirlo un santo; eppure egli era l'inventore della famosa _quaresima_. Il Conte di Virtù, meno pio del padre e assai più ossequioso dello zio, contenevasi tra i due eccessi; ma non si deve perciò fare grande assegnamento su quell'aria contrita ed ascetica, che qualche volta affettava sotto gli occhi del popolo. Per vista di lontani vantaggi egli accarezzava i chierici, perchè nemici del suo vicino e futuri alleati de' suoi progetti. Una brutale schiettezza traeva Barnabò ad inevitabile ruina; era lecito credere che una studiata reverenza avrebbe guidato il suo rivale a miglior meta. Concludiamo che quante volte egli, il più destro politico del suo secolo, confessava la propria pochezza o faceva atto di ossequio dinanzi ad una stola, s'avanzava di un passo verso lo scopo designatogli dalla più efficace delle ambizioni; quella che comanda a sè stessa gli indugi e la temperanza. XXXVII. La relazione di Medicina aveva risvegliato nell'animo del Conte ire affatto nuove ed un desiderio ardente d'affrettare le vendette. Ma egli confessava dentro di sè che quella nobile indignazione non era soltanto l'eco di un grido suscitato dalla umanità oppressa. Chiamò il cuore a rendergli stretto conto d'ogni suo riposto sentimento; e, fattosi giudice severo di sè stesso, comprese, che più della sventura di Maffiolo, parlava in lui l'ardentissimo affetto per Agnesina. Cominciò pertanto a diffidare di sè; armò contro le passioni sollevate la vecchia sua prudenza, ed attese da quella lume e consiglio. “Ciò che ho maturato in secreto, per lungo corso d'anni, diceva egli tra sè, dovrà essere scosso e reso vano da una momentanea passione? Per vendicare Agnesina non bastano le ire; ci vogliono le armi ed il braccio vendicatore. Ora conviene che s'apprestino le prime, che l'altro s'invigorisca.„ — Ritornando poscia a più calmi pensieri, soggiungeva: — “Chi, al posto di Barnabò, avrebbe operato diversamente?... Parliamci franco: io pure coltivo il pensiero d'escire colle mie vittorie dai confini dello Stato, poichè oramai mi sembrano così angusti da soffocarmi. Or bene; se, mentre la fortuna asseconda la mia impresa, sorgesse un uomo od un partito ad attraversarmi la strada, sarei io tanto generoso da perdonare all'uno e all'altro? Ciò che il Visconti di Milano operò per sete di sangue, il Visconte di Pavia non isdegnerebbe operare per mire d'ambizione. I due rivali muovono da punto opposto, ma si appajano sulla via per arrivare forse ad una sola meta. No: la misura non è ancora colma; non si sfrutti il tesoro di una lunga dissimulazione. Il leone torni a rinchiudersi nella sua tana; rida intanto lo stolto che travede in esso un timido cerbiatto. Quando sarà l'ora, a bujo fitto e mentre tutti dormono, uscirà la fiera: i suoi nemici avranno tempo di riconoscerla, non quello di difendersi.„ Con tali pensieri, se non con identiche frasi, il conte di Virtù costringeva al silenzio ed all'obedienza quella passione, che minacciava di condurlo ad un bollore intempestivo. Aggiungeva il nuovo ai vecchi rancori. — Simile ad un uomo avveduto che, meditando da lunga pezza un acquisto importante, ripone nel salvadanajo le economie giornaliere, egli accumulava gli odii, affinchè, compiuta la somma, altro non gli rimanesse che metter mano all'impresa per averne certo successo. Dopo ciò, le sue indagini, rientrando in un campo più ristretto, lo conducevano a fare a sè medesimo alcune interrogazioni. — Chi mai dovrà informare Agnesina della sua sciagura? con quali parole converrà tessere la tristissima storia di quella notte? quali mezzi infine sarà mestieri adoperare onde mettere al sicuro la donzella dalle conseguenze della disgrazia paterna?... Erano chiare le dimande ed altretanto urgente il bisogno di rispondere. — Invano invocava egli il ritorno di quelle lunghe ore notturne, consumate in una vuota aspettativa, in cui il tempo soverchiando le cure lo faceva presago di sventure ignote. Era mattino fatto; Agnesina non tarderebbe a venire da lui per la consueta visita. Che dirle? come parlarle?... Cavò fuori la lettera portata da Medicina, quasi che sperasse da quella un consiglio: come se ne attendesse una inspirazione. Ma lo scritto, nella sua forma esteriore, non diceva nulla: lo guardò, lo riguardò più volte: esso era alquanto pesto e gualcito; ma conservava intatto il sigillo e nitido l'indirizzo. Gli parve che fosse miglior cosa rimettere nelle mani d'Agnesina la lettera, e lasciare allo scritto la cura d'informarla degli avvenimenti. Erano le parole di suo padre; e chi, meglio di lui, avrebbe saputo trovare il linguaggio atto a scemare il colpo di una sventura sì grande? Chi più di lui, poteva accompagnarla di una pietà efficace e confortante? — Quest'idea però, che a prima giunta pareva l'unica e la più saggia, a poco a poco andava perdendo i suoi pregi, e si spingeva torbida ed ambigua in mezzo ad un mare di incertezze e di sospetti. — Gli parve inoltre che il rimettere nudamente quello scritto alla fanciulla, fosse quanto sostituirsi ad un venale messaggero; operar meno di quello che avrebbe fatto il più negletto conoscente, o l'ultimo servo della casa. S'indispettì con sè medesimo d'avere accolto un'idea che gli poteva fruttare un'aggiunta di mali non meritata; e si pose di nuovo alla ricerca. Non andò guari che gli si affacciò un'altro partito egualmente semplice e per certo più saggio: e il suo volto andò incontro ad esso con un'aria sicura, come al vedere un'amico da cui s'aspetta soccorso. “Sì: meglio è, pensava, il chiamare Canziana, raccontar tutto a quella buona donna, ed affidare a lei la lettera e l'incarico d'istruire la fanciulla. Colei l'ama come se fosse suo sangue: non si rifiuterà. — È abbastanza destra per guidarla alla conoscenza del vero, senza precipitarvela di colpo; è donna pia, e saprà adoperare quelle parole che rialzano l'anima, e la rendono valida contro le umane sciagure. Alla peggio le aprirà le braccia per accoglierla nel suo seno e piangerà con lei: mentre al mio cospetto forse farebbe violenza a sè, e sentirebbe aggravarsi il peso della sua disgrazia.„ Non è a far meraviglia che anche su ciò il Conte poco dopo trovasse a ridire. — La passione, che per rendersi più autorevole assumeva l'aspetto di prudenza, lo guidava a dubitare della sagacia di Canziana quasi fosse pericoloso il fidare un tanto incarico all'improvida carità di una donna vulgare. Ma pensando alla fonte sospetta, da cui emanavano le sue paure, vergognavasi tosto d'averle concepite. Un sentimento più nobile e disinteressato le combatteva, e riportava su di esso una completa vittoria. — Promise d'affidare tutto alla governante: certo che la donzella, consapevole un giorno di quell'atto di rispetto, gli saprebbe grado d'averle risparmiato la pena di mostrarsi piangente dinanzi a lui. — La donna ama seppellire nel mistero le proprie lacrime, qualunque ne sia la cagione; è questa la più squisita esigenza del pudore muliebre. Fra tali ed altri simili riflessi, e nel proposito di non avere altro di mira che il bene di Agnesina, concluse con questa saggia verità: colui che negli interessi del proprio affetto, trae partito delle casuali circostanze per avvantaggiarlo, confessa d'esserne indegno. Ma accadde questa volta ciò che spesso suol essere, quando avvertiti di una vicina difficoltà, ci facciamo ad incontrarla, studiando tutte le combinazioni possibili, e contraponendo a ciascuna di essa i dettami della più scrupolosa prudenza. L'azzardo si compiace di sventare i nostri preparativi; esso ci affretta quell'incontro dove e quando meno vi si pensa; e noi ci troviamo sprovisti e nuovi in faccia agli eventi, come se fossimo stati improvidi e del tutto non curanti. XXXVIII. I disegni del Conte si fondavano sulla certezza, che Agnesina, affatto ignara dell'accaduto, gli si presentasse colla calma dei giorni antecedenti. E chi infatti poteva pensare altrimenti? Ma Agnesina, per un caso fortuito, aveva avuto sentore dell'arrivo di un messo da Milano, e sapeva che egli era stato accolto con grande sollecitudine, e con non minore secreto. Sapeva di più che il medesimo era stato di nuovo spedito a Milano, di tutta fretta, e che se ne attendeva il ritorno prima dello spuntare del sole. Tutto ciò la conduceva a conchiudere, esservi in aria un gran mistero. Ma come poteva ella dubitare che quel mistero racchiudesse una sventura? e perchè quella sventura doveva essere riserbata a lei? Nulla invero esisteva di positivo che la trascinasse a così mesti pensieri; ma tante piccole cose, che forse in altre circostanze sarebbero rimaste inosservate, per una speciale disposizione d'animo assumevano, in quel momento, l'importanza di un funesto presagio. Contribuiva a ciò lo stato d'incertezza nel quale il suo cuore si logorava; ora desioso d'aver consiglio e soccorso, or timoroso di chiederlo. Non sapeva definire qual nome meritasse il sentimento che la legava al suo ospite. Era un dolore; eppure ella lo accarezzava: traeva seco il diletto di una piacevolezza fortuita, e non andava disgiunto da un interno rodimento, quasi fosse una colpa. — Due potenze opposte si disputavano l'impero della sua ragione; l'una la consigliava ad allontanarsi da colui, che le aveva tolta la pace: l'altra la riconduceva quasi involontariamente al suo cospetto, giacchè la lontananza pareva costarle un dolore ancor più acuto. Se alcuna volta mosse rimproveri a sè, perchè non sapesse obedire ai fatti proponimenti, non una, ma mille volte si giustificò colla fatalità, che aveva condotto in sua casa un ospite tanto illustre, e che le imponeva di mostrarsi cortese ed onesta. Però quella lotta, per quanto sembrasse grave, diveniva puerile appena vi si frapponesse la memoria di suo padre. Le sembrava che un solo suo sguardo avrebbe sciolta ogni incertezza e ricondotta la calma al suo cuore. Sentiva che la sua inerzia sarebbe vinta facilmente, quando la leva motrice avesse un appoggio fuori della sua volontà. — Era questa come una barca senza remi, che, scendendo in balía di corrente viva ma sincera, può essere trattenuta dal più fragile sterpo. Agnesina implorava dunque il ritorno del padre, come il rimedio certo a suoi mali. Ma suo padre non tornava; e quella insolita tardanza cominciava ad infonderle dei sospetti. “Perchè egli m'abbandona qui, tutta sola, in questo momento? — pensava ella; — perchè non mi dà notizia di sè e del suo ritardo, come altre volte? Forse egli sa, che qui trovasi un ospite, e condanna quanto abbiam fatto per lui? Ma se egli disapprovasse la mia, la nostra condotta, tacerebbe egli forse? no: egli non suol essere avaro di franche parole con chi ha meritato i suoi rimproveri.„ Di questo suo vagare fra dolorose incertezze, non fece parola a Canziana; presentendo che una prima dichiarazione l'avrebbe indubiamente condotta ad altre intime confidenze. Solo non faceva mistero della sua profonda mestizia; e la buona governante, lontana dal farne meraviglia, credeva che la fanciulla fosse al par di lei inquieta soltanto per lo strano ritardo di suo padre. E quando Agnesina per rompere un lungo silenzio prese a parlare di lui, ed a deplorarne l'improvida assenza; allora la governante, che non aveva per natura l'animo inclinato a veder torbido, lieta di potersi far forte di un proverbio per consolarla, le diceva: “Le cattive nuove, o madonna, hanno le ali, e se fosse accaduto qualcosa di sinistro a messer Maffiolo, state certa che non ne sarebbe mancato a quest'ora il messaggero. — Pare che il mondo ci mámmoli, nelle disgrazie.„ Non aveva finito di pronunciare queste parole quando la fante venne di corsa a riferire l'arrivo di Medicina. — Timida per natura, ma abbastanza accorta, aveva traveduto in quell'inaspettato arrivo non il presagio ma l'esordio di un avvenimento sinistro. Credette ella d'aver scoperto sotto quell'abito da pellegrino la maschera di un ribaldo; non dubitò, non discusse; vide cose nere, e corse di volo a darne parte a Canziana. Con quali colori ella dipingesse la persona arrivata, i suoi portamenti e le balde parole, non è facile ad imaginarsi. Lo sgomento apre la vena dei poetici concetti agli spiriti più vulgari. Canziana, che pur non aveva l'animo inclinato al sospetto, contrasse, in tutta la sua intensità, il contagio della paura; la donzella non ne andò esente. Questa ritornò a' suoi funesti presagi: quella, sulla fede delle sue stesse parole dette poco prima, ripeteva: “ahimè! le brutte nuove trovano presto il loro messaggero.„ Con tali disposizioni d'animo le due donne si coricarono; ma quale riposo potevano sperare? La governante, a cui l'età matura soleva rendere meno facile il sonno, la passò tutta quanta in sospiri e preghiere. Agnesina, dopo aver per qualche ora sofferta una gravezza che le toglieva il respiro, dopo aver tentato con una smania febrile ogni angolo del letto ed ogni postura, finì per addormentarsi. Ma il sonno non fu visitato dalle solite visioni dell'età sua: nè tampoco rassomigliò al muto sopore delle anime trambasciate, alle quali è supremo conforto il momentaneo oblío dei consueti dolori; fu il delirio e l'incubo dell'infermo, fu la vista di una scena orrenda e indescrivibile, dinanzi a cui sentiva d'essere trascinata a viva forza da una mano di ferro, che la stringeva alla gola, e la soffocava. Provò assai più che l'orrore della morte, lo strazio cioè di chi vuol morire, e non lo può. Chiudeva gli occhi; e, suo malgrado, vedeva una danza oscena di spettri, aggomitolati tra loro come un gruppo di serpi; turava le orecchie, ed udiva il sibilo di quegli animali ed un ghigno di demonj e un eco lontano d'imprecazioni e bestemmie. Presiedeva alla treggenda un ceffo orribile colle guance floscie e pallide, la barba cuprea, due occhi infocati, e le labra atteggiate ad un sorriso beffardo. — Quel fantasma sinistro, dinanzi a cui si piegavano riverenti tutte le impure emanazioni dell'inferno, aveva un aspetto non sconosciuto. La mente dell'assopita vagava cercando su qual viso ella incontrò altra volta quel sogghigno infernale. — “Ah! non v'ha più dubio; proruppe ella: è il ceffo di Barnabò Visconti, il tiranno de' milanesi, il paterino, lo scomunicato.... Ma chi è colui, continuò ella delirando, che è fatto ludibrio di quell'orgia?... egli ha volto sereno e tiene alto e tranquillo lo sguardo.... Chi è egli?...„ — Un grido acuto accompagnò la sua fatale scoperta: ella aveva ravvisato l'imagine di suo padre. Quel grido diede una scossa subitanea alla macchina intorpidita, e sciolse di colpo la catalessía. — Agnesina fu subito sveglia, ma non sì presto guarita dalle conseguenze di quella terribile visione. XXXIX. V'ha una specie d'incertezza smaniosa, incredula del bene, nemica d'ogni conforto. Invano la ragione tenta stringerla fra' suoi calcoli: essa ne rifugge, quasi fosse suo officio dispensar sempre il massimo dei dolori probabili, non accordar mai che il minimo delle probabili speranze. Uscire dalle incertezze, checchè si ottenga, è sempre un bene. Il perchè, la povera Agnesina determinò, non appena fosse in grado di reggersi, di andar dal conte e d'interrogarlo. Ma lo voleva; e non sì presto le forze glielo consentivano. La crisi sofferta nella notte l'aveva affranta; era sparuta come chi risorge da malattia mortale; i suoi occhi brillavano di un fuoco febrile; una striscia livida ne accerchiava le orbite e si effundeva sulle sue guance, jeri soltanto sì fresche e color di rosa. Canziana soffriva con lei, se non al par di lei; ma quale coraggio poteva infundere alla compagna, se non ne aveva punto per sè? L'unico partito ragionevole era il far credere alla fanciulla che ella fosse fisicamente indisposta, e che i fantasmi della notte erano i sintomi di una malattia. Le tastava quindi ad ogni momento i polsi, e li riscontrava più che mai agitati, intermittenti, febrili. La supplicava colle parole le più affettuose a volere coricarsi di nuovo; e non si allontanò se non quando la vide stesa sul letto, e la seppe desiderosa di riposo. Ma non ci voleva che la semplicità di Canziana per credere che la fanciulla tentasse di chiuder l'occhio. L'espressione di un tale desiderio servì ad Agnesina di pretesto, per essere sola, per raccogliere le proprie forze e correre, appena il potesse, dal conte. Ora ci si domanderà: perchè la donzella voleva parlare a lui, senza testimonj? Dubitava che la presenza di altra persona, quella in ispecie della governante, inducesse il conte ad essere meno veritiero. V'ha nel duro officio di annunciare la sventura una pietà che il cuore preparato al male disconosce e chiama crudele. Quelle reticenze e quelle ambagi, che velano la verità, e ritardano lo sfogo completo del dolore, benchè pietose, riescono intolerabili all'anime travagliate. Così pensava Agnesina. Che se tra gli interessi del suo cuore, e la piena conoscenza dei fatti, esisteva un secreto, e per scoprirlo erano necessarie le preghiere, ella voleva essere sola per pregare con tutte le forze del suo cuore, per smovere la volontà, fosse pur inflessibile, del conte. Da ciò si comprende come il piano di costui venisse rovesciato. Mentre l'affetto, trionfando della passione, gli imponeva di affidare ad altri il suo secreto, il caso lo rimetteva di nuovo nelle sue mani. Non appena ebbe deciso d'inviare persona per cercar di Canziana e pregarla a recarsi immediatamente da lui, vide entrare nella sua camera una donna pallida come uno spettro, e riconobbe in essa l'infelice Agnesina. Egli aveva dunque preveduto tutte le combinazioni possibili, meno una; e quell'unica si era verificata. Agnesina infatti non era venuta per udire, sì bene per interrogare. “Signore, esclamò la donzella, avvicinandosi al conte, che non sapeva staccare l'occhio attonito da lei, vi fa pietà il mio aspetto?„ Il conte levandosi da sedere si fece incontro a lei, e pigliandola con rispettosa cortesia per una mano, la condusse vicino a sè, e la fè sedere rimpetto. “Non so negarvi, o fanciulla, che mi sembrate abbattuta come se una terribile sventura pesasse già sul vostro capo.„ “Oh se sapeste che notte ho passato! Dicesi che nei sogni ci viene talvolta sollevato il velo, che ricopre il futuro.„ “E che perciò? Che temete?„ “È un mistero il mio terrore. Io temo, e non so di che.„ “Un'allucinazione funesta si fa gioco di voi. Tornate alla vostra incredulità; non prestate fede a larve menzognere.„ “Questa larva non è scomparsa alla luce del giorno. La mia visione continua, e s'innesta coi fatti, che qui succedono. — Non è egli vero, che un messo da Milano vi portò notizie assai gravi della città?„ “Come lo sapete voi?„ “Siate generoso o signore, e promettetemi di rispondere ad una sola inchiesta.„ “Dite.„ “Quando quel messo ritornò da Milano non vi riferì cosa alcuna che riguardasse me o la mia casa?...„ “Fanciulla, soggiunse gravemente il conte, non vi affaticate a frugare in ogni recesso della vostra mente, per trovarvi pascolo a dolorosi sospetti. Credete, che la creatura la più felice non rinviene da tale esame, senza avere trovato in sè il germe di un futuro dolore. Guai se lo scopre: gli è come avviarlo ad uno sviluppo....„ “Dunque dovrò io dire a me stessa: rallegrati o insensata....„ “Povera fanciulla!... pensò il conte, chi oserà attraversare i providi disegni di Dio, che volle prepararti ad una sventura? — Poi soggiunse ad alta voce: — Se quel avviso viene di lassù non sarà menzognero. Io rispetterò il vostro dolore, e sarò dove voi siete, per soffrire con voi o per vendicarvi.„ “Ricordatevi, che non avete ancora tenuta la vostra promessa.„ “Solo io posso ripetervi, che voglio essere con voi. Il mio silenzio non è egli abbastanza eloquente?„ “La sventura è dunque certa, disse Agnesina con un accoramento indescrivibile. — Udite il resto del profetico sogno. L'ira del signore di Milano cadde sull'infelice mio genitore. Travolto forse nelle tenebre di una accusa secreta, il povero padre mio langue in un carcere. O signore, — soggiunse ella, levandosi da sedere, ed avvicinandosi al conte quasi volesse inginocchiarsi dinanzi a lui; — voi potete ancora salvarlo; il nemico di mio padre è vostro zio. Una parola vostra....„ “Non mi pregate di ciò.„ “Voi dunque saprete impedire una sciagura„ — chiese Agnesina con ansia mortale. Non rispose il conte: ma crollò il capo. — Agnesina comprese il significato di quel cenno, s'ascose il volto tra le mani, ed ammutolì. — L'unico sintomo del suo turbamento era un respiro affannoso e convulso. “Agnesina, disse il conte avvicinandosi a lei e ponendole leggermente la mano su di una spalla per iscuoterla dal suo letargo; vi è ancora un mistero. Voi, che faceste dell'incertezza il vostro martirio, raccogliete le forze per strapparvi dagli occhi la benda, e veder tutto il vero nella sua dolorosa nudità.„ Agnesina rialzò il capo, e stette in attenzione. Il conte proseguì: “Tutti e due abbiamo bisogno di coraggio — e in dir ciò si tolse sotto l'abito la lettera, e gliela porse — voi per leggere questo scritto; io per assistere alla vostra lettura e per vedervi soffrire.„ Agnesina, nel ricevere quel foglio dalle mani del conte, forse non ne intese le parole, tanta fu repentina e piacevole la commozione che provò alla vista dei caratteri di suo padre. Si ridestò infatti dal suo cupo letargo; una leggiera tinta incarnata le si diffuse sulle gote; e l'occhio già arido ed acceso si velò di una lacrima. Lesse la soprascritta, e la baciò: rotto poscia il sigillo, dispiegò il foglio. — Forse nel percorrerlo rapidamente, ravvisandolo vergato in tutta la sua lunghezza dalla mano di suo padre, se ne consolò, pensando che il linguaggio della sventura suol essere più breve. Ma quando, chinata sul foglio, stava per incominciarne la lettura, un improviso singhiozzo le si sprigionò dal petto, e le aperse le vie del pianto. — Le fu impossibile il leggere, perchè l'occhio era acciecato dalle lacrime. Smaniosa di ascoltare la voce di suo padre, più volte comandò a sè stessa d'essere forte e di desistere dal pianto. — Ogni buon volere fu vano. Il conte avrebbe pur voluto trovare una parola per far coraggio alla desolata; ma v'ha parola che eguagli la consolazione del piangere? Ritto sulla persona, egli le stava dinanzi ammirando quella bellissima testa mollemente inclinata, come il fiore sullo stelo percosso dalla gragnuola. Benchè dominato da una commozione profonda e affatto nuova, egli fruiva del libero uso dei sensi, per ammirare le squisite bellezze di quella creatura. Non sfuggiva a' suoi sguardi il tesoro di due brune e ricchissime treccie, che dalla fronte verginale le piovevano alquanto indisciplinate lungo il collo e sulle spalle; velandone in alcuna parte il candore, in altre aggiungendo rilievo alla morbidezza e trasparenza delle carni. Ammirava quel profilo emulo delle opere d'arte, con che lo scalpello pagano tradusse l'ideale perfezione della divinità. Il dolore non aveva involato alcun pregio a quel volto: il pianto era negli occhi e nell'anima, non nelle fattezze. Ma la pietà cangiava l'estasi dei sensi in culto del cuore. Agnesina non era soltanto per chi la guardava la leggiadra donzella, che sparge intorno a sè il profumo della gioventù e della bellezza; era la donna, che si rialza altera ed imponente, come il simulacro del dolore, dinanzi al quale ogni senso ribelle è soggiogato, e si inchina riverente anche un cuore di marmo. — Quella pietà religiosa, che stringeva vieppiù i legami fra il conte e la sua diletta, non era dunque soltanto l'eco fuggevole di un sentimento compreso e diviso; ma diveniva il proposito d'operare a pro di essa, anche a costo d'esserne disconosciuto. — Unica e vera testimonianza d'amore; ogni altra per quanto grande e solenne, può essere nulla più che larvato egoismo. Chi vuol sapere se ama davvero, s'interroghi così: sarei io pronto a divorarmi in secreto, per tutta la vita, i miei affetti, se la felicità di colei che io amo lo richiedesse?... Quando egli senta di poter rispondere affermativamente, vada superbo del proprio cuore. Fu difatto dietro consigli di un sì nobile disinteresse, che il conte ebbe coraggio di far violenza al pianto d'Agnesina. Egli le tolse di mano lo scritto ormai inzuppato di lacrime; ed a costo di vederla levarsi indispettita contro di lui, volle egli stesso farsene l'interprete e leggerla al suo cospetto. Ciò parrà troppo ardito e, più che ardito, scortese: lo sia pure; ma era saggia cosa l'affrettarle la conoscenza di quelle parole probabilmente gravissime, intantochè la desolata aveva ancora un conforto nel facile pianto. — Quando il dolore giunge a tal grado d'intensità da produrre il delirio, il piangere può dirsi una crisi salutare. “Agnesina, le disse poi con accento commosso, chiamatemi crudele, ma siate generosa e mi perdonate. Se voi aveste un fratello, ed ei si trovasse al mio posto, non opererebbe altrimenti. Voi non siete in istato di leggere quello scritto; ma è necessario che le parole di vostro padre, che (ed accentuò la frase) forse sono le ultime a voi indirizzate, sieno da voi intese senza ritardo. — Mi concedete la facoltà di leggere questa lettera?„ Agnesina, singhiozzando, rispose, o meglio accennò di sì. CAPITOLO SESTO XL. “Un tristo annuncio, così prese a leggere, ti parrà meno tristo se esso ti vien dato da tuo padre. Una disgrazia è sempre più tolerabile, quando non siamo soli a soffrire. O mia dolcissima Agnese, confortiamoci a vicenda; gli sventurati siamo noi. “Era bella la nostra esistenza, troppo bella perchè non destasse l'invidia della bieca fortuna. Tu avevi nel tuo genitore il più affettuoso degli amici, io in te il più bel tesoro di un padre. — Ci si vuol separati: ebbene mostriamo agli uomini che invano si tenta di dividere due cuori. Il nostro affetto è una religione; noi rassegnati e tranquilli ne subiremo il martirio. Cesseranno di ridere i nostri nemici, quando ci sapran calmi; il nostro coraggio sarà per essi la più salutare punizione. “Sai che si voleva da tuo padre?... Ascoltami: Quando un uomo ode grida di dolore, e vien da esse condotto sul campo di una lotta diseguale, ove il debole è oppresso e la giustizia è conculcata, che fa egli? leva la voce ed arma la mano contro l'oppressore. Che se questi vince, almeno una parola libera ed alta gli assorda la coscienza; un rimorso funesta la sua turpe vittoria. — Or bene; ciò che dinanzi alla natura è istinto e dovere, in faccia agli uomini può essere una colpa. “Udrai parlare dei cittadini di Reggio venduti al signor di Milano. Udrai che all'annuncio del turpe mercato la città loro si commosse. — Era forse un atto di condannevole rivolta la protesta dell'uomo, che, in ossequio alla propria dignità, impreca contro un patto sì obbrobrioso?„ Facciamo qui una breve pausa per notare, che tali parole suonarono gradite a chi le leggeva; sia che egli in quel punto avesse scordato d'essere principe e nipote del signor di Milano; o sia che, apprezzandone la rettitudine e l'opportunità, fosse tratto ad ammirare colui che le aveva dettate. “I cittadini di Reggio trovarono molti amici in Milano: tra questi si giurarono i patti di una cospirazione, che doveva procedere sicura a' suoi fini, da che Barnabò era tutt'occhi e braccia per agguantare e colpire da lungi. “Tu, mia diletta Agnese, che conosci tuo padre, che sai con quanto cuore egli ami la sua patria e ne esecri il tiranno, tu indovinerai sùbito che il centro di quelle pratiche doveva essere la tua casa. Comprendi ora la cagione delle mie lunghe assenze, e perdona se talora, preoccupato da troppo ardenti pensieri, mi mostrai meno amoroso verso te. — Se ti feci un mistero di tutto, non credere già che io diffidassi della tua saggezza: tacendo, fui padre più che cittadino; troppo mi doleva di ravvolgere la tua bella esistenza nei crucci e nei pericoli di sì grave impresa. “Ma è bene che tu sappia anzitutto, che tuo padre congiurava contro il tiranno, e combatteva ad un tempo i proprii amici, che, ebri di vendetta, ne chiedevano la vita. Abborro dal sangue, fosse pur quello di chi avesse versato il mio ed il tuo. “Pensai, e meco pensarono i più saggi, di ringuainare i pugnali; noi dovevamo ferire il nemico nello spirito, non nel corpo; uccidere il principe, e lasciare che l'uomo vivesse per vederne e piangerne la caduta. “Poichè le antiche libertà della lega lombarda sono perdute per sempre, poichè è follia parlare d'eguaglianza tra uomini, che insurgono ad ogni istante per soverchiarsi a vicenda, almeno la patria nostra abbia quella gloria che si fonda sulla forza e sulla legge. — Potremo avere un principe, senza che noi discendiamo ad esserne gli schiavi. — Galeazzo II e Barnabò si liberarono con un veleno del primogenito Matteo, giustificando il fratricidio col pretesto che è grave e dannosa la triplice divisione dello stato; il popolo, giudice questa volta de' proprii interessi, ripeta egli pure le stesse ragioni: questo duplice riparto, egli dica, ci è fatale, sopprimiamo il governo di Barnabò, e tutto lo stato obedisca al figlio del signor di Pavia, poichè esso è per diritto l'erede legittimo della signoria dei Visconti. “Giangaleazzo, affatto ignaro dei nostri progetti, ci giovava senza addarsene. — Era un alleato potente, e secreto; poichè egli stesso ignorava di esserlo. — Quando noi gli avremmo offerto lo scettro di Barnabò, non aveva che a stringere la mano e tenervelo fortemente. Quello scettro gli veniva affidato dal popolo, egli lo poteva custodire e difendere di tutto buon diritto. “Il Conte di Virtù fonderà la sua potenza sur un falso giudizio del mondo. L'errore giova a noi, come a lui. Lasciamo adunque che si proclami la sua inettitudine, la sua timidezza. Noi ebbimo prove, che egli nutre una nobile ambizione, e che destreggia abilmente le sue e le nostre sorti. — Noi gli cercheremo leggi ed armi; egli gradirà d'essere principe e non tiranno.„ Il conte (convien dirlo) leggeva tali parole con una ingenuità disinvolta, come se si trattasse di persona estranea. Nel cuor suo rallegravasi d'avere degli amici; dolevasi forse d'essere troppo presto conosciuto. Assai più commossa era Agnesina nel comprendere che l'uomo da lei amato era degno della stima di suo padre. Ciò la confortava, come un'indulto ad ogni colpa; se pure poteva esservi colpa nel suo cuore. Il conte continuò la lettura. “Ora preparati, o Agnese mia, a veder rovesciate tante belle speranze; preparati ad udire la deplorabile fine di così nobili progetti. — Le fiere assalgono ed uccidono per sè; non ve ne ha alcuna che usi della sua forza per offrire ad altra lo spasso di una carneficina. — L'uomo arriva anche a ciò. Egli è crudele non per sè, ma per piacere agli altri. “Fra gli amici nostri s'introdusse destramente un traditore. Volle fortuna che io lo abbia riconosciuto sùbito, tanto che offrendogli me stesso, potessi salvare i miei compagni. Lo sciagurato fu lieto della scoperta; portò il mio nome al palazzo di Barnabò, ed ivi svelò il nostro secreto. Svolto un filo di esso, riesciva facile il conoscerne il piano, l'estensione, e il nome de' suoi custodi. “O Agnese mia, che doveva fare l'onest'uomo in sì difficile momento? Egli è vero, che i miei compagni avvisati del tradimento erano scomparsi, e che i nomi loro, dispersi nell'aria dai vortici delle fiamme, sfuggivano alle ricerche de' nostri nemici. Ma una vittima rimaneva nelle mani del traditore, e questa poteva, suo malgrado, consumare il tradimento. — Sai tu che avrebbero fatto i giudici di Maffiolo Mantegazza? Sai che cosa è la tortura? Vi è un secreto che sopraviva al delirio ed alla pazzia? “Quando, o mia diletta, io t'insegnava che la patria e l'onore ci possono chiedere il sacrificio di ciò che abbiamo di più caro al mondo, io non ti fui maestro di vane dottrine. Erano sacri ed eterni precetti, che l'uomo deve coltivare nascostamente nel suo cuore mentre la vita è calma e severa, perchè s'abbia da essi conforto e coraggio quand'essa diviene procellosa. — Guai a colui che consiglia colla voce, e non ammaestra coll'esempio!... — Ma chi avrebbe detto mai che que' severi insegnamenti dovessero chiederci sì presto un sacrificio? “La sicurezza de' miei amici e quella della patria nostra dimandavano un eterno silenzio a quell'uomo che tremava di sè sotto il carico di un secreto di sangue. — Io obedirò alla chiamata: i giudici invano tenteranno di interrogare Maffiolo; egli sarà muto.... M'hai tu compreso, o figlia? “Niuno più di me deplora quel fatale acciecamento che spinge l'uomo ad abbandonare la vita quando i suoi lacci gli diventano troppo gravi. Io lo chiamo codardo colui, come il soldato che depone le armi, e diserta alle file perchè ha il nemico di fronte e la battaglia vicina. Egli manca a Dio, sciupando il più prezioso suo dono; egli manca agli uomini, di cui doveva essere compagno nel pellegrinaggio sulla terra. “Ma tale accusa non ricadrà mai su tuo padre, poichè egli, raccogliendo in sè l'officio del giudice ed il carattere della vittima, non è più libero. La severità di quello sarà temperata dalla mansuetudine di questa. Simile al guerriero, che, avanti a tutti, corre all'assalto e ad una morte certa, egli potrà dire spirando d'aver salvata la vita di tanti prodi. Se Dio mi chiederà conto della mia prodigalità, io accennerò a mia discolpa i nomi di tanti fratelli, sposi o figli o padri, al par di me adorati e felici, che ancora vivono, perchè io più non esisto. È egli possibile che le loro benedizioni non sieno bene accette al Signore? “Poni, che tuo padre pensando a te e alle inenarrabili dolcezze che tu gli prepari, vacillasse nel suo proposito. Fra un'ora il carcere, dimani i tormenti, diman l'altro il patibolo spezzerebbero con pari violenza il nostro legame. Ma tu, prima di piangere in te l'orfana derelitta, piangeresti, ed a più calde lacrime, la triste novella, che l'uomo fermo vacillò, che il cittadino libero garrì dall'infame cavalletto a beneplacito de' suoi carnefici; che per lui e per poche ore di vita, cento famiglie sono immerse nel lutto, e riempiono le carceri, o si disperdono nell'esilio. — Tu, degna mia figlia, che sai essere l'onore più prezioso della vita perchè l'uomo disonorato è inerte e fracido come un cadavere, tu non vorresti riavere tuo padre a sì ignominiosa condizione. “Addio dunque mia dolcissima figliuola: rammemora spesso e con temperato dolore il non del tutto infelice tuo padre: e scolpisci nel cuore queste ultime sue parole. — Abbandona la sventurata nostra città; compiuto il sacro debito di riunire la mia salma a quella di tua madre, ritìrati nel castello di Campomorto, ove un tesoro d'affetti e di memorie ti renderà meno grave la vita. — Ivi sarai l'erede della pietà dei nostri avi; soccorri al povero, e sii ospite generosa a chi fugge l'ira dei tiranni. Non chiedere vendetta, ma persevera nella via della carità e della giustizia; per essa si giunge in miglior modo alla medesima meta. — Se un giorno diverrai madre, possa tu essere felice ne' tuoi figli, come io lo fui in te. Allevali nel timor di Dio e nella carità verso la patria; e quando essi ti chiederanno che avvenne dell'avo, dirai loro egli vi ha abbandonato troppo presto, ma il fece per legare ai suoi figli il più ricco tesoro: il patrimonio dell'onore. “Addio di nuovo, mio angelo. Io invoco su te la benedizione del Cielo; e m'addormento in un tenero abbraccio che t'invio dal fondo del cuore, per risvegliarmi lassù, dove un giorno ci rivedremo.„ XLI. Povera Agnese, povera fanciulla!... Ella provava un accoramento straziante, uno spasimo senza tregua, un coltello nel cuore, ma non un dolore disperato. La donzella aveva perfettamente compreso la grande idea di suo padre. — Nella sua morte stava il trionfo della austera virtù del patriota e lo smacco de' suoi nemici. Ella lo piangeva come si piange il soldato morto sul campo. — Perchè questa nobile rassegnazione non sembri nè nuova nè romanzesca, chiedete ai parenti orbati dei figli, alle spose vedovate dalla guerra, se non è consolante il pensiero, che i loro cari perirono pugnando per una nobile causa! Durante il corso di quella lettura due sentimenti diversi, se non opposti tra loro, si disputavano l'impero sul cuore della fanciulla, e svelavano le vicende di quell'interna lotta sui tratti del suo volto. L'uno era un sentimento egoista e tenace de' proprii interessi che reclamava agli uomini ed a Dio la vita e l'affetto di suo padre: l'altro, il nobile orgoglio di potere col sacrificio e col dolor rassegnato cooperare alla grande impresa del più nobile fra i cittadini. Quello chiedeva lacrime e sospiri; questo si velava sotto le apparenze di un contegno austero, che avrebbe potuto sembrar freddo, se non fosse stato sacro e sublime. Asserendo che in quella lotta prevalse quest'ultimo sentimento non vorremmo per certo accusare Agnesina di poco amore verso suo padre. — Le strida ed i contorcimenti spesse volte sono come certi acquazzoni che riconducono tosto il bel tempo. Che se al dolore di donna convengono lacrime e singhiozzi, al cuore d'Agnesina non disconveniva in quel punto l'armarsi di una forza virile, per serbare contegno in faccia al conte; libera poi d'erompere nelle più vive manifestazioni del dolore, quando sarebbe sola. Oh allora l'infelice non fu avara di lacrime! Anche nell'animo del conte quello scritto aveva operato un grande rivolgimento. — Se vi era necessità d'altri fatti per rassodare in lui lo sdegno contro Barnabò, questo sarebbe stato il più grave ed efficace. È impossibile ottenere un equa valutazione delle opere altrui da un giudice che non ha libero il cuore. Egli non sa, o non vuole, o non può, riconoscere le nude intenzioni e le cause prime, che generarono un fatto, per misurare quanto è dovuto di censura e d'indulgenza al suo autore. I risultati, ancorchè impreveduti, temperano od aggravano suo malgrado la colpa. — Il conte pertanto vedeva nella morte di Maffiolo non la salvezza di un secreto importantissimo, ma la perdita di un amico, la sconfitta di un partito, il ritardo delle sue vittorie. Quello scritto gli faceva conoscere l'importanza dell'amicizia di Maffiolo, il numero e la potenza de' suoi seguaci; ma solo per fargliene deplorare la perdita. Considerava infine, e non senza gravissimo rammarico, la desolazione e l'abbandono di Agnesina e la sua vita minacciata dal soverchio dolore: tutto ciò rimpiangeva quale cagione d'altri inevitabili mali. — E come colui, che dopo aver veduto poggi e campi devastati da una fiumana, risalendone il corso fino alla fonte, la maledice ancorchè placida; così, ed a più forte ragione, il conte, rimorchiando le sue ire su quel corso di sventure, ne riconosceva la malefica sorgente in Barnabò, ed imprecava contro di lui. Però, come altra volta si è detto, la sventura esercita sui cuori gentili un'azione depuratrice. Per essa l'uomo diviene giudice meno parziale dei proprj sentimenti; apprende a farli tacere se meno onesti; a moderarli se intemperanti. — La catastrofe, che abbiamo narrato, produsse appunto tale effetto sull'animo del conte. Se il suo amore per Agnesina, prima di conoscerne la disgrazia, era tale che poteva, in mezzo agli ozii di una beata tranquillità, trarre con sè le funeste conseguenze di una passione; nella sventura si rassodò, si rese puro, assunse il carattere di un affetto sacro e soave, docile alla ragione, cupido solo di giovare, nel senso più saggio della parola, alla persona amata. Altro effetto produsse sulla buona Canziana. Non aveva ella bisogno d'apprendere ad amare la sua diletta fanciulla. Quando fu chiamata ad ascoltarne la disgrazia, ella accorse co' suoi presentimenti, e pur troppo questa volta li trovò soverchiati dalla realtà. Il racconto la colpì sulle prime come una scarica elettrica, che ottunde la ragione, e genera un'attonitaggine più strana che dolorosa. Udiva le parole del narratore con una fisonomia istolidita dalla sorpresa, e le frammezzava di interjezioni tronche e pietose, ma quasi insulse. Nell'ascoltare la storia di tante ribalderie e di sì grande virtù, ella sclamava inconsapevolmente: — “O Madonna santissima, che sento io mai!... possibile?... o che furfanti!... o che uomo eccellente! Dio abbia pietà di lui, di loro, di noi!...„ Ma quando s'incontrò con Agnesina, e conobbe il suo stato, riebbe tutto il suo senno. Non tentò già di consolarla, poichè la più eloquente parola in quella piena d'affetti sarebbe stata una nullità od un inciampo; ma l'accolse al suo seno, e, tacendo, le infuse quella dolcezza ineffabile, che noi proviamo quando ci è dato piangere tra le braccia di una madre. XLII. Era necessario provedere a che nuovi guai non si aggiungessero alle già troppe sventure. — Un lungo tempo speso in parole ed in lacrime poteva far perdere l'occasione di portare qualche lieve rimedio ai mali passati. A ciò provide il conte. Stabilì che Canziana in quello stesso giorno si recasse a Milano per dare le opportune disposizioni onde fosse rispettata ed obedita l'ultima volontà di Maffiolo. La donna di tutto buon grado accettò l'incarico, senza che la sua istintiva prudenza le facesse scorgere alcun pericolo. Il conte nullameno ordinò che il più fido de' suoi servi l'accompagnasse. Quanto a sè, pensò di non protrarre il suo soggiorno a Campomorto oltre quel breve spazio di tempo che era richiesto da un giusto rispetto verso il dolore d'Agnesina. — Le sue forze erano abbastanza rifatte: quanto gli rimaneva a desiderare per chiamarsi perfettamente guarito, l'otterrebbe poi: dopo ciò che era accaduto, un'ora d'ozio gli cagionnava un rimorso. Due giorni dopo, entrato il dolore d'Agnese in una fase più tranquilla, il conte inviò all'appartamento di lei uno scudiero, perchè le chiedesse licenza di visitarla; al che, la donzella rispose affermativamente. Altre volte, pensando che era sola, avrebbe ella forse trovato il mezzo di evitare un ritrovo. Quel dì non le passò per la mente alcun dubio: trattavasi di persona che aveva meritata la fiducia di suo padre. — La sventura d'altro canto eguaglia ogni disparità; quando essa scende improvisa anche fra gente straniera, assai spesso la ravvicina, e la stringe in un nodo che di rado e difficilmente si scioglie. Il conte non a capriccio o per vana pompa aveva indossato le insegne della sua dignità; un abito cioè di sciamito, ed una sopraveste di velluto soppannato d'ermellino, colla collana d'oro sul petto. Era ben giusto che in quel giorno non l'ospite ma il principe rendesse omaggio alla figlia del suo più fido alleato, e che davanti alle virtù di quella nobile famiglia s'inchinasse la dignità del Sovrano. Pensò, poscia, che quanto recava impaccio alla più libera effusione dei cuori, varrebbe a mantenere fra loro quella giusta distanza, che il conte voleva serbare; non per sè, ma per rispetto alla virtù ed alle sventure della fanciulla. Del resto ogni cautela era soverchia; poichè quegli che sente sfiducia di sè, suole quasi sempre trovarsi nei momenti difficili al di sopra dei proprii timori. Quando il conte varcò la soglia dell'appartamento di Agnesina, vide che essa accorreva ad incontrarlo. Lo stato di abbattimento, in cui era caduta durante quelle lunghe e fatali giornate di solitudine, le aveva aggiunto nuova bellezza. L'espressione delle sue vive sofferenze, facendosi strada attraverso al languore che segue indispensabilmente una crisi, appariva sul suo volto come testimonio di un cuore forte, ma, più ancora che forte, sensibile. — Non era l'eroina di due giorni addietro; era la donna appassionata che soffre, piange, e cela, per quanto il consentono le forze, l'attrattiva delle sue lacrime. Se è vero che nelle grandi passioni l'anima ci si dipinge sul volto, diremo che, in mirar quello di Agnesina, bisognava esclamare “ecco l'angelo del dolore„. Il conte, nell'entrare in quell'atmosfera satura di sospiri, non sentì aggravarsi il cuore; ma provò essere cosa dolce il potersi chiamare debitore verso una sì adorabile creatura. — In cima alle visioni di grandezza e di gloria, che erano state l'anima di tutta la sua vita, ei da quel punto collocava Agnese, figlia ed erede di colui che, prevenendo i suoi disegni, ne suggellava l'esordio col sacrificio della vita. Quando furono vicini, il conte stese la mano alla fanciulla; che le porse la sua timidamente. E poichè le leggi della convenevolezza permettevano ad un cavaliere di non abbandonare la mano della sua dama, finchè non l'avesse condotta a sedere, egli se ne valse, mantenendo però tutto il riserbo della più squisita urbanità. Postisi a sedere, gli occhi loro aprirono il dialogo, specchiandosi gli uni negli altri, e traducendo in isguardi pieni di pietà e d'affetto quelle frasi, che il cuore suggeriva, e che il labro non sapeva o non osava ripetere. — Si venne poscia alle consuete formole di pulitezza, che dicono troppo e non hanno alcun pregio fra gli indifferenti; ma che fra persone amanti, riacquistano il pretto valore della parola; anche quando servono soltanto a riempire un silenzio, di cui l'occhio abusa per farsi rivelatore dei moti del cuore. — Le prime parole furono spese nel chiedersi conto a vicenda della salute: intorno a che ognuno disse meglio che il vero. — Le tracce di una malattia non del tutto vinta si erano approfondite sul viso del conte in seguito alle emozioni di quei giorni. Agnesina se ne avvide, e se ne dolse; ma finse di accogliere come veritiere le assicurazioni di un completo ben essere che il conte le diede; ed alla sua volta, parlando di sè, non fu più schietta. Si parlò quindi della vicina partenza del conte; e questi ne addusse i motivi. — “È tempo, disse egli, che io ritorni alle mie cure; vi accerto che ne riporto meco alcune, che mi stanno assai vivamente a cuore„. “Credete voi, soggiunse Agnesina, d'essere in istato di affrontare il disagio del cammino?„ “Troverò la forza nella certezza di trarre buon partito dalla mia presenza in Pavia.„ “Io non insisto, o signore, nell'offrirvi una più lunga ospitalità. — Tralascio di dirvi: ricordatevi di Campomorto. È impossibile che non conserviate di esso delle rimembranze.„ “Ahi! troppo funeste; ma incancellabili. — Eppure se la sorte mi facesse àrbitro di scegliere, preferirei ancora e sempre il lutto del vostro castello allo splendor della reggia.„ Agnese chinò l'occhio a terra con una modestia sì gentile, che fe' coraggio al conte di aprir meglio il suo cuore. “Permettetemi, o Agnesina, che io deponga una volta il linguaggio del mondo, per dirvi che qui appresi quello che in un'intera vita consumata tra le spensierataggini della corte, non avrei nemmeno osato sognare. Questo non è il momento delle adulazioni, credetelo. — Un'omaggio alla virtù, tanto più bella quando sventurata, è debito d'ogni uomo; — Avete voi fiducia in me?„ “L'ottimo mio padre mi impose d'aver fede in voi, mio principe.„ “Grave carico ho assunto, da che conobbi la mente del vostro genitore. — Egli insegnò a tutti, come si serve alla patria.„ “Sì, o signore; io sola sono in grado di misurare quanto sia stato grande il suo sacrificio...„ “E il vostro, o Agnese?„ “Non parlate di me; io piansi e piango troppo.„ “Ma quelle lacrime sono per voi l'ultimo atto di carità verso la patria. Voi chiudete la serie delle vostre nobili azioni, quand'io mi dispongo ad incominciarle. — Vostro padre mi designa a grandi cose: egli mi dimanda un miracolo.„ “E voi l'opererete. Mio padre indovinò il vostro pensiero, e lo prevenne. Il nobile coraggio che lo trasse a tanta prova gli venne infuso da voi. In voi sta la speranza dei buoni cittadini, che amano la libertà della nostra patria, e che ne attendono il ritorno„. “Tutti ripetono questa parola, libertà; tutti l'hanno nel cuore, ed a ragione. Bisogna esser stati servi per conoscerne l'immenso pregio: ma lo sperare vicino il suo ritorno è follía. Il male ha troppe radici perchè possa essere guarito sì presto. Ricordate ciò che disse lo stesso Maffiolo: gli uomini insurgono ad ogni istante per soverchiarsi a vicenda. — Ponete mente a questo nostro paese. Morto il signore di 18 città, i tre nipoti ne fecero a brani il patrimonio, come le fiere affamate lacerano l'unica preda. — Accadrà lo stesso alla morte di Barnabò. I suoi trentadue figli aspettano che egli chiuda gli occhi, per fare a pezzi lo stato, e dividersi tra loro le pecore dell'armento paterno. — Questa suddivisione ripetuta all'infinito ci dovrebbe ricondurre a quei tempi, in cui ogni uomo era sovrano e suddito di sè stesso; ma se ciò avvenisse questo popolo di padroni sarebbe ad un tempo una turba schiava; perchè l'autorità sua, grande o piccola che essa sia, è sempre parte di un potere assoluto e tirannico — Se un oggetto derubato viene diviso fra mille o fra cento mila ladri, il possesso di quel piccolissimo valore non è per questo meno illecito. — Camminando di questo passo noi dunque ci discostiamo sempre più da quell'unica via, che ci può ricondurre a sperare, se non ad ottenere prontamente, la vera libertà. — Bisogna tornare indietro; forse i posteri renderanno grazia a colui, che riassumendo in sè solo le pretensioni di cento tirannelli, farà delle loro usurpazioni un unico patrimonio, de' loro soggetti un unico popolo. — Tale, o Agnesina, è il mio pensiero.„ “Quanti pericoli incontrerete voi nella vostra impresa! Quanti nemici!„ “Qual è quel ladro che non chiami tristo case l'essere derubato? Forse un giorno si dirà lo stesso di me; tutti crederanno che l'anima de' miei disegni sia una sfrenata ambizione, non un ardito concetto, che ha in sè della gloria perchè ha dei pericoli. Ma guai a me se mi arrestassi pel timore d'essere franteso. — Da tempo io sono avvezzo alle ingiuste sentenze di quell'árbitra del mondo, che si chiama voce di popolo. Come tolerai e tolero d'essere creduto ignavo e timoroso, così, quando le mie gesta dissiperanno quest'accusa, saprò tolerare quella di cúpido ed assoluto. — Ma tutto ciò non può essere l'opera di poco tempo. Vostro padre ci additò la via, che dobbiamo seguire; non ci disse d'entrare in essa a corsa precipitosa. Il suo coraggio, avrà destato l'allarme fra i nemici. È necessario che la vecchia dissimulazione allontani da noi ogni sguardo geloso.„ “Sì, ripigliò Agnesina con un tuono pietoso, che non era pura cortesia, non vi esponete ad inutili cimenti. La vostra vita è cara a tutti; a me più che ad ogni altro, da che fui degna di conoscere il secreto delle vostre intenzioni.„ “Io tornerò ad amare la vita se essa può esser buona ad alcuno. — Senza ciò, è egli possibile che io scordi le infinite amarezze di cui finora fu compagna? Invano io tentai nutrirla colle illusioni di uno splendore, che mi è annunciato da mille presentimenti. Essa rimane sempre sterile e vuota. Io non posso dire al mondo — sono infelice. — Ognuno mi deriderebbe, sclamando: e perchè non discendi al livello di chi al disotto di te ride e gode come tu non sei avvezzo a fare?„ “Ma voi potete gustare un po' di quella gioja secreta che è il compenso di chi s'affatica ad un nobile intento. Il popolo dev'essere la vostra famiglia; lo troverete modico nel chiedere, perchè avvezzo a non ottenere; facile all'amore, perchè lungamente forzato ad odiare. Il suo affetto vi compenserà largamente di quelle gravezze che sono compagne inseparabili di una privilegiata esistenza„. Le parole d'Agnesina erano sagge. Ma il conte, non sapremmo dire se ad arte o per caso, taceva del principe per parlare dell'uomo privato. — Chiamandosi infelice, e provando d'esserlo, egli rendeva in certo modo ossequio alla sventura, che gli era dinanzi; nulla essendo più ingrato agli infelici che la presenza della fatua contentezza degli insensibili. “Credete voi, o Agnesina, proseguì egli, che si possa essere sempre così forte e padrone di sè da perdurare nei buoni propositi, quando il premio che se ne attende è ancora tanto lontano ed incerto? Credete voi che la costanza sia la virtù d'ogni momento? che basti l'illusione di meritare un giorno il favore del popolo e di arrivare a possederlo, quand'esso non ci sarà più necessario? E intanto chi mi soccorre nel superare i più gravi ostacoli? chi mi fa coraggio a battere una via ingombra di difficoltà, e di pericoli? Interrogate quel popolo, che un giorno mi amerà, come voi dite; gran mercè, se oggi consacra al suo principe un po' di compassione. — I buoni, che come vostro padre amano di cuore colui che può giovare alla patria, fuggono da questo mondo menzognero. — I suoi e i miei amici scompajono. Oh se l'anima generosa di Maffiolo m'inspirasse sempre quel coraggio che provo al vedervi, o Agnesina, io sarei felice; perchè potrei giurare per la vita di lui che i suoi voti saranno esauditi.„ Nel pronunciare queste parole, il conte aveva pigliato un aspetto insolito. Il suo volto si accese; i suoi occhi divennero scintillanti: Agnesina non potè reggere al fuoco de' suoi sguardi. Confusa dall'improviso infervorarsi del conte, chinò il capo ed ammutolì.... Ben se ne avvide costui, e si dolse d'essersi lasciato commovere, mancando alla sua abituale dissimulazione. Volle quindi temperarne l'effetto, ripigliando più freddamente il discorso. “Perdonate, o Agnesina, egli disse, se ho abusato di questi momenti. Parlare de' miei crucci a voi, straziata da dolore incomparabilmente più grave, fu dal canto mio una improntitudine scortese. Ma vogliate perdonarmi, ve lo ripeto, perchè la mia troppo fervida parola fu consigliata dalla fiducia nuova ed inattesa che provai, entrando in questa casa e vivendo presso di voi. Sì: non vi deve offendere il sentirvi dire, che io ripongo nella figlia di Maffiolo ogni fiducia. Se il mio spirito d'ora inanzi cadrà sfinito, avrò un nobile pensiero da cui ritrarre vita e coraggio. Ma non temete per questo, o fanciulla: io dovrò tutto a voi; voi nulla a me. — Quando sarò lontano e travolto di bel nuovo in quel lezzo, dove tutto è menzogna, io penserò a voi, alle virtù che vi adornano, ai dolori che avete sofferti; e in questi pensieri ritemprerò il coraggio per proseguire il mio cammino, fin dove è la meta segnata da vostro padre.„ “Che Dio assecondi i vostri nobili propositi„ sclamò Agnesina interrompendo quell'ultima frase. “Dio salvi anzitutto in voi il palladio secreto delle nostre future glorie. Gli amici nostri non avranno inutilmente riposto in me le loro speranze, se alla mia volta anch'io non avrò invano invocato la stella delle vostre inspirazioni. — V'ha de' cavalieri che fanno prodigi ne' tornei, e ne cercano in premio il sorriso della loro dama. Io, per ottenerlo, farò assai più...„ Non bisogna trarre scandalo da tali parole; al dì d'oggi esse suonerebbero come una dichiarazione ardita ed inopportuna. Ma a quei tempi, la cavalleria, piena di generose proteste e di nobili atti di valore fatalmente sprecati in frivole imprese, non era ancora venuta meno nel credito della gente d'alto affare. Il suo linguaggio ossequioso ed audace, cortese e belligero, era proprio di chiunque volesse stare sul fior delle eleganze. Anche una donzella poteva ascoltarlo senza arrossire; molto più, dacchè quei giuramenti di servitù e di devozione cominciavano a prendere il tuono convenzionale d'un complimento. Agnesina aveva l'animo troppo pieno di emozioni vere ed urgenti per arrestarsi a misurare il peso di queste parole, per solito vuote ed abusate. — Nondimeno le riescivano più del solito gradite, e pel merito di chi le pronunciava, e perchè le porgevano una autorevole conferma di ciò che il cuore aveva già indovinato. XLIII. Si parlò quindi di cose indifferenti. — Il conte cercava, fin dove il potesse, di far cadere il discorso su ciò che più gli stava a cuore; la donzella contenevasi alle formole di cortesia. — Operavano come due naviganti che dirigono senza accordo uno schifo su di un placido stagno. L'uno vogava a tutte braccia tentando di volgere la prora ad un punto; l'altro, governando a poppa, con inavvertita manovra lo forzava a tenersi al largo. Ma ciò senza studio e proposito: la nostra fanciulla non era di quelle creature che si adombrano di tutto, e che mettono arte o vanità nel custodire la propria innocenza. Diciam ciò a suo onore: perocchè la vera innocenza non è conscia a sè stessa; e dove sa di esistere, probabilmente non esiste più. “Io parto — ripigliò il conte dopo un momento di silenzio — ma nel lasciarvi, oltre il dolore della lontananza, di cui vi taccio la misura, sento quello di abbandonarvi qui sola, indifesa, esposta alle prepotenze dei nemici di vostro padre. Non temete voi la vostra solitudine?„ “Credo che nessun soggiorno convenga al mio lutto, meglio di questo, che voi chiamate una solitudine. Qui ho meco le più care memorie. Le memorie sono la prole postuma delle sensazioni spente: esse conservano qualche dolcezza della loro origine. Tra poco una nuova memoria aggiungerò al tesoro delle mie antiche; avrò meco un altr'ospite.... “Un ospite?„ — interruppe il conte con meraviglia. “Sì, o signore; prima che partiate io volgerò a voi una preghier.„ “Quale?„ — chiese il conte con sollecitudine. “Quella di voler onorare di una vostra visita le più riposte parti di questo castello. Vi condurrò io stessa nel sacrario delle mie affezioni, là dove dormono da quasi due secoli i miei avi; vedrete l'avello di mia madre, che dimani accoglierà la salma dell'ottimo genitore.„ Il conte non potè, benchè il volesse, frenare un largo respiro, all'udire quelle parole. Che temesse prima, di che poi si rallegrasse, l'indovini il lettore. “Io sarò con voi — diss'egli — nel porgere un tributo di pietà alle ceneri de' vostri maggiori. — Gli assidui interessi, le passioni compagne di una vita tempestosa, la continua guerra che ferve in me, non mi hanno ancora immiserito del tutto. Io sento vivamente la religione degli affetti; e l'ho più cara appunto perchè un culto libero di essa mi è interdetto. Che io trovi, come voi, dove dirigere il mio cuore, dove aprirlo alla libera effusione dei sentimenti, ed avrò più conforto, che non è d'uopo, per combattere le battaglie della vita. Ma quand'io esca da uno smodato lusso di cose futili, che ormai mi cagiona fastidio, tutto è miseria intorno a me. Cerco inutilmente un volto amico, una mano che stringa con lealtà la mia, un labro meno prodigo di frasi sonanti e più concorde col cuore. Io imploro indarno un palpito, fosse anche di dolore, ma schietto almanco e simile a quello che ora provate voi, rifrugando nelle memorie della vostra vita. Anch'io visito alcuna volta la tomba del mio genitore. Dinanzi alle forme severe di lui superbamente adagiato sul coperchio del suo sarcofago, m'arresto più spaventato che commosso, poichè vedo le sembianze del principe rigido ed inflessibile; non mai quelle del padre amoroso. Vinco la mia ritrosia, e prego, ma non so piangere; vorrei provare pietà, e provo terrore. Quella vista mi ricorda la mia infanzia sfiorata senza gioje, come un piccolo esule sotto lo stesso tetto de' miei parenti. Rammento che le persone mercenarie, a cui venni affidato, s'affrettarono ad indolcire le mie labra infantili col veleno dell'adulazione, ond'io fossi, per opera loro, una primizia di perversità. Rammento che sotto la scorta dei primi maestri appresi i pregiudizii, non le verità della vita; i diritti, non i doveri del principe. — Giovinetto, tutti erano a gara intorno a me per strapparmi una libera confessione di appettiti; e di comandi; bramosi tutti d'essere i primi ad appagarli. — Dolevansi i perfidi di non trovarmi abbastanza imperioso e volubile. Io, infatti, il più delle volte mi mostrai freddo ed inaccessibile alle loro tentazioni; ed è perciò, che fui tacciato d'insipienza. Il mio cuore, che respingeva quell'immondo pascolo, aspirando a gioje più calme, non venne mai interrogato. Seppi d'essere sposo ad Isabella di Francia, quando il rompere o il ritardare quel nodo era cosa impossibile. Da quella principessa ebbi una ricca dote, un illustre parentado; ma affetti e gioje domestiche, non mai. Sontuosissime furono le nozze, come le esequie, quando il cielo a sè la chiamò; ma l'una e l'altra solennità, portò seco ogni traccia di vero e profondo affetto. Povera Isabella! io piansi, vi giuro, la sua sorte, perchè era buona e virtuosa: ma quel pianto è vuoto di memorie; io non vidi nel tristo caso, che la provida fine di una esistenza ancor più infelice della mia. — Ah se il mio dolore avesse potuto, come il vostro, essere accompagnato da qualche cara rimembranza, io sarei felice! — come voi la sarete anche in mezzo alle vostre sventure.... Ma basta o Agnesina; basta: io visiterò la tombe della vostra famiglia, ed invidierò le vostre lacrime....„ Queste parole non cadevano in fallo sull'animo della fanciulla, ancorchè il terreno non fosse preparato ad accoglierle. In faccia a quell'uomo, e dopo quella confessione, ella provò quel tanto di pietà, che è proprio ad ogni animo ben fatto, quando scopre il dolore, là dove credeva trovare una felicità privilegiata. — Più tardi, nella quiete dei giorni successivi, quando nuove disgrazie vennero a scompaginare i suoi progetti, quelle parole ritornarono non ultime nè ingrate alla sua memoria; e a poco a poco pigliarono lo sviluppo proprio al grano di semente, che appunto sotto le brume dell'avversa stagione cestisce, e centuplica i frutti. XLIV. Come mai, ci verrà detto, quella fanciulla, riputata un modello di figliale tenerezza, poteva in quel momento associare a tanto e sì recente dolore una pietà d'indole affatto diversa? Come mai il suo cuore, lacerato da una sciagura sacra e solenne, poteva essere pronto ad accogliere una passione nuova e del tutto profana? Avendo noi dinanzi agli occhi, non un fatto solo, ma tutta intera una vita, ciò che può sembrarci una velleità colpevole, diviene il principio di una passione dominatrice e prepotente, di cui ci è necessario determinare l'origine fin d'ora. Sarebbe stata colpevole Agnesina se, in mezzo al suo lutto, avesse coltivato le trepide speranze di un amore felice; se mentre perdeva il padre, si fosse procurato l'amante. — Ma tale non era il suo pensiero. Ella aggiungeva dolori a dolori. Del suo affetto pel conte, accettava solo quel tanto, che le rammentava essere impossibile ogni legame colla persona diletta. Amava il conte, perchè egli aveva meritato la stima di suo padre. Ma amandolo, si dipartiva da lui per sempre. Non coglieva speranze, ma disinganni; non gioie, ma nuovi dolori. Noi non accompagneremo il conte ed Agnesina in quell'atto di pietà, che compirono insieme, nel mattino vegnente, come erasi convenuto. — Volendo tener conto di tutti i gradi per cui passarono i sentimenti d'ambedue, ricadremmo in troppe ripetizioni di ciò che si è detto, o non faremmo che dir ciò, che il lettore ha già indovinato. Agnesina, tutta assorta nel suo mesto officio, pregava genuflessa sui gradini di una tomba. Il conte la sogguardava commosso, e pregava per sè; perocchè credeva, che in quel momento fosse egli il meschino, che avesse maggior bisogno dell'ajuto del cielo. Era una bellissima giornata, uno di quei dì in cui il creato, mostrandosi in tutta la sua bellezza, infunde una contentezza insolita. Il sole splendeva puro come nel mezzo della state; ma i suoi raggi erano temprati dallo spirare di una brezza autunnale, che ad intervalli scoteva gli alberi, ed inclinava dolcemente le pagliuzze dei prati e i culmi degli arbusti, traendone un armonico mormorio. Il turchino dell'aria non troppo carico, ma diafano e lucente, era screziato a quando a quando da nuvolette, coi bordi dorati, che, ora sciogliendosi, ora cangiando forma, erravano sulla volta celeste quasi a diporto. — Alcuna fiata intercettavano essi i raggi solari, ed immergevano i campi in una vasta penombra, per render loro più magnifico, pochi istanti dopo, il ritorno della luce. — La campagna non aveva esaurito la sua forza produttrice; il verde degli alberi non deciso e smagliante come all'erompere della novella vegetazione, non arido e scolorito come durante l'estate, brillava vivace e vario: dove additando il completo vigore di una madre ancora feconda, dove la languida maturità di quella, che ha dato frutti recenti, e sta ristorando le forze. — In pieno una natura viva ed operosa, quella che meno obedisce all'arte imitativa, e che è più grata al nostro cuore: sopratutto se, dopo aver vissuto lungamente tra le mura di una città, esciamo dall'abitato per contemplare nel cielo, nell'aria, nei campi, l'opera ancora vergine del creatore. Quella giornata era assai propizia al viaggio del conte; troppo propizia, direm noi; poichè egli avrebbe accolto di buon animo qualche pretesto che gli concedesse l'indugio d'un altro giorno. — Ma con quel sole, con quell'aria tiepida e mite, non v'era scampo; bisognava accogliere l'insolita pompa della stagione come i convenevoli di un amico, che vi saluta per congedarvi. Verso il mezzodì, la corte del castello era tutta gremita di gente. All'intorno i terrazzani, accorsi a vedere il ricco convoglio del signor di Pavia, si distribuivano in gruppi, favellando sommessamente tra loro, ed additando or questa or quella meraviglia, con quell'aria attonita propria de' contadini, cupidi di assistere al fasto altrui come ad una scena di cui si brama essere spettatori e non attori. — Chi guardava con meraviglia un branco di cavalli impazienti e quasi feroci, tenuti a mano da garzoncelli che, colla voce e con qualche strappata di morso, li rendevano docili e mansueti. Chi ammirava il bagliore delle catenelle, dei fibbiagli, delle lastrine ond'erano cosparsi i fornimenti delle cavalcature, e, pigliando per oro ogni lucicchio, studiava indovinarne il valore raffrontandolo a quanto v'era di più prezioso nella stalla, o sul granajo. Le donne poi stupivano alla bella tenuta dei paggi, che sembravano la viva riproduzione dei cherubini dipinti nella chiesa: e, al vederli così lindi e gentili, pensavano forse che in simili creature tutto fosse perfetto, anche il cuore; e sbagliavano, le poverette; sbagliavano assai più dei loro compagni, che credevano oro ogni cosa che ne avesse il colore. Pei fanciulli poi era una cuccagna, una felicità tutta nuova. Meravigliavano essi, non tanto per l'apparato di quel corteggio, quanto per le mille inezie mai più vedute, di cui ignoravano l'uso e perfino il nome. Coll'occhio fisso e coll'indice teso, le accennavano ai compagni; e mettevano grida di gioja guizzando qua e là fra la gente e fra i cavalli; sordi alle chiamate delle donne, e docili solo alla minaccia di qualche tiratina d'orecchie del tardo, ma inesorabile massajo. Era bello quel riscontro tra il lusso arrogante di un corteggio da principe, e la miseria succinta di quei poveri contadini; era bello artisticamente, e moralmente fecondo di una salutare lezione; giacchè ogni uomo, senza essere filosofo, avrebbe detto che quelle meravigliose assise pesavano indosso a chi le portava, come le cappe di piombo degli ipocriti nel divino poema; onde quei visi imbronciati, e quell'aria di noja e di stanchezza. Mentre la vispa allegria dei contadini sembrava tenere in credito la povertà; quasi che in loro fosse scarsezza di tutto: di beni, quindi, come di mali. Nel mezzo della corte, i valletti avevano condotto le cavalcature, schierandole nell'ordine prescritto dal cerimoniale di partenza. — Ad un drappello di soldati venuti da Pavia, seguiva una doppia fila di paggi e di scudieri; e dietro esso la lettiga del principe. — Consisteva questa in una portantina coperta da un cielo di stoffa azzurra, con all'ingiro bandinelle ornate di frange e pendagli. Due stanghe la serravano ai lati, sporgendo davanti e nella parte posteriore quant'era necessario per caricarle sulle groppa di due mule; e s'affibiavano col mezzo di corregge al sellino del fornimento. — Le bestie difilate procedevano l'una sui passi dell'altra; ma la studiata misura dei cignoni e l'elasticità delle stanghe dovevano cangiare l'incommodo ambio in un ondulazione piacevole. La lettiga, addobbata nell'interno di seta turchina, con gli appoggiatoj imbottiti e i cuscini di piuma, era quasi una piccola cameretta, entro cui, tirate le cortine, poteva un uomo star seduto o coricato a suo piacere. Quando il conte accompagnato da Agnesina si mostrò sulla porta del vestibolo, che metteva agli appartamenti terreni, cessò quel gridío: un bisbiglio generale, un volgere di teste, un trarre di berrette salutò la coppia. — I più avevano gli occhi sul principe, e miravano con curiosità rispettosa quel volto nobile e severo, la cui pallidezza attestava le non vinte sofferenze; e nel cuore dei riguardanti, quell'aria mesta era la più calda raccomandazione alla generale simpatia; perchè la credevano effetto dei pericoli corsi nel salvare la vita ad una povera creaturina. Altri, i più accorti e quindi i meno numerosi, non potevano stancarsi di guardare Agnesina, e dicevano dentro sè: che non era mai sembrata loro così bella come in quel dì. Vi fu taluno che pensò, poi disse: che Agnese colla sua statura svelta, col suo portamento da regina, quando apparve sull'alto della scala, cedendo in modo assai aggraziato la destra mano alla manca del conte, non sembrava la castellana, ma la principessa. Chi fosse stato vicino alla coppia illustre e avesse voluto tener conto soltanto di ciò che entrambi dicevano, non avrebbe penetrato il misterioso legame. Più facile era l'indovinarlo dall'imbarazzo, dal silenzio, dall'interruzione delle parole, sintomi certi delle forti passioni. — Le frasi che il conte volgeva alla sua ospite, non diverse delle tante che, altre volte, ne' discorsi familiari le aveva dirette, erano improntate sempre di quella cortesia affabile e squisita, che negli ordinarii convegni, soverchia il cuore; ma in questo punto il labro mentiva per difetto; ogni parola era l'eco troppo debole, e quindi men vero, degli intimi sentimenti. Se non che la parola, rattenuta per proposito entro i limiti di una riservatezza quasi austera, era proditoriamente amplificata dal tono con cui veniva emessa; perchè ben di rado, o mai, la più rigida virtù riesce a farci padrona della voce. È possibile il dissimulare, il volgere il discorso a cose frivole e straniere ai nostri interessi; è possibile il tacere o il mentire, ma non lo è il dare alla voce quella tempra di ingenua franchezza, che simula indipendenza o vacuità di cuore. Per la qual cosa, mentre il conte ed Agnese giungevano a nascondere il loro secreto alle investigazioni dei cortigiani, l'uno lo confidava all'altro, in modo più solenne, tacendo: le reticenze, e le studiate parole fecero l'effetto di una sincera confessione, alla quale gli sguardi e qualche sospiro aggiunsero piena testimonianza. “Mia gentile ospite — aveva detto il conte, nel metter piede fuor degli appartamenti, ed avviandosi al luogo di partenza — eccomi ad un momento doloroso. Un congedo cagiona sempre gran pena al cuore.„ “È vero; ci duole assai alcuna volta il rompere le care abitudini, il tornare allo squallore dei tempi andati.„ “Ciò non accadrà di voi; lo squallore del vostro castello vi deve tornar caro; voi qui avete l'assoluta padronanza di voi stessa.„ “Sì, o Signore, amo la solitudine, ve lo confesso; e forza d'uomo non mi staccherà da questo luogo dove ho tanto amato.... almen qui potrò....„ — le parole furono interrotte da un sospiro. “Non mi è dunque lecito sperare di vedervi una volta a Pavia?„ “No, mio principe; perchè ciò vorrebbe dire che una nuova sventura mi scaccia dalla mia casa. Voi non lo vorreste.„ “Ma se alcuna volta desiderassi vedervi?„ — soggiunse quasi timidamente il conte. Agnesina non rispose. “Io non oserò certo accostarmi più al vostro castello, se dubitassi che la mia presenza fosse discara alla sua nobile abitatrice.„ “Può essermi discaro, o principe, l'onore d'accordarvi ospitalità?„ “O Agnesina!„, sclamò involontariamente il conte con uno di quei vocativi accusatori. La fanciulla non levò il capo su lui, e pur s'accorse d'essere investita da uno sguardo, che aveva il valore della più libera dichiarazione. Ma il conte ripigliò súbito la parola, quasi volesse rompere l'incanto di un involontario moto dell'anima. “Quando il principe esce dalla casa di un suo vassallo, da cui ottenne le migliori prove di fedeltà, egli suol dargli licenza di chiedere una grazia. — Tale è il costume della mia corte. — Ora nel momento di abbandonare questo soggiorno, il Conte di Virtù interroga la nobile castellana: avete voi qualcosa a dimandargli?... Qualunque essa sia, si reputerà felice d'assecondare la vostra preghiera.„ “Mio principe — rispose la donzella, alzando questa volta su lui gli occhi senza temere di mostrarli umidi di lacrime — ricordatevi di mio padre e delle sue parole....„ “Vi giuro che non le dimenticherò per tutta la vita„ — soggiunse il conte con franchezza; e intanto stese la mano a cercar quella d'Agnesina, che strinse cortesemente. Fu in questo punto che la coppia si presentò allo sguardo dei curiosi, nella corte d'onore: e fu sotto l'impressione immediata di tali parole, che brillò sul volto d'entrambi quell'espressione di melanconica dolcezza, che non sfuggì nemmanco agli occhi di quei vulgari osservatori. XLV. Sull'orlo della gradinata, da cui si dominava quella moltitudine d'uomini e di cavalli, divisa, nel modo che il lettore già conosce, il conte ravvisò la lettiga, che, dietro ordine del medico, era stata spedita da Pavia pel suo trasporto. Accorreva egli stesso l'Esculapio, poichè dove tutto già fosse in ordine, ei pur voleva aggiungere del suo; e, per non starsene colle mani a cintola, s'affannava a disfare ciò gli altri avevano fatto. Perciò in attesa del principe, rimproverava i lettighieri pel modo con cui avevano caricata la portantina; e qua faceva stringere le cigne, là allentar le tirelle, accompagnando ogni atto manuale di coloro con un crollar del capo in aria di compassione; cui i lettighieri rispondevano sotto voce con qualche bestemmia. — Assestato il tutto a modo suo, raccomandò loro la prudenza, e cent'altri riguardi da mettersi in pratica in quella spedizione. — “E guai a voi, disse egli alzando il dito in tono di minaccia, se oserete far levare il trotto alle bestie; chè ne andrebbe in pericolo la salute del principe.„ — Il quale avvertimento era dettato da zelo pel suo padrone, e più ancora da carità verso sè stesso; poichè l'onore di cavalcare al fianco della lettiga principesca voleva questa volta goderselo a tutto agio. Quando apparve il principe, gli andò incontro; e fu accolto per verità come un mal capitato. Alla vista di colui, che per zelo della sua carica gli offriva il braccio a discendere, il conte balzò con tutta agilità dalla gradinata, e si perdette fra la calca de' suoi scudieri. — Quivi, senza molto riflettere, tolse dalle mani di un paggio le redini di uno de' più focosi giumenti; in un salto lo cavalcò, e stringendolo ai fianchi coi ginocchi, lo spinse corvettando fuori di quella pressa, lasciando dietro a sè una doppia fila di visi attoniti. Dall'alto dell'arcione potò girare l'occhio indietro, vedere Agnesina, fissarla, avere da lei in ricambio uno sguardo, più del solito, fermo e penetrante; indovinarne la sorpresa, l'affetto, la commozione. Lesse sul volto di lei la storia de' suoi secreti; misurò la profondità de' suoi dolori; comprese che in quel mistero di gioje e di lutti egli aveva la sua parte, e non l'ultima. Quello sguardo dava compimento alle frasi interrotte, a tante reticenze inesplicabili, ai molti sospiri. Anche Agnesina, dal canto suo, pensò e concluse allo stesso modo. — Se il dolore era troppo vivamente scolpito sul suo volto, ella non studiò in quel punto di mascherarlo; la gente, che s'aveva attorno, fosse anche la più maligna, non era autorizzata a crederlo effetto d'altro male, fuorchè di quello recente e gravissimo che ognuno conosceva. — Se poi il conte indovinava, che con esso era confuso qualch'altro sentimento, poteva dolersene Agnesina? Poteva ella accusare sè stessa se la verità si faceva strada da sè in quel momento, a dispetto d'ogni volere e d'ogni proposito? Quello sguardo fu pertanto il passo più ardito di quanto osassero i due amanti nel tempo della loro vicinanza. Le parole non erano mai uscite dal labro di chi le pronunciava, senza subire la censura della ragione; gli sguardi, da persona a persona e troppo da vicino, solevano essere brevi, interrotti; quindi timidi e di ambiguo valore. Questo solo accolto e ricambiato da lungi, lanciato e sostenuto senza esitanze, era una schietta confessione degli interni sentimenti; era la proposta di un patto che ambedue offrivano ed accettavano con gioja. Quando il corteggio s'avviò, la folla non potè contenersi più a lungo nel rispettoso silenzio serbato fino allora: e varie grida proruppero dalle diverse parti della corte. Vi facea coro la folla sclamando: “Viva il Conte di Virtù; Dio lo benedica.„ In mezzo alla calca trovavasi pure quella povera contadina, cui il principe aveva salvato il figlio. Lo portava sulle braccia; ravvolto ne' suoi meno laceri panni; poichè in quel giorno, ella diceva, dovendosi mostrare al suo liberatore, bisognava vestirsi a festa. — E nell'adornarlo alla meglio gli insegnava il nome di lui, e gli diceva mille tenerezze; chè, dopo il passato pericolo, ella sentiva d'amare la sua creatura ancor più, se ciò era possibile. — Le comari che, fino a quel momento, non avevano mai voluto concedere che quel bambino fosse tanto bello (perchè la madre ne sarebbe stata troppo superba, e perchè ciascuna aveva la roba propria da tenere in credito) non potevano trattenersi dal prodigar carezze a quel putto, chiamandolo un angioletto, un botton di rosa, un bambinello da presepio; solo perchè ciò valeva ad accrescere merito a chi lo aveva salvato. — E anche per ciò la madre, gongolando di contentezza, non poteva stancarsi di mandare al cielo mille benedizioni. Ma la sua gioja e le azioni di grazia, che prodigava in secreto al suo liberatore, le parvero cosa meschina. Volle far di più; si mise, quanto era possibile, sui passi del corteggio, per mostrare al conte la sua creatura, ed offrirgli, come tributo di esultanza e di gratitudine, un suo sorriso. — Che una donna vulgare giungesse a tanto, non parrà troppo strano: l'amore materno può elevare l'anima la più umile all'altezza dei concetti poetici. Cornelia romana avrebbe additato nei figli il suo tesoro, anche senza essere la nobile madre de' Gracchi. Quando infatti il conte arrivò alla uscita principale del castello, gli fu forza arrestare il cavallo, onde non mettere in pericolo le persone che gli si stringevano intorno. Egli fece buon viso a tutti e a tutte; rese il saluto colla mano e col capo a quella buona gente nella più affabile maniera. E quando ravvisò la madre, che, sollevando in alto il suo bambino, gli disse: — “eccovi il sangue mio che voi avete risparmiato„ — un avviso secreto del cuore, inspiratogli dagli affetti di Agnesina, i cui sguardi esercitavano ancora un dolcissimo impero su lui, gli comandò d'arrestarsi, di volgersi a quella donna e di chiederle che gli si avvicinasse: dopo di che, piegandosi quanto era necessario per cingere d'ambe le mani il piccolo busto del bambino, lo sollevò alcun poco, ed impresse un bacio sulla sua gota color di rosa. Presso la generalità degli uomini, un tale atto non sarebbe che la naturale manifestazione di un sentimento, in cui quanto v'ha di affabile e di gentile viene ad usura compensato dalla stessa sodisfazione di rendere omaggio alla natura in ciò che essa produce di più bello e gradevole. Gli è come se, passando in un giardino, ci inchiniamo ad inspirare il profumo di un fiore. Ma in un uomo potente, un atto così semplice e spontaneo, ebbe il carattere di una straordinaria degnazione, e provocò l'applauso meglio che se fosse un'impresa eroica. E che? non gli sarà concesso d'aver cuore, come ogni altro individuo, e di serbare sentimenti teneri e semplici anche in mezzo alle sue gelide cure? Qui non v'erano adulatori; i testimonii di quel fatto potevano dirsi giudici di tutta buona fede; questi non dissimularono il prodigioso effetto di quell'atto di famigliarità. — “Un gran signore, sclamavano essi, si degnò d'occuparsi di un nostro fantino, e di pigliarlo fra le sue mani, e di baciarlo in viso! oh che degnazione! oh quant'è buono colui! oh come egli è alla mano!„ — E dietro ciò, altri applausi: perchè ognuno di quei poveri villani gradì la cosa come fatta a se. — Le donne invero non menavano gran rumore in quel momento; ma non perchè fossero indifferenti: chè anzi, provarono una stretta al cuore così tenera e dolce, che dava loro la voglia di piangere. E delle lacrime ve ne furono: — tanto è facile il farsi ben volere dalla gente alla buona. Agnesina, non meno commossa, accolse assai di buon grado quell'atto come un correttivo alla gagliarda virtù del guerriero. — La donna, dinanzi ad un prode, divien più debole, e quasi senza saperlo, si fa schiava di una ammirazione, che la guida all'entusiasmo ed all'amore: ma quando trova un coraggio temperato da miti sentimenti, ella stessa muove, meno timida e più conscia di sè, incontro all'uomo, il cui cuore rassomiglia alla miglior parte del suo. Quella consonanza di sentimenti è il legame che meglio li ravvicina. — Delle prove ne aveva già avute, e più d'una, per dire che il Conte di Virtù non fosse impastato di quella ferrea natura propria ai cavalieri d'allora: ma quando mai sentiam noja di ciò, che ci conferma quello che il nostro cuore ha interesse di credere? — Alla presenza del conte Agnesina era stata fin troppo cauta, ricordando che le più belle azioni alcuna volta non sono che vane apparenze per ingannare i creduli; ma ora che egli partiva, sconfortato forse dal dubio di essere stato mal compreso, avrebbe voluto corrergli dietro; e poichè era impossibile il farlo colla persona, almeno volle seguirlo collo sguardo e col pensiero. — Perciò, mentre poco prima si faceva merito di non essere stata nè corriva nè debole, ora si accusava di avere operato da scortese ed ingiusta. Da questo momento la passione regnò più imperiosa: le parole stesse di suo padre sembravano incoraggiarla ad aver maggior confidenza nell'uomo che aveva meritata quella del più virtuoso cittadino. Un tal ritorno sul passato, non era però una completa resipiscenza; accusava sè stessa, solo perchè una separazione eterna le faceva credere impossibile il ripigliare la posizione de' giorni addietro. — Passato il pericolo, è cosa istintiva il crederlo meno grave; ci duole allora di non avere fatto assegnamento su tutto il coraggio che sentiamo di possedere. — Eppure siamo d'avviso, che rimessa Agnese nel caso di prima, non avrebbe agito diversamente; la sua virtù era simile a quei farmaci, che recano salutari effetti solo quando il male esiste, o la minaccia del male ci sovrasta. Uscito il corteggio, la donzella accompagnò coll'occhio il polverío che si svolgeva dietro i suoi passi; e, quando una voltata della strada ne le intercettò la vista, salì alla più alta parte del castello per iscoprirne le tracce, e tentò sorprendere coll'orecchio il frastuono lontano e morente della cavalcata. — Vide ed udì, quando altri non avrebbe più nè veduto nè inteso. — Ma pur troppo ogni incanto si dileguò: la campagna che si stendeva vasta e piana davanti a' suoi occhi, era deserta. L'aria non le recava all'orecchio che il sibilo della foresta. Allora ricadde l'infelice in un vuoto desolante; si staccò quasi indispettita da quel balcone, che le ricordava soltanto una lontananza insormontabile, e, chiusasi nella sua cella, dimandò alle facili lacrime un po' di conforto. — Pianse infatti, e lungamente, quella solitudine, poco prima sì vagheggiata, in cui, con troppa sicurezza di sè, aveva riposto il secreto delle sue consolazioni. CAPITOLO SETTIMO XLVI. Quando il Conte di Virtù scese dalla gradinata per isfuggire alle sollecitudini d'Esculapio, ed afferrò il primo cavallo che gli venne alle mani, egli si era impadronito del mezzo di trasporto destinato ad uno de' suoi cortigiani. — Questi non reclamò per certo la roba sua; ma seguendo il modo del principe, alla sua volta mise la mano sulla cavalcatura di uno scudiero; e lo scudiero su quella di un servo; così che tutti ebbero un arcione, e nessuno il proprio. Anche il cavallo d'Esculapio, simile alla vecchia rozza dell'Apocalisse, povero spolpato animale, che, dopo avere consumata una balda gioventù in non so quante battaglie, vivottava nella stalla del medico, dividendo con un somaro un sobrio lavoro ed un più sobrio cibo, fu in quella fretta requisito e montato da un famiglio, il quale pel suo officio doveva precedere il corteggio e tenere spazzata la via da checchè per accidente le recasse ingombro. Il povero animale non poteva capitar peggio; quando sentì battersi sul sedile dell'arcione con un vigore tutto nuovo, e s'accorse che chi l'inforcava non aveva il peso solito, nè la solita flemma, avrà maledetto la sua trista sorte. Abituato da una dozzina d'anni ad avere dal suo cavaliero un triplice avviso prima di mettersi in movimento, aspettava il primo segnale; e intanto alzava il capo, abitualmente inclinato come se fosse al pascolo, e torceva il collo, componendo il muso ad una smorfia, da cui escirono uno sbruffo ed un versaccio, che non era nè raglio nè nitrito. Ma altro che la voce e la misericordia del vecchio padrone! Una furia di spronate gli crivellò i fianchi, il flagello gli fischiò all'orecchio, e lo invase in tutte le parti del corpo con una salva di percosse così rapide e sonore, che pareva impossibile fosse il lavoro di una mano sola. — In quel frangente l'antico spirito guerriero gli si risvegliò, non già per rispondere all'invito sbuffando, mordendo il freno e pigliando la carriera, sì bene per ribellarsi a colui che violava i vecchi patti. Acciecato dallo sdegno, invece di muoversi, puntò le zampe anteriori, e diede più volte il groppone a leva, spingendo fuor di sella il cavalcatore. Fortunatamente però in quel capo ostinato viveva ancora un'altra memoria; quella dell'esistenza di certi uomini ancor più tristi e testardi, che non si lasciano smovere da simili proteste, e che quando pure fossero buttati nella polvere, avrebbero l'ardire di rilevarsi per ritornare al cimento. Nella sua gioventù ne aveva fatte più d'una volta la prova, sempre con danno proprio: per cui, tutto ben considerato, pensò esser meglio far patta del ricevuto e rassegnarsi al resto. — Così fece; e, ravvivando gli ardori giovanili, improvisò un galoppone tanto disunito ed incomposto, che il cavalcatore ne dovette serbar memoria per un pezzo. Esculapio, mentre si violava la sua proprietà, aveva eseguito la prima parte del suo officio. Stava egli sur uno scaglione del vestibolo atteggiandosi ad una curva mirabile, che voleva significare il più ossequioso inchino, allorchè il principe gli fuggì. In questa postura non s'accorse di restar solo; poichè, col capo basso e gli occhi socchiusi, masticava in quel punto, a voce sommessa, un complimento in latino, composto e studiato il giorno prima. Rialzandosi e trovando d'essere solo, girò lo sguardo meravigliato; vide che la folla dei cavalieri si agitava; riconobbe infine il suo illustre cliente che dall'alto di una montatura dava il cenno della partenza. Lo zelo della sua carica lo consigliava ad accorrere a lui ed a tentare di distoglierlo dalla pericolosa impresa; e non gli sarebbero mancati a ciò i più sonori aforismi e le più devote preghiere. Ma un antico dettame della prudenza, studiato a suo mal costo in una lunga pratica del vivere coi grandi, gli aveva fatto apprendere a lasciare che l'acqua corra in giù, perchè “Dio vede e provede„: verità cotesta a lui famigliare e carissima, colla quale corroborava la coscienza le troppe volte che, trovandosi impacciato co' suoi infermi, li rimetteva alle cure della providenza, e all'uso dell'acqua di fonte. Discese però dalla gradinata con un'aria frettolosa, che si esauriva in mille inutili movimenti della persona. Giunto dove la folla gli chiudeva il passo, comandò, chiese, pregò che gli si facesse largo. Ma dagli scudieri e dai fanti, che in altro momento avrebbero mostrato un gran rispetto per l'uomo della scienza, non ebbe in quel punto nè attenzione nè cortesia: onde gli fu forza aprirsi una strada fra quegli ingombri, spingendo in mezzo ad essa la sua grave mole, come si fa correre una barca carica fra le dune. Durò quel gioco, fin quando, entrato anch'egli nella via di chi difilava, non trovò più alcun ostacolo alla libertà de' suoi movimenti. — Se non che, la foga dei cavalli e dei cavalieri era sì grande, la direzione che essi avevano presa sì fissa, che riesciva impossibile attraversarne la corrente, e bisognava lasciarsi trasportare chi sa dove. — Se prima aveva chiesto in favore di lasciargli un po' di spazio per muoversi; ora supplicava per pietà d'accordargliene quanto bastasse ad arrestarsi onde avere il respiro. E all'uno con una voce affannosa chiedeva conto della propria cavalcatura; all'altro intimava che si avesse riguardo anche a lui, “non famiglio, non servo, ma...„ e qui sfoggiava il suo nome e i suoi titoli con quel far del grande a sproposito, che rende scusabile l'altrui irriverenza. Ben comprese allora il pover'uomo come il suo favorito proverbio, sì tonico e confortante quand'era applicato ai mali altrui, divenisse sterile trattandosi dei proprii. Nondimeno, per non essere più a lungo vagliato da quell'onda di gente, meglio che le parole gli giovarono i gomiti, abilmente manovrati. — Escì pertanto da quella pressa, ma un po' malconcio; press'a poco come un virgulto passato pei vortici di un torrente e ricacciato a caso sulla riva. Abbrancò il primo oggetto solido che gli venne alle mani, e, stretto a lui, riebbe finalmente l'equilibrio, il respiro e più tardi la parola. “Dove è Bucefalo, disse egli appena potè parlare; il mio cavallo dove è?„ La persona, cui egli si era avviticchiato, era un mozzo: un buon uomo, servizievole all'uopo, ma in tutt'altro genere di cortesia, che non era quella richiesta al momento. Onde fu grazia se non cercò in quel punto di liberarsi di un carico, che non era pagato a portare. “Uhm! rispose egli in un tono asciutto, cosa volete che io sappia del vostro.... che so io? Dei cavalli qui ce ne erano più di dieci, più di venti. Tocca a voi a cercare il vostro: quando l'avrete trovato, se vi occorre qualcosa, dimandate di me: è il mio pane governare una bestia, messere.„ — E in dir ciò dava una crollatina a tutte le membra, quasi volesse scuotere da dosso il soprapeso. “Vi manca del pane, l'avrete: ma cercatemi il mio cavallo, vi ripeto: devo seguire il conte, e che? dovrei corrergli dietro a piedi? — L'ho lasciato qui il mio Bucefalo, qui presso alla lettiga...„ “Ah ah! interruppe l'uomo: un caval bertone, attrappato, scarico... ah ah! Era vostro quel digiuno ambulante?...„ In altra occasione Esculapio non avrebbe tolerato che si parlasse con poca riverenza del suo vecchio amico. Ma in quel momento, qual protezione poteva accordare chi chiedeva con tante istanze l'altrui? Onde non redarguì le frasi squajate, ma le interruppe dicendo: “sì quello appunto; un bel bajo dorato mozzo d'orecchi, ma pien di cuore...„ Allora lo stalliero non rispose colle parole; ma avvicinando le due mani, palmo a palmo, e facendole scorrere rapidamente l'una sull'altra, con un fischio sommesso e prolungato, volle dire, che il cavallo era ito, e ben lontano. “Partito! e con chi, e per ordine di qual persona!„ L'altro raccontò quel che noi già sappiamo; che, cioè, in quel parapiglia gli scudieri del principe s'erano scambiati i cavalli; che egli, probabilmente il custode dell'eroico Bucefalo, ne consegnò le redini al primo venuto; che questi gli saltò in groppa, e partì come il vento dopo avergli cavato il ruzzo del capo con un generoso rifrusto. Se Esculapio si commosse a quella nuova, ne aveva ben d'onde. Anche senza ricorrere alla stizza dal vedere malmenato da un incognito quella sua vecchia reliquia, trovava di che imbronciarsi pensando come egli avesse a patire indubiamente, in quella bisogna, lucro cessante e danno emergente; un buon mezzo, cioè, di ritornarsene perduto per ora, sciupato forse per sempre; e di sovra più, il pericolo di doversi affidare a Dio sa qual groppa, che gli romperebbe le reni, quando pure non lo traesse in un precipizio, da non escirne vivo. — Il suo intelletto gelido e ponderato si accese nel rimestare l'argomento dei timori e dei pericoli a cui andava incontro. — Per buona sorte, mano mano che il male si faceva grande, cresceva il proposito di opporvi, come rimedio eroico, l'incrollabile risoluzione di rimanere a Campomorto un giorno, un mese, un anno; quanto era d'uopo insomma, per attendere un mezzo di trasporto degno di lui e tale da ispirargli fiducia. Pertanto rifiutò recisamente i varj partiti, che gli venivano offerti come ripiego a questa contrarietà. Chi intatti voleva essergli compagno in una passeggiata fino a Pavia, e ne commendava la bella e commoda strada. Chi s'impegnava di tradurlo colà in una carretta; ed aveva già in mente dove trovare un veicolo, ed un somaro. Chi infine gli offriva ad uso la mula del piovano, mansueta come un agnello, e sì pratica dei contorni, che il suo padrone soleva dormire sul basto nelle sue gite e risvegliarsi solo quando si trovava ricondotto alla porta della sua casa. Tutte queste proposte gli erano fatte da quella buona gente colla franca cordialità loro propria: ma indarno. Le prime due facevano arricciare il naso ad uomo d'alta levatura, come Esculapio; e l'ultima, appena messa in discussione, andava ad urtare e ad infrangersi contro una sua regola inalterabile di vita, che gli imponeva di non imprestar mai a chicchessia, e di non chiedere mai ad imprestito. — Trattandosi poi di cavalli, ogni sostituzione era impossibile; anche la mula del piovano, checchè se ne dicesse, era un'insidia, un rompicollo. Mentre si agitavano tali questioni, sfilava il retroguardo del corteggio, e più non rimaneva che la lettiga del principe, che, come ognun sa, era deserta. In gittar l'occhio su di essa, Esculapio si battè la fronte, come chi fa una meravigliosa scoperta: e lo era infatti il vedere quel commodo veicolo partire vuoto per Pavia, e il pensare che egli avrebbe potuto, quando l'osasse, approfittarne. Tutto stava nell'accomodare le etichette; quanto al resto, non v'era alcuna apprensione; la lettiga del principe, la più bella pariglia di muli, i più esperti lettighieri.... A questo pensiero, sparivano dal suo viso quelle rughe incresciose, che vi avevano impresse le proposte del massajo e del piovano. — Oh con quanta delizia non assaporava il suo commodo tragitto! Già cogli occhi possedeva quella specie di cameretta, difesa dalle inclemenze della stagione, in cui egli potrebbe stendersi a piacer suo; già gustava l'andar lento ed eguale delle mule, che, cullandolo dolcemente, dovevano procacciargli una beata dormiveglia. Non gli restava che il dubio di ferire le convenienze, e di mettere a risico la sua riputazione d'espertissimo cortigiano. — Perocchè il nostro Esculapio aveva due nature e due sguardi; l'uno brusco se mirava sotto di sè, l'altro melato, lusinghiero, supplichevole se volgeva l'occhio all'insù. E la grazia del principe gli era cara quanto e più che Bucefalo; e per ottenerla, o mantenerla, sarebbe ito a Pavia a piè zoppo. Il sospetto, che posava sulla fronte del baccalare, era simile ad una nube che oscura la cima di una montagna, ma non turba il sereno dell'aria. Ragionare sulla scelta è come ammetterla possibile. — Viaggiando al retroguardo, pensava egli, potevasi partire e giungere nascostamente: i lettighieri non fiaterebbero per certo. Ma d'altro canto, quell'operare furtivo non gli pareva da par suo: con una soppiatteria sulla coscienza non avrebbe goduto la delizia di quella giornata. Meglio era dir tutto; far ridere il principe sui casi suoi; un sorriso è caparra di perdono. — A quest'esordio seguivano altre buone considerazioni; e quella anzitutto che la necessità non ha legge, e che il principe, degnandosi di prendere il posto di un cortigiano, aveva tacitamente assentito, che questi pigliasse il suo. Infine poi, se tutte queste buone ragioni fallivano, avrebbe ricorso alla intercessione della Castellana di Campomorto, la cui influenza benefica non era più un mistero fra gli scioperati della corte. Appianate per tal modo tutte le difficoltà, egli si dispose a cedere agli inviti dei lettighieri, che per burla gli dicevano di restar servito; e s'avviò verso loro con quell'aria solenne e piena di degnazione, che aveva sempre pronta pei da meno di lui, e che è proprio la vernice dorata degli ignoranti. XLVII. Entrò dunque nella lettiga colla pacata disinvoltura di un personaggio non nuovo alle consuetudini dei grandi. — Più di un braccio accorreva a puntellarlo nella salita; ma giungevano tardi, e mal graditi, poichè il nostro eroe aveva preso il fumo della sua posizione, e non si compiaceva affatto di quella soverchia confidenza. Pure, dall'alto del suo seggio, dopo di averne sperimentato in ogni verso la morbida spalliera e i commodi appoggiatoj, si degnò gettar l'occhio sulla folla, e si diè moto per salutare a dritta ed a manca; e frattanto in quell'artificiale inquietudine metteva a prova l'elasticità del veicolo, e pregustava quelle scorrevoli ondulazioni, che dovevano far la delizia del suo viaggio. Ma ahimè! chi avrebbe mai osato credere, che un sì bel pronostico dovesse andar fallito? Nessuno, fuorchè i lettighieri, che, nel ricevere dal medico quella lezioncina sul modo di condurre lettighe, gli avevano susurrato contro una certa sentenza, che non è mai venuta vecchia: “Uom che fa l'altrui mestiere fa la zuppa nel paniere.„ E infatti erano essi sì poco persuasi de' suoi consigli, che si disponevano a scompigliare ciò che era stato loro imposto, quando il principe fosse entrato nella lettiga: temendo per lui, e per loro. Ma poichè il conte era partito, e gli effetti del cattivo consiglio stavano per ricadere sullo stesso autore, essi non si diedero la briga di rimettere le cose nell'ordine di prima; dicendo che chi aveva fatto il male farebbe questa volta la penitenza. — Il male, invero, non poteva essere serio; ma per un uomo, come il nostro Esculapio, cui sembrava che la propria incolumità fosse sacra al consorzio umano, un semplice disordine ed un lontano pericolo presero le proporzioni di un danno serio ed universale. Contribuì a crescerne le apparenze quella serena beatitudine, in cui egli era entrato poco prima allo scoprire il nuovo ripiego: perchè l'inaspettato, come ognuno sa, sublima tanto il bene come il male. Quelle cigne allungate fecero in modo, che le stanghe della lettiga battessero troppo in giù sulle coste e sulle anche dei muli, e che le ondulazioni del veicolo, prima che si rendessero regolari ed isócrone pel viaggiatore, riuscissero brusche e crudeli per chi lo trasportava. Gli animali, che alle condizioni ordinarie erano un modello di mansuetudine, soprafatte da quella novità, cominciarono ad incocciarsi; e Dio ne scampi dai muli incaponiti! Fermi e stecchiti sulle gambe anteriori, che avrebbero dovuto pigliar moto, scuotevano le deretane e la groppa, come se volessero scaricarsi d'un peso insopportabile. Cadde nella stessa colpa anche Bucefalo; ma si s'era ravveduto sùbito; i muli invece, sordi alla voce ed alle nervate dei lettighieri, o, diremo meglio, inviperiti da quelle e fidi allievi della loro natura, diedero in una furia di calci, che squassava il fondo della lettiga, e la faceva andar su e giù come un burchiello abbandonato alle onde del mare in burrasca. E il povero dottore dentro quella buccia era scosso come un topo nella trappola. Balzava qua e là, appariva e spariva a discrezione di quegli squassi che lo facevano ballonzare in ogni verso. Quando voleva trovar posa, un di quei calci, a cui i muli soltanto sanno dare una portata meravigliosa, lo sobbalzava in alto e in vista di tutti; e non appena tentava reggersi e tenersi dritto della persona per dimandare soccorso, un'altra strappata lo stendeva di bel nuovo sul fondo. Che i lettighieri volessero restituire ad Esculapio il suo fatale consiglio, e mostrargliene l'inopportunità con quella lezione, è cosa assai naturale; ma non volevano essi per certo cangiar la burla in tragedia. Laonde, facendosi più alte le strida del pericolante, e mescendovisi quelle delle donne e dei fanciulli, posero fine al brutto gioco, contenendo le bestie, e ridonando al pover'uomo sì crudelmente abburrattato la sicurezza di posare su terra ferma. Non aspettò Esculapio che gli si facilitasse la via a discendere; la paura lo aveva reso snello, fuor dell'usato. Prima ancora che ne fosse il momento, balzò da quella trappola con una agilità, che gli ricordava i suoi begli anni; traballò un istante, ma riebbe subito l'equilibrio e con esso la libertà di emettere un sospiro largo e profondo: espressione sincera di un rendimento di grazie. — Non ebbe forse a lodarsi molto della pietà degli astanti; poichè, passato il pericolo e frenate le grida, il primo atto e il più spontaneo in tutti fu un rallegrarsi di cuore, non della sua salvezza, ma del caso che aveva fatto lui in cambio del principe vittima di quell'accidente. — Il buon uomo, è bene saperlo, nelle sue applicazioni filosofiche, cominciava a numerare dalla propria individualità il primo gradino di quegli esseri eletti, a cui è dovuta special riverenza. I lettighieri, mentre stavano rimettendo il tutto nel primiero assetto, non tralasciavano di dire, parlando tra loro a voce abbastanza alta, quale fosse stata la cagione di quel disordine, e chi la cagione della cagione. Ma Esculapio finse di non intendere, o, sbalordito com'era, realmente non intese; perocchè quando ebbe a parlare di quel fatto (e ne parlò delle migliaja di volte ben più che una) distribuì la ragione e il torto, il merito e la colpa, a modo suo: attribuendo a sè una dose eroica d'antiveggenza e di sanguefreddo, alle bestie una trista natura, ed una più trista ai loro condottieri ignoranti di tutto, fuorchè nel fare il male. Non è a far meraviglia se poco dopo, invitato a salir di nuovo nella lettiga, che aveva con buon successo dato prova di sè facendo un giro in corte, non accettò l'offerta. Escì dunque dal castello di Campomorto in coda al corteggio, a piedi, come il più umile dei famigliari. E quando ebbe battuto la strada per qualche miglio, spiando il procedere delle bestie; quando, accaldato dalla corsa e dai raggi del sole, ebbe fatto prova, del viaggiare a piedi come un tapino, si rappattumò con qualunque mezzo lo sollevasse da quella noja; quindi anche coi muli e coi loro condottieri. — Ordinò dunque una sosta; ed ascese nella lettiga, dove, se non trovò la dolce beatitudine e la sognata gloria di poco prima, gustò almeno un po' di quiete e di inerzia. Giunto a Pavia, fece far alto, e discese; dopo due ore di moto passivo, trovò commodo il lastrico delle vie ed opportuno un passeggio per sciogliere le membra indoglite. Bucefalo gli venne ricondotto a casa il giorno seguente. Il padrone, accorrendo a visitarlo nel suo stallino e trovandolo fuor del consueto tondo e lucido di pelo, riconobbe che l'amico non aveva desinato il giorno prima alla solita greppia, e se ne rallegrò di cuore. Ma poco dopo, quando fece appello a' suoi garretti ond'essere condotto per città, s'avvide che ei non poteva servirsi che di tre soli: al quarto pareva che scottasse il terreno. Da quel dì, il vecchio e fido servitore passò allo stato di riposo; conservando lo smilzo onorario di un po' di paglia. A Campomorto e fra il servidorame del principe l'avventura del medico aveva destato un po' di ilarità. Quella giornata lasciò memoria di sè; e per un pezzo, quando voleva darsi la buona andata a un guastamestieri, gli si diceva — “che tu possa fare il viaggio del medico.„ XLVIII. Torniamo ancora per poco a Campomorto, dove ci rimangono a compiere due officii; pietosi entrambi, ma di una indole assai diversa. — L'uno ci guiderà ad assistere agli estremi onori resi a Maffiolo, il martire secreto dell'amore di patria. L'altro ci avvicinerà alla sua sventurata figlia, e facendocela vedere sola, piangente, infelice, sveglierà in noi un onesto desiderio di scandagliare quel cuore, per conoscere la profondità della sua ferita. Disponiamoci ad essere compassionevoli, giacchè la sventura ha le sue attrattive e il suo culto. Quando avremo detto l'ultimo vale alla vita che si estingue, consacreremo una parola d'augurio ad una esistenza nuova, che nel dolore rassoda la sua tempra; che per esso attinge un alto grado di maturità e di bellezza. Quella bufera che sfiorì troppo presto una vita saggia ed operosa, non serbando di essa che il modesto profumo della memoria, quella stessa fè sbucciare anzi tempo un'altra vita, e, nutrendola di dolore, la costrinse a porgere una troppo doviziosa primizia di virtù e di sacrificj: ma ahi pur troppo i frutti precoci annunciano precoce caducità. — Raffrontate per tanto queste due esistenze, l'una che chiude, l'altra che incomincia la sua carriera, dica ognuno se quel ramingo, che, dopo lunghi disagi, rientra nel povero ostello dove attende riposo, non è più invidiabile di colui che n'esce ad un pellegrinaggio pieno di difficoltà, senza guida e consiglio, incerto di tutto, della via fin anco; certo solo d'intraprenderla in un mattino burrascoso? Il giorno seguente a quello in cui era partito il Conte di Virtù, arrivò Canziana. Tanta era l'ansia d'Agnesina, ch'ella cominciava a divenire ingiusta verso i suoi inviati, tassandoli di lentezza. Ma non appena ebbe notizia del loro arrivo, l'angoscia scemò, o, per dir meglio, cambiò di natura, e fè cessare ogni proposito d'accusa e di malcontento. La fanciulla corse incontro alla buona donna, e prima di rivolgerle una delle tante dimande che aveva a farle, le gettò le braccia al collo, e vi nascose il volto e le lacrime. — Canziana le rispose dello stesso tenore; e, poichè ebbe lasciato libero sfogo alla commozione, riferì in poche parole l'esito della sua gita, assicurando che tutto, compatibilmente colle circostanze, era riescito bene. A prova di ciò le disse, che ella precedeva di pochi istanti il convoglio funebre: onde Agnesina si dispose a muovergli sùbito incontro. I terrazzani di Campomorto, conosciuto il pietoso motivo di quell'inatteso apparire della castellana, si univano ad essa, e ingrossavano la schiera della pia processione. — Un religioso silenzio regnava in quella turba; una mestizia profonda, ma non torbida, era scolpita sul volto di tutti. Fino il bisbigliar delle preci era più sommesso del consueto. Canziana, che nella sua vulgare semplicità possedeva tutte le doti di un'anima gentile, pensò che nessuna cosa avrebbe recato un'opportuna deviazione al cupo dolore dell'orfana, quanto il racconto di ciò che aveva veduto ed operato; racconto non lieto al certo, anzi pieno di acerbe memorie, e, se vogliamo, di dolori, ma sempre più grato del silenzio, che è la pietà degli insensibili e può essere confuso coll'indifferenza. Narrò quindi il disgusto provato al metter piede nella casa dei Mantegazzi; dove, alla santa memoria del giusto, faceva tetro riscontro il sacrilegio degli sgherri di Barnabò, che ne favorivano il saccheggio e la distruzione. “La casa nostra, — disse ella con quella solita famigliarità onde faceva sue le gioje e le pene dei padroni; — la casa nostra è trattata come roba di rubello; ormai è simile ad un campo mietuto, in cui è lecito a tutti andare alla busca dei rilievi: se vedeste che ruina! le porte sono schiuse, le imposte abbattute, le inferriate storte o svelte.„ Ed era non più del vero: dopo la catastrofe, i birri erano stati i primi ad invaderla, i primi a frugar nei luoghi più riposti, ed a far man bassa su quanto capitò loro alle mani. Intascarono tutto ciò che era, od aveva l'aspetto d'essere di qualche valore: ciascuno trovò il proprio conto; tutti condussero quella maledizione con un accordo degno dell'infame mestiere. Quanto poi avanzò alla loro ingordigia fu abbandonato alla plebaglia che avida, impaziente, inebriata dalla speranza di bottino, si lanciò su quei resti come le belve affamate sopra un ossame. “Anch'io, ripigliò Canziana, misi il piede in quel luogo di desolazione; e come aveva il cuor gonfio e preparato a un grande accoramento, provai in cambio un più grande conforto nel vedere, che la stanza, in cui giaceva la salma di messer Maffiolo, era stata rispettata. Non già che quelle anime scelerate potessero sentire vergogna o rimorso nel profanare l'asilo di un defunto. — Quando avessero avuto un po' di timor di Dio non avrebbero manomesso la casa e la proprietà di un cittadino. — Sapete voi chi le teneva in rispetto?... Un piccol numero di popolani, armati per verità di tutto punto, ma più autorevoli per la parola, che per la forza. Essi facevano la guardia alla porta della cella mortuaria; a chi chiedeva l'ingresso colla voce, davano buone parole; a chi minacciava, rispondevano colle minacce; ai violenti facevano violenza. — In mezzo a quella buona gente, da cui appresi quanto vi ho narrato, sentii parlare di messere, come del loro benefattore; piangevano essi la sua perdita come voi a un dipresso, o come io; e mi narravano, quasi già non lo sapessi, chi egli era, e come liberale coi poveri e buono con tutti. — Vedete, o madonna, i giudizj del mondo! quei ribaldi del palazzo, perchè hanno una divisa, si chiamano giustizia, anche quando rubano e saccheggiano; mentre quei poveracci che esponevano la vita per quella giustizia, che è la vera perchè non è inventata dagli uomini, sono tenuti in niun conto, e guai a loro, se non s'accontentano dell'interna sodisfazione d'aver operato per bene. Ma io sono certa che anche a voi, come a me, la sollecitudine di quei buoni darà un conforto, che supera la misura del male cagionato dalla perversità altrui. — Qualche volta mi pare (vedete idea strana!) che la persecuzione abbia il suo lato invidiabile; poichè essa ci frutta la benevolenza delle anime oneste....„ Dietro a queste parole della buona donna, poteva la donzella sopportare con minore strazio il doloroso carico che s'era imposto. Il silenzio che ne seguì non era uno di quelli che facevano paura alla timida affezione della governante. Il volto della dolente dava segni non dubii dei buoni effetti delle sue parole. XLIX. Su di un carro, parato a nero e condotto da due cavalli colle gualdrappe d'egual colore, si elevava il feretro di Maffiolo ravvolto in un'ampia gramaglia, le cui pieghe erano qua e là rattenute da corone di fiori campestri, improvisate ed appese alla coltre nera lungo la via. Dietro il carro camminava un monaco colla stola bruna, fisso lo sguardo sulle pagine di un libro liturgico. Le sue labra, anche durante qualche momentaneo riposo dal leggere, pronunciavano sommessamente le preci dei morti. Seguivalo una folla copiosa e compatta, ma procedente in buon ordine. La diversità dei tipi che spiccava in essa, attestava che v'erano accorse persone di varie classi. Vi si vedevano dei cittadini in cappa e cappuccio, che avevano vegliato la notte, per non mancare a quell'atto di pietà; giacchè il convoglio staccavasi da Milano un'ora prima dell'albeggiare, onde non dar nell'occhio ai malevoli. Ingrossava la turba nel passare pei borghi e pei casali; dapertutto raccoglieva gente pietosa; benestanti, contadini o poverelli; quali attirati da un sentimento di pietà, quali dalla memoria dei ricevuti beneficii. — Le donne e le fanciulle seguivano a gruppi, e recitavano in comune delle preci, che le prime intuonavano con voce alta, e a cui l'altre rispondevano con un bisbiglio flebile e devoto. I giovinetti si tenevano in coda, onde essere liberi di disperdersi pei campi, a coglier ciclami ed amaranti, e tesserne corone. — Nei paeselli, dove la modesta chiesuola possedeva una o più campane, che era un lusso, al lontano apparire del corteggio, si udivano i tocchi mesti e prolungati del sacro bronzo, che salutavano l'arrivato, e lo seguivano nel suo passaggio; fin quando il villaggio vicino si pigliava alla sua volta l'incarico del funereo annuncio. Non era la enfatica parola dei pastori, che sollevasse quella gente a tale atto, e nemmanco la tacita opera dei nemici del tiranno che movesse la folla a protestare contro l'iniquo giudizio di lui; era la libera espressione di un sentimento, che trovava eco in ogni cuore, e traboccava spontanea; come spontanei erano il dolore e la riconoscenza. Da quella turba pertanto prorumpeva involontariamente uno di quei giudizj imparziali e solenni, che decretano all'uomo virtuoso l'immortalità del nome ed un tributo eterno d'affetti: ciò che molte volte si chiede invano ai marmi ad alle pompe. Qui ne cade in acconcio un'osservazione. Le moltitudini di tutti i tempi, (quelle in ispecie dell'epoca di cui favelliamo) sono rese unanimi e compatte dalla stessa ignoranza. Se emerge fra loro uno spirito illuminato, nessuna meraviglia che la parola di uno diventi volontà di tutti. La pretta ignoranza è modesta, docile, riverente; sono le passioni, che la rendono caparbia, presuntuosa, maligna. — Una moltitudine ignorante, ma primitiva, è come un'isola sorta di fresco dal mare, che spetta al primo occupante. Se nessuno la fa sua, essa si matura coi mezzi proprj. E come il suo sviluppo è regolato dalle leggi eterne della natura, che mirano costantemente ad un solo fine, così quella turba, che non subisce dominio d'alcuno, opera e giudica con unanimità di azioni e di giudizj, perchè la ragione spassionata e vergine che regna su di essa è d'egual indole in tutti, ancorchè non sia in tutti valida egualmente. Perciò a conforto dell'uomo troppo presto accusato di una perversità, che non è essenzialmente propria della sua natura, si può asserire, che nei grandi commovimenti le gesta generose sono opera e pensiero di molti; perchè la ragione semplice ed istintiva dei più è buona consigliera: le enormità invece, ancorchè perpetrate da molti, hanno nei colpevoli comune la mano, ma non il concetto, e rimontano ad origine sì meschina ed ignobile, che bene spesso riesce impossibile lo scoprirla. Il bene è operato per slancio e per esempio dei più; il male per macchinazione e per avviso di pochi. Ciò ne spiega il perchè quella plebe cittadina e campagnuola fosse sì pronta e concorde nel porgere un tributo d'ossequio alla memoria di Maffiolo. In una classe più illuminata d'uomini, presso cui ogni libera espressione dei proprj sentimenti è legata agli interessi di uno stato speciale, prima di gettare una corona sul feretro di quel cittadino, sarebbesi chiesto come egli vivesse non solo, ma come morisse; se in pace o no colle due podestà dominanti; onde il chiamarlo un eroe od un colpevole non doveva dipendere soltanto dal voto libero della coscienza, ma da questa in un coi pregiudizii della casta e dell'educazione; in ossequio quindi al partito cui s'appartiene, ed alle attinenze che torna conto d'accarezzare. È anzi a credere che tutte queste ragioni, deboli ad una ad una, ma potenti se riunite, avrebbero fatto tacere ogni pensiero generoso; sicchè vi fosse più d'uno, che nel cuore lo chiamasse benedetto, mentre col labro lo condannava: perocchè il cuore è tutto nostro, e il labro talvolta crede operare per noi, quando già serve agli altri. Fra l'infima plebe all'incontro non si levò questione di sorta; non si chiese come finisse la vita di Maffiolo; bastò il ricordare che ella era stata modello di carità e di saviezza. Quel popolo era capace di odio e di disprezzo; ma non sapeva odiare e disprezzare senza una ragione, e meno ancora per forma. Egli non disse: Maffiolo si è tolta la vita; ma pensò ch'ei l'aveva sacrificata per far salvi tanti buoni, come lui; pensò ch'ei non faceva getto di un'esistenza strema ed infelice; ma rinunciava a giorni vegeti e ridenti, all'amore di sua figlia, all'affetto di tutti i buoni.... Se quel popolo avesse torto o ragione non è nostra assunto il ricercarlo. Certo è che ogni anima gentile si sentirà più inclinata a perdonargli questa colpa, se è colpa, che non ad applaudirlo, quando, invaso dalla ferocia degli inquisitori, assisteva con gioja delira allo spettacolo di vedere ardere i paterini e gli scomunicati. L. Agnesina si condusse, o meglio si trascinò incontro al corteggio, reggendo gli spiriti colla forza della volontà, e facendo violenza al suo dolore pronto ad erumpere in un pianto convulso. Ma quando vide da lungi la folla, e distinse il carro funebre che la dominava, provò una stretta al cuore sì repentina e dolorosa, che credette morirne. — Una vertigine rapida le attraversò la mente; e, rotto d'un tratto il filo delle idee, vi sparse un bujo improviso. — Non sapeva dire a sè stessa se gli occhi perdevano la facoltà visiva, o se gli oggetti circostanti le si dileguavano dinanzi. Il suolo pareva mal sodo ed oscillante. Mille suoni le ferivano l'orecchio, e vi si confondevano in un tintinnio doloroso. Appena ebbe tempo d'interrogare sè stessa, se il mondo si sfasciava, o se ella moriva. Ma la crisi fu passaggera, tanto che soltanto se ne avvide l'affettuosa compagna, la quale a quel pallore e all'arrestarsi subitaneo, prevedendo che potesse accadere, stese un braccio a sorreggere la dolente, e le disse piano all'orecchio — “coraggio, mia figliuola.„ Agnesina infatti ritrovò sùbito la sua fermezza. Ridonato l'equilibrio ai sensi ed alle facoltà, proseguì il cammino fino ad incontrare il convoglio. Passando vicino al carro, sollevò un lembo del velo che copriva il feretro, lo baciò, e lo inumidì delle sue lacrime; compiendo quest'atto colla sobrietà dignitosa che si addice ai veri e profondi sentimenti. — Quando ebbe raggiunto la folla, volle confondersi con essa; ma la turba riverente le fe' largo; unico atto d'ossequio, che in quel punto poteva essa porgere alla nobiltà della persona e al più nobile prestigio della sventura. Quando il convoglio giunse a Campomorto, ed entrò nel castello, la corte era stivata di gente come il giorno prima: ma quanto ne era mutato l'aspetto! Quanto è più solenne lo spettacolo del dolore, che non quello del fasto! Il resto di quella cerimonia seguì così mestamente com'essa era incominciata. Tutto fu decoroso e solenne, perchè tutto era spontaneo; perchè il più bell'apparato consisteva nel numeroso accorrere dei fedeli, nella concorde loro pietà, nell'unanime compianto. Agnesina, a tante prove d'affetto, sentiva crescersi le forze necessarie per reggere fino all'ultimo. — Vide calar il feretro dal carro e trasportarlo nella chiesuola; assistette alle preci dei sacerdoti e a quelle dei fedeli, vide piovere tre volte sulla bara la rugiada d'acqua benedetta; e coll'occhio e col cuore franco d'ogni umana debolezza, lo accompagnò nell'estremo suo passaggio alla cella mortuaria; davanti alla quale venne per l'ultima volta invocata la requie eterna dei giusti su lui e sulla compagna, che vi riposava da oltre tre lustri. Ma avviene sovente, che assistendo allo sviluppo di un fatto, di cui è impossibile il non prevedere la fine, ci lasciamo vincere da circostanze, che pure dovevano essere accolte da noi come una conseguenza od un accessorio di quanto già conosciamo. — Così fu questa volta. Agnesina aveva subíto tante e ben difficili prove; e ne era escita trionfante. Da quando ricevette l'ultimo addio di suo padre, tutto in lei e per lei era stato dolore. Eppure superava sè stessa, e al crescere dell'avversità, senza far violenza alla delicata fibra del suo cuore, sapeva rinvigorirlo d'una coraggiosa fermezza. Ma un fatto, a cui doveva necessariamente assistere, il cui carattere speciale era quello d'essere l'ultima parte della mesta cerimonia, le fece perdere il frutto di tanta costanza. Compiuto il rito, il popolo sfilava dalla chiesuola, e i manuali accorrevano per calare il coperchio dell'avello. Quella operazione produsse sull'animo della fanciulla un effetto non doloroso ma terribile; le parve che una voce spaventevole le annunciasse la inesorabile parola: tutto è finito. — Lo strazio, che ne provò, fu sì acuto e crudele, che non potè sopportarlo: e prima che invocasse un'altra volta l'ajuto delle sue forze, queste l'avevano abbandonata del tutto. E perchè ciò? Fin tanto che quella spoglia era sotto a' suoi occhi, il pio officio d'accompagnarla, di vegliarla, di pregare per essa era il séguito delle cure affettuose che la figlia prestava al genitore. Quell'avello di marmo chiuso e suggellato dallo stesso suo peso, glielo toglieva per sempre. Da quel punto, ella sentì tutto il dolore d'essere orfana e sola sulla terra. Se nell'estasi delle sue religiose aspirazioni l'aveva per un istante dimenticato, quel fatto glielo rammentò crudelmente. — Questa è cosa che vediamo ogni giorno. Quante persone addolorate, che con pietà pari al coraggio raccolsero l'ultimo respiro di un diletto morente, cadono in un eccesso di dolore disperato, quando l'inerte spoglia vien tolta dalla coltrice, o trasportata dalla casa! Quanti non reggono alla vista di veder buttare su di essa, quasi fosse un oltraggio, la prima palata di terra! Agnesina fu trasportata priva di sensi nelle sue stanze e deposta sul letto. — Accanto ad essa, coll'amorosa trepidazione di una madre, vegliava la governante; e intanto che faceva prova di cento rimedii, pregava il cielo, e piangeva a calde lacrime, poichè poteva farlo senza essere veduta. — L'ultimo dei farmaci ebbe il merito della riescita; quel merito che a nient'altro era dovuto, fuorchè ad una spontanea crisi indotta dalla robusta costituzione dell'inferma. Quando Agnesina ricuperò i sensi, il giorno volgeva al tramonto; ma la luce era scemata, non tanto dall'ora tarda quanto da un uragano, che si scatenava improviso e terribile. — Ad un'anima già oppressa da tanti dolori, quello spettacolo era un fatale sopracarico di mestizia. Ma Canziana, nel vedere tornare alla vita la sua diletta padrona, respirò liberamente; e rinviate le lacrime, che da qualche ora trovavano facile corso dal cuore agli occhi, ringraziò il Signore, che aveva esaudito le sue preghiere. La fanciulla risvegliandosi cercava invano di raccogliere gli sconnessi avanzi delle sue memorie: i sensi, resi più irritabili dal protratto riposo e scossi bruscamente dall'intermittente guizzar del lampo e dal rombo del tuono, non le porgevano alcun ajuto nella ricerca. Colla scorta di quella luce sinistra, vide però chi le stava a fianco, ed alzate le braccia, cercò stenderle verso colei, forzandole ad un amplesso. Lo prevenne la buona donna, e, chinatasi alquanto, raccolse l'affettuosa stretta, dicendo sommessamente e col solito tono di famigliarità: “Come state, figliuola mia?„ “Ho la testar greve, e confusa: dimmi Canziana, che è avvenuto?„ “I vostri occhi si chiusero.... quando fu chiuso....„ e non soggiunse altro; chè non ebbe cuore di pronunciare la parola. A questo solo detto, la mente di Agnesina si scosse dal suo letargo; le idee ripigliarono un corso ordinato, sorvolando gli eventi. — In tutta la sua vita Agnesina aveva tenuto in gran conto l'amore della sua governante; operoso e vigile amore, che sapeva trovar sempre il mezzo per conciliare il dovere coll'indulgenza. Ma quanto pronto era il cuore di Canziana a compatire e a perdonare, altretanto il carattere docile e la naturale saviezza della fanciulla lasciavano fin qui inoperosa una sì buona disposizione. A mente scarica, come era Agnese nel seno della sua famiglia, non aveva mai chiesto al cuore di Canziana alcun conforto, come non le aveva mai affidato alcun secreto. — Ora le cose erano mutate d'assai. Quasi non bastasse la terribile sciagura del padre, la fanciulla aveva un'altra spina nel cuore; nè poteva farne tacere il rammarico, nè condannarne le insistenti memorie, poichè quelle due ferite avevano alcun che di comune fra loro; l'una doleva di consenso coll'altra. Già prima d'ora le cadeva in mente d'aprirsi colla buona compagna. E il prometterlo e l'eseguirlo le parevano la più facile cosa del mondo. Ma all'istante di intonare il discorso, qualche nuovo ostacolo la consigliava a ritardar la confidenza ad altro momento — Tale dubiezza si presentava ad Agnesina come una tacita accusa; invano ella si sforzava di ripigliare la sua ordinaria sincerità; ad ogni istante le sembravano crescere le ragioni per contenerla. Erano le cose a questo punto, quando il fortuito indirizzo di un dialogo la collocò rimpetto a Canziana in posizione sì nuova e compassionevole, da farla credere degna di tutta la sua indulgenza. Questa volta non le fu d'uopo d'invocare coraggio; n'ebbe più del bisogno. Le sue parole furono qualcosa meno di una franca confessione; qualcosa più di un vaniloquio involontario, provocato dalla febre, ma veritiero. LI. “Quale rumore è mai questo!„ — chiese Agnesina trasalendo ad una forte detonazione. “Gesummaria! riprese l'altra, deve essere scoppiata la saetta; che Dio ne guardi.„ — E si strinse alle coltri, e fece il segno della croce. “Una volta anch'io tremava dell'ira degli elementi.... Ora v'ha di peggio al mondo....„ “Figliuola mia, chi ha la coscienza netta come voi, non deve aver paura. Il Signore non vuol far male alle sue buone creature.„ “Canziana, tu parli da quella santa donna, che sei; ma o non mi comprendi, o per pietà di me non mi rispondi a tono — Solo alcuni giorni fa io era innamorata della vita, e tremava d'ogni nonnulla che la minacciasse. Ora il gran male, se Dio mi chiamasse.... Solo mi dorrebbe per te, mia buona amica....„ “Vergogna! alla vostra età... con ogni ben di Dio... Non vi fate sentir più a ripetere di tali spropositi; o ne andrò in collera.„ “No, hai troppo buon cuore per sentirti offesa di quanto ti ho detto — Se fossi padrona di scegliere tra il vivere con te o col mio povero padre, che mi consiglieresti tu di fare?„ “Di far la volontà di vostro padre, stando con me; — rispose francamente Canziana eludendo la dimanda con un bisticcio. — La gioventù non cura la vita: tocca a noi, che sappiamo cosa essa vale, a sconsigliare la colpevole noncuranza di questo dono del cielo. — Se la tempesta ha schiantato l'albero grosso, doppia ragione di tener custodito il rampollo che gli cresce vicino.„ “Dio mi perdonerà se non so apprezzare come si deve questo dono della vita. Comprendo che sono intolerante de' miei dolori, e che non so ricevere la sventura come una prova della predilezione del cielo. Io piango anche su me; perchè non so essere rassegnata: io dispero, o amica, di veder restaurato il culto de' miei domestici affetti. Imploro solo la forza per soffrire; imploro nuove lacrime da versare. — Quando era bambina tu m'hai insegnato che i felici del mondo ignorano quale sarà il dimani. Fatale privilegio degli sventurati! essi lo sanno. Sì; è facile che d'improviso la fortuna ne volga le spalle e cangi le gioje in pianto; è impossibile che ella ci ridoni d'un tratto co' suoi favori il perduto sorriso. — Dimani, diman l'altro, fra un mese od un anno, io sarò sempre l'orfana d'oggi; nessuna cosa al mondo avrà occupato il posto vuoto del mio cuore; nemmeno la potenza celeste mi renderà le carezze di mio padre, il conforto delle sue parole, la guida de' suoi consigli. — Tu già ti prepari a dirmi, che il tempo è rimedio a grandi mali. E che vuol dir questo? forse che il mio male cesserà d'essere grande per ciò? o non piuttosto che le mie forze cadranno esauste sotto il suo peso, e che le fonti delle lacrime saranno inaridite?„ “O Agnesina, proruppe la governante con un accento di angoscia inesprimibile, o figliuola mia, non parlare così. Quel che voi dite sarà vero, perchè l'avrete letto ne' libri; ma, credetelo in nome di Dio, che il vostro dolore è ancora più forte della vostra disgrazia. — Doletevi, piangete, pregate; ma non rinunciate alla speranza. — Io sono una povera donna; ma ho del cuore, e quello che esso mi detta mi pare giusto come le parole scritte nei libri. — O Agnesina, il cuore non dice a voi, come a me, che gli antichi affetti vivono ancora? piangete la morte di vostro padre, perchè non vi è dato di vederlo, di ascoltarlo; ma non sperate voi di sentirlo, o meglio non lo sentite voi già nel fondo dell'anima vostra, come più volte udiste la voce di quell'anima santa di vostra madre? non avete voi fede, o Agnesina? Ebbene: ogni volta che il cuore vi inspirerà una buona azione, voi avrete udita la parola di lui: ogni volta che la manderete a compimento, potrete dire d'aver seguito i suoi consigli. Se i nostri cari ci abbandonano morendo, noi possiamo seguirli colla fede e colla preghiera. V'ha dei santi, non è vero, che vegliano alla salute dell'anima nostra? chi ci ha amato tanto quaggiù, potrà obliarci nel seno di Dio?...„ Questi detti, pronunciati con un accento amorevole, produssero sull'animo di chi li ascoltava il desiderato effetto. Agnesina avrebbe voluto rispondere, ma la commozione le toglieva la parola; levò lo sguardo, e fissò la donna con occhio non fosco ed asciutto come poco prima; una lacrima le spuntava sul ciglio, e la fronte, senza far onta al giusto dolore, s'era alquanto rasserenata. — Canziana, con un trasporto di tenerezza materna, v'impresse un bacio; e, scorgendo che le sue parole erano state efficaci, pensò d'insistere nell'uso del rimedio, associando alla potenza de' suoi affetti, l'autorità dell'altrui dottrina. Interpretò il tacere della fanciulla come un invito a parlare; e si valse di esso per ripeterle un racconto, che aveva udito in altri tempi, e della cui sapienza aveva fatta la prova in simili occasioni. “Avrò sempre in mente finchè vivo, ripigliò ella, le parole di Fra Paolozzo da Rimini. Quel santo, (ne avrete ben sentito a parlare anche voi?) che passava l'intera quaresima predicando, senza toccar cibo di sorta, e non nutrendosi che d'acqua e di orazioni[19].„ Agnesina fè cenno col capo di sapere di che si trattasse. “Era il dì dei morti di non so quale anno; io aveva di recente perduto un fratello, al quale volli ogni ben mio; povero Arrigo, egli era una perla. Il caso o, per dir più giusto, la providenza, mi fece capitare in una moltitudine, che cogli occhi rivolti in su e colle labra spenzolate, tutta mesta e compunta, ascoltava la parola del Signore dispensata da Fra Paolozzo salito sul pulpito. — Quelle parole, che allora e poi nei molti travagli della vita furono la mia consolazione, s'attagliano mirabilmente al caso nostro. È una parabola sì chiara, che ognuno la comprende di volo. — Due prigionieri, diceva il frate con un linguaggio più acconcio del mio e avvalorato da testi latini che io non seppi ritenere a memoria, vivevano insieme in un carcere comune. La storia non dice perchè vi si trovassero, dice solo che un bel dì il principe, ricordandosi di quei due infelici, pensò di far grazia ad uno e lo fece porre tosto in libertà. Credereste? il prigioniero scarcerato abbandonò a malincuore le sue catene, dolendosi di lasciarvi il suo compagno. Figuratevi l'altro! — Costui, rimasto solo, sentì raddoppiarsi il peso de' suoi ceppi; la pena gli divenne d'improviso insopportabile; ei piangeva, piangeva giorno e notte, negando a sè ogni conforto ed ogni speranza. Ma la cosa non andò sempre ad un modo; in capo a pochi dì, lo sgraziato s'avvide, che il libero amico non lo aveva posto in oblío, e che la libertà di lui gli tornava assai più utile che la sua compagnia. Infatti per opera sua penetrarono nel carcere i mezzi di menar meno stentata la vita; ebbe per lui di che far schermo ai bisogni, e trarre conforto nella solitudine; finchè venne il dì, e quel dì non fu lontano, che per intercessione dell'amico si vide ridonato alla libertà, e franco da ogni pena. — Ora comprendete voi il significato di quest'esempio? La prigione è la vita umana; il prigioniero scarcerato è l'uomo che muore; quel che rimane e piange, è l'imagine del superstite. I conforti che gli vengono portati in carcere sono le sante ispirazioni e il patrocinio dei poveri morti; e la libertà acquistata per intercessione dell'amico è il dono del cielo di morire nel Signore.„ Per una povera donna come Canziana, che seguiva la corrente dei pregiudizii, e che non sempre era felice nel riconoscere la verità in mezzo al guazzabuglio di errori di quel vulgo e di quell'epoca, uno squarcio sì bene appropriato era una prova di fino accorgimento: molto più che ella non sapeva, come sappiam noi, che il male d'Agnesina non veniva tutto da una sola cagione. Ma siccome avviene talora, che un rimedio impropriamente applicato alla guarigione di male ignoto, pur giova all'infermo, mettendo in evidenza la causa secreta dei suoi dolori e la via più acconcia a calmarli; così quelle parole, benchè rispondessero imperfettamente ai bisogni d'Agnesina, destarono in lei, coll'antica fede, il coraggio tutto nuovo dì essere schietta, e le offrirono l'unico mezzo di riconoscere meglio il suo male e di applicarvi il vero ed efficace rimedio. LII. “Io dunque, proruppe Agnesina con uno slancio di devoto affetto, io pregherò il mio santo protettore, che m'ottenga il perdono del passato, e vegli su me per l'avvenire. Farò ciecamente quanto esso mi inspira; nulla mi sembrerà grave, quando mi venga consigliato da lui. In lui troverò i mezzi a raggiungere il più difficile intento.... E quando pure mi si chiedesse d'obliare.... ciò che ora vive ed arde nel mio cuore, io saprò farlo, se egli mi ajuta....„ “Voi parlate di perdono, chiese meravigliata Canziana, ma perdono di che?... Che mai avete voi a fervi perdonare?„ “M'amerai tu ancora e sempre?„ ripigliò Agnese con un accento, ancor più del solito, amorevole. “Voi mi fate paura... Dubitate forse del mio affetto?„ “No, Canziana, no.... questo è impossibile.„ “Ma in nome di Dio...„ Uno scoppio di pianto aperse il cuore ed il labro di Agnesina ad una schietta rivelazione di tutto ciò che aveva nell'animo. E quanto ella era stata timida nel tentare la prima confidenza, altretanto divenne poi sicura e fiduciosa nel procedere in esse. Il suo cuore non avrebbe mai adottato una mezza misura. — O inghiottir tutta e tacere; o far partecipe di tutto l'amica e parlar schiettamente. Raccontò, come noi e meglio di noi, tutta la storia de' suoi affetti. Dall'istante in cui richiamò i sensi smarriti del conte e ne udì la prima volta la voce, scendendo mano mano a quello in cui ricevette il suo addio, tutto disse, tutto svelò con una purezza di linguaggio, ed un abbandono di cuore, che invano avremmo noi tentato d'infundere nelle nostre parole. Canziana, nel disporsi ad ascoltarla, provò quel vago terrore, quella penosa incertezza, che risentiamo nell'aprire una lettera suggellata a lutto. L'alta stima che ella nutriva della mente e del cuore d'Agnesina era una valida ragione per consolarsi: ma quell'esordio l'aveva mal disposta. Teneva quindi dietro al racconto col desiderio d'essere presto alla fine, quasi fosse trascinata sur una via malsicura, dove ad ogni piè sospinto temesse agguati ed insidie. E intanto ascoltava; e ad ogni fatto riposto nel novero delle cose innocenti, metteva un respiro più libero. Così, fra il timore e l'incertezza, giunse alla fine, senza incontrarvi alcuno dei sospettati scioglimenti; e come prima aveva moderato le apprensioni, frenò poscia la contentezza; perocchè il mostrarsi troppo lieta del suo inganno era quanto dire: io pensava meno bene di te, figliuola mia. Il male (se pure v'era male) non si palesava dunque dalla natura dei fatti per sè innocentissimi, ma dal modo di narrarli; poichè le parole d'Agnese tradivano la passione. Canziana il comprese; e nel mentre si rallegrò al veder ridotta in salvo la virtù della fanciulla, dovette deplorare la pace di lei conturbata, e quella consapevolezza del male, che è un primo e lieve offuscamento dell'innocenza. — Ma tenne anche questo pensiero dentro di sè; concludendo che male proprio non c'era; o che se ci fosse, abbondavano i mezzi per guarirlo. E l'unico sovrano rimedio anche per ciò doveva essere, secondo lei, il tempo. “Comprendi ora la mia situazione, — ripigliò poco dopo Agnesina, — e mi compiangi. Colui che io amo e posso amare mi abbandona; rimane quegli che io debbo cancellar dal mio cuore. Non ho io ragione di pregar il Signore che mi faccia tener dietro a mio padre?„ Canziana ebbe il buon senso di non procedere con zelo soverchio nel suo officio di consolatrice, propinando alla desolata, malgrado suo, il balsamo indigesto delle frasi ordinarie, che si usano in simili occasioni. Il primo, il più gradito conforto che possiam dare a chi soffre, è l'assicurarlo che comprendiamo i suoi mali, e ci associamo a lui nel dolore. Solo quando l'animo è più riposato, riesce opportuno il dar mano a quei rimedj che lo rassodano nella toleranza, e gli crescono forza per lottare contro l'avversità. — Era notte avanzata, e le due donne discutevano ancora su tale argomento. La fanciulla provava un senso di dolore non scevro da qualche diletto. E quel diletto, diciamolo, non nasceva soltanto dallo spontaneo obedire all'impero del cuore, i cui sentimenti per una forza espansiva loro propria cercano l'equilibrio nei cuori omogenei, ma veniva cresciuto dalla necessità di ripetere un nome caro, e di richiamare su di esso il rispetto e l'amore della compagna. Questa, nel concederle tale sfogo, aveva di mira di procurarle un sensibile alleviamento; e più ancora di accaparrare per sè e per l'avvenire l'intera sua fiducia. La buona donna non rassomigliava a coloro che, nello scorrere un libro, succhiano la sapienza da quel foglio soltanto, che hanno dinanzi agli occhi. Canziana tornava indietro sovente nel leggere quel libro che si chiama la vita; ed evocava la sua stessa gioventù, per ricordarne i piccoli travagli, e con essi le gradite consolazioni delle amiche, e sopratutto l'indulgente pietà della madre. — Nell'amare Agnesina, ella non rinunciava al vanto di meritare questo nome dolcissimo. LIII. Se a tener viva la discussione non fosse bastata l'indole del soggetto, v'avrebbe contribuito l'opportunità del momento. L'intemperie, ben lungi dall'essere sedata dopo uno sfogo di molte ore, pareva ripigliare con maggior impeto. E ad ingannare l'insonnia e lo spavento cagionati dalla terribile armonia della bufera, nulla era più conveniente alle donne, che lo star vicine vegliando e conversando. — Era poco lontana la mezzanotte, quando in un istante di silenzio, parve ad Agnesina udir battere al portone del castello. “Che è?„ — disse ella, stringendosi nelle spalle con un moto di sorpresa, e stendendo in avanti la destra per invitare la compagna a stare in ascolto. Pochi minuti dopo si fece udire un raddoppiamento di percosse forti e concitate; alle quali risposero i mastini di guardia. “Chi può essere?„ — sclamarono all'unisono le due donne dando al sùbito terrore la forma di una oziosa interrogazione. Ognuna ricordava la visita fatale di tre notti addietro. “A quest'ora, e col tempo che fa!...„ — soggiungeva Canziana, facendo una pausa assai significativa: e stava in attenzione per indovinare che avvenisse, ma il ripigliar del vento eludeva ogni ascolto.... “Scommetterei, ripigliava essa, che il portinaio preso dal sonno non avrà udito, e che appena desto sarà più sollecito ad aprire che a domandar chi è. — Che Dio ne guardi.„ In quella penosa aspettativa surse fra le interlocutrici una gara di ragionamenti per rinfrancarsi a vicenda. L'una tentava di combattere i timori dell'altra, provando non già chi potesse essere il misterioso ospite, ma chi per certo non era. Un famiglio? no: un viandante? si sarebbe indirizzato all'ospizio dei pellegrini... Neppure un uomo a cattive intenzioni, poichè non avrebbe posto l'allarme in tutto il castello colle sue chiamate. Quanto a ciò, le ragioni erano buone, ma non sufficenti a calmare del tutto le apprensioni! — “le intenzioni di malvagi, pensava Canziana, sono torbide ed incommensurabili come l'acqua di una pozzánghera.„ “Zitto, — sclamò sommessamente la donzella accompagnando la parola col gesto; — non m'inganno; non odi tu lo strepito leggero di una pedata che monta i gradini della scala interna?„ Canziana faceva cenno di sì; ma forse non udiva altro che il martellare del suo cuore. — E in quella sospensione d'animo, che si propaga fra i timidi e può diventare un delirio come il coraggio, si avvicinava alle coltri della fanciulla, e vi si stringeva; poi cercata una mano di lei, serrandola nelle sue fortemente, pareva volesse dimandare e promettere soccorso. Ma quando l'incognito penetrò nella camera vicina, ogni sospetto dileguò. Il rumore di quei passi era noto; noto il bussare alla porta, amica la voce che chiedeva il permesso d'entrare. La donna del portinajo, mentre questi proverbiava l'arrivato tassandolo d'importuno con un brontolare sottovoce, aveva l'incarico di salire alle stanze di madonna, e di riferirle che una persona venuta da Milano mostrava gran premura di parlare a lei, il più presto possibile, di cose d'alta importanza. Canziana, come è ben naturale, rispose non essere quello nè momento, nè modo di fare ambasciate; chiunque ei fosse, attendesse. Tale risposta era preveduta, poichè l'intermediaria l'interruppe soggiungendo: “abbiamo parlato dello stesso tenore anche noi; ma l'incognito, che a mio giudizio benchè burbero ha la ciera di un dabben'uomo, prese la parola per dirci: che quando madonna saprà di che si tratta, stimerà essa pure che per riferire di tali cose non si vada negli scrupoli sull'ora e sul commodo di chi deve ascoltare. — Chi ha tempo non aspetti tempo, e chi vuol star meglio pigli i passi innanzi. — Io m'incamminava per riferire tutto ciò, quand'egli mi fece tornare indietro per aggiungermi: che egli non avrebbe incommodato madonna, se altra persona venisse da lei incaricata d'ascoltarlo in sua vece. — Quando fosse certo che le sue parole erano arrivate all'orecchio della figlia di messer Maffiolo, egli si sentirebbe la coscienza scarica, e non avrebbe altro a chiedere.„ “Ma perchè non disse tutto a voi a dirittura? — dimandò Canziana? “Perchè, rispose la donzella, ei s'aprirà meglio con te. Va sùbito, ascoltalo; e corri poscia a riferirmi che hai inteso. Il cuore mi dice che la previdenza non ci abbandonerà.„ Canziana non si fece dire due volte d'andare. — L'invito di un incognito le era sembrato un comando odioso; il comando d'Agnesina le parve una affettuosa preghiera: ella volò tosto ad esaudirla. Ma giunta al luogo del ritrovo, appena ebbe fissato l'incognito, lo riconobbe per un antico cliente della casa, un protetto di Maffiolo, un di quei pochi che le avevano giovato nella sua corsa recente a Milano. — S'affrettò quindi a porre un termine alle importune sofisticherie del portinajo, salutando cortesemente l'arrivato, e invitandolo ad entrare in un salotto terreno; dove, per essere sola, spedì il portinajo, divenuto più mansueto ma non meno curioso, a cercar legna onde accendere un buon fuoco, ed a provedere checchè si trovasse per una pronta refezione. Rimasti soli e postisi entrambi a sedere, Canziana gli volse la parola: “Che abbiam di nuovo, Ginotto?„ — Costui girò lo sguardo intorno, quasi temesse d'essere spiato; poi con quella voce sommessa, che è il veicolo dei secreti importanti: — “Dite a madonna, rispose, che prima dell'albeggiare faccia in modo d'essere fuori da questo castello, e lontana da Campomorto quanto è possibile.„ “Perchè?„ — chiese l'altra con spavento, “Dite a madonna che non metta tempo di mezzo.„ “Ma in nome di Dio, che mistero è questo?„ “Ho fiutato l'aria che spira dai covi della Rocchetta. La cella di messer Maffiolo è vuota; e il signor Barnabò vuol rifarsi dell'ospite fuggiasco. Egli annasa da lontano, il sapete.„ “Ma qui non siamo vassalli del signor di Milano.„ Il popolano sorrise con amarezza, e — “dove sono i confini, ripigliò, dove i soldati e i giudici del Conte di Virtù? È forse la prima volta che il Visconti di Milano comanda in casa del Visconti di Pavia? Colui mena colpi a dritta e a manca, poi dice: il Papa ve li levi da dosso se può. Fa debito coi vicini, li confessa, e li salda a suo modo. Per carità, non mi fate dir altro. Qui non siamo a Milano, ma gli artigli di Barnabò arrivano fin qui, ed oltre, se ei li spiega e li arrota.„ “Voi mi mettete i brividi. E che dobbiam fare dunque?„ “Ve lo dissi. Svignare a tutte gambe, senza dir motto, e tosto.„ “E dove?„ “Dove meglio v'aggrada; purchè nemmen l'aria lo sappia.„ “Ma alla fin fine, che male si oserebbe fare a madonna? Quali sono le sue colpe, i suoi torti?„ “Che Dio vi perdoni la vostra caparbietà. — Ahi, tristo assunto il drizzar le gambe ai cani! Dovrei dirvi: restate e vedrete; ma non ho cuore d'esporvi a subire una lezione troppo severa. Voi dovreste sapere come vanno queste bisogna. — Il signor Barnabò, voi dite, è troppo alto birbone per spendere le sue forze in queste inezie; lo credo anch'io. Ma quando è in vena di far caccia, lascia scapricciare i segugi anche sur un carcame di leprattino, onde apprendano il mestiere. — Egli avrà detto a' suoi sgherri: Campomorto è roba di rubello, fatene quel che v'aggrada, ve lo do a còttimo. — Lasciate la roba a costoro; ma voi fuggite, perchè, se trovassero qui madonna, andrebbero superbi di presentarla al loro padrone, come il pellegrino, che vien da terra santa, una reliquia.„ “Santo Iddio! ripigliò Canziana, quel che mi dite è pur troppo assai probabile. Se vi ho messo avanti qualche difficoltà, non è che dubiti delle vostre parole; è che, per togliere madonna dal letto ove giace indisposta, e metterla sur una via nel fitto della notte e con un tempo sì indiavolato, ci vuole una ragione forte. Questo che voi mi dite lo è fatalmente; lo è, e dà il tratto alla bilancia. Andrò dunque da lei, e le racconterò il tutto. Poveretta!... intanto voi asciugatevi, e pigliate qualche ristoro. — Dio vi ha bene ispirato, ch'egli vi rimuneri della vostra buona azione.„ — Ed avviandosi a fare la dolorosa ambasciata, ripeteva fra sè “oh Signore Iddio che mare di disgrazie! quanti accoramenti! O vergine santa, ajutateci voi...„ e framezzava le invocazioni coi sospiri. CAPITOLO OTTAVO LIV. Quella notizia così inattesa e così grave aveva provocato in Canziana una certa tendenza all'incredulità, che parebbe attestare coraggio: ma in fatto non era essa che l'istinto di mercanteggiare colla ragione qualche appiglio ad illudersi, onde acquetare gli spiriti e provedere. Le cose poi erano condotte a tal punto, che, se anche una più autorevole persona fosse venuta a distrugger le dolorose impressioni di quella notizia, narrandone altre d'indole opposta e più autentiche, ella non avrebbe mai sconsigliato Agnesina dal pigliare il partito sicuro. Restava a porre in discussione la scelta del luogo; ed è appunto questo, che impegnò il più vivo discorso fra le due donne. Agnesina, all'udire quanto le veniva imposto, sclamò piangendo: — “Mi si vuol togliere anche il conforto di vivere nella casa de' miei maggiori; ebbene, me ne andrò; almen dopo non si avrà più nulla a dimandare a questa sgraziata famiglia.„ “Coraggio, madonna, coraggio, le diceva Canziana che non ne aveva punto. Obediamo all'avviso, e partiamo.„ “Ma dove, e quando?„ “Il quando lo so; perchè mi fu detto. — Partiam tosto.„ “A quest'ora, con nessun'altra guida che quella dei lampi; colle strade quasi impraticabili, con una notte, in cui l'ira del cielo pare scatenata su noi!„ Canziana accompagnava queste parole con un chinar del capo, che voleva dire approvazione; ma ad un tempo si stringeva le spalle con un altr'atto ancora più significativo, che valeva quanto il proverbio: bisogna fare di necessità virtù. “Tu mi fai coraggio a partire; ebbene si parta — disse risolutamente Agnesina balzando dal letto, ed abbigliandosi. — Sarà quel che Dio vuole, affidiamoci a lui.„ “Rimane a decidere un'altra cosa: dove andrem noi?„ chiese la compagna. Alla fanciulla venne in mente Pavia; e si arrestò sulla sua idea con qualche compiacenza. Ma non osò tradurla in parole; sperando forse che Canziana potesse da sè e spontaneamente far cadere la scelta sullo stesso luogo. Questa taceva e meditava e, per verità, fra le sue proposte, Pavia sarebbe stata indubiamente l'ultima. “Più lungi da Milano che sia possibile„, prese a dire Agnesina, volendo indurre la compagna a proporle quanto essa avrebbe preferito. “Sì, per certo; onde non correr rischio d'incontrare la masnada. — Vengono essi dalla Pieve; noi li precederemo a Pontelungo.„ “Io non ho parenti o conoscenze da queste parti, e poi se ne avessi.... dar loro degli impicci, e trarli nella corrente delle mie disgrazie: me ne guarderei bene.„ — E in dir ciò la povera fanciulla aveva ancora il suo secondo fine: chè, a forza d'esclusioni, pensava di trarre la consigliera nel suo avviso. Ma Canziana era o pareva essere di una ingenuità incorreggibile; perchè pensava sul serio al ripiego, e non aveva pel capo altro cruccio che quello d'arrivare a mettere la sua padrona in salvo da' pericoli di qualunque genere. Agnesina era fanciulla a forti passioni, a volontà deliberata, a fermi propositi; accarezzando il progetto che la ravvicinava al Conte di Virtù, non faceva che obedire ad un moto imperioso del cuore: ma essa non era meno docile agli avvisi altrui, e facile a dubitare di sè stessa. Impiegò pertanto ogni astuzia feminile, onde mettere innanzi agli occhi di chi la consigliava ciò che ella avrebbe bramato di sentirsi proporre; ma non volle dir tanto, che altri potesse indovinare il suo secreto; anzi, malcontenta d'aver troppo osato, preferì di rimettersi per intero ai consigli di Canziana, fidando interamente nell'affetto e nella consumata esperienza della buona donna. Forse Canziana indovinò tutto; ed ebbe il gentile pensiero di tener lontana ogni discussione, onde non spingere la fanciulla a dir ciò che ella poi avrebbe dovuto combattere. — Non permise quindi che Agnesina errasse più a lungo nell'incertezza; e, posto in campo un ripiego, lo sottomise alla decisione della fanciulla, colla schietta serenità di chi fa una scoperta, più unica che bella. “Oh to'! una felice idea, — sclamò ella, percuotendosi leggermente la fronte, da cui stava per uscire una bella trovata. — A due miglia più abbasso da Campomorto, prima d'arrivare a Vallombrosa, non conoscete voi il casolare di Farinello il mugnajo?„ “Sì„ — disse meravigliata Agnesina, fingendo non comprendere a che mirasse l'interrogazione. “Quella stamberga è fuor di tiro d'ogni curioso.„ “È certo — ripigliò l'altra forzandosi a trovar bello un progetto che distruggeva di colpo il suo. — È forse là, che tu pensi di condurmi? “Mi pare impossibile, all'ora in cui parliamo e al tempo che fa, trovar di meglio. Quel casolare, chiuso fra due rami dell'Olona, è fuor di strada: chi diamine oserà dubitare che in esso stia rinchiusa la castellana di Campomorto?„ “Hai ragione; non è possibile trovare un luogo più opportuno e più sicuro di questo.„ “V'arriviamo in meno di un'ora: sapete?„ “Lo credi tu?... tanto meglio.„ “Di là potremo, quando ne aggrada, spedire gente a vedere che avviene a Campomorto; e staremo sulle guardie.„ “È vero.„ “Un altro vantaggio..... Non avremo a dir grazie a nessuno....„ “Perchè tutto sarà generosamente pagato, aggiunse la donzella.„ “Troppo giusto. Ma nell'additarvi l'abitazione di un poverello, non ho scelto a casaccio. È bene che lo sappiate. Il vecchio mugnajo è una nostra conoscenza fin da prima che voi veniste al mondo. Vedrete che buona cera ei farà alla figlia di messer Maffiolo, di santa memoria; perchè, se il dabben uomo macina pane pei suoi figli, gli è pel merito del vostro genitore, che Dio abbia con sè. Senza lui, Farinello sarebbe morto di fame, sapete. Vi conterò tutto durante il tragitto; intanto non più indugi. Fatevi coraggio, madonna; vo a dire a Gianni che appresti la lettiga a due, e torno subito.„ Canziana garriva contro voglia; come suol cantare il fanciullo quando è al bujo, ed ha paura. Per ingannare Agnesina, avrebbe voluto cominciar dal trarre in inganno sè stessa. Faceva la disinvolta perchè quella scossa riescisse meno aspra alla sua diletta. Ma come poteva infundere ad altri la calma, che non aveva per sè? Non appena infatti escì da quella stanza, tornò di nuovo la creatura dubiosa e sgomentita di prima; e non fece mistero alla gente di casa, come quella facenda le pesasse sull'animo. Le strettezze del tempo, l'ansia e l'urgenza del momento, contribuirono a restaurare quanto bastava le forze di Agnesina. — Completamente abbigliata, come richiedeva quel tragitto, avvicinossi un istante alla finestra e tentò di far capolino per giudicare del tempo. Un colpo furioso di vento diede un crollo spaventevole alle imposte, ed una spruzzaglia d'acqua le flagellò il viso con tale impeto, che per poco non ne fu gittata a terra. In quel mentre, al chiarore prolungato di un lampo vide Canziana, che faceva crocchio coi famigli, e probabilmente dava loro degli ordini. Comprese dai gesti, che tutti gli abitanti del castello erano commossi da quelle notizie: vide che la lettiga era già collocata sotto il vestibolo dell'uscita; e che un servo s'affrettava ad allestirla. Agnesina, ritirandosi dalla finestra poichè tutto era rientrato nel bujo, pensò far tesoro di quel poco tempo per raccogliere quanto possedeva di più prezioso, onde sottrarlo alla profanazione degli invasori. — Enumerò nella mente quali oggetti avrebbe potuto portar via con sè, quali altri conveniva nascondere o consegnare in deposito a persona discreta e fuor del castello. Pose tra le prime lo scrignetto degli ornamenti feminili, prezioso pel valore degli ori e delle gemme che conteneva, e più ancora per le care memorie che v'erano raccomandate. Spettavano quei giojelli a sua madre; e le ricordavano le parole di Maffiolo che, dipingendo le splendide corti d'Azzone e di Luchino, soleva rammentarle i trionfi della pudica bellezza della sua sposa, le gare gelose e le invidiuzze delle rivali. E in portar l'occhio a quel tesoretto le tornava sempre alla mente l'atto cortese, con che suo padre lo ripose nelle sue mani, dicendo: “òrnati, o fanciulla, di queste gemme, condannate sempre ad essere meno belle di chi le porta.„ Unitamente ai monili, alle collane e ad altri vezzi, riponeva alcune carte, cui ella dava un valore ancor più grande. Erano lettere di sua madre, canzoni da lei copiate e postillate sul margine, fiori diseccati, farfalle, miniature e nastrini; inezie, insomma, già guaste dal tempo, ma preziose sempre per le vive memorie, che ridestavano. — Solo esitò un momento se dovesse riporre fra quelle sacre reliquie un rotoletto di pergamena che, dalla freschezza del colore e dalla consistenza, appariva essere cosa recente. Dubitava Agnesina, e perchè? Quel foglio conteneva alcuni versi del Petrarca squisitamente, se non correttamente, copiati dal Conte di Virtù negli ozj della sua convalescenza, e da lui dimenticati (dimenticati?) nelle sue stanze prima di partire. Era quel ben noto sonetto del canzoniere di messer Francesco che comincia così — “pace non trovo ecc.„ — e del quale il conte aveva trascelto le due seguenti terzine, perchè s'attagliavano perfettamente al caso suo: “Veggio senz'occhi, e non ho lingua e grido, E bramo di perir, e chieggio aíta, Ed ho in odio me stesso, ed amo altrui. Pascomi di dolor, piangendo rido; Egualmente mi spiace e morte e vita, In questo stato son, Donna, per vui.„ Tale scritto era stato trovato, come si è detto, sullo stipo del conte; e chi l'aveva scoperto, non sapendo leggere, lo rimise nelle mani di Agnesina. Questa con appassionata indulgenza accolse di buon grado la dichiarazione pel modo onesto con cui le veniva fatta; e ripose quei versi tra gli altri ricordi, giustificando il privilegio, col dire che anche quello era per lei ricordo di persona morta. Accorreva finalmente Canziana a questa bisogna; e, persuasa pure della necessità di sottrarre ogni cosa preziosa all'avidità dei saccheggiatori, raccoglieva nel mezzo della camera quanto giudicava più meritevole di essere riguardato. Ma la sua scelta, come è naturale, era fondata sur un diverso calcolo; secondo lei avrebbesi dovuto portar via tutte le suppellettili, anzi tutto il castello, perchè non trovava briciolo che meritasse d'essere abbandonato alle mani sacrileghe degli uccisori di Maffiolo. LV. Tutto era in ordine: bisognava partire. Le due donne discesero per una scala secreta, avendo cura di non far rumore; giacchè la dolorosa partenza era nota soltanto alle persone strettamente necessarie a mandarla ad effetto. I lettighieri attendevano coperti e incappucciati da grosse carpite per difendersi dalla pioggia. Un ciuffetto di paglia proteggeva la testa dei muli, ed una falda di ciperoidi il tetto della lettiga. L'interno di questa riboccava di fardelletti, di balle, di involti a varia forma e misura; tanto che pareva non capirvi più nulla. Pure, Agnesina trovò modo di collocarvisi alla meglio. L'altra stette nè seduta nè in piedi, ma non accusò disagio; chè, più del fastidio di sentirsi affogare fra tante robe, provava il rodimento per quelle lasciate addietro. Quando la lettiga esci dal castello, l'uragano, ben lungi dall'essere sedato, parve ripigliare con maggior forza. Le tenebre, scarsamente diradate sul passo dai lampioni dei lettighieri, erano a quando a quando bruscamente rimosse dal subitaneo splendore dei lampi. Un rumore vario, prolungato, composto di molti suoni, sembrava un'artistica trovata per tradurre in un armonia lamentevole le convulsioni della natura. Sul muto e monotono scrosciar della pioggia degradavano, in una scala di toni varii e mestamente modulati, i fischii del vento, ora alti ed assordanti, ora cupi e prolungati, secondo che i buffi radevano il piano, o s'imprigionavano nelle fratte, o erravano in mezzo agli alti fusti delle selve. Serviva di ripieno allo spaventevole concento lo scoppiar dei tuoni, quando subitanei e fragorosi, quando lungamente trascinati come un urlo lontano ripetuto più volte dall'eco. Ciò che l'occhio non giungeva ad iscorgere, veniva dimostrato in modo più evidente dagli stessi disagi del cammino. La strada percorsa dai nostri fuggiaschi erasi a rigor di parola cangiata in un letto di torrente. Al passo ineguale ed interrotto dei muli, al suono delle pedate che sguazzavano nella mota, all'improviso arrestarsi, quasi che venisse meno la lena delle bestie, ai sussulti che dai bruschi movimenti di queste si propagavano alla lettiga, era facile l'indovinare in quale stato fosse ridotta. Ad ogni tratto era prudente il far alto, per scandagliare il terreno, e scegliere il sentiero meno pericoloso: altra volta l'arrestarsi era necessità, per lasciare pigliar fiato ai muli. A rimetterli poscia in cammino la voce consueta dei lettighieri era vana; ci volevano minacce, grida e flagellature. Spesso i lettighieri erano costretti a salire in groppa, onde attraversare un rigagnolo; e alcuna volta il fondo della lettiga pescò tanto nella fanghiglia, che i piedi delle viaggiatrici ne furono imbrattati. Agnesina non era impaurita, ma commossa: un brivido le correva per le membra, e le faceva battere i denti. Canziana, meno sensibile ai disagi, era in vece in preda ad un deciso terrore. Solo le avanzava quanta lena bastasse per recitare delle orazioni, e per smuovere alla meglio gli oggetti sul fondo della lettiga, onde sottrarli al contatto del pattume. Il tragitto durò il doppio del tempo preveduto. Per buona sorte, i conduttori e le bestie non smarrirono la via, e, quando fu necessario abbandonarla e deviare sui campi per evitare qualche difficoltà, seppero rimettervisi tosto. Presso la meta, la strada era attraversata da quel ramo dell'Olona che, come si è detto, formava del podere di Farinello un'isoletta. Un ponte di legno, costrutto come poteva e sapeva fare il nostro mugnajo, apriva le comunicazioni tra il mulino e la strada di Campomorto. Quella costruzione, la più semplice e meschina che mai si fosse veduta in simil genere, consisteva in una grama impalcatura gittata a cavallo del rivo e sostenuta nel mezzo da un rozzo congegno di spranghe e pontoni. — Questo povero lavoro del nostro povero artefice aveva però il carattere delle cose di gran lusso. Farinello mutava più spesso di ponte che non di scarpe o cappuccio; ad ogni piena del fiume, cavalletti, spranghe e pontoni calavano nella corrente; ed era grazia s'ei giungeva a ripescare il materiale travolto qualche miglio lontano. Tale disastro s'era verificato anche questa volta; i lettighieri, o meglio le bestie, se ne avvidero in tempo, e s'arrestarono sulla riva. — Dopo aver tentato invano di farsi udir dal mugnajo, assordato dal rumore dell'uragano e dalla cataratta della gora, i conduttori dovettero staccare un mulo; ed uno di essi, attraversato sulla groppa il ruscello, corse alla porta del mulino a cercare soccorso. Farinello era troppo povero per chiedere due volte “chi è„ a chiunque picchiasse alla sua porta. La miseria era il suo scudo contro ogni mal volere di briganti o di ladri; la mansuetudine del suo carattere lo faceva star d'amore e d'accordo con tutto il genere umano. Egli, che avrebbe aperto ad uno sconosciuto ancorchè gli chiedesse ciò ch'ei non possedeva, qualcosa non doveva fare se il chiedente era la figlia del suo benefattore, e la cosa richiesta stava in sua mano? L'avvicinarsi del lettighiere alla porta del casolare era stato annunciato dal piccolo cane, sentinella avanzata dell'isola; ma, in quella notte burrascosa, la povera bestia, costretta a vegliare dal canile, non aveva mai concesso un minuto di riposo alle sue fauci; il perchè, quei suoi latrati, anche quando non erano lo sfogo d'un vano malumore, furono accolti presso a poco come una bella e buona verità detta da un ciarliero. Fu la mugnaja che distinse i passi d'un uomo, ed invitò il marito a stare in attenzione. Questi udì, comprese, balzò dal letto, e pose il capo fuori di un finestruolo per vedere o almanco per ascoltar meglio che fosse. Non lasciò tempo al lettighiero di compire la relazione, che già era corso al giaciglio di un suo garzone, per risvegliarlo e condurlo seco all'opera. — Intanto, conoscendo all'ingrosso di che era questione, rifrugava nella mente come potrebbe più presto e meglio trarre in salvo i fuggiaschi. Abbandonò il pensiero di far passare la lettiga e le viaggiatrici dal luogo ov'era il ponte, dubitando che le sue ruine ingombrassero il guado, e che il guado dopo quel diluvio si fosse cangiato in un gorgo. Corse quindi alla parte più nascosta dell'isola, dove in un piccolo stagno cinto di palafitte era custodito un burchiello, lo staccò e, manovrando colla maestría di un pilota locatiere, lo guidò alla riva ov'era atteso dai viaggiatori. Traghettò prima le due donne, poi ad uno ad uno i muli col conduttore; infine la lettiga con quanto era in essa rinchiuso. Condotte a tetto le due ospiti, chiamò la sua compagna, e le disse: “Ve li consegno a voi, Nena, questi buoni signori: mandate quel disutilaccio del garzone a prender una bracciata di legna per accendere un buon fuoco: io intanto scenderò a legare il burchiello, onde non vada giù per la gora, o sulla riva d'altri; chè in questi frangenti il tutto è di tutti.„ — E se ne andava. Sembrava che il cielo si fosse mosso a compassione delle nostre fuggitive, perchè, durante il loro tragitto nell'isola, la pioggia erasi alquanto calmata. Farinello, a conferma de' suoi sospetti, udì da un lettighiero che madonna Agnese non partiva da Campomorto, ma che era costretta a fuggirne, per scampare alle ribalderie di un potente. V'era più di quanto abbisognava per renderlo zelante, discreto, operosissimo. Non chiese altro; fece ingoiare alla sua donna quante inchieste curiose ella sentivasi il prurito di fare su questo proposito; e s'adoprò a tutt'uomo per aumentare il credito della sua riputazione: lieto di rendere un po' di bene, a chi ne aveva fatto tanto a lui, ed inorgoglito non poco dal vedere che anche la sua catapecchia valesse in certe occasioni quanto e meglio che un castello agguerrito. LVI. Il casolare del mugnajo era... ma che vale descrivere un ridotto della più squallida povertà? Il superfluo, gli agi, gli ornamenti variano secondo le epoche ed i luoghi; la miseria, la nuda e pretta miseria è sempre eguale a sè medesima; essa rassomiglia allo scheletro umano che, in ogni epoca del mondo e presso ogni razza, ha all'incirca un sol tipo. Anche oggi, mentre la crescente civiltà chiama necessarie tante cose vane, se ci avviene d'entrare nelle abitazioni, dove vivono ammucchiate le famiglie dei contadini, vi riscontriamo spesso tale e tanto squallore, che ne pare impossibile il trovar di peggio. Nel mettervi il piede ci facciamo meraviglia al vedere come quelle mura fesse, sgretolate, fuor d'a piombo possano reggersi in piedi. E, dopo la meraviglia, proviamo una stretta di compassione, pensando, che una famiglia non condannata, ma libera, che non vende sè stessa, ma loca l'opera sua liberamente in forza di un patto, vegeta in quel covo, e ne paga una pigione. Quante volte nel visitare quelle camere uliginose, buje, mal sicure, abbiam dovuto dire: i carcerati stanno meglio di questa buona gente! E come spesso l'infermo trova nei publici ricoveri, dove pure la più stretta economia è la prima legge, tanta copia d'agi, da rendergli meno cara ed invidiata quella sanità, che per lui è sinonimo di durezze e di stenti! Senza fare appello a sentimenti di giustizia e di umanità, che con tuono severo reclamano provedimenti per questa classe di operai tanto benemerita della società, mi pare che il nostro interesse, quando spinga le sue viste oltre il profitto giornaliero e minuto, dovrebbe guidarci a generosa conclusione. — L'artefice ha cura dei suoi stromenti, l'industriale tiene in assetto le sue macchine, l'affittajuolo nutre ed alberga convenientemente la sua mandra. E perchè non si avrà la stessa cura di quello strumento, di quella macchina, di quella creatura che si chiama uomo? non è egli vero che se ne otterrebbero braccia più robuste, forze più perseveranti, intelligenze più svegliate? Ma, a proposito d'intelligenza, l'educazione del povero mette a taluno il batticuore, come al vedere una fiammella vicina al pagliajo. E perchè? Tutto sta in non arrestarsi a mezzo del cómpito: non bisogna spegnere la face finchè non si è giunto ad una meta onesta. Avete a fare con gente miope, e che dà in uno scapuccio ad ogni piè sospinto? Ebbene, invece di condurli per mano, ad uno ad uno, come ciechi, rischiarate alquanto la via, e ognuno si guiderà da sè. Quel lume gli mostrerà i diritti e, in riscontro ai diritti, i doveri che spettano ad ogni individuo; vedrà per esso che l'operar bene non è soltanto un merito quando si guardi in su, ma è profitto pronto, giornaliero, materiale. Amerà la fatica, prima perchè onesta, poi perchè produttiva. Non proverà infine quel rodimento continuo che lo sprona a levarsi al disopra della propria condizione, perchè questa non gli sembrerà più nè grave, nè spregevole, quand'è onorata. In quanto al primo richiamo, per verità, bisogna confessare che, in alcuna parte delle nostre campagne, gli squallidi abituri dei contadini furono già cangiate in belle e salubri cascine. La cosa procede lentamente in ragione dei bisogni; ma procede. — Non insuperbiscano però gli amici dell'umanità nell'idea che tale miglioramento sia una conquista delle loro dottrine. Essi sanno bene, che il flebile umanitarismo è presso alcuni tolto in sospetto; e che quella antica carità, che ci fa chiamare tutti fratelli, è per essi una bella cosa finchè non giunge a disturbar loro le beate noje. Non parliam dunque di fratelli a costoro; l'uomo per essi stia sempre in seconda linea. — Alla fine, quando avranno proveduto alla mandra, ed al bombice, qualcosa per forza si dovrà fare anche per lui....! LVII. Non inviterò dunque il lettore a gittare uno sguardo alla catapecchia di Farinello, quando gli avessi a mostrare soltanto un tipo di miseria vuoto d'ogni decoro. Ma quelle cadenti muraglie, cui s'attaccano ora le sorti di Agnese, non possono, a mio avviso, essere del tutto indifferenti a coloro che hanno preso a benvolere la nostra eroina. D'altronde, la miseria la più squallida, appunto perchè tale, offre talvolta all'arte quelle attrattive, che le cose nuove e sfoggiate non hanno. — Il casolare, di cui è parola, era, come il pastrano del mendico, un ricucimento di più e più cose, di vario gusto e d'epoca diversa, accozzate ed eguagliate dalla comune ruina. Se esistesse ancora al dì d'oggi, il paesista, che preferisce le scene vere alle finzioni degli idillj e delle arcadie, l'avrebbe copiato e ricopiato, chi sa quante volte, e da tutti i punti e in tutte le fasi della luce e della stagione. Esso era collocato sur un piano leggermente declive e affatto inculto, qua e là rinverdito da cespi di cárici e di triboli aquatici. Il suo lato posteriore andava a tuffarsi nell'Olona; la fronte guardava sulla spianata; e i fianchi giacevano in un terreno molle e fangoso, mascherato da ceppate d'erbe selvatiche. Dapertutto il suolo dell'isola offriva tracce della sua natura aquitrinosa. Le recenti alluvioni vi erano attestate da strisce di fina arena e di ciottoli grigi; le antiche dai prodotti palustri e dalla muffa che coloriva di un verde melanconico ogni cosa fissa. Il casolare, comunque meschinissimo, poteva dirsi l'aggregato di due distinte costruzioni, l'una murata di mattoni e di loto, l'altra di legno: vera baracca quest'ultima, provisoria da un secolo, legata al resto dell'edificio pei travicelli della gronda e protetta dalla comune ala del tetto. Questo ballatojo coperto sporgeva sopra la macina, sostenuta da due magri piloni e da un impalcatura sconnessa, che era ad un tempo la soffitta del mulino e il pavimento della camera di Farinello. L'insieme del fabricato rappresentava la storia delle ingiurie di un secolo: ma la grande varietà di oltraggi era velata da quella tinta indefinita di vecchiume, che è la tenerezza dei pennelli alla moda. — Guardato da lungi, sembrava esso ravvolto in una rete di screpolature artificiosamente intrecciate; da vicino, dove poteva esservi attrito di oggetti o lavoro delle acque, vedevasi a nudo il mattone arso. L'arco superiore delle finestre era invaso da una tinta bruna e trasparente sparsa dalla colonna di fumo, che esciva costantemente dalle aperture, ogni volta s'accendesse fuoco nella casa; ed al disotto del davanzale un lavacro di tinta bianca segnava il rigo dell'acqua, fissandovi la polvere volatile del mulino. Delle finestre era varia la forma come la grandezza. L'una alta e stretta rassomigliava ad una feritoja; l'altra ampia e squarciata col parapetto a cornice e lo stipite fregiato di membra ed ornatini in terra cotta, pareva avere appartenuto a meno umile edificio. S'aprivano poi, fuor d'ogni legge, alcuni fori, dove il muro sconnesso aveva reso più facile l'improvisare un finestrino. Il tetto, coperto di paglia e a doppio pendío, soverchiava coll'ampie tese le mura sottoposte. Esso, e tutta la parte dell'edificio costrutta in legno, aveva quel colore indeciso, che sta fra il verde e il turchino, o meglio che è un misto dell'uno e dell'altro; e che i pittori, con voce assai significativa, chiamano tinta neutra. L'interno mostravasi in perfetto accordo coll'aspetto esteriore. Passata la soglia, che era una vecchia pietra da macina fuor d'uso, si discendeva per due scaglioni sul suolo umido e bruno di un camerotto, vasto come tutta la parte principale dell'edificio. Riesciva impossibile comprendere ad un tratto la forma, l'ampiezza, il colore di quel ridotto, tanto era l'ingombro degli oggetti che l'occupavano. Le mura guaste, le tavole della soffitta mal fidate a travicelli irregolari, il pavimento, di poco più sodo del pattume esterno, si smarrivano sotto il crasso e raddoppiato intonaco di polvere e di fumo. Nel mezzo della camera, sur un rialzo di arenaria, mucchietti di cenere e di carboni attestavano il fuoco del giorno prima; gli uncini pendenti e le catene di ferro coperte di fuligine, servivano a portare l'unica caldaja, ed a sorreggere chi s'avvicinava al fuoco per riscaldarvi, uno ad uno, gli arti assiderati. All'ingiro e presso al muro erano schierati l'un presso l'altro, o questo su quello, sacchi di varia misura; quali colmi, quali vuoti per metà; alcuni sorretti, altri rovesciati a terra: e, dove appena fosse uno spazio, si vedevano ammucchiati, come vien viene, gli utensili della professione, vagli di vimini, stacci di varia forma, coli pel grano; e negli angoli pali, leve, rastri, marre, stanghe, cucchiaje, badili affastellati come le armi di un fortilizio pronto a sostenere l'assalto. — Ed infatti quello non era tempo di pace; e se quel buon uomo di Farinello potè velar l'occhio un'ora in quella notte, gli è che, per assicurarsi un armistizio col suo torbido vicino, aveva pigliato ogni savia misura, aprendo le cateratte, vuotando le gore, e facendo ir l'acqua nei rifiuti per dar sfogo alla piena. Le nostre donne trovarono negli ospiti quella sollecitudine che s'aspettavano. Farinello davasi gran movimento per fornire ad esse ciò che credeva più atto a confortarle, e accompagnava le sue offerte con una cordialità, quanto sincera, altretanto e forse troppo insistente. Anzitutto attizzò un buon fuoco; offerse poscia rinfreschi di latte e burro a madonna e a Canziana, che rifiutarono ringraziando con bella maniera; apprestò infine pane, cacio e un non so che di simile al vino pei lettighieri, che fecero onore alla sobria imbandigione. Intanto la Nena metteva sossopra lo stanzino, e colla più buona voglia del mondo dava lo sfratto alle sue robe, per allestire un letticiuolo, che inspirasse fiducia alla delicata castellana. Non faccia meraviglia che delle molte cose offerte da quella buona gente, questa fosse l'unica che Agnesina accettasse con vero trasporto di gioja. Ella non era donna da far dello schifo nel vedersi costretta ad usare della roba casalinga. La pulitezza è una di quelle doti, che saltano sùbito all'occhio, e su cui è difficile ingannarsi. E intorno ciò la Nena prevenne l'esigenza della donna la più schifiltosa: il bucato è l'infallibile riabilitazione dei cenci. Agnesina non era stanca, che del suo lungo riposo. Desiderava essere sola per vegliare liberamente co' suoi dolori; giacchè durante quel tragitto, e fra lo stordimento di tante sollecitudini, essa aveva perduto perfino la traccia de' suoi pensieri; e tutto il passato le si addensava nella mente come le tenebre di quella notte spaventosa. — Nella calma dell'isolamento, credeva di veder meglio; forse sperava di scoprir qualche escita dal fatale labirinto; in cui il destino l'aveva cacciata. — Ad ogni modo poi; e qualunque fosse la sua sorte, quegli strazii erano tali, che meglio era vivere con essi, che non obliarli. Oh come pianse, la poveretta, quando si trovò sola! Al primo bagliore del nuovo giorno, che fu più del solito tardo a comparire, oh quanto le parve ancora più trista e desolata la sua situazione! E se alcuna volta, in mezzo a tanto bujo, le corse alla mente il pensiero di una valida protezione, che ella di certo non avrebbe invocato inutilmente, quella gioja era fugace come la luce del lampo; e il cuore si sentiva più addolorato dopo le crudeli smentite della ragione. — Tener dietro ad ogni suo passo su questa via, dove un lungo errare non conduce mai avanti, sarebbe difficile assunto per chi narra; e per chi ascolta troppo grave carico di pazienza. — Onde lasceremo per un momento la nostra eroina, che quel dì e il dì seguente non fece altro che vivere del passato, e terremo nota delle circostanze, che apparecchiavano a lei nuove vicende e più gravi sciagure. LVIII. Dopo una procella straordinaria per violenza e per durata, era lecito sperare che il cielo avesse esaurite le sue ire, e tornasse all'ordinaria mitezza della stagione. Il buon pronostico andò fallito. Al vento impetuoso e vario, seguì un greco tiepido, foriero di nuova intemperie: al diluvio una pioggia queta, ma fitta e costante. L'uragano era stato un eccesso di collera della natura; quel sèguito sembrava esserne la vendetta. Farinello, per tutto il giorno seguente, conservò il suo perfetto buon umore, occupandosi di colei che egli con tenerezza chiamava un occhio di sole, e superbo di potere ospitare sotto il proprio tetto la figlia del suo benefattore. Di mezzi onde far fronte alle ingiurie del suo vicino ne aveva, o gli sembrava averne più del bisogno. Il vento alla fine calmerebbe, — pensava tra sè, — più e più volte v'erano stati indizii di ciò, e si racconsolava. Ma verso sera, guardando in alto, mise, senza volerlo, un gran sospiro. — Grosse nubi correvano verso Ticino, cacciate dal vento ancora più gagliardo; e le oche, sparnazzando, mettevano incessantemente uno strido di pessimo augurio. — Visitò la riva del fiume su varii punti; tutto gli parve in regola. Le gore del mulino erano vuote; gli scaricatoj ricolmi, ma saldi. E pioveva ancora, e dirottamente; nè v'era alcun sintomo di miglior tempo. “Benedetto rigagnolo — diceva tra sè, temperando coll'epiteto l'insulto dell'appellativo — soli due mesi fa non bastavi a far umido il becco di dieci passere, e la tua miseria aveva posto la ruggine al pernio del mulino. Ora hai tanto ruzzo!„ Quel rigagnolo era il nobile acquedotto, come lo chiama il Giulini, e la regale Olona, come la battezza un poeta del nostro secolo,[20] che bagna le mura di Milano. — Non famosa come l'Arno ed il Tevere, essa ha la virtù modesta di rendersi utile fino all'ultima goccia. I forastieri non la conoscono; e molti pretti ambrosiani vivono e muojono senz'altro saperne che il nome. Chi esce da Milano, per la porta che guarda a ponente, la trova sulla strada a pochi passi dalle mura: e se vuol seguirne il corso per breve tratto, vede che essa, rinunciando fino al nome di fiume, mette in comune le sue sorti con quelle dei rivi artificiali; e che non torna a riaver nome e vita, se non quando le sue acque diventano un di più, e il suo letto un provido canale per portarle al loro destino. L'Olona, anticamente Oleunda, geme in vicinanza di Varese dalle propaggini occidentali delle prealpi camonie, che dalla riva sinistra del Verbano si stendono fino alla destra del Benaco, chiudendo entro una bastita speciale la grande convalle lombarda, conterminata agli altri lati dal Ticino, dal Mincio e dal Po. — L'Olona, il più piccolo dei fiumi che segnano la longitudine della nostra pianura, è comparativamente il più utile di tutti; perocchè il suo alveo, serpeggiando a fior di terra non defrauda neppure una stilla del suo tiepido umore ai campi che la fiancheggiano. — Non parliamo dei nostri tempi, in cui l'arte di rendere produttivo queste elemento fecondatore, è la più ovvia applicazione delle scienze esatte. — Fin prima del mille, secondo lo storico Galvano Fiamma, l'Olona era per opera degli agricoltori milanesi, uno dei più utili ordigni della gran macchina agricola; onde il suolo lombardo, da sterile e paludoso che ora, divenne un modello di feracità. In vicinanza di Milano, l'Olona pigliava il nome di Vepra (Vedra) ed introdotta in città presso la pusterla Fabrica (ponte dei Fabri) ingrossata dalle acque del Nirone e del Seveso, costituiva quel canale detto Vitabile (Vecchiabbia) che è tutto dì il più sucoso alimento dei nostri campi suburbani; e che a quei tempi (se crediamo allo storico Landolfo) era un corpo di acqua tanto considerevole, da essere atto alla navigazione. Poco più di un secolo prima dell'epoca, di cui favelliamo, l'acqua dell'Olona fu partita in due rami, uno dei quali si lasciò come prima venire in Milano, l'altro fu condotto a scaricarsi pel naviglio grande nel Tesinello. — Fu allora che il podestà Beno dei Gozadini, promotore di quest'opera grandiosa, subì per mano dei milanesi, irritati dalle conseguenti gravezze, uno di quei giudizj, che ci insegnano ad essere cauti nell'accettare come voce di Dio il grido d'ogni turba. Il Gozadini venne crudelmente massacrato dalla plebe, che egli aveva beneficato; e fu ignominiosamente sepolto in quel rivo, che doveva essere la sua gloria. Quasi tre secoli dopo questo fatto, quando don Ferrante Gonzaga cinse Milano delle mura che oggi esistono, l'Olona fu del tutto esclusa dalla città ed avviata per intero al Tesinello. Al disotto di Milano, la storia dell'Olona si confonde con quella dei canali, in cui essa si scarica. Fin oltre a Binasco, ha vita comune col Tesinello, più al basso riprende il suo nome e la sua importanza, finchè, poco lungi dalla sua foce nei Po, lambe una grossa borgata, che per essa è nominata Corte Olona. — Una parola anche su questo villaggio, poichè fu desso antichissima villa dei Re d'Italia, quando Pavia era la reggia d'Insubria. Lotario reduce da Roma, ov'era sceso a farsi coronare, soggiornò lungamente in Corte Olona, e nell'anno 823 ivi emanò una delle più rimarchevoli sue leggi. Deplora egli l'ignoranza e l'abbandono dei buoni studj; e a porvi rimedio istituisce cattedre di sapienza, e chiama i più culti lettori del tempo a dispensare agli allievi i compendii delle obliate dottrine. — Il primo che dietro ciò aprisse scuola in Pavia fu un certo Dungalo. Non è temerario il dire, che per lui si gittasse la prima base della celebre Università ticinese[21]. LIX. Se le piene di questo fiume anche oggidì, relativamente alla sua importanza, sono gravi, a più forte ragione lo dovevano essere allora che il necessario declivio dei campi, artificiosamente compiuto nelle regioni medie della pianura, lasciava sussistere nelle inferiori un ostacolo al libero deflusso delle acque. E, infatti, più volte la storia ci parla di disastri cagionati da questo modesto fiume. Nel 1285, a modo d'esempio, un'inondazione straordinaria di esso arrestò le vittorie dei milanesi reduci da Castel Seprio ed avviati a Fagnano[22]. La città nostra, appena sorta dalle sue ruine, si circondava di ubertose campagne; ma, nel chiamare a sè la maggior copia d'acqua, pensava a trarne profitto, non a moderarne il corso mano mano che essa si scostava dal centro della sua influenza fecondatrice. Ond'è, che quando le terre di Milano ne provavano sazietà, i campi sottoposti ne subivano una perniciosa esuberanza. Ciascuno dei terrieri faceva schermo coi mezzi suoi proprj a quelle irruzioni; e, nel difendere momentaneamente i margini dei suoi possessi, invece di disarmare il nemico, lo allontanava, spingendolo più terribile sul fondo altrui. Il nostro Farinello, per la posizione del suo mulino, era appunto uno di coloro che raccoglievano il troppo degli altri, e che ne sopportavano le terribili conseguenze. Pratico della malignità del suo torbido vicino, egli sapeva mandarne a vuoto le piccole vendette. — Ma poco poteva contro le gravi; quando egli cominciava a temere, ne aveva di solito più d'una ragione. Durante la notte che precedette il terzo giorno, non spiovve mai. L'Olona, quel piccolo e placido fiume, che d'ordinario era la dovizia di chi ne abitava le rive, correva gonfia, vorticosa, spaventevole; ormai non v'erano margini a contenerne i furori. Superiormente al mulino, le sponde in tutto il loro sviluppo erano già soverchiate. Le tracce serpeggianti dell'antico letto venivano distinte dagli alberi piantati sulle rive; i teneri arbusti s'incurvavano sotto il flagello della fiumana; e i tronchi, dissimulando l'urto, non si piegavano che una volta sola quando il torrente li schiantava. Il filone della riviera, segnato da un corso più rapido, ora vorticoso, or piano, trascinava seco grosse bolle di schiuma, che a quando a quando sparivano nei gorghi, per venire a gala poco dopo ingrossate. Dove l'alveo era più largo e le sponde più espanse, aprivansi immensi guadi, in cui l'elemento devastatore sembrava calmarsi alcun poco. Ivi, infatti, aveva sfogo sulle circostanti campagne; entrava pei fossatelli, rompeva i ciglioni, e scorreva libero e padrone fin dove trovava un argine maestro. Povere campagne! “Van giù le messi e illusi piange i voti “L'egro cultor.[23]„ Colle recenti seminagioni andavano perdute non soltanto le fatiche di una stagione, e l'anticipato tributo delle sementi, ma il lavoro di anni; poichè quei solchi, poco prima ben governati e saturi di sostanze produttive, rimanevano poscia insteriliti da uno strato di arena silicea. L'acqua, ritornando al suo letto pregna di argilla e di fimo, più impura del biondo Tevere d'Orazio, diveniva densa, torbida, quasi del color di rame; ma l'aumentata densità non scemava l'impeto e la violenza del suo corso. Dove i margini più ristretti e meglio muniti opponevano nuova resistenza, incalzava sempre con crescente furore. A tratto a tratto, ampie zone di terra accerchiate da rigagnoli si tramutavano in isole, che a poco a poco erano corrose e di colpo inghiottite. Alberi robusti, che avevano scampato alle inondazioni di un secolo, venivano scossi dalle radici, sbarbicati e travolti con orribile rovinío. — A ridosso di quei tronchi, s'arrestavano minori piante, virgulti e felci; e tra gli uni e gli altri si stipavano rami fronzuti, manipoli d'erbe, e bruscoli, prodotto delle devastazioni superiori. Tali imbarazzi, crescevano sempre più il ribollimento delle acque, e ne raddoppiavano il furore e la vendetta sui terreni vicini. Il disastro, nel suo procedere, assumeva proporzioni ancora più imponenti. Ormai le campagne sommerse s'erano spogliate di quanto possedevano di più prezioso. Tremavano i poveri abitatori dei casolari costrutti sulla riva; perchè quasi tutti indifesi o mal protetti da piccoli argini. Già in qualcuno di essi l'acqua si era fatta strada per le porte, per le finestre, o filtrava attraverso le fessure delle muraglie. Dove era facile il varco, soleva fare minor danno; dove incontrava resistenza, irrumpeva: e, dopo aver tramestato ogni cosa, esciva vincitrice dalle porte scassinate, trasportando seco, come trofei, le masserizie, gli attrezzi rurali, i cenci dei miseri contadini. Alla vista delle tavole, dei panconi, degli staggi, che correvano giù pel fiume, Farinello apprendeva la dolorosa storia dei suoi vicini. — Quei rottami non erano abbastanza guasti per nascondere la loro origine. Talora erano intere suppellettili, che dalla nota forma accusavano donde venissero, ed a chi dianzi appartenessero. Più tardi si videro degli animali domestici; alcuni ancora vivi si sforzavano di vincere la corrente; altri, esinaniti o fatti cadaveri, scendevano in balía di essa. Se il ribollimento delle acque e lo scroscio della pioggia avessero sospeso un momento il rombo assordante, si sarebbero udite da lontano le grida degli inondati, che accorrevano ad ajutarsi scambievolmente, o per mettere in salvo la roba ancora intatta, o per tentare di riprendere quella che era già stata rapita. Il lavoro era incessante; ma dove non si trattasse di apprestamenti alla fuga, ogni fatica tornava presso che infruttuosa. Dapertutto era una scena di desolazione: dapertutto gemiti e misericordie che n'andavano a cielo. Intere famiglie attendevano a spogliare la loro abitazione coll'ansia e col sospetto dei ladri, che mettono a ruba la casa altrui; e raccolto il meglio, pensavano a metterlo in salvo colla vita. I vecchi spingevano avanti la piccola mandra, o l'unica giovenca; gli uomini robusti reggevano sulle spalle involti, fastelli, o suppellettili. Le donne portavano in braccio i loro bimbi, le cui strida erano una ben mesta aggiunta alla somma delle comuni querimonie. I fanciulli, secondo l'età, fatti dalla comune disgrazia solerti e giudiziosi, prestavano mano alle domestiche bisogne. Alcune famiglie avevano scampo percorrendo la cima degli argini ancora rispettati; altre uscivano per le finestre, spingendosi sui batelli, o navigando nelle tinozze, fino a trovar terra soda. In mezzo però a sì gravi mali, fra tanti gemiti, non si udiva un accento disperato od una bestemmia. Tutti erano invasi da un religioso terrore dell'ira celeste, cui meglio era placare coll'opera e colla pazienza, anzi che provocare colle insulse imprecazioni. Pure, il comune sgomento non era rappresentato meno al vivo da quel silenzio. Tutti avevano scritto sul volto l'ansia, il terrore; a tutti balenava al pensiero il terribile sospetto: — “chi sa se torneremo al nostro povero casolare.„ Farinello, uomo d'ottimo cuore, sarebbe stato il primo ad accorrere in ajuto dei suoi vicini, se non avesse pensato che l'opera sua era indispensabile a sè ed a' suoi ospiti. — Egli non si allontanò quindi dal suo abituro, se non quanto bastasse a sottrarre qualche arredo, che pensava rendere al suo padrone. Fuor di ciò, simile al pilota, che non abbandona il governale del suo vascello anche quando la burrasca lo rende inutile, dopo aver meditato e messo in pratica tutte le misure di prudenza, non cessava dall'operare, dal dirigere, dal sorvegliare. Non così la Nena: non così Canziana. — La prima gemeva, e avvicendava coi lunghi sospiri una filastrocca di preghiere infervorate dalla paura. L'altra non sapeva staccarsi dalla sua padrona, cui di quando in quando susurrava all'orecchio il consiglio di cercar scampo altrove, rafforzando l'avviso coi proverbi e colle istanze. Ma Agnesina non aveva nulla che le importasse di mettere in salvo; nemmeno la vita. Era vicina la notte del terzo dì, quando finalmente cessò di piovere. Una brezza fresca e sincera spirante da maestro faceva presagire buon tempo pel giorno venturo. — S'accorse di questo mutamento la stessa Canziana, badando alle foglie spiccate dai rami, che pigliavano il volo verso la parte opposta alla consueta. Farinello accorreva a confermare la buona nuova; e, pigliando per mano Agnesina con cordiale domestichezza, la conduceva al finestrino rivolto a ponente, per farle osservare una striscia di cielo spazzato, entro cui imporporavano gli ultimi raggi del tramonto. Tornarono gli spiriti alla Nena e a Canziana, così pronte alla confidenza, come lo erano state al terrore. — Anche Agnesina si rallegrò; e rese alle sue compagne un sorriso di buon augurio, il primo che ella sprigionasse dalle sue labra dopo la partenza da Campomorto. — Farinello però era ancor l'uomo pensoso di prima; e volontieri avrebbe rampognata la sua donna troppo presto imbaldanzita; ma non lo fece, per non intorbidare l'angelico sorriso dell'ospite. Lasciò che le donne godessero di quelle apparenze; egli non se ne fidava punto. Scese quindi di bel nuovo nella sua barchetta, percorse ancora una volta le rive del fiume, e visitò i luoghi dove credeva esservi il maggior pericolo. Quel cambiamento d'aria, quella promessa di un migliore dimani, non rendevano meno grave il presente. Il livello dell'acqua non decresceva, nè era stazionario; andava ancora lentamente aumentando. Simile sempre al nocchiero che dall'alto mare scopre il porto, si consolava nel vedersi vicino al luogo di salvamento, sperava d'arrivarvi sano e salvo, ma non osava cantar vittoria. Il cielo era ancora coperto di nubi; ma queste non erano più sì compatte come prima. Dove esse apparivano un po' slegate e quasi trasparenti, brillava qualche stella, e, verso ponente, alla luce del crepuscolo s'associava il pallido splendore di un lievissimo segmento lunare. “Quattro ore così, ed ogni pericolo sarà passato„ — diceva tra sè Farinello, godendo al pensiero d'aver vicino il termine delle sue apprensioni — ma in queste poche ore, soggiungeva, non bisognerà dormire sulla cavezza. La fiera rugge ancora„ — e vogava intanto verso la parte settentrionale dell'isola, divenuta uno stagno. Dall'alto di un piccolo promontorio formato da un gruppo di pedali d'alberi intrecciati, e ricolmi di terra, spiava l'accorto mugnajo i procedimenti del fiume. E nella calma del far guardia, numerava i suoi danni, e già studiava il modo di porvi rimedio. All'orto ed alla vigna prometteva qualche settimana d'indefesso lavoro ed, oltre alle sue, un pajo di buone braccia prese ad opera. Ai sacchi di grano confidatigli dai suoi avventori consacrava le sue condoglianze, caritatevoli sì, ma diverse di quelle che teneva in serbo per sè. — A chi era stato sempre largo con lui, proponevasi di far sentir meno la perdita; pei frustamattoni teneva in pronto il — _res perit domino_ — che aveva appreso a suo danno in casi consimili. Pensava infine alla condizione del suo mulino, al miracolo di vederlo ancora in piedi, e faceva voto di proveder sùbito ai ristauri, se il cielo glielo faceva escire intatto da quella prova. Così passò un'ora: intanto erasi abbujato del tutto. La luna, scesa sull'orizonte, non mandava più alcun splendore dal suo disco fatto più grande e più rosseggiante. Allora Farinello trasse fuoco dalla selce, ed accese un lampione per riconoscere l'altezza dell'acqua. La trovò stazionaria: sperava di vederla tra poco decrescere. Poichè l'aria favoriva il corso dei fiumi inferiori, era lecito sperare, che il decremento dell'Olona si renderebbe tosto sensibile. LX. A mezzo di questi pensieri, mentre l'anima travagliata si riposava alquanto dalle sofferte angosce, fu egli scosso all'improviso da un non so che di nuovo e di strano. Gli parve udire un rumore forte e prolungato, che scendeva lungo il fiume; ben diverso dal solito mormorío della corrente, dallo scrosciare delle foglie agitate dal vento, o dal continuo grido delle veglie. Stette in ascolto: il frastuono durava ed andava crescendo. La mente schierò ben tosto davanti a sè le congetture, più atte a spiegare il fenomeno: ma, esaurito prontamente l'esame ed escendone ignara come prima, provava un'incertezza che lo faceva profeta d'altre sciagure. Farinello non aveva mai provato il terribile raccapriccio che accompagna lo scuotimento della terra, ma rammentavasi d'averne inteso parlare più volte; la pittura spaventevole di chi ne aveva fatta la prova, gli si ridestò tosto alla mente più viva che mai, e lo fece gelare di terrore. Corse col pensiero alla sua casa, alla sua donna, a' suoi ospiti; ed aguzzò lo sguardo per discernere le mura del suo casolare. Agitato dal delirio dello spavento, Dio sa cosa egli vide: gli sembrò scorgere da lontano un mucchio di ruderi, ne udì forse il rovinío: credette che il terreno della piccola isoletta si squarciasse sotto a' suoi piedi. — Ormai quello strepito spaventevole, di cui poco prima poteva indicare la direzione e la distanza, riempiva lo spazio intorno a lui, e scoteva da vicino quell'aria, che gli sembrava divenuta arsa e greve al respiro. Se il pericolo fosse stato imminente solo per lui, forse non avrebbe trovato il coraggio di porsi in salvo. Ma il pensiero della sua famiglia, della sua roba, dei suoi ospiti gli tornò alla mente, e lo ravvivò. Scese d'un salto nel battello, lo staccò dalla riva, e prese il largo sullo stagno, battendo il remo col metro concitato di chi fugge. Non aveva progetti nè per sè, nè per gli altri: l'istante lo traeva ad avvicinarsi a chi e a quanto gli stava più a cuore. Giunto a mezzo del suo tragitto, quel frastuono cessò inaspettatamente. Farinello levò il remo e stette ascoltando. Già un largo respiro aveva trovato l'escita dal suo petto; egli era per accusare sè stesso di una visione, quando s'accorse che il fremito della corrente era esso pure più forte dell'ordinario, “Checchè avvenga nel fiume, — disse egli tra sè — non può essere nulla di nuovo o d'impreveduto. È un nemico cotesto, le cui arti mi sono note da un pezzo.„ Non appena la ragione dileguò le paure, riprese l'esame delle cause di quello straordinario fremere delle acque. Di possibili ne trovò parecchie; di probabili una sola: e fu la vera. Un enorme tronco, scosso dalla procella, colpito dal fulmine, sbarbato alle radici dalla forza corrosiva delle acque, scendeva giù pel fiume, colla velocità della corrente e coll'impeto impresso dal suo peso, abbattendo quanto gli faceva ostacolo. Condotto talora su filoni secondarii, veniva momentaneamente arrestato, ovvero andava ad urtare nelle sponde soverchianti, e ad avvilupparsi nelle macchie della riva. Ma ben tosto la corrente lo accerchiava, lo traeva dagli imbarazzi e, ricondottolo nel filone maestro, ve lo sospingeva di nuovo con maggior violenza. Ciò era accaduto qualche miglio al di sopra del mulino; e già l'enorme trave aveva recato dei guanti a un meschino casolare percosso di fianco. Fu lo schiamazzo degli abitatori, che Farinello udì in quel rumore lontano e prolungato che gli destò tanta paura. La povera gente, senz'altro mezzo per rendere concordi gli sforzi in quella oscurità fuorchè le grida, riescì a furia di braccia, armate di pali o di puntoni, a rimovere il tronco, che arietava contro le mura della capanna, e la sfasciava come fosse una zolla; ma nel liberarsene, non faceva essa che spingerlo a recar nuovi e forse più gravi danni su quello d'altri. Poco al di sopra del mulino andò di nuovo in secco, e allora, al cessare dello strepito, il mugnajo venne in chiaro della cosa. Rimaneva però a sapersi se il tronco si fosse così bene fitto nel terreno da non esser smosso più, o se poteva staccarsi di nuovo, e riprendere il malefico suo corso. LXI. La Nena e Canziana, ignare di quanto succedeva, già dimenticavano i timori provati nell'affabile intrinsichezza dei discorsi. Una serie d'angustie le aveva private dell'occasione di cedere alla istintiva e cordiale loro loquacità. Schiette ambedue, sentivano ora il bisogno di aprire il cuore e di parlare liberamente. — Per regola, chi parla spende la parola allo scopo di essere ascoltato. Fra le due donne non era precisamente così: il mezzo veniva scambiato col fine; ognuna di esse alla sua volta ascoltava, affinchè l'altra avesse il bene di metter fuori ciò che l'animo non poteva più capire. I discorsi erano di una tempra e d'un tono diverso; ma gli uni erano il complemento degli altri; ricuciti insieme, gli uni e gli altri conducevano alle stesse conclusioni. La Nena faceva il panegirico della sua povertà operosa, dicendo che quando alla Providenza non si chiede che un po' di pane, è difficile che essa non lo conceda. Canziana rammentava le assidue cure dei ricchi; e lo provava coi fatti, e faceva trasalire e sospirare la pietosa ascoltatrice. Agnesina, ritirata nella cameretta, viveva da sè e con sè. Non partecipando al terrore delle sue compagne, ella era come uno straniero, che vive in mezzo a gente di cui non conosce il linguaggio. Ma l'isolamento non le era grave; non deplorava le notti insonni. Nelle memorie del passato, sebbene dolorosissime, trovava di che alimentare qualche speranza per l'avvenire. Nel rammentare ciò che aveva perduto e ciò che poteva riguadagnare, le lacrime sgorgavano facili, pietose, non del tutto scevre di qualche dolcezza. In questo momento, dopo lunghi travagli dello spirito, tornava ella dalle sue pellegrinazioni, più esausta di forze che sazia. Aveva visitato ad uno ad uno i sacri pegni, tolti seco da Campomorto. Aveva letto e riletto quel foglio su cui il Conte di Virtù, trascrivendo alcuni versi del Petrarca, confessava nel modo il più gentile il suo amore. Seduta accanto al letticciuolo, appoggiò il capo ai guanciali, si strinse quello scritto sul cuore, e chiuse gli occhi, quasi volesse evocare nella fantastica oscurità la forma di colui, che l'occhio invano cercava in mezzo alla luce. Una calma nuova, insperata, le scese lentamente nell'animo, e togliendo alle idee la durezza dei contorni materiali, confuse rimpianti e speranze in un tutto che non era nè la solita veglia troppo veritiera, nè una nuova e bugiarda visione. Fu in quello stesso punto che Farinello entrò colla sua voce stentorea a turbare l'istante di quiete di che godevano le tre donne. “Ohe! la Nena, — gridò egli dalla sua barchetta mentre ancora trovavasi al largo; — ohe! fate uscire madonna dallo stanzino, e tosto, che non v'è tempo da perdere.„ La donna, sorpresa da quelle parole, a cui un tono di voce speciale imprimeva l'autorità del comando, ne avrebbe volentieri chiesto il perchè; ma la battisoffiola tornava a metterle il veto alla parola. “Ohe! — ripetè il mugnaio levando più forte la voce, e picchiando col remo nel finestrino, sotto cui aveva spinto il battello. — Fate presto per l'amor di Dio.... Dite a madonna che esca dallo stanzino; e fatela scendere con voi nel mio burchio.„ Nessuna delle tre donne poteva indovinare di che si trattasse; ma la paura è credula, e i creduli sono docili. La Nena, che ne aveva la dose necessaria per far tacere la curiosità e per divenir lesta come a venti anni, entrò di volo nella cameretta, dove Agnesina si era placidamente addormentata. L'altra, che non aveva inteso le parole del mugnajo, pensava indovinarne il senso, seguendo i passi della Nena; e non andò molto infatti che comprese trattarsi di una fuga. Non faceva bisogno di chiedere di più: la fuga supponeva il pericolo. — “Oh perchè non ce ne siamo andati prima,„ mormorava ella sospirando!.. Agnesina, scossa bruscamente dalle parole delle due donne, balzò in piedi d'un tratto, e si dispose a seguirle. L'angustia dello stanzino, cresciuta dalla moltitudine degli oggetti che l'ingombravano, non permetteva di scambiar l'ordine d'escita delle tre donne. Precedeva Canziana, poi la Nena, dietro loro la fanciulla. Farinello intanto era entrato in casa, e salito sui primi gradini della scaletta, correva ad incontrarle. Quando le vide apparire tutte dalla porta d'ingresso dello stanzino, respirò; e, credendo averle ormai poste al sicuro, spiegò loro in due parole il motivo di quella misura di prudenza; assicurandole che tra breve le avrebbe ricondotte, e che allora potrebbero rimanere a tutto loro agio, perfettamente tranquille. Il buon uomo, dopo aver pensato seriamente ai casi probabili, aveva perduto ogni fede nei sostegni che reggevano la cameretta; quanto al resto della casa, lo riteneva abbastanza solido, e fuor di pericolo. Si rallegrò, pertanto, accorgendosi che l'insidiosa topaja era vuota. “Una, due, tre, e sia benedetto il Signore„ — disse egli, numerando le teste feminili che degradavano dagli scaglioni superiori, e sulle quali aveva lanciato col cavo della mano un raggio del suo lampione. — Poi si rivolgeva per scendere pochi gradini, ed avviavasi verso la porta ov'era legata la barca che doveva condurre in salvo la comitiva. Uscito all'aria libera, udì più gagliardo il fremito delle acque, ma ormai credeva di poterne sfidare i furori: dimentico d'ogni suo interesse in quel momento, non sentiva altro che l'immensa gioja d'essere giunto in tempo a salvare le donne. Già l'una era al basso; l'altra le stava alle spalle, quando entrambe, colpite all'improviso da uno strano frastuono e da uno scrollo che pareva mettere a soqquadro tutta la casa, si volsero indietro, cercando di Agnesina. La fanciulla non le seguiva. “Madonna, — sclamava Canziana colla voce tremante dal raccapriccio, — dove siete? Oh Vergine santissima, ella è tornata indietro!„; e tentava di salire di nuovo la scala per andarne in traccia. Il rovinío cresceva; non era più il solito rumore d'acque e di vento; era uno schianto d'oggetti vicini, lo stridere dei legnami, lo sgretolarsi delle muraglie; pareva che tutta la casa andasse in ruina. Giunta alla porta della cameretta, un soffio impetuoso e gelido le spense la piccola lampada che teneva fra le mani. “Ajuto, ajuto, un lume per carità.... presto.... in nome di Dio.... accorrete....„ Al crescente frastuono udiva aggiungersi più vicino e più distinto il bollire del fiume, e ad ogni istante il tonfo d'oggetti, che parevano esservi scagliati di tutta forza. Un urto subitaneo aperse la porta, e ne staccò un'imposta; la vide precipitare; e, dal punto ov'era caduta, mirò gli sprazzi fosforici delle onde, che l'avevano ingojata. Accorse Farinello sollecitamente; ma a far che?... a vedere il risultato di una tremenda ed irreparabile sventura. Quando Agnesina fu scossa dal suo letargo ed avvisata della necessità di una fuga, di tutto buon animo s'accingeva ad obedire. Non chiese dove la conducessero; ma non volle partir sola. Quel foglio, che posato sul suo cuore vi recò finalmente un po' di pace, doveva essere l'indivisibile suo compagno. Ora quel foglio, nella fretta della chiamata, le era escito di mano; ella retrocedette per farne ricerca. In questo mentre, l'ira del fiume si versava tutta sul povero casolare. Gli ordigni del mulino venivano abbattuti; i deboli sostegni della cameretta erano fatti in pezzi. L'impalcatura del pavimento, sfasciata dalle pareti, precipitava nei vortici del torrente;... ed Agnesina con essa! CAPITOLO NONO LXII. Se, al momento di riaprire questo libro dopo aver fatto una sosta, non vi sentite, o lettori, il prurito di muovermi un'accusa perchè mi sono arrestato a mezzo della via, quando appunto l'ordine e la natura degli avvenimenti sembravano chiedere pochi passi ancora onde arrivare alla giusta fermata; o, per parlar più chiaramente, se dopo aver fatto conoscenza colla nostra eroina, non provate un po' di pietà e d'affezione per essa, tanto che vi paja in regola che la prima parola non sia per dirvi che ella è salva, e come lo fu, dovrò confessare, d'essermi ingannato a partito. Con tale ipotesi, il titolo d'increscioso mi è già toccato, o mi toccherà ben presto: e a questo sùbito e formidabile dubio, per salvarmi almanco la fama di seccatore onesto, renderò conto di tutto, fin anco delle intenzioni; fra le quali non v'è per certo quella di volervi ingannare. Uno storico famoso poneva in capo ad un bel racconto, scritto nel momento più avventuroso della sua vita letteraria, queste parole: — _Lettore mio, hai tu spasimàto? No! Questo libro non è per te._ — I patti sono chiari e franchi fino a parere un po' scortesi. — Dubito però che un sol bonaccio chiudesse il libro a quell'avviso per non stimarsene degno. Pochi avranno creduto di avere il cuore sì duro; e quei pochi avranno affrontato gli spasimi della lettura, appunto perchè sapevano di poterlo fare impunemente. Un altro autore invece, dopo averci allettato colle più evidenti pitture, dopo averci commosso col racconto di tante avventure o virtuose o ribalde, ma sempre veritiere, si congeda dal suo lettore (che non vorrebbe sì presto congedarsi da lui) mostrandosi pronto a chiedergli scusa, se mai l'avesse nojato, assicurandolo _di non averlo fatto a posta_. Il primo, non cercando che la compagnia dei martoriati e degli spasimanti, vorrebbe, a quanto pare, stringersi attorno un uditorio apposito, ed accaparrarsi l'attenzione e l'applauso. L'altro, con quelle modestissime parole, fa ancor meglio; spinge involontariamente il lettore a dare una gentile mentíta a' suoi scrupoli, e lo fa tornar di slancio alla prefazione, per rileggere da capo quel libro incomparabile, che lo diletta e lo commove come, e forse ancor più, della prima volta. Ora, la franca premessa dell'uno e il modesto riserbo dell'altro, mi pajono simili a quegli schifi che stanno appesi al bordo di un vascello: quei mezzi di scampo accennano alla possibilità del naufragio. Tenendomi alla dovuta distanza da quegli scrittori sì diversamente illustri, e credendomi al riparo della critica profonda e severa, la quale non trae le armi se non per combattere chi ne è degno, sento anch'io, nella mia piccola cerchia e in un mondo minore, il bisogno di vedermi attorno delle facce spianate e degli amici indulgenti. Giudicai inutile l'apostrofare il lettore in sul bel principio, non sapendo fin dove le forze mi concedessero di promettere; ma mi pare ora dovere e cortesia lo scongiurarlo a dir schietto se egli si è fin qui annojato. La noja, sorella del sonno e lontana parente della morte, annacqua ogni sapore, taglia i nervi ad ogni proposito, ammazza la stessa critica; ma è più grave e capitale di essa. Contro una censura v'è luogo a reclamo: contro lo sbadiglio, no. Soprafatto da tali pensieri, sentendo farsi minore la lena di proseguire, mi tornò in capo l'idea di venire ora a patti con voi, supplendo a quanto avrei dovuto fare in fronte al libro con poche righe di prefazione. — È tardi; ma meglio tardi che mai. La nostra eroina non è una invenzione. Tutte le storie parlano di Agnese Mantegazza; solo che nelle storie e nelle cronache dei tempi le sue avventure sono sgranate ed incomplete; sovente esposte come frivoli episodii; sempre poi narrate colla fretta di chi ha un lungo cammino a percorrere, e non ha tempo di divagare in minuti racconti. Malgrado ciò, una volta fissato il personaggio di Agnese, mi pare difficile il dimenticarlo. I brani della sua storia perduti su molte carte, riferiti variamente da storici diversi, in diverso linguaggio, si vanno, direm quasi per virtù propria, stringendo in un tutto, che a poco a poco assume l'importanza di una narrazione piena di evidenza e d'affetti. — Quegli affetti e quell'evidenza mi sembrarono cosa degna di farne parte agli amici. Non osando richiedere da essi quel po' di proposito e quella preventiva simpatia, che furono lo sprone alle mie ricerche, tentai di raccogliere quei brani, di ordinarli e ricucirli insieme, perchè avessero forma di un racconto, se non completo, almeno chiaro ed ordinato. Non è necessario cercar soltanto l'oro, che troppo scarseggia: si fa buon'opera anche quando si raccoglie una sostanza meno preziosa, purchè la si depuri, e la si spacci per quella che è. Fu questo il mio unico scopo. Ora la pausa, che ci siamo imposti, invece di rendermi pago della strada abbastanza lunga che abbiamo percorsa insieme, mi fa riflettere seriamente a quella che ci rimane a percorrere; non per me, che la conosco, ma per chi mi usa la cortesia di tenermi dietro. Simile alla guida montana, che al piede dell'erta più scabrosa interroga un'altra volta il suo seguace, per consultarne le forze e la volontà, io chiederò a chi legge: “Hai tu pazienza ancora?..„ E se egli risponde affermativamente, gli prometto che, dopo avergli fatto superare questi passi meno significanti in cui non vede che vicende private ed oscure, lo guiderò in una regione d'aria libera e d'orizzonte assai vasto, da cui godrà una delle più belle vedute della nostra storia passata. — La vita d'Agnese Mantegazza, come chè interessante, non è la meta; è il sentiero meno disagiato che ad essa conduce. Se l'avervi taciuto, o lettori, il mio pensiero, se l'aver cercato di caparrare un po' della vostra affezione per un'infelice, vi farà durare nel proposito di vederne la fine, non mi pentirò della fatta omissione. Anzi, la confidenza accresciuta dal vedervi accogliere bene le mie simpatie, mi dà coraggio di farvi anticipatamente una rivelazione. Se da principio avessi dimostrato la pretensione di ragionarvi di storia patria, voi, che sapete dove e da chi meglio apprenderla, avreste voltato le spalle al petulante, che si arroga un officio di cui non è degno. — Ma se da questo povero volume avrete tratto occasione di fissare con ispeciale interesse un'epoca storica importantissima; e se, in grazia sua, vi accingerete ad aprire qualche buon libro di storia, non fosse altro per vedere se fui veritiero, avremmo, io e voi, raggiunto il nostro scopo: questo racconto sarà la più acconcia prefazione alle vostre studiose letture. LXIII. È inutile affrettarci a dire che Agnesina fu salva da quella catastrofe. Chi l'ha un po' nel cuore, ricorda d'averla lasciata in una casipola di Pavia, e attende di rivederla colà, sana e salva, benchè immersa in un profondo dolore. — Torniamo piuttosto a Campomorto, e prima ancora alla corte dei due Visconti, per vedere quali diversi effetti ivi producesse l'infelice destino dei Mantegazzi. Barnabò, occupato a quest'epoca di guerre e di rappresaglie, non curava troppo le ribalderie minute. I soprusi però, le crudeltà, le prepotenze, non venivano meno per questo: ma costituivano il piccolo commercio, di cui il signore di Milano cedeva il vanto ed i frutti a' suoi cortigiani. — Questi, gareggiando d'operosità e d'astuzia, si proponevano un doppio scopo; avvantaggiare la borsa, ed aumentare il credito presso il loro signore. Quanto al primo, v'era sempre di che accendere l'appetito dei più: meno facile a conseguirsi era il secondo, poichè il favore del principe non poteva ripartirsi esattamente su tutti; e il suo beniamino non doveva essere che uno solo. Per fortuna, in quella gara, funestissima ai poveri governati, non tutti spiegavano un egual valore. — V'erano degli illusi, a cui ogni blandizia, ogni sguardo meno cupo sfuggito a caso dal cipiglio del tiranno ed a caso raccolto, sembrava un pegno di favore, un privilegio unico ed esclusivo. Costoro s'addormentavano nella certezza della propria inviolabilità, e sognavano grandezze ed onori, finchè a suo tempo venivano risvegliati bruscamente dalla dolorosa scossa della caduta. Altri invece, dotati di più lunga vista, s'andavano arrabbattando non paghi d'essere i cortigiani del padrone, ma ansiosi di diventare il primo ed il più caro suo favorito. Costoro, per arrivare alla meta, creavano fra il principe ed il popolo una serie di sognate difficoltà, che poi superavano per dar prova di devozione e di bravura. Quindi denunzie, persecuzioni, oltraggi da una parte; dall'altra immunità iniquamente accordate, favori e privilegi dispensati a capriccio dalla stolta prodigalità del principe. Ma nè l'inerte mansuetudine degli uni, nè lo zelo istancabile degli altri, guidava alla meta sognata. Barnabò poteva bene essere amato dai tristi suoi pari: egli non amava alcuno. Medicina, entrato in corte col semplice titolo di servo, godendo il vantaggio della domesticità, e volgendolo a' suoi fini con un accorgimento, che non è scienza ma istinto, ebbe campo di studiare da vicino il carattere di quell'uomo tetro ed inflessibile. Nell'abituale cupezza che siedeva sul suo viso, impenetrabile a tutti, egli pur sapeva scorgere varie gradazioni; quella davanti cui bisognava rassegnarsi prostrato nella polvere, scongiurando la procella nel silenzio; e quell'altra, che faceva lecito l'aggiungere una parola per deplorare, incoraggiare o far plauso a seconda dei momenti: ben inteso che, in ogni caso, non bisognava movergli incontro di fronte, ma stargli a fianco ed a rispettosa distanza. Nella sua privilegiata posizione, avrebbe potuto fare o tentare qualcosa di onesto. Ma il suo animo perverso si compiaceva invece di aggiungere all'ira traboccata del padrone una goccia del suo fiele, per deciderlo ad un atto di ferocia, quando l'animo di colui non vi fosse ancora determinato. — Per tal modo egli, servo e strumento del principe, poteva vantarsi d'essere stato, qualche rara volta, il padrone della sua volontà. Che se gli era sfuggita una parola in mal punto, mentre ogni altro sarebbe stato un uomo perduto, egli sapeva neutralizzarne l'effetto, con lazzi buffoneschi e colle piacenterie a lui solo concesse. E se nemmen ciò bastava, egli aveva il mezzo estremo di riguadagnare il perduto, chiedendo ad imprestito dalle scienze occulte quelle ragioni superiori, davanti alle quali perfino lo scettico Barnabò, suo malgrado, piegava il capo. Su questo campo lo stesso principe non era per nulla al di sopra dei pregiudizii dell'infimo vulgo. Sprezzava la vera scienza professata sodamente e di buona fede; ma non osava combattere le menzogne spacciate dai ciurmatori. Per tal modo Medicina, simile talvolta al cagnuolo della casa cui è permesso qualche atto di famigliarità, tal altra reso autorevole da una dottrina gremita d'assurdi e quindi piena d'incanto, godeva dell'impunità anche quando osasse levarsi dalla umile sua condizione per esaminare, dirigere, sindacare le azioni del padrone. Ma prosperò le sue sorti, e seppe conciliare interessi lontani ed opposti, perchè, più sagace dei suoi pari, seppe farlo con arte, e non trasmodò mai cogli abusi. Camminando sul ciglio dell'abisso, vi si trascinava carpone; e non fu mai colto dalla vertigine. Che se alcuna fiata credette di essere in procinto di perdere l'equilibrio, prevenne il pericolo arrestandosi, e scontò la lieve imprudenza con una lunga inerzia, e col silenzio. Nelle cose d'alta importanza non soleva immischiarsi che quanto era necessario per raccoglierne qualche frutto. Non pose mano perciò all'affare di Reggio, nè spronò il suo signore a fare quello che fece. La cosa camminava bene da sè: Barnabò era troppo accorto, troppo risoluto e crudele, per dimenticare l'offesa, e rinunciare alla vendetta. A suo tempo, anzi prima del tempo preveduto, scoppiò la procella; e Medicina, che pretendeva d'indovinare il futuro, si lasciò sorprendere dall'avvenimento, mentre si trovava fuor di città per riferire, come si è detto, al Conte di Virtù i procedimenti della signoria di Milano. — Venuto in chiaro della cosa, non gettò il tempo a dolersi dell'occasione perduta; ma prese a studiare il modo di ricattarsi. La sua gita a Campomorto, dianzi deplorata, gli aperse l'animo a sognare nuovi e più grandi progetti di buttino. E i sogni di rado mentivano a quell'anima scelerata. Poche ore dopo il suo ritorno, egli vide il principe e lo trovò più tetro del solito. La morte violenta di Maffiolo Mantegazza gli aveva fatto perdere la traccia di un branco di congiurati, sui quali poteva sfogare le sue ire, senza nemmanco affaticarsi a giustificarle con qualche pretesto. Medicina lesse il secreto sulle grinze di quella fronte torbida; studiò il male, scoperse il rimedio, e stabilì il momento opportuno per amministrarlo. Ma non impiegò il linguaggio della passione, e meno ancora la franca parola di chi indovina e consiglia; perocchè quello zelo avrebbe destato sospetto: rammentò soltanto con ingenua sbadataggine, che, a poche miglia da Milano nel castello di Campomorto, viveva ritirata la figliuola del proscritto, e che là era probabile aver lume intorno all'intrigo, o per mezzo di documenti ivi celati, o dalla bocca stessa dell'orfana, più o meno spontaneamente facile a confessare la colpa di suo padre. Barnabò non sembrava dar retta a tali proposte, e Medicina non osava insistere. — Forse, in quel punto, l'avido ciurmatore si pentì d'aver consegnato al Conte di Virtù la lettera di Maffiolo, perchè ora l'avrebbe venduta a prezzo doppio. — Ma il male non aveva rimedio; parlarne era come accusarsi d'infedeltà. Solo gli restava aperto l'adito alla rivincita, in una più ardita e profittevole impresa: quella, cioè, di riavere per forza lo scritto o la persona cui era diretto. Barnabò durava ostinato nel suo silenzio poco incoraggiante. Tutt'altr'uomo si sarebbe perduto d'animo; Medicina al contrario, per iscuotere la languida volontà di colui, non aveva che ad accennare le difficoltà dell'impresa ed a creare ostacoli; certo che Barnabò non avrebbe resistito alla tentazione di rovesciarli. “Ahimè, insensato ch'io sono! — sclamò Medicina percotendosi la fronte — ahimè! che stolido pensiero m'è passato pel capo.„ E taceva di nuovo; dando al viso e alla persona un'aria di umiltà e d'ipocrisia, che ingannava lo stesso Barnabò. Teneva il viso chino, e gli occhi a terra, appoggiava il mento tra il pollice e l'indice della destra, e il gomito al braccio sinistro stretto al seno. Tutto ciò era una pantomima studiata; il silenzio doveva essere l'eloquente proemio di quanto egli stava per dire. “Campomorto! — susurrò tra sè, ma in modo d'essere inteso — è fuori del nostro territorio!... Sì certo. Esso è in quel di Pavia... dominio del Conte di Virtù... Ed io... ah mille volte pazzo!... La grandezza e la gloria del mio padrone m'inebriano a segno da farmi scordare la gloria e la grandezza del suo nobile congiunto... E...„ — Mentre ruminava altre parole di questo colore, osò levare un istante lo sguardo, per vederne l'effetto. La sua occhiata, benchè rapidissima, afferrò quanto bastasse per fargli ripigliare la bugiarda umiltà che gli assicurava il trionfo. Infatti, il volto di Barnabò tradiva l'interna compiacenza, quasi avesse fatto una grande scoperta. Il rispetto che Medicina aveva mostrato pei diritti del Conte di Virtù, era l'unico modo di invitare il principe a violarli. Egli, che avrebbe sprezzato un consiglio o punito il temerario che osasse darne uno al suo signore, accolse le parole del ciurmatore come una inspirazione. Quel viso, prima sì cupo e taciturno, si aperse alcun poco; un sorriso minaccioso e terribile sfiorò quelle labra, dianzi diversamente spaventevoli nel silenzio. Medicina, che aveva compreso essere quella minaccia indirizzata a tutt'altro, che a sè, fece cuore, e cantò vittoria in secreto. “Campomorto è feudo dei Mantegazzi, e dominio del Conte di Virtù? — urlò il principe. — Tanto basta... Doppia ragione perchè quella terra sia posta a soqquadro. Se esistesse un solo Mantegazza, e quello fosse ancora celato nelle viscere di sua madre, il pugnale del mio più fido servo spenga d'un colpo la razza scelerata! E che? mi si minaccia forse perchè il covo dei ribelli è sul territorio di mio nipote? Date a lui un bordone ed una sporta; non cerca di meglio, quel collotorto! Bravo Medicina! tu m'hai predetto la buona ventura questa volta. A te l'onore dell'impresa. Tu stesso devi essere il primo a mettere piede, in mio nome, sulla terra dei ribelli; tu precederai cento, duecento, mille delle mie alabarde, e porterai in quel castello la ruina e l'incendio. — Tutto sarà tuo: le carte solo e la fanciulla prenderai per mio conto. — Io, che ho sfidato l'ira del papa, che ingrasso nelle sue scomuniche, dovrò tremare della stizza impotente del mio diletto nipote..? Ah ah! Una sfida... vedremo... Parti, parti: fra tre giorni la risposta.„ Medicina, tutto mogio in apparenza ma assai sodisfatto nell'interno dell'animo, offerse al suo signore la più ampia protesta d'obedienza, curvandosi dinanzi a lui fino a terra; poi uscì. Non era ancor fuori della sala, che la gioja sprizzava dalle mille rughe della sua faccia da ipocrito. Raccolse un momento i suoi pensieri; scelse poscia i compagni, li ordinò, li istrusse; e prima che fosse notte, sprezzando l'intemperie, partì per Campomorto, da cui sognava di ritornar fra tre giorni ricco sfondolato. LXIV. Il disagio del cammino, cresciuto dal bujo della notte e dall'imperversare della procella, spense alcun poco gli spiriti del ciurmatore. Non già che gli sembrasse d'aver fatto un magro negozio; scopriva soltanto che la via era meno piana di quello che aveva sognato. — Quanto alla noja del viaggio, egli, che faceva pagar caro ogni suo atto di servitù, pensava rifarsi, aggiungendo nuovi titoli alla benevolenza del suo padrone e prelevando un lauto acconto sugli infelici abitatori di Campomorto. — Finchè agiva in nome del signor di Milano, non temeva di essere defraudato nei suoi guadagni. Ma in quest'intrigo arrischiava egli ancora qualche interesse tutto suo; onde, per non veder sfruttato il doppio e pericoloso traffico, chiamava a consulta le vecchie astuzie. Medicina, lo sgherro di Barnabò, era anche il confidente di Giangaleazzo. — Chi dei due lo pagasse meglio, egli non curava indagarlo; ottima cosa era il farsi pagar bene da entrambi. Condurre una mano di sgherri a Campomorto, senza darne avviso al Conte di Virtù, era mettere in pericolo la protezione di costui. Imprigionare la figlia di Maffiolo, e consegnarla al signor di Milano, non era cosa scevra di pericolo: la prigioniera avrebbe potuto farsi accusatrice delle sue pratiche col signore di Pavia. — V'era di che pensar seriamente. Ed ecco perchè gli pareva meno lunga quella strada, che gli dava tempo a riflettere. Non uno, ma cento progetti accolse coll'animo lieto di chi risolve un problema difficile: ma il conforto era passeggero; quelle soluzioni tanto vagheggiate erano poscia respinte col disgusto di trovarle sempre fallaci. Sotto il peso di quelle difficoltà, il bottino di Campomorto andava perdendo ad una ad una le sue attrattive. Pensava alla terribile probabilità d'essere scoperto; e lo poteva essere; e se lo fosse? A che le sue ricchezze? Più non gli rimaneva che il dubio sul luogo, in cui egli avrebbe espiata la pena dei traditori. — Questo pensiero lo faceva rabbrividire. Dopo lunghe ed inutili torture, finalmente scoperse l'unica ed infallibile scappatoja. — “Si vada a Campomorto, disse egli fra sè, poscia a Pavia. Nella prima fermata raccoglierò di fretta quanto più m'importa; nella seconda farò, con più zelo del solito, il mio officio presso il Conte di Virtù; e, ridestando i suoi sdegni contro lo zio, gli offrirò l'occasione di battere le milizie che invadono il suo dominio, e di spogliarle di quanto avranno predato. Ma questa occasione non verrà mai, perchè io pel primo andrò di volo a Milano a denunciare alla signoria i procedimenti del Conte di Virtù. Per tal modo darò ad ognuno il buono e il tristo del mio mestiere.„ — Credeva il ribaldo, che ciò fosse giustizia. Quella mattina i poveri abitatori di Campomorto si risvegliarono soprafatti da una doppia disgrazia; la partenza misteriosa della castellana e la comparsa di ima masnada, che pur troppo non faceva mistero dei suoi intenti. Quale terribile angoscia dovesse produrre la minaccia di una scorreria, ben lo si può imaginare, pensando all'istinto rapace di quei soldati di ventura, alla insaziabile avidità di chi li guidava, e al genio feroce del principe che li aveva sguinzagliati. I terrazzani, colpiti all'improviso, non ebbero tempo di raccogliersi e di pigliar l'armi. Se alcuno, spiando dall'alto il pericolo, spolverò lo stocco e diè mano agli arnesi guerreschi, non appena s'accorse con chi aveva a fare, rallentò l'opera, e depose le armi. — La difesa era inutile; l'ira grande ma impotente. Gli infelici non avevano altro modo di scongiurare la mala fortuna che farsi incontro ad essa con piglio mansueto. Medicina non era l'uomo dalle vendette inutili. — Una sola volta ei l'aveva gustata nella morte del povero taverniere di Pavia; la lezione gli rimase impressa nella mente per tutta la vita. Autorizzato a far man bassa sugli infelici terrieri, pensò che meglio fosse limitarsi alle minacce, per avere da loro, o per loro mezzo, la più gran copia di roba e la migliore. Mentre la sbirraglia si sbandava nella cantina, e nel tinello, preludiando un'orgia, il capo di essa, seguíto da un suo fido compagno, visitò i luoghi più nascosti del castello, raccolse quanto vi trovò di più prezioso, e ne fece un mucchio, che consegnò all'amico, promettendogli a suo tempo una vistosa quota nel riparto. — Poscia, annunciandogli che doveva partir sùbito, lo nominò suo luogotenente, investendolo di pieni poteri, non senza consiglio d'usarne con quella discrezione, che meglio giovasse ad ingrossare il bottino. — Fatto ciò, riempì le tasche di grossi ducati fin dove le forze potevano sopportarne, e scomparve. LXV. Il Conte di Virtù, reduce a Pavia e alle sue abitudini, non vi trovò la desiderata calma. Sperava che il ravviare le vecchie pratiche sì care un tempo, dovesse porgere pascolo gradito al suo spirito irrequieto. — Frugò nelle carte per rintracciarvi il secreto delle sue ambizioni; interrogò ogni angolo della reggia, perchè gli ricordasse quante volte e con quanta compiacenza aveva in essa mentito agli sguardi scrutatori de' suoi avversarj. — Si trovò deluso: quel mistero che circondava la sua esistenza, e che soleva diradarsi soltanto per spargere l'errore dove prima era incertezza, gli cagionava fastidio, come fosse rimorso, come se la coscienza gli dimandasse imperiosamente pel futuro un procedere più schietto. La memoria della fanciulla di Campomorto era la viva apparizione della bellezza accoppiata alla virtù. I sensi di lui s'imparadisavano nell'evocare le sue angeliche forme; ma l'animo, nel penoso esame di sè e nella coscienza della propria inferiorità, lottava fra le sbiadite memorie del passato e le dolorose incertezze dell'avvenire. Se alcuna volta rivendicava la stima dovuta a sè stesso pensando alla lettera di Maffiolo, quelle parole, ancorchè incoraggianti, avevano un valore soltanto come un patto condizionato pel futuro: e quel patto era grave, arrischievole, pericoloso. Egli giocava un gioco formidabile, di cui ignorava perfino la posta: sapeva soltanto che poneva a risico il suo avvenire, la gloria, la speranza di tutta la vita: e che, toccata una sconfitta, gli riescirebbe impossibile la rivincita. — Il secreto che lo legava a quel patto era l'amore: un amor forte come la sua ambizione e meno paziente di quella. — Usciva egli dunque da una carriera arcana e difficile, per gettarsi in un'altra egualmente e più scabrosa. Con qual diritto avrebbe egli tentato di ravvicinarsi alla donna ch'egli amava? Spettava a lui il discendere onde eguagliare il principe alla vassalla o non doveva piuttosto tentar di salire, perchè il nome di un Visconte fosse degno della virtù dei Mantegazzi? Finchè durava questo dubio, entrambi avrebbero proceduto l'uno discosto dall'altro, come viandanti che battono due strade vicine, e non s'incontrano mai. Pensando allo scritto di Maffiolo, e alla confidenza ch'egli si era meritato, concludeva che se la felicità di Agnesina gli era cara, la sua virtù doveva essergli sacra. Tornava col pensiero alle sollecite cure che gli erano state prodigate nella casa di lei; si gloriava delle prove d'affetto ottenute; ma concludeva: “guai a chi abusa dell'ospitalità!„ — Nello stesso ricordo si mescevano la rapida serenità dei giorni passati a Campomorto, il severo giudizio di Maffiolo, e il sacro debito dell'ospite. — Amava inebriarsi del primo pensiero, ma non appena vi si accostava gli altri ponevano nella coppa delle sue delizie tanta parte di ragione, che bastasse a distruggere ogni incanto, ogni ebrezza. Alcuna volta gli parve che i suoi scrupoli fossero soverchii, e s'accusò di pusillanimità. Volle convincersi che una condotta meno cauta dal canto suo non sarebbe stata sconvenevole. Giunse perfino a vagheggiare con diletto il suo posto eminente, pensando ch'esso gli dava il diritto di chiamar legge ogni suo desiderio. Se a confortarlo in questo disegno richiedevasi l'esempio d'altri, egli non aveva che a volgere lo sguardo intorno a sè, e cercare in qual conto i signori suoi pari tenessero la virtù delle loro vassalle. L'elastica moralità della corte gli susurrava nel cuore, che l'infamia non era generata dalla natura di un fatto, ma dalla condizione della persona che lo commetteva. Ciò che era delitto in un popolano, diveniva affabile compiacenza in un principe. Le lacrime del povero erano tosto rasciugate da un sorriso di lui: dinanzi a lui, l'onestà famelica era men bella che la docile sommissione. Ma il diletto, se pure poteva chiamarsi con questo nome un'allucinazione passaggera, gli metteva nel cuore una nausea, un fastidio, come se ingolasse un dolciume, in cui l'acre del veleno è mal mascherato; quindi respingeva tosto quei pensieri, come si respinge la coppa che è conosciuta infida. Allora tornava saggio come prima; anzi, più di prima severo con sè, quasi volesse rinvigorire colla vergogna di una colpa meditata la sua virtù vacillante. LXVI. Nella proverbiale ferocia del suo secolo, Giangaleazzo era una individualità privilegiata. — Diciamo privilegiata non unica; perocchè Azzone e l'arcivescovo Giovanni l'avevano preceduto col buon esempio. — Nelle cose di stato egli non seguiva l'esempio dei prìncipi del suo tempo, soliti a marciar dritto colla spada alla mano. Senza che egli apprendesse l'arte di governare, che poi divenne scienza, ed ebbe scuole, dottrine, e maestri, anzi prima ancora che esistesse la parola per qualificare l'uomo di stato, egli lo era, direm quasi, per istinto. Il suo carattere calmo, riflessivo, perseverante, lo premuniva dalle facili improntitudini dei suoi pari, sì gradite quando il cuore vi si abbandona, sì gravi di pentimento, quando ne ricerca il frutto. La cortigianeria, pronta a magnificare le virtù dei grandi ed a palliarne i difetti, non aveva valore sull'animo suo, che come mezzo di conoscere negli sviscerati piaggiatori i più incauti avversarii della sua fortuna. Inflessibile davanti alle smodate piacenterie di costoro, sopportava con animo egualmente imperturbato lo sguardo sinistro di coloro, fossero grandi o meschini, che lo disapprovavano. — Anzi, nei primi temeva a buon dritto la menzogna: in questi, no; il loro odio egli gradiva, perchè almanco sincero. Anche nella vita domestica apprese di buon'ora a far violenza alle proprie inclinazioni. Ciò che nella prima età, sotto il dominio di un genitore tiranno, era dura necessità, a lungo andare, coll'uso della vita, diventò un abitudine. — Che se è temerario il dire che la sua studiata mitezza era solo un omaggio alla virtù, bisognerà per lo meno convenire, che egli possedeva l'arte fortunata di giungere felicemente ad uno scopo, senza calpestare con apparente violenza gli ostacoli, che gli attraversavano la via. Il suo carattere ritraeva in parte le virtù della madre, Bianca di Savoja. Nell'animo di lui non cadevano in fallo i semi della educazione materna e i primi rudimenti di una cultura, rispetto ai tempi, vasta e gentile. Galeazzo II, dopo avere inventato la terribile quaresima di tormenti, fondò l'Università di Pavia. — Strano accoppiamento di barbarie e di civiltà, che sembrerebbe irreconciliabile, se non si pensasse che quel principe, ben lungi dal promovere negli studj la cultura e lo sviluppo intellettuale de' suoi sudditi, volle soltanto circondarsi di un'eletta schiera di sapienti, onde rifar credito alla scaduta cortigianeria. Egli gustava nelle parole dei dotti il sapore di una dialettica severa e piacevole, ma l'animo indurito non cangiava tempra a sì modico calore: nè il coraggio dei neofiti della scienza giungeva a tanto da mettere in pericolo la protezione del potente, pel fuggevole diletto di apostrofarlo con una acerba parola. — Il fondatore dell'Università non raccolse che i fiori dell'opera sua; i frutti vennero più tardi; ed il primo a gustarli fu probabilmente il figlio, cresciuto fra le dispute dei sapienti, nutrito dalle balde armonie dei provenzali, educato dalle meste note del Petrarca. Un buon terreno, cui venga affidato buon seme, tosto o tardi, produrrà qualche frutto, a dispetto dei nembi passaggeri e dell'influsso malefico dei paduli circostanti. — Il giovine principe, in mezzo ad una corte corrotta, potè sfuggire al contagio propagato dall'adulazione: apprese anzi ad odiarla, come la causa precipua degli errori del suo genitore. Devoto al nome ed all'autorità di lui, dissimulò le secrete accuse, che il cuore moveva spontaneamente contro la sua brutale crudeltà; comprese, fino da fanciullo, quanto fossero fatali le esorbitanze del suo governo: riconobbe la menzogna dei cortigiani e la giustezza del publico malcontento: e nell'esempio della madre, maestra di toleranza e sua compagna nel martirio domestico, apprese ad odiare l'ingloriosa grandezza dei tiranni. — Una natura così nuova e privilegiata parve un enigma a tutti coloro pei quali il despotismo era allettamento od interesse. Il perchè, il signor di Milano e i suoi addetti, non sapendo come meglio spiegare questo fenomeno, chiamavano Giangaleazzo un _uomo da nulla_. LXVII. Per verità, dopo il ritorno da Campomorto, il Conte di Virtù accusava sè stesso di dapocaggine quante volte, tentando di combattere una preoccupazione creduta puerile, ricorreva scoraggiato e nauseato alle vecchie pratiche della corte. — Dolevasi che uno stolto pensiero, malgrado gli avvisi della ragione, divenisse il tiranno della sua volontà; dolevasi di arrischiare per esso i frutti di un lungo esercizio di virtù politiche. — Ma l'accorgersi del pericolo è già mettersi sulla via di scamparne. Chi crede che il tempo sia un rimedio, confessa il male, e desidera di guarire. Ora, in mali di simil genere non vi ha sintomo migliore di questo. Le persone che lo avvicinavano, fatti accorti del mutamento, pensavano che il principe non fosse ben guarito; e l'uomo della scienza, chiamato dal suo dovere ad interrogarlo, credette aver penetrato il secreto de' suoi mali; ma s'affrettò a spiegarlo con un tale sfoggio di dottrine astrologiche, che valeva quanto il confessare schiettamente di non avere compreso nulla: del che il principe fu assai contento. Fatta a suo modo la diagnosi, entrò a proporre il rimedio. E non si mostrò pago d'un solo; consigliò al suo cliente l'uso di più sostanze stillate insieme, le cui virtù occulte elidevano l'occulta potenza dei sortilegi, suprema ed indubia cagione di tutti i mali d'origine ignota. Poi consigliò al principe di mutar aria, di togliersi dalle cure, e di cercare nel perfetto riposo il ritorno delle forze e l'uso completo delle facoltà. — Il conte accettò il consiglio; finse di sottomettersi docilmente al regime dei filtri, che il medico stesso ammaniva, e ch'egli, quand'era tutto solo, buttava dalla finestra. Di più buon grado poi seguì l'altra proposta; e fissò di partire l'indimani pel suo castello di Belgiojoso, facendosi seguire da un piccolo numero di servi e dallo stesso medico; onde accreditare meglio la notizia ch'egli fosse malato; e poter vivere solo. Che alla scelta della nuova dimora contribuisse il pensiero di avvicinarsi a Campomorto, non si può asserirlo con franchezza; ma non è lecito nemmanco il negarlo. — Fatto è ch'ei partì, che volle andarsene malgrado il tempo burrascoso, e che giunto colà non apparve nè più sereno nè meno sofferente di prima. Dal piccolo corredo che ei portava seco, avrebbe voluto escludere tutto ciò che gli ricordava la sua infelice passione: ma cercò invano d'ingannare la memoria: essa si risvegliava ad ogni istante, al più sommesso appello di frivoli oggetti, come si ridesta la vampa fra sostanze incendevoli, se vi è celata una sola favilla. Le cose procedettero a questo modo per due giorni. Il conte non si doleva; ma il suo volto, più che d'abitudine pensieroso, confermava le durevoli sofferenze. — La corte non fu mai così mesta come allora. Se ne dolevano i pochi servi, defraudati delle solite baldorie; e il peso dei loro rimbrotti cadeva sul medico, come se la noja di tutti fosse sua colpa; mentr'egli invece nella secreta sua cella non ristava un momento dal cuocere, spremere, stillare erbe ed aromi. Finalmente, al cadere del secondo giorno, il sole riapparve, e salutò il creato con un raggio di buon augurio. Nel corso della sera il cielo s'andò a poco a poco sbarazzando dai vapori, che lo coprivano: a mezza notte non era più visibile una sola nuvoletta. Allora, l'instancabile scienziato abbandonò l'officina, e i suoi matracci, e, salito sopra l'altana del castello, si diede a percorrere coll'occhio i quattro lati della volta celeste, sperando di rubare agli astri il secreto, che l'inferma natura della terra sembrava negargli. Ma aveva un bel fare a spingere lo sguardo in ogni parte di quel vastissimo orizzonte; egli strisciava sempre a terra, condannato a portare la catena dei suoi pregiudizj. — Accostava all'occhio la doppia lente, novella meraviglia inventata da Alessandro Spina, pisano; e credeva veder più da lungi e più distinto; ma l'intelletto, in mezzo a tanti oggetti, provava l'imbarazzo d'un malpratico, che si trova in un paese nuovo, in mezzo ad un crocicchio di moltissime vie, e non conosce quale sia la buona, e non sa come e da chi prender lingua. Ei girava in su e in giù, dall'uno e dall'altro lato, come se volesse interrogare il cielo intorno a ciò che doveva chiedergli. Ma non pertanto egli era uomo da confessare che quella immensità lo confondeva. La sua ignoranza lo rendeva imperterrito. E quando i delirii della sua mente non gli servivano di sgabello a salire alcun poco, non faceva che storpiare le leggi della natura per impicciolirle, per accommodarle a' suoi pregiudizj, e farle complici dei suoi errori. Lasciamo che egli erri a libito negli spazii, cercando il nesso dei tre mondi, l'elementare, il celeste e lo spirituale: lasciamo ch'egli studii gl'influssi prodromi e conseguenti degli astri, deducendoli dalle loro apparizioni, congiunzioni ed occultazioni, ch'ei discenda infine a combattere la malvagia _goezia_, e a cercar l'alleanza della _teurgia_ benefica; la storia degli errori umani è troppo ricca perchè ci sia il tornaconto d'occuparci ad illustrarla con una parola di più. Un altr'uomo in quel castello e in quel punto vegliava come lui. Dopo di avere tentato inutilmente di abituarsi alle coltri divenute insopportabili, balzò dal letto, si coperse alla meglio e, schiuso un balcone che guardava a levante, vi si affacciò, avido di bevere l'aria fresca della notte e di specchiarsi nella vista del cielo. — Costui era il Conte di Virtù. — Se con quell'aspetto e in quell'arnese avesse percorso gli androni del castello ed incontrato anima viva, da quel dì certamente avrebbe dato credito alla favola che ivi errasse uno spettro; tanto egli era pallido e contrafatto. Escito sul balcone, levò gli occhi al cielo; non per voglia d'interrogarlo, ma attratto dalla sua bellezza e dal bisogno di rivolgere ad esso la muta preghiera degli infelici. — Giammai in sua vita gli parve d'avere assistito ad uno spettacolo più sublime. Allora gli corsero alla memoria ed al labro quei versi dell'Alighieri: O gloriose stelle, o lume pregno Di gran virtù . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A voi devotamente ora sospira l'anima mia . . . . . . . . .[24] Poi disse fra se — “Ogni istante il cielo ne schiude il tesoro de' suoi prodigi, e i nostri occhi fissi e invetrati non sanno levarsi da questa terrena bassura per contemplarli? Quante volte _il pio terror della notte_ si dileguò sopra il nostro capo senza avervi destato un sol pensiero? Quante volte la natura operò meraviglie dinanzi alla cieca umanità? — Toglietevi dalle piume, o voi cui il dolore non concede riposo: trascinatevi ad uno spiraglio, da cui si veda la notte; e lo splendore degli astri vi solleverà da questa terra, dove le vostre lacrime hanno fecondato le spine, e su cui vi trascinate come i vermi. L'origliere non dà alla vostr'anima trambasciata che la breve tregua del sonno; men calmo forse della morte, poichè turbato da fantastiche paure.... Qui ogni miseria vostra svanirà: qui vedrete Iddio nell'infinita bellezza dell'opera sua. Stolti! per aver pace, interrogate le strane inezie del caso; vi commovete al crepitar della fiamma, al cader d'una foglia, all'apparire di un insetto: e non stupite davanti alle meraviglie del cielo!...„ Curvo presso il parapetto del balcone, col capo appoggiato alla mano, e il braccio steso sul davanzale, stette egli lungamente contemplando quella scena. — L'aria, flagellandogli il viso, temperava il ribollimento interno, cagione della febre e dell'insonnia. La vista della natura placida e serena gl'infundeva nell'animo una dolcezza così nuova ed arcana, che mai non provò l'eguale. L'armonia di un caro nome si mesceva al queto alitare della brezza; e i due suoni concordi si confondevano in uno solo. Due begli occhi neri evocati dall'accesa fantasia, brillavano come le stelle; e le stelle, e quegli occhi, avevano di comune un fuoco vivo ma casto e temperato, che giunto al cuore l'inondava di delizie e di speranze. A quella vista, la sua mente andava spaziando più libera e padrona di sè. — Il cuore, prima angustiato ed inerte, pulsò con un ritmo celere ed eguale. Non era febre, ma raddoppiamento di vita. Di pensiero in pensiero, egli varcò i gradi di un immensa scala piantata nel fango delle cose terrene e diretta al cielo. Le idee non seguivano un corso ambiguo, e sconnesso, ma fluivano placide ed ordinate, sicchè per esse ei percorreva a rimorchio con impulso propizio la corrente dei fatti, e dagli effetti ascendeva a riconoscere le cause, fino a scoprire la cagione delle cagioni. Toccata quell'altezza, oh, come gli parve piccolo il mondo! Con quanta pietà guardò egli l'angusta cerchia de' suoi dominii! Con quanto dolore ravvisò le interminabili gare degli emuli, che per usurpare il patrimonio della patria antica, ne facevano a brani gli avanzi! Una scena di desolazione gli si aperse sotto agli occhi. — Qua vide province e città, crudelmente separate da confini arbitrarii, non voluti nè difesi dalla natura, ma assiepati d'armi venali e straniere. Là, campagne bianche d'ossa insepolte, che nel silenzio della notte si cercavano e si riunivano per sorgere, spettri vaganti e terribili, ad imprecare contro i fratricidi. — Erano quelli gli avanzi dei seguaci d'una fazione che, nel bollore delle ire di parte o nell'accecamento dell'ambizione, vennero, trucidati come nemici, mentre erano fratelli, figli di una madre comune. — Le tante vittorie cui aveva assistito gli parvero allora più inonorate delle sconfitte; l'ebrezza passaggera del vincitore ben più deplorabile che il silenzio e la vergogna del vinto. “Quel veleno che rode le radici, diceva egli, attossica i frutti. La discordia dei prìncipi, non si arresta fra i prìncipi: scesa negli ordini minori fino all'ultima plebe, rompe i legami di sangue, di gratitudine, d'amicizia. Ogni cittadino ha davanti a sè un tiranno; accanto ed alle spalle, nei fratelli d'altra fazione, altretanti nemici.„ Agitato da queste amare rimembranze, il conte teneva la testa bassa e l'occhio errante nelle tenebre della terra. Ma quando surse a contemplare una seconda volta il magnifico spettacolo, un palpito nuovo, e soavemente mesto, lo richiamò a più dolci pensieri. — “Al cospetto del cielo, proruppe egli, le glorie di quaggiù sono fuochi fatui, che s'inalzano dal suolo fradicio, per sprigionare i miasmi della terra, e far più gravi le tenebre circostanti; ma la carità, oh la carità è la scintilla vergine e pura, è la luce del sole che offusca quella degli astri!„ — Quel palpito o quelle parole erano consacrate alla sua patria; alla madre tapina ed infelicissima, che invano mostrava le piaghe e chiedeva soccorso agli ingrati suoi figli. Allora sprezzò la vacua grandezza de' suoi rivali. La virtù di Maffiolo, ignorata come il diamante nelle viscere della terra, gli apparve più luminosa; il suolo in cui quel tesoro era nascosto, doveva essere fecondo d'altre nobili produzioni. Si propose di scuotere il fango delle passioni per diseppellirvi l'arcana virtù. Giurò per l'anima del generoso cittadino, ch'ei non chiuderebbe gli occhi in pace, finchè l'alto suo pensiero non fosse condotto a compimento. “Sì — proruppe egli, a voce alta e con entusiasmo — imiterò il povero che lavora dì e notte per sfamare la madre. Guai a noi se osiamo abbandonare colei, che ne diede la vita. — Ambizioso, snuderò le armi dell'indomita passione a suo profitto: diverrò grande, affinchè la mia offerta sia degna di lei; diverrò ricco, affinchè la madre nostra non gema nella povertà. So che ricchezza e potenza susciteranno contro me turbe d'invidiosi. Ma che monta?... Forse che l'approvazione o il silenzio di costoro può essere mai lo scopo della mia vita? Il cammino è lungo: gridino a loro modo i codardi o i rivali, io non mi arresterò a render conto de' miei passi. — Avanti, avanti, lo spirito di Maffiolo mi rischiara la via. Mentre i faziosi affilano le armi per le guerre fraterne, io li sorpasserò. Quando la patria avrà ricuperato il suo nome glorioso e l'antica sua grandezza, il mio cómpito sarà finito; e m'arresterò. Intanto la mente e il cuore anelano a quella meta: ivi è la posta dove lo spirito di Maffiolo mi attende; colà l'amore d'Agnesina sarà la mia corona.„ Al pronunciare questo nome, il viso del conte si fece raggiante, come se riflettesse la calma serenità del firmamento. Pensava alla fanciulla di Campomorto coll'animo confidente e pio con cui l'Alighieri cantò Beatrice; e, richiamando la sua donna cogli occhi del pensiero, gli parve udire dal suo labro quei due versi: Le mie bellezze sono al mondo nuove Però che di lassù mi son venute[25]. I sensi furono debellati; l'affetto, che gli ferveva nel cuore, divenne sì puro che, davanti alla severa testimonianza del cielo, non arrossì di confessare la propria esistenza. Non era la donna che egli vagheggiava; ma la carità verso la patria tradotta nelle incorporee sembianze di un angelo. LXVIII. Si dice essere la notte l'amica dei ladri. È infatti nell'ombra e nella quiete di essa che si medita e compie la più gran parte dei misfatti. — La notte promette silenzio ed impunità; e spesso tien la promessa, disperdendo l'opera dei malvagi nella bolgia delle turpitudini anonime. Essa genera in tutti un aumento di forze, il quale, se non abbisogna al saggio per serbarsi onesto, basta al malvagio per rinvigorire i suoi pravi istinti. — Perciò, se si vuole rappresentare uno scelerato, lo si circonda di tenebre. La cella delle sue inique meditazioni si finge scarsa di luce; l'ora del delitto è il colmo della notte; la scena un ritrovo solitario. A nessuno cadrà mai in pensiero d'imaginarlo franco col viso alto e la fronte rivolta al cielo. Che se egli osa talvolta gettar sguardi procaci, i suoi occhi non soverchieranno mai il capo della vittima; e se la vittima saprà affrontarne la luce sinistra con altretanta imperturbabilità, è assai probabile che l'oppressore subisca la legge dell'oppresso. Ma è la notte della terra che offusca lo spirito, ed agghiaccia il cuore, non quella del firmamento, sempre consigliera del bene. La scarsa luce che piove dal cielo stellato è splendore vivo e smagliante che illumina la coscienza, che sprona l'inferma volontà, che rassoda i retti giudizii. — Oh se il malvagio levasse un solo momento lo sguardo al disopra delle cose terrene, egli vedrebbe sciogliersi tosto gli ingannevoli fantasmi che lo trascinano al delitto! Più mite, ma non meno efficace, è il turbamento che essa produce sulle anime gentili, le quali professano alla virtù un culto profondo, e non aspettano che l'occasione per darne prova. Il chiaror delle stelle parla d'amore alle anime schiettamente innamorate; ma non consiglia affetti vili. Esso rinfranca i propositi dei timorosi, perocchè l'uomo sente di non esser solo, mentre Dio gli è testimonio e consigliero. È maestro d'azioni generose, giacchè quella luce che gli fa parer bello l'erto sentiero della virtù, gli mostra l'inganno e la caducità del bene comprato con un rimorso. Null'altro adunque che la vista di quella magnifica notte commoveva l'animo del conte. Invano aveva egli cercato la calma all'assopimento ed al riposo; invano l'avrebbe chiesta alle memorie del passato od alla sapienza dei libri. E che era mai quello spettacolo, se non una delle mille e mille notti, che scorrono placide ed obliate su tutta la terra, senza essere privilegio di clima o di stagione? — Non brillava la luna. La volta celeste libera d'ogni nube poteva paragonarsi ad un immenso velo bruno e trasparente, attraverso il quale si diffundeva una luce scarsa, uniforme, mestissima. Gli astri di maggiore grandezza gettavano sprazzi di fuoco a vario colore. Intorno ad essi una grande aureola d'aria bruna sembrava tenere in rispetto l'innumerevole corteggio delle stelle minori. — Ma quello spazio di cielo, in cui a prima giunta non si vedevano che tenebre, a poco a poco si popolava di uno, di due, di cento scintille, che apparivano e sparivano, con tale incertezza e in sì gran copia, che difficile, per non dire impossibile, era lo scoprire un punto, dove esse non fossero. Nel mezzo e longitudinalmente la volta celeste era partita da una zona albicante, a contorni incerti e sfumati, che a prima vista poteva confondersi con una nuvoletta, ma che, meglio guardata da chi tenesse conto de' suoi movimenti, insegnava anche all'occhio profano non essere emanazione della terra, ma sostanza eterea mossa da una sola legge col resto dell'universo. L'osservatore, non più sapiente che i sapienti della sua corte, di cui abbiamo già conosciuto un esemplare veritiero, respingeva in sua mente le pagane credenze, che spiegavano quella notturna apparizione. — Ma mentre rideva di chi la chiamò una stilla sfuggita dal seno di Giunone, o la strada rovinosa di Fetonte disseminata di cenere, o il sentiero degli eroi avviati al tempio della immortalità, inclinava con Teofrasto e Macrobio ad abbracciare l'ipotesi tornata in voga, che essa non fosse altro che la saldatura dei due emisferi celesti. — La più sana delle congetture era, come avviene pur troppo e sempre, la meno accetta. Nessuno pensava a quei tempi a Democrito d'Abdera che, quattro secoli prima dell'era nostra, sospettava essere la via lattea quello che è per noi al dì d'oggi, miriadi di stelle. Risalendo il corso della storia, ad ogni piè sospinto ci avviene d'incappare in traviamenti dell'intelletto umano. Chi provasse soverchio fastidio nel percorrere una strada seminata di errori, abbandoni il proposito di frugare nelle vecchie carte. Probabilmente i nostri posteri diranno lo stesso di noi. Ma non ci deve esser lecito sperare che verrà un tempo, in cui l'uomo, compiuta la conquista del possibile, rimarrà pago e tranquillo a fruirne i vantaggi? Diremmo di sì, se una dolorosa esperienza non ci avvertisse che questa immobilità fondata sul possesso del meglio, (tacciamo dell'ottimo) non ebbe mai una durata significante. Quando l'uomo cessa dall'edificare, incomincia il rude lavoro della distruzione. Più volte egli fu vicino a toccare il colmo della civiltà; ma giunto a meravigliosa altezza, non vi si arrestò: scese di nuovo, disconobbe l'opera sua, abiurò le verità conquistate, morì sotto il raggio del sole, per rinascere dalle sue ceneri, come l'uccello della favola. Il nostro osservatore cadeva in un altro e più madornale inganno. Egli (e tutto il mondo con lui) pensava, che la volta celeste scorresse al di sopra del suo capo, con quel moto uniforme di traslazione, che appare all'occhio di chiunque guarda il cielo in ore differenti, con illusione simile a quella di chi, solcando l'acqua, crede che la riva gli fugga lontano — Quest'errore era rafforzato da grandi autorità; l'Almagesto di Tolomeo lo convalidò, lo ribadì, lo fece essere il perno di tutte le dottrine celesti per sedici secoli. Su di esso si fondò la deplorabile congerie delle assurdità, d'onde è tessuta l'astrologia. Di fatti, posta l'ipotesi che tutto l'universo sia creato pei bisogni ed a diletto di quest'atomo che si chiama terra, ogni uomo non è troppo ardito se crede aver nel cielo almanco una stella per sè, ivi posta a sua guardia e tutela. Eppure Pitagora e Filolao, trecent'anni prima di Tolomeo, avevano scoperta la dottrina sul doppio moto della terra. Una teoria sì semplice e chiara spiegava tutti i fenomeni della natura, ed appagava la mente ed il cuore degli uomini, imaginando un universo più degno della potenza infinita che lo aveva creato. Ma la verità, forse perchè troppo bella ed evidente, non ebbe proseliti. Ci vollero secoli e secoli prima che si disseppellisse l'ignorata dottrina dei Pitagorici; e quando Galileo la scoperse, la comprese, e la corredò di prove irrefragabili, vide levarsi contro di sè, non solo la dispettosa incredulità del vulgo, ma un'ignavia togata e tonsurata, che tentò strozzare la verità rediviva sotto la pressura de' suoi strampalati sillogismi, rafforzandoli con quegli argomenti, che tutto il mondo conosce dalla storia delle inquisizioni. LXIX. Le dottrine cosmiche, che noi abbiamo attribuito al nostro eroe, erano sue applicazioni: non però del momento, a cui è rivolta la nostra attenzione. Il conte non vide per minuto quanto qui venne toccato di volo; meno ancora s'arrestò a farne oggetto di studii o considerazioni. Quella scena scosse i suoi sensi, e li attraversò per giungere al cuore e sollevarlo in un nuovo mondo, che gli apparecchiava un delizioso delirio. Fu verso il mattino che egli riprese la conoscenza dell'esser suo; e allora si trovò stanco, sbattuto, aggranchito dal freddo e dall'insonnia. All'escire da quel paradiso di belle inspirazioni, ripigliò i sensi, che ve lo avevano sospinto, e li trovò guariti da ogni ebrezza, anzi calmi e torpidi, come nei momenti meno poetici della sua vita. Gli occhi, vogliosi ormai di riposare nell'ombra delle cose prossime, si compiacevano di fissarsi nei vapori mattutini; poi scendevano a mirare le creste dei boschi disegnate sull'orizzonte, e i casolari e gli alberi che escivano a poco a poco dal caos notturno, assumendo forma e colore. L'orecchio, sordo dianzi ad ogni chiamata terrena, cominciò ad udire distintamente il sibilo armonioso della brezza, cui faceva eco il rombo lontano dei rigagnoli e dei fiumi ingrossati dalle piogge; indi l'abbaiare dei cani, lo strido sinistro dei gufi che rientravano nei loro nidi, e il passo misurato delle scolte. Ma, tornando egli dalla sua corsa fantastica, non doveva perderne tutti i vantaggi e tornar l'uomo di prima. Di quell'incanto portava le tracce profondamente scolpite nell'animo, a quel modo che ci restano nella memoria le sembianze e le parole di persona cara dopo esserci congedati da lei. Anzi, se prima i pensieri erravano senza freno in balía della mente agitata, ora, sottoposti al giudizio della ragione, ne divenivano il linguaggio. Quei pensieri adunque andavano guadagnando ordine, consistenza, efficacia appunto perchè avevano perduto il brioso colore d'un sogno. Da quell'istante non sentì altro bisogno fuor quello di lasciare corso agli effetti della misteriosa lezione, che il cielo gli aveva dato. Abbandonò il balcone e rientrò nella camera; diè un'occhiata di pietà al suo letto, e risolse di non spendere l'ultima ora della notte dove aveva sì infelicemente passate le prime. — Un brivido invincibile gli correva per le ossa e gli faceva battere i denti. Staccò dalla parete uno spadone, e s'accinse a manovrarlo a due braccia. Ma quell'esercizio gli interrompeva il filo delle idee. Rimise l'arma; e, pensando che l'aurora doveva essere vicina, si propose d'escire a vederla, e di correre un buon tratto di strada per dar corso al sangue e cacciare il freddo. — Sodisfatto di questo pensiero, si dispose a mandarlo ad effetto; indossò abiti più convenienti, cinse la spada, si coperse di un mantello bruno, e ravvolse la testa in un capuccio cremisino; poi escì dalle sue stanze e, attraversati gli androni del vasto palazzo, scese inosservato nella corte d'onore. Quivi si arrestò un momento, per assicurarsi che regnava intorno a lui la più profonda quiete. Tutti gli abitatori del castello dormivano. Dormiva anche Esculapio che, dopo avere interrogato le stelle e il codice di Guido Bonatto, credette di doverne attendere la risposta in sogno. — S'addormentò il valentuomo col libro fatidico stretto al cuore; ed ebbe infatti più assai che non s'aspettava, spettri ed apparizioni in folla. Peccato che la mattina seguente, nel tentare di rinvergare il bandolo a tanta copia di rivelazioni, non venne a capo di trovar altro fuorchè il ricordo della sua matta paura. Escire dal castello senza essere veduto, non era cosa possibile. Le mura ai quattro lati erano cinte da una fossa, in quel dì torbida e colma dalle continue pioggie. Le porte erano munite di un ponte levatoio, che sulla sera veniva alzato; ed a ciascuna porta vegliava un alabardiere con ordini precisi di non dare entrata a persona, e di non permettere l'escita se non a chi ne giustificasse il motivo. — Il principe questa volta si trovò impacciato in quella stessa rete di precauzioni, che erano scrupolosamente mantenute per la sicurezza e il decoro della sua persona. “Impossibile fare un passo senza aver cent'occhi a dosso, sclamò egli tra sè con dispetto; dimani cotesti oziosi non parleranno che della mia escita mattutina; e Dio sa, quante e quali spiegazioni sull'insolito avvenimento!„ Egli era tornato l'uomo cauto e circospetto di prima. Nondimeno s'avviò di buon passo verso la porta di levante, che era la principale del castello. Per buon tratto marciò ravvolto nella penombra di un alabardiere che passeggiava in su e in giù pel vestibolo, coprendo la lampada appesa alla imposta interna del portone. — Ma quando il soldato s'accorse d'alcuno che gli si avvicinava, fe' un passo di fianco, e lasciò che i raggi dianzi interrotti arrivassero all'incognito. Ma non avendolo ancora riconosciuto, gli diresse a voce alta e in modo deciso un _chi va là?_ Il conte non si arrestò, nè rispose: con una mano rovesciò alquanto il capuccio che gli scendeva sulla fronte; coll'altra fe' cenno di tacere, ponendosi l'indice attraverso alle labra. Dietro quest'atto udì tosto lo scricchiolare delle catene, che scorrevano sulle puleggie onde abbassare il ponte, e vide aprirsi la porta di soccorso. Passato oltre e giunto a mezzo del ponte, girò lo sguardo indietro, ed ammiccò la guardia con un'aria ancora più solenne che voleva dire: “guai a te se parli„. Il soldato ritto al suo posto, appoggiando verticalmente l'alabarda allato della persona, accennò d'aver inteso, e ripetè in cuore suo “silenzio ora e sempre„. Chiuse indi la porta, e ritornò a misurare il lastrico co' suoi passi lenti e sonori. LXX. Varcato il rivellino e le poche opere che fronteggiavano il castello, costrutto a delizia non a difesa dei signori Visconti, escì sulla spianata che in allora non meritava nome di piazza, giacchè scarse ed irregolarmente collocate erano le casipole, che la circondavano. Dicontro alla porta principale si apriva la strada maestra diretta a Corte Olona: via serpeggiante, ineguale, vallicosa, come lo erano tutte a quei dì. Per breve tratto essa soverchiava la campagna, poi correva sepolta fra immense siepi, protette da piante, che sembravano aver comandato per un secolo al passaggero le più stravaganti deviazioni. L'intemperie dei giorni antecedenti l'aveva malconcia ancor più del solito: in certi punti, profondi avvallamenti ricolmi d'acqua la cangiavano in uno stagno impraticabile: ivi le pedate dei viandanti, pel ricorrente bisogno d'aprirsi un cammino fuori della pozzánghera, tracciavano sul ciglio della siepe una viuzza alta e sgombra, che si ricongiungeva alla strada maestra, appena questa tornava meno disagiata. Il conte entrò di buon passo per quella strada e, mano mano che s'avanzava, si sentì crescere la voglia d'andare. — Senza che l'animo suo rientrasse in quell'ordine di idee che nella notte l'avevano inondato di tanta dolcezza, ne provava i benefici effetti in una calma dello spirito ed in un crescente ben essere del corpo, come se giungesse dall'aver fatto un'opera buona, e s'avviasse a riceverne la ricompensa. Camminò sulla strada superandone tutte le difficoltà, e seguendone i giri capricciosi, fin quando vide sulla siepe a manca aprirsi l'ingresso ad un sentiero, che immetteva nei campi. V'entrò a caso; e, postosi sur un arginello elevato ed asciutto, ripigliò il passo colla sua solita lena. Ma fin qui egli non mirava ad alcuno scopo. Un incompreso desiderio l'aveva tratto fuori dal suo soggiorno, facendogli superare la tirannica legge delle consuetudini; ora, trovatosi all'aperto, rivolse gli occhi a quella parte del cielo, da cui si effundevano i primi albori del giorno. Le stelle erano scomparse: solo una brillava a levante di una luce tremula e vivissima sur un fondo d'aria leggermente cerulea, davanti alla quale si diradavano le tenebre, ed a cui succedevano zone degradate di una tinta simile al color della perla, poi un leggiero incarnato, e un roseo intenso; infine un color d'oro ed un croceo vivacissimo, temperato da screzii porporini coll'orlo di fuoco. Sotto l'influenza di quella luce ancora debole e sparsa, già tutto il creato ripigliava vita e calore. — Le piante cominciavano a verdeggiare; le frondi acquistavano varietà e rilievo. Qua la campagna si tingeva del verde scuro dei prati; là dell'arso colore delle stoppie: dove appariva inculta e grigiastra, dove bruna e solcata di fresco. — Tugurj e capanne, disseminate con apparente capriccio, mostravano da lungi la loro pittoresca miseria. Sporgevano fra pianta e pianta i tetti acuminati delle ville lontane, coperti di paglia. o di tegoli, ricoperti da una muffa rinverdita dalle piogge recenti. Il sole non era comparso; e già da un'ora il braccio dell'uomo svolgeva la terra onde prepararla a ravvivarsi sotto i suoi raggi. — La tridua procella, interrompendo i lavori della campagna, aveva costretto il contadino alla più ingrata delle sue fatiche: l'ozio. In quel dì, per riguadagnare in parte il tempo perduto, usufruttavasi perfino la luce delle stelle. Prima dell'alba erano aggiogati i buoi, allestiti gli utensili, divisi i lavori. Uomini, donne e fanciulli, erano inoltrati nel lavoro, quando apparve il sole. I primi raggi non ebbero a riscaldare le membra di quelle creature già trafelate dalla fatica. Il conte poneva a confronto il rude travaglio e il tenue compenso del contadino; e da quell'esame sentiva muoversi il cuore a pietà. Ma quei buoni lavoratori, ignari che un'anima compassionevole pensasse a loro in quel momento, gli diedero inavvertitamente una solenne smentita; perchè da varj punti della campagna risposero con allegre canzoni alla tacita inchiesta di quel pietoso, che in fondo al cuore esclamava — “oh poveretti, come devono essere infelici!„ Accostandosi ad un gruppo di contadini, e costringendoli colla sua improvisa apparizione a levar gli occhi dalla gleba ed a rialzare il dorso curvo sulla marra, lesse loro sulla faccia le ingiurie della povertà, non l'abbattimento degli spiriti. Su quei tratti arsi dal sole, invecchiati dagli stenti, emaciati da una temperanza eccessiva, brillava ancora un non so che d'ilare e di vivace, che non offendeva la severa precocità delle rughe. — I cenci e le canzoni, il lavoro e le celie, la miseria e la contentezza, costituivano la più nuova, la più meravigliosa antitesi. — Per avere il diritto di contemplar meglio quella scena, e di studiarne l'importanza, il conte, che andava in traccia di emozioni, s'arrestò: e, per giustificare la sua fermata, si rivolse ad uno dei più vicini col pretesto di chiedergli dove conducesse il sentiero su cui egli camminava. Gli fu risposto con parole acconce e con un lusso di gesti atti a chiarire nel miglior modo le varie località, cui quella strada metteva capo. “Messere, va forse a Genzone? — chiese il villano con ingenua curiosità. “Sì„ — rispose il conte, cui quel nome e quel luogo eran noti, ma che finse di non conoscer bene per avere argomento d'interrogare. “Dritto dunque fino a quella cascina, — rispose l'altro, accennandola colla mano, — poi a destra pel bosco; fuor d'esso a manca sulla costa alberata, finchè vedrete una torre.... La conoscete la torre di Genzone?... No!... Essa porta bandiera guelfa: non c'è pencolo d'ingannarsi... Un momento, — ripigliò dopo breve pausa, mentre stava per chinarsi di nuovo sul suo arnese. — Avrete a passar l'Olona, ed oggi e per qualche giorno non è possibile sfiorarla sul colmo di ciottoli, come facciam noi nella state. V'ha una piena furiosa, che fece gran danno all'alto. Fate di trovare un batello; l'avrete mezzo miglio al di sopra, camminando sull'argine ove il terreno è sodo. Cercate conto di Ranuccio; egli è nato pel servigio del prossimo, e si chiamerà contento di condurvi dove piaccia a voi.„ “Come va l'annata?„ — interruppe il conte, che più di quegli inutili indizii desiderava scoprire il secreto di accoppiare la miseria alla contentezza. “Come Dio vuole, — rispose il contadino, velando sotto la frase rassegnata la sua poca sodisfazione. — Se avremo pane per quattro mesi sarà un miracolo. Ma che volete? un carro di fastidj non paga un terzuolino di debito.„ “E il restante dell'anno?„ “Eh... al resto ci penserà quel di lassù...„ “Non vi accorate per ciò?... Le vostre donne e i figli cantano allegramente, come se il granajo sfondasse sotto il peso della messe.„ “Ah Messere, questi canti sono la nostra preghiera del mattino. — È già un gran dono del Signore se possiam vederci qui tutti riuniti al travaglio, e s'abbiam braccia a durarla. Quando non si merita nulla, anche il poco è un di più. Eh, Messer mio... v'ha dei più poveri di noi. Se noi dubitiamo del nostro avvenire al di là di quattro mesi, taluni dubitano d'aver pane pel dimani; e v'ha pur troppo di quelli che hanno la disperata certezza di non aver oggi di che sfamare i loro bimbi. Io sono per costoro quello che voi, Messere, siete per me. Del resto, il pensar tanto all'avvenire non sta bene a noi poveri villani; perchè troppo spesso avremmo fatto il conto senza l'oste. Quando il solco ci piglia la semente, non ci promette mai di restituircela. Talvolta la madre terra ce la fa vedere moltiplicata, e noi facciam conto d'aver cambiato i pugni di grano in staja colme: e poi?.... e poi una nuvoletta, in pochi minuti, ci affonda le moggia nel terreno, come fossero erbaccia di scioverso.„ Da tali parole il conte imparò, meglio che dai libri, alcune importanti verità. Apprese che costoro, la cui sorte meschina desta il nostro compianto, tante volte a più buon dritto meriterebbero la nostra invidia, perchè sanno opporre agli insulti della fortuna un'incrollabile fermezza ed una fiducia non meno soda. — Apprese ancora, che la felicità, o ciò che vi assomiglia, come la più comune delle piante, attecchisce meglio all'aria libera e nei bassi ordini sociali: chi ne vuol forzare il rigoglio col rinchiuderla nei serragli, riscaldati dal fermento artificiale dei desiderii, delle passioni, delle fittizie necessità, corre rischio di soffocarla in quel medesimo elemento da cui, a suo credere, dovrebbe trarre vita e sviluppo. Ma non concluse per ciò che si debba abbandonare chi lotta contro l'avversa fortuna alle sagge lezioni della innata sua filosofia. — Trovò che una bella parte era serbata anche a lui: la parte della providenza, cui il poverello affida le sorti del suo avvenire. Si fece perciò dichiarare il nome di quei meschini, e volle sapere quello del suo interlocutore, per dare ai primi un pronto soccorso, per non lasciar mancare pane a quest'ultimo dopo i quattro mesi assicurati dal magro ricolto. Lieto di una tale risoluzione, che lo faceva certo di non avere speso male i suoi passi, fu ad un punto di retrocedere; ma il cuore, senza additargli una nuova meta, le invitava a continuare nel suo cammino, e il conte, docile agli avvisi del suo consigliero che fin qui lo aveva guidato a bene, andò avanti. Poco oltre, succedeva alla campagna ben coltivata, una landa sterile e selvaggia; lavoro delle acque, che avevano roso il glutine fecondo del suolo, mettendo a nudo l'argilla. Ivi, non più traccia di solchi. In alcune parti il terreno sembrava il letto di un'antica alluvione; in altre, dove le acque avevano trascinato la terra sativa, sorgevano mucchi deformi, sui lati dei quali verdeggiavano copiose ceppate d'erbe grasse. Un vecchio mandriano, pratico di quella grillaja, spingeva davanti a sè col bastone una greggia scarsa e macilenta che, dopo d'avere errato lungamente, sembrava protestare belando contro l'intolerabile fastidio di un nutrimento, a cui il pecorajo avrebbe voluto accomodarla. — E infatti, dove era raccolta la terra atta alla vegetazione, stagnavano pure i rigagnoli; e dal fondo paludoso sorgevano verdure acri e nauseabonde, anche pel più sobrio palato. S'invogliò il conte di conoscere se quell'improviso mutamento era dovuto alla natura perversa del suolo, oppure all'abbandono degli uomini. Chiamò quindi a sè il pecorajo, e lo interrogò. “Trent'anni fa, soggiunse costui, quando io scendeva dai monti d'Oltrepò per trovar foraggi alla mia mandra, che era tutt'altra cosa da quello che vedete qui, queste erano le più belle, le più fertili campagne del contado. Se ne vantava il massaro di Genzone, e, sprezzando i suoi vicini e la lor roba, soleva dire che nessuno al mondo sapeva condurre un aratro, nè concimare un solco, nè tampoco distinguere il loglio dalla biada. — Egli andava tronfio e pettoruto come se tutti dovessero chinarglisi dinanzi. E infatti pareva che la messe d'ogni anno si pigliasse carico di farlo divenire ancor più superbo. — Il suo granajo era sempre colmo. — Ma venne il disgraziato anno della pestilenza; e la famiglia del massaro per giustizia divina fu la prima ad esserne colpita. — In questi solchi, di cui menava gran vanto, il superbo, che Dio gli perdoni, riposa con quattro figliuoli ed altretante nuore. Da quell'epoca la sua terra rimase deserta e maledetta: non v'ha chi osi seminarvi un sol granello d'erba fienaruola. È roba di tutti, e perciò nessun la vuole. — Io solo visito ogni anno questa povera campagna, e dico requie a' suoi antichi coltivatori. Ma anche le mie pecore par che sentano il malanno ogni volta che sono costrette a piegar il muso su questi magri brùscoli.„ Anche di ciò prese nota il conte; e stabilì dentro sè di provedere con miglior agio a ridonare a quella terra l'antica sua floridezza; poichè, se a quella mancavano le braccia, v'erano delle braccia cui veniva meno il lavoro. CAPITOLO DECIMO LXXI. Passato il deserto, entrò in un bosco, poi valicò una costiera; percorse nuovi campi, ed altre boscaglie, saltò ruscelli e gore, finchè giunse alla località designatagli, da cui vide sorgere la torre guelfa di Genzone. Di là alla riva del fiume vi erano pochi passi. Egli non vedeva ancora l'acque dell'Olona, mascherate dalla sponda alta ed ingombra di piante, ma ne sentiva il fremito; poichè in quel tratto, a cagione della insuperabile arginatura, essa defluiva più violenta e spumosa. Dietro gli argini e nei naturali avvallamenti del suolo si vedevano ad ogni tratto acque morte e pozzanghere, abbandonate dal rigurgito dei ruscelli, che non avevano libero deflusso. Il sentiero, su cui camminava il conte, si rendeva ancora più tortuoso ed ineguale. Mano mano che esso s'avvicinava all'Olona, crescevano gl'ingombri, e si facevano più fitti i rovi e gli sterpi; finchè, varcato l'argine maestro, scendevasi per una china insensibile alla riva del fiume. Ivi le acque ingrossate salivano ad occupare la sponda declive e l'argine, ingolfandosi in ogni seno e rodendo la viuzza e la riva. Questa doveva essere la meta del nostro viandante; e qui difatti egli stava per voltare indietro e rifare la strada, rinunciando a Genzone ed alle cortesie del batelliere. — Ma non v'ha chi giunga in capo ad una via e, al momento di retrocedere, non si arresti un istante per fissare lo scopo, qualunque esso sia, del suo cammino. — Così fece anche il conte. Cessato il rumore dei passi intese meglio quello delle acque correnti; e, volgendo l'occhio intorno a sè, contemplò con animo conturbato la natura selvaggia del bosco, che aveva percorso. Gli parve allora che la scena, su cui prima il suo occhio aveva vagato con indifferenza, assumesse un aspetto sinistro; che quel sentiero diventasse più angusto; ch'entro il bosco l'aria fosse scarsa e pesante. Anche le forze non erano più valide e complete. La sosta, rendendogli gradita una momentanea inerzia, gli faceva provare un primo sintomo di stanchezza. Per fino il frastuono della corrente gli recava, o sembrava recargli, all'orecchio qual cosa di nuovo e d'infausto. Egli non era però tal uomo da cedere alla stanchezza. Avrebbe riso d'ogni tentazione superstiziosa: avrebbe arrossito di un atto di paura. — Ma, mentre era pronto a respingere ogni codarda esitanza, non voleva o non poteva chiuder l'animo ad un presentimento mesto e indefinito. Il fastidio della solitudine lo spingeva ad escire dal bosco; un sentimento d'opposta natura ve lo tratteneva, come se dovesse attendervi una decisione, una sentenza, la fine di un dubio. — Ritto sui due piedi, con una mano sul petto e l'altra appoggiata al pomo della spada, levando la testa fuor del cappuccio arrovesciato, percorse con rapido sguardo gli oggetti circostanti. — Nulla vide di nuovo o di strano: allora condannò sè stesso a scontare la pena della sua colpevole apprensione, arrestandosi quant'era d'uopo per indagare quale ne fosse stata la causa. A quell'esame ogni malaugurio svanì: tutto rientrò nel corso ordinario delle apparenze di niun conto: tutto, fuorchè una cosa. Allo strepito delle acque s'accoppiava, senza confondersi con esso, un suono più lieve e più strano. Tese l'orecchio, ed arrestò il respiro per ascoltar meglio; quel suono simigliava ad un lamento. Gli intervalli di silenzio che separavano l'uno dall'altro s'andavano allargando; il lagno si faceva più sommesso, più fievole; quasi che il punto da cui partiva s'allontanasse, o come se languissero le forze di chi l'emetteva. Guidato da quella debolissima scorta, ormai non più sensibile di un sospiro, ritornò verso il fiume, vincendo con raddoppiata gagliardía gli ostacoli che gli ingombravano il cammino. — Toccata la riva, scese quanto era possibile sul pendio di essa, e raccolse i sensi per ascoltar meglio; non si udiva che lo strepito dell'Olona. Non contento di ciò, abbrancando i rami di un albero, si prostese inanzi, lanciandosi a corpo perduto sul ciglio della riva: non udì nulla. Si ritrasse di nuovo, e fece ala colla mano all'uno e all'altro orecchio, per rubare all'aria i suoi secreti: ancora nulla. Si sdrajò finalmente, e pose l'orecchio sul terreno, sperando che il suolo gli recasse qualche vibrazione sonora: sempre nulla. Allora rialzandosi, disse tra sè. — “Stolto, chi soffre sono io.„ — Ma non appena ebbe compita la frase, vide al lato opposto del guado un oggetto candido, leggiero, fluttuante, scosso dalla corrente e trattenuto dalle radici di un albero. Benchè gli fosse vicino, non potè rilevarne le forme, perchè intercettate dallo spessore della macchia. Pur vide tanto da mettere da parte il dubio che fosse arredo, od involto, o schiuma d'acqua condotta giù per la corrente. Con quanta ansietà egli movesse a quella volta, non è facile il dirlo. — Convulso, tremante, scuotendo lungi da sè ogni impaccio, aprendosi colla spada la via in mezzo ad una rete di frondi, si trascinò alla riva del guado. Là comprese di che si trattava, e benedisse Iddio che gli aveva mandata una buona inspirazione, ed il suo cuore che non l'aveva respinta. Quell'oggetto fradicio e bruttato di fanghiglia era la gonna di una femina. La tinta di quel lino aveva perduto l'originaria purezza, ma il bruno terso di una ricca capigliatura disciolta ne rilevava in alcuna parte il candore. L'infelice era stesa boccone sur alcune tavole mal connesse, che si tuffavano nell'acqua, o salivano a galla, sospinte dall'urto della corrente che tentava trascinarle seco, o trattenute dalle radici che glielo impedivano. Le vesti, benchè lacere, conservavano l'impronta di una certa quale eleganza; i capelli le nascondevano il volto, il seno e gli omeri, ma ne lasciavano indovinare la gioventù e la bellezza. Più rassicurante caparra di sì preziose doti erano i contorni di tutto il corpo, che, sotto le pieghe della veste inzuppata, si disegnavano puri e squisiti come quelli d'una statua antica, ed a cui l'abbandono fortuito della posa aggiungeva quella compostezza, che comanda il rispetto. Il braccio manco era ripiegato sotto la testa, e fuor dall'onda dei capelli esciva una mano alla quale nè il contatto di tante sozzure, nè il lungo oltraggio, avevano tolto o scemato il naturale candore. Il dorso di essa, leggermente screziato da vene turchine, era pallido e trasparente come la cera; le dita snelle ed affusate si facevano alquanto livide all'estremità. Solo il pugno conservava ancora un avanzo di vita, per stringere alcun che di ignoto. Tutto ciò vide il conte in un sol colpo d'occhio; e comprese, o per dir meglio indovinò, la sorte dell'infelice. Ma quando chiese a sè stesso: “Chi sarà mai quella donna?...„ senti trafiggersi il cuore da un coltello, come se fosse certo che la sventura era toccata alla più cara persona, ch'egli aveva al mondo. — Ogni conforto della ragione, ogni artificio della mente, che in altro istante e in divers'uomo avrebbero trovato più di un argomento per condannare una temeraria certezza, o per eludere un dubio fondato, non ebbero alcun potere sur lui. Pure il dolore, già divenuto estremo e disperato, non lo rese inerte. Mosse, o meglio volò al soccorso. Si sciolse da quell'ingombro, superò il guado, raggiunse l'altra riva, senza sapere, nè allora nè poi, come arrivasse a tanto. LXXII. Non appena sceso in riva al gorgo, si lanciò nell'acqua, senza consultarne la profondità, non curando il pericolo al quale si esponeva. A grave stento, e con uno sforzo che solo un amore appassionato rende possibile, giunse ad afferrare una delle radici che arrestavano le tavole. Stretto ad essa, spinse l'altra mano a toccare il margine dell'oggetto galleggiante. Fu incerta la prova, ed alla prima parve disperata, perocchè la corrente gli rubava le forze, ed il nerbo di esse bastava appena a farlo star ritto sopra un terreno sdrucciolevole e chino. Oltrecciò, un urto inopportuno poteva staccar la tavola, rimetterla in balía delle acque, e farla perduta per sempre. Ma il coraggio, che lo faceva trionfare d'ogni difficoltà, andava cauto ne' suoi procedimenti. Non spese egli perciò maggiori forze di quelle che fossero d'uopo a ben riescire; e riesci infatti a ghermire la tavola, a sbarazzarla dalle barbe cui era impigliata, e a trarla intatta alla riva. Escì egli pure dal gorgo tutto molle e lacero; ma non s'accorse dell'esser suo; non vide tampoco da uno squarcio dell'abito la ferita che egli aveva riportata al braccio destro, nè il sangue che feceva rossa l'acqua sottoposta. Ridotto in salvo il corpo della sommersa, non ebbe bisogno di mirarla in volto per assicurarsi che la sua sventura era certa e completa. “Morta, morta! — sclamò egli con tuono desolato, pronunciando chiaramente le parole come se alcuno l'udisse — morta, qui a me vicino; perchè l'ultimo gemito dell'agonizzante fosse la sola eredità del nostro amore. Ed io, io che accorreva a salvarti, diletta Agnese, che avrei dato cento volte la mia vita per far lieta la tua, io giunsi troppo tardi; come fossi vile o spietato.... Non vedrò dunque più quegli occhi, la cui luce sedava d'un tratto ogni tempesta dell'animo mio; non udrò più la tua voce, il cui suono era temperato e soave come il secreto avviso del nostro buon angelo. — O Agnese, Agnese, tu non dovevi vivere meco; tu venisti presso di me a morire.„ Nel pronunciare tali parole, stese la mano con pietosa riverenza sulla salma, e le sgombrò il volto dai capelli umidi e disciolti; sperando, forse, che un soffio d'aria e un raggio di sole potessero rianimarla. “Oh come sei leggiadra Agnese mia, — continuava il conte, fissandola in faccia. — La vista di un cadavere genera ribrezzo; ed io non mi sazio di contemplarti, come se in te fissassi il sembiante di un bambino che dorme. Lo spirito, fuggendo dal suo carcere, vi ha lasciato un raggio di quella bellezza, che non si estingue. — Ma che? soggiunse egli animandosi, perchè il tuo labro tace, perchè l'occhio è velato e il petto non traduce a' miei sensi i battiti del cuore, dirò che ogni speranza è perduta? Non tenterò io di riscaldare la tua fronte agghiacciata?„ Appena ebbe dette queste parole, si curvò sulla spoglia e, con uno slancio temperato dalla carità, pose la mano sulle mani di lei, e tentò sollevarle. — La destra, benchè rigida ed aggranchita, lasciò cadere in quel moto un rotolo di pergamena, che il conte raccolse, spiegò, riconobbe. Erano versi: quei versi che egli scriveva ed obliava a Campomorto, perchè raccontassero ad Agnesina, nell'unico modo possibile, la storia de' suoi affetti: quei versi che, attagliandosi alla ignota corrispondenza della donna cui erano diretti, contenevano una protesta d'amore, od un puro atto di cortesia, a piacere di chi leggeva. Lanciati a caso, come un dardo nella oscurità, potevano ferire un cuore inerme e sensibile; ma cadevano ottusi ai piedi di chi non li gradisse, o non li volesse comprendere. — Chi avrebbe mai pensato che quello scritto doveva tornare così presto al suo autore e servir di risposta a sè medesimo? Se Agnesina viva, desta, conscia di sè, si fosse presentata al conte, tenendo in pugno il suo foglio, bisognava dire che ella voleva renderglielo con un crudele rimbrotto, o con un sorriso di pietà ancor più crudele; perchè, se ella fosse stata tocca nel cuore da quelle parole, avrebbe con ogni cura celato al mondo intero, e sopratutto agli occhi di un uomo, e di quell'uomo, il possesso del tesoro che la faceva arrossire. Sperare che ella raccontasse all'amante di aver letto i suoi carmi, di ritenerli per sè, di gradirli come cosa a lei dovuta, era follía. — Questo amore doveva essere un mistero; bisognava sorprenderlo, indovinarlo. Il bivio adunque non offriva un'escita felice: in capo ad esso s'incontrava o il silenzio di Agnesina, che equivaleva ad una ripulsa; o una lieta risposta, ma a patto di riceverla dalla mano gelida di un'estinta. Agnese aveva confessato a sè, nel secreto delle sue aspirazioni, in ossequio ai suoi sentimenti, fuor d'ogni rapporto col mondo, il suo amore: il caso fece il resto. — Il conte si dolse, e si rallegrò ad un tempo; benedisse ed imprecò al destino; salutò il nuovo affetto, e pianse la sorte che lo annullava di colpo. Quella scena non era meno lugubre del sepolcreto, in cui un dì Romeo scendeva a visitare l'assopita Giulietta: la situazione dei nostri attori rassomigliava assai a quella dei due fidanzati. — Ma il Conte di Virtù non disperò, come il focoso figlio dei Montecchi, di rivedere l'amata donna; il cuore suo mandava sangue, ma non si rinchiudeva per ingojare il veleno della disperazione. — Non cercò egli un'arma per cadere vicino all'amante: ma pregò il cielo fervidissimamente che la risvegliasse dal suo letargo, e la rendesse ai suoi amplessi. “O Agnese, davanti a Dio che mi vede, e per l'amore di tuo padre, io giuro, che non amerò altra donna che te. Se tu non ritorni alla vita, io ospiterò la tua spoglia nelle tombe de' miei maggiori. Santo ed onorato sarà il tuo asilo. — Ma se i tuoi occhi si riapriranno, deh! che essi riflettano su me, ancora una volta, il raggio vivificatore delle tue virtù, onde per esso siano ritemprate le mie forze, e si compia il gran disegno di tuo padre. Viva o estinta, pur m'appartieni, o Agnese. Ho giurato a me stesso di vivere per te. Aspettai nel silenzio la tua risposta. — Oggi, mentre il tuo labro si chiuse forse per sempre, oggi mi hai parlato d'amore. Tu dunque sei mia sposa.„ Allora, con uno slancio, di cui non fu certo consigliera la ragione, impresse un bacio sui capelli e sulla fronte di Agnesina. Nè si pentì di quella licenza; anzi fu scosso fin nel più profondo dell'animo da una dolcezza tutta nuova. Gli parve che la fronte d'Agnesina non fosse fredda. Incoraggiato da questa prova, e trovandosi solo, inetto quindi a prestarle validi soccorsi, od a chiederne agli uomini colle preghiere e colle grida, non dubitò che gli fosse lecito consultare le fonti della vita su quel corpo esanime, stendendo la mano sul suo cuore, per carpirgli il secreto de' suoi intimi moti. Il solo mettere in questione un tal disegno, sarebbe stato come giudicarlo un atto profano e respingerlo. Fu l'affetto il più puro che lo guidò: la mano, inconscia della propria temerità, penetrò sotto il velo della veste sparata sul seno, e si posò non timida nè ardita sul corpetto di lino. — Quella mano altro non rilevò fuorchè un tiepido ancora più sensibile. Quell'aura di vita, più intensa alla regione del cuore, sembrava espandersi e temperare alquanto il mollore dei lini circostanti. Ma il cuore era muto. Ben sentiva l'interrogatore pulsare il proprio con un aumento di vita febrile e doloroso. Gli risuonavano all'orecchio i battiti concitati delle tempia; e le vibrazioni dell'onda sanguigna imprimevano un moto involontario alle sue braccia, nello stesso punto bramose e renitenti, timide ed ardite. Ma finchè egli stava inclinato su quella specie di bara struggendosi in consultazioni, in preghiere, in desiderii, era nulla l'opera sua. — E forse un pronto soccorso poteva essere seguito da felice risultato. Per la qual cosa, sospinto da una carità vogliosa d'operare, si levò dal suo posto, corse in un attimo sulla riva, girò lo sguardo, chiamò aiuto colla voce, e stette un momento tutt'occhi ed orecchio a spiare se alcuno accorreva alla chiamata. — Il caso gli fu propizio. Non andò guari che vide scendere, lungo il margine del fiume, un garzoncello di tristo arnese, che gettava uncini nell'acqua per rubare al ladro, com'ei diceva: cioè per pescare legna od arredi trascinati giù dalla corrente. Lo chiamò a sè; egli accorse. Postogli sotto gli occhi un bel ducato nuovo, lo inviò da Ranuccio per invitarlo a scendere col batello in aiuto di una creatura in pericolo della vita. Tornato il conte al suo posto, trovò ogni cosa come prima; ma dopo qualche tempo, e dietro un esame più minuto, gli parve che il volto della languente fosse meno livido: le pose di nuovo la mano sul precordio sinistro, e non osò dire di sentirlo battere, ma gli sembrò che nella parte più profonda di esso, assai lungi dalla mano, si risvegliasse un tremito, simile ad una successione inceppata, ma rapida, di battiti impercettibili. La scoperta accolta con gran diffidenza, poi respinta come un'illusione, entrò poco dopo nel novero dei lieti presagi, finchè, avvalorata da altre prove, cessò d'essere una vaga speranza per divenire un fatto certo ed incontrastabile. — E fu provida cosa, ch'egli arrivasse per gradi a sì bella scoperta. Una súbita gioia è per solito più perniciosa che un'improvisa sventura; perchè noi, poveri mortali, per natura e per uso, siamo meglio preparati alle ire che non alle carezze della fortuna. Levatosi allora dalla posizione a cui lo costringeva il suo incarico, fermo però sulle ginocchia, volse lo sguardo e tutta la persona al cielo, e con uno slanciò di pietà, che non può essere tradotto a parole, porse grazie vivissime a Dio, sclamando con enfasi indescrivibile: “Grazie, o Signore; voi avete esaudito le mie preghiere.„ Ma perchè questo sintomo di lieto augurio, che pur lasciava sussistere ancora gravissima angoscia, non andasse perduto, era necessario favorirne lo sviluppo cogli argomenti dell'arte. Non cercò il conte se avesse seco farmaci o cordiali; non sperò ottenerne dalla carità di Ranuccio; non chiese a Dio che operasse un miracolo per mutar le pietruzze del fiume in celidonie, o gli sterpi in adianti e panacee, ma si diede, con tutto zelo e fuor d'ogni riserbo, a quelle cure che riputava più atte a richiamare il calore e le forze vitali dell'assopita. LXXIII. Piegato un ginocchio accanto a lei, coll'altro le fece spalliera; e, levatala dal suo giacitojo, senza nuocere al suo casto abbandono, la accostò a se, appoggiando il dorso di lei al proprio petto, e raccogliendo il capo cadente sulla sua spalla; intanto che, serrandola tra le braccia, gustava senza rimorso la dolcezza di un amplesso. Ogni suo atto era sollecito, pietoso, ingenuo come quello di una madre che regge il proprio bambino dormente. La strinse più volte, e la baciò in fronte; e, postale una mano sul capo, le stropicciava le tempia per incalorirle; poi, staccandosi alcun poco da lei, si deliziava nel contemplarla, sempre più convinto che quel volto pallidissimo era il sembiante di chi dorme d'un sonno profondo, e si deve svegliare tra poco. Se è vero che un fluido misterioso, elemento della vita, può, col rituale di una nuova scienza, esser trasfuso dall'una all'altra creatura, di modo che due esistenze, due volontà, due menti si confondano in una, e questa divenga padrona di quella; chi porrà in dubio che questo spirito vivificatore, di cui è lecito dar ad altri la nostra parte esuberante, non operi il più ovvio prodigio di ravviare un'esistenza momentaneamente sospesa, di scuotere i sensi ottusi, di riaccendere una mente assopita? — Che se alcuno dei nostri lettori non vuol accomodarsi a questa ipotesi, pensi, che intorno ad un corpo vivo ed infervorato da una forte passione, aleggia un'aura tiepida e ravvivante, che deve essere avidamente bevuta da un corpo spossato, in ragione appunto della sua momentanea debolezza. Ad ogni modo, senz'altro occuparci della cagione, attestiamo il fatto che Agnesina tornava alla vita, che il suo cuore batteva abbastanza libero e spedito, e che un lieve incarnato le si effundeva già sulle labra e sulle guance. Ma la vita fisiologica era in lei completa, e l'anima ancora dormiva. Le sensazioni che la fanciulla provò tornando in sè, erano varie e degradate all'infinito. — Da principio credette avvolgersi in una densa nebbia, entro cui brillavano screzii di luce serpeggianti o fissi, più spesso tremuli e pronti ad estinguersi ed a riaccendersi. Poi le parve ascoltare dei suoni, varii anch'essi ed indeterminati: uno scroscio od un sibilo simigliante a quello d'una cascata d'acqua; e da quel ritmo monotono si destavano note armoniche, che, ritessute insieme, componevano melodie e ritornelli. Poi, alla frescura dell'aria che le accarezzava il volto, al calore ravvivante che sospingeva per le sue arterie un sangue nuovo e rigoglioso, sognò d'essere a Campomorto, seduta tra il padre e l'amante, beata di destare e di sentire affetti soavi, ignara solo nella scelta di colui al quale dovesse render prima il suo amplesso, o di chi gradir meglio le carezze, o con chi vivere più felice. Ma nulla andava perduto per lei in quella dolce visione. Stendeva la mano ad un cavaliere, bello, nobile, e d'aspetto fiero; colui, già terrore de' suoi nemici, smesso il piglio del comando, sembrava aspettare un cenno della sua donna per obedire. L'occhio ella volgeva a suo padre, e sulla fronte di lui, abbellita da una canizie prematura, leggeva la gioia che assente e che applaude. Stese la mano con affetto, ed incontrò quella del cavaliere, che l'accolse e la strinse amorosamente. Il padre li comprese entrambi, e li benedisse. Quella stretta appassionata non era un'illusione; il fascino di uno sguardo affettuoso non era sogno. In tutto ciò che riguardava il suo affetto, lo spirito di Agnesina, precorrendo il giudizio dei sensi, era desto, vivo, completo. — Dietro al velo dell'allucinazione si svolgeva un dramma veritiero: a poco a poco le larve sparivano; e al vacuo lasciato da esse si andava sostituendo un'idea giusta, un fatto certo; e dietro questi altri fatti, altre idee. Vivere è pensare e ricordare. La mente crea ed elabora senza riposo; la memoria riordina; la ragione vaglia, pondera, sceglie. Spesso nel sogno e nel delirio v'ha più vita che non nella veglia; perchè il pensiero, libero di sè, può percorrere tutto l'universo senza che una virtù moderatrice gli tarpi le ali. Ma se il lavoro della mente in quel mezzo fu troppo attivo, divien tosto languido e s'arresta del tutto, quando è scomposto da un improviso risvegliarsi. Chi corre a precipizio su di una via, non può escire tosto dalla sua carriera, e tentarne un'altra di pari passo. È necessario ch'egli prima si arresti. — Ma talvolta lo svegliarsi è simile al ricomporsi lento e graduato di una macchina che ripiglia il suo moto: allora le fantastiche creazioni della nostra mente non crollano del tutto; l'abbaglio è messo in fuga, il vero rimane. Il cielo che Agnesina mirava, durante il suo letargo, era quello che le si stendeva sopra il capo: il fremito armonioso, che ella ascoltava, era il rumore della piena. Le strette, gli sguardi, le intelligenze amorose avevano un riscontro in ciò che le stava intorno. Le parole del conte, ancorchè non fossero comprese dal suo orecchio, lo erano dal cuore; il quale, prima inerte e muto, apprendeva a palpitare sotto la foga dei palpiti altrui. Un tal corso di allucinazioni ebbe due stadj ben distinti. Il primo fu quello di un sonno profondo, in cui l'ideale pe' suoi contorni decisi assumeva l'aspetto di cosa vera: la dormiente allora credette essere desta, e sognava. L'altro era uno stato di dormiveglia, in cui, sparite le ombre, restavano gli oggetti materiali; allora la languente credeva e voleva sognare, ed era sveglia. Perciò, quand'ella udì la voce del suo amante, e lo vide, e ne sentì l'amplesso, volle continuare nel sogno, e temette lo svegliarsi. Tutto era ridente intorno a lei, tutto incantevole; ma quello stesso incanto lasciavale travedere probabile ed imminente il mutar scena. Soltanto dopo una successione di fatti e di prove, lo spirito, tornato alla sua lucidità ordinaria, pose il suggello della evidenza a quel miragio. — Dir se e quanto Agnesina ne andasse lieta, è ardua cosa: il bene e il male, la certezza ed il dubio, la fiducia e lo scoraggiamento si avvicendavano rapidamente, e producevano in lei un'anarchia di sensazioni. — Intanto il disordine delle idee e la stessa esitanza la lasciavano in tale inerzia, che equivaleva alla esplicita accettazione dei fatti di cui era involontaria attrice. Ciò che ella vagheggiava in sogno, desta non respingeva. Tranquillando la sua coscienza col pensiero che nulla aveva fatto per preparare ed affrettare simile vicenda, ella subiva con facile rassegnazione la legge del destino. Ora, in quel punto, il non aver voluto era poco, bisognava volere ricisamente ed efficacemente il contrario. Ma dove mai avrebbe trovato le forze per lottare contro gli interessi del suo cuore? come fuggire? chi poteva recarle soccorso? In qual modo ed a qual fine avrebbe agguerrita la sua virtù per respingere colui che ella amava appassionatamente? In balía al delirio che l'aveva tratta ad un incolpevole abbandono, ella non correva ma si lasciava trascinare sul pendío, dove rizzarsi e ritornare sui proprii passi era cosa impossibile. LXXIV. Il rivivere dei sensi fu sul volto d'Agnesina annunciato da un corrugar della fronte che accennava dolore o sbigottimento. Il conte, che chiedeva al cielo null'altro che la vita di lei, gradì quel sintomo, ancorchè non gli fosse propizio. — Finalmente il suo occhio si schiuse; e il labro, con un tuono languido ed interrotto, articolò alcune parole. “Dove sono? — disse ella, tentando di sollevare il capo, — chi mi condusse qui? Voi forse? Ma chi siete voi? Fatemi sentire la vostra voce.„ “Agnese, soggiunse il conte, non temere, io sono l'ospite di Campomorto. Io ho benedetto la mano, che medicò la mia ferita; deh, per pietà non maledire, o fanciulla, quella che osò giungere a te, per arrestare una vita che fuggiva!„ “Ma come mai io mi trovo qui vicino a voi? Spiegatemi questo mistero. Ditemi, se io sogno: parlate.„ “Quando due cuori si ricercano, invano si pone tra loro l'universo; tempo verrà che si incontreranno. — L'addio scambiato a Campomorto, voleva dire: ci rivedremo.„ “Questa era dunque la posta?„ — chiese Agnesina con un'aria meravigliata. Il conte narrò nel modo il più semplice le avventure della fanciulla per quella parte, che gli erano note. Disse di sè non più del vero; e diede alla providenza ogni merito del buon successo. “Iddio vuol dunque che io ami in voi il mio liberatore„ — sclamò Agnese con voce alquanto rinvigorita, gettando sul conte uno di quegli sguardi che hanno più valore della parola. “Amami, Agnese, come io t'amo — soggiunse il conte, che con una franca dichiarazione rispondeva alla franca inchiesta di quello sguardo. — Tuo padre benedirà dal cielo il nostro affetto. Io non mi sento indegno di possedere il tuo cuore.„ “Mio padre? povero padre! perchè non mi ripete egli quelle soavi parole, che io intesi poc'anzi dal suo labro? La mia mano era nella vostra, come ora; e il buon vecchio pronunciava per me una solenne promessa, e sorrideva chiamandovi figlio.„ “O mia Agnese! — rispose il conte, abbracciandola con trasporto. — Iddio ci ha riuniti, nessuna forza umana ci potrà separare.... Sappi, amor mio, che mentre io ti credeva estinta, ti giurai fede di sposo, e promisi che avrei assunto per te il lutto della vedovanza. — Ora dovrei forse chiamarti straniera, perchè torni alla vita?„ “Fui dunque creduta morta?„ “Sì: ma se la morte era sì dolce, come il sogno che ti faceva veder tuo padre, avresti tu forse desiderato di non risvegliarti mai più?„ “No, mio signore, — sclamò Agnese rizzandosi alquanto e gittandogli le braccia al collo, — no; perchè la veglia d'ora non è che la continuazione di quel lietissimo sogno.„ “Mille volte cara!„ — interruppe il conte baciandola un'altra volta. Agnese in quel punto, e per qualche momento ancora, accostò il labro ad un calice di voluttà. Ne bevve il fumo, ma non l'ebrezza. Fiutò avidamente le rose che surgevano in quell'eden d'affetti; ma la sua mente non si offuscò nè provò puntura, fuor quella del cuore, che pure le era dolcissima, perchè l'assicurava di vivere. Mentre correvano fra i due amanti le più dolci proteste (che non riferiremo perchè le parole degli innamorati ritornano come meandri all'origine loro per ripetersi sullo stesso stampo) scese Ranuccio col battello. La bara fu convertita in un letto: il conte stese sopra il capecchio del fondo il suo mantello, e vi adagiò la fanciulla, e ne la ricoperse coi lembi. Poi diè mano ad un remo di scorta, e vogò a tutt'uomo, non già per ispingere il burchiello, che correva sul filo maestro del fiume come una buccia, ma per tenerlo dritto, lontano dai banchi e dai gorghi, e guidarlo in sicuro. Il ponte di legno che congiungeva la strada di Corte Olona era stato abbattuto dalla piena: però sulla riva destra un mucchio di pali, di tronconi e di tavole, avanzo della ruina, teneva in rispetto l'acqua, che stendendosi in un ampio stagno, poteva servire ai nostri rematori come porto di scarico. Di là, il conte spedì Ranuccio al borgo vicino per avere un altro mezzo di trasporto. Ranuccio, che pure non sapeva nè cercava di sapere chi fosse colui che gli impartiva i suoi comandi, corse o meglio volò, e con una prestezza meravigliosa fece ritorno al suo posto, conducendo seco una lettiga a due muli. — Il buon uomo soleva dire che anche i signori sono prossimo, e che bisogna far loro del bene, ancorchè essi non ne facciano sempre e sufficentemente ai poverelli. — Del resto, il giovare a tutti era il suo gusto; e, nella varietà dei gusti umani, questo non è per certo il più comune, nè il meno pregevole. Quando il convoglio giunse al castello, il sole era alto. I cortigiani, informati della mattutina partenza del loro signore, erano in volta cercando, interrogando, discutendo con quell'aria sollecita che può essere figlia tanto del più tenero affetto, come della meno pietosa curiosità. I messi spediti su diverse strade per esplorare e riferire, erano tornati, più o men presto, ma tutti scarichi di notizie. Alla fine arrivò la lettiga; e a fianco ad essa il conte. Ma il fatto non bastò a calmare gli spiriti della ciarliera bruzzaglia. Gettando gli occhi su quelle cortine abbassate, ognuno avrebbe voluto possedere una magica visione per attraversarle. — Ma dove non giungevano i sensi, correva di galoppo la fantasia. Chi credette trovarvi una vittima posta in salvo; chi il trofeo di una vittoria recente. Taluno assicurò che era una fanciulla rapita altri un fuggiasco raccolto. In somma tutti avevano un commento ed un'ipotesi e molti vagavano dall'una all'altra, quasi cercassero la più stolida per attaccarvi le fila della abituale maldicenza. LXXV. È bene, o lettore, prevenire un'osservazione che di leggieri potrebbe cangiarsi in accusa. L'accidente che guidò il Conte di Virtù a Campomorto è molto, è troppo simile a quello che condusse Agnese Mantegazza al castello dei Visconti. Il primo, perduto in una foresta, fu raccolto semivivo da una mano pietosa, che gli diede ospitalità, e lo richiamò alla vita. L'altra in uno stato non meno grave, in un luogo non meno deserto, è messa in salvo dal suo amante, e gli divien ospite nel suo castello. I due fatti si rassomigliano non solo, ma l'uno tien dietro all'altro sulla stessa carriera, come una linea prolungata col regolo. Il caso non si compiace di architettate simmetrie. Le creazioni della natura hanno un'impronta di varietà, che rifugge dalle linee combinate e regolari. Tutto ciò è vero; e se l'autore della cronaca fosse poeta, o romanziere, avrebbe dovuto evitare un avvicinamento di fatti simili che tolgono al racconto la ingenua vaghezza della verità. Non tacerò quindi che, in vista di tale inconveniente, fui tentato di pigliarmi una licenza, sostituendo ima pagina di mia invenzione al foglio sbiadito e polveroso della cronaca. Ma la tentazione non escì dal novero dei peccati di pensiero. — Dopo aver accompagnato il nostro vecchio narratore per un buon tratto di strada con una docilità pedissequa, mi parve scortesia lo sciogliermi da lui, e tentare un'altra via, per quanto mi potesse sembrare meno aspra. Pensai oltracciò che il proposito di vestire la roba altrui di forme più dilettevoli m'imponeva degli oblighi, che Dio sa se avrei saputo mantenere. — Dubitando di poter far meglio colla scorta della fantasia, ho dunque preferito di lasciare tutta la responsabilità della storia all'obliato cronista, cui quattro secoli di silenzio devono aver meritato un po' di rispetto. Nè ora nè poi, per essere dilettevole, vorrò divenire meno veritiero. Posto ciò, il lettore, che forse ci aveva preso entrambi in sospetto nel vederci condurre i due nostri protagonisti sur una sola via di sventure, si riconcilierà con noi, pensando che la natura, sempre varia e nuova nelle sue opere, si compiace talora, in via di eccezione, di sembrar piccola, stentata, simmetrica. Chiedete al pittore se non osservò mai il cielo posseduto da due nubi foggiate e colorite ad un sol modo; dimandategli se, gittando a caso un drappo sul suo modello di legno, non vide escirne pieghe appajate e simiglianti? LXXVI. Sulla bassa ora di quello stesso giorno capitò al castello un altro individuo di nostra conoscenza, e cadde in mezzo a quella turba di volti imbronciati come un tizzone acceso fra le stoppie secche. Era costui Medicina, partito da Milano per avviare un'impresa ordinata da Barnabò Visconti, e giunto al castello del signor di Pavia per compierne un'altra di suo privato interesse. In un giorno quel furfante aveva vestito tre assise, e militato sotto altretante bandiere. Lasciò la città quale sgherro dei Visconti, giunse a Campomorto come un avventuriero che piglia a cóttimo le vendette di un potente, ed ora toccava l'ultima meta in questo castello, quale umile servo di un altro padrone. Quel uomo, per solito odioso ai famigliari del conte, quasi fosse un parassita che faceva cotenna a spese loro, ebbe questa volta un'accoglienza festosa; perchè la brigata, che dimagrava dalla curiosità, credette d'avere in lui il mezzo a toglier un émbrice, come si suol dire, e veder chiaro nelle stanze secrete del conte. Medicina, condotto súbito al cospetto del suo signore, ripetè quello che costui già in parte sapeva dalla stessa fanciulla: colla sola differenza che il sospetto di una violenza diveniva, nella bocca del ciurmatore e con data più recente, la certezza di una vendetta compiuta. Il conte non volle udir altro; impose silenzio al suo esploratore, che stava spacciando notizie sul conto de' suoi nemici; e, postosi a sedere, si mise a scrivere, per ordinare al castellano di Pavia che venissero, nel più breve termine possibile, allestite una mano di fanti e più barbute, da spedirsi a Campomorto onde tenere in rispetto le armi del signor di Milano, che avevano violato i confini. Il ciurmatore, entrando nelle stanze del conte, guardando sottocchi attraverso la folta siepe delle sue ciglia, aveva veduto quanto bastasse per conoscere che l'ospite misterioso era una donna; da altre circostanze comprese, o meglio indovinò, chi ella fosse. L'avido servidorame, che aspettava ritorno dì Medicina per scapricciarsi, dovette ancora tener chiusa in cuore la sua matta voglia; poichè il ciurmatore, riposto lo scritto del conte, escì inosservato per una porta secreta. Egli non era uomo da vendere le cose sue a chi non sapesse pagarle a lira e soldo, Consegnato l'ordine al castellano di Pavia, tornava alle sue tende, ridendo in cuor suo del tardo provedimento, da lui suscitato pel solo motivo di crescer fede al suo zelo. Pensava che i compagni carichi di bottino dovevano essere già in ordine di partenza, e che i soldati del conte non avrebbero nemmanco il tempo di portar acqua alla casa arsa. Certo del fatto proprio, egli divorava la via colle sue lunghe gambe, e lasciava errare la mente fra un mondo di liete follíe. Ei si chiamava l'uomo a cui nulla è impossibile: amico di tutti per trarne denaro e protezione, a tutti nemico per combattere, vincere e far bottino. Ma quale fu la sua sorpresa allorchè, vicino al conquiso villaggio, invece di trovarvi i suoi, vide un mascalzone del contado, che armato di picca simile a quella de' suoi bravacci, stava facendo la sentinella a capo della via? La meraviglia diventò stupore all'accorgersi, che colui l'ammiccava, aspettandolo al varco per far cadere su lui il rigore della consegna. Infine credette sognare, quando una voce alta e franca, prova indubia di una risolutezza che non scende a patti, gli intimò volgesse a dritta per la strada maestra, senza metter piede nel villaggio. Alla prima ingiunzione, rispose egli col far spallucce e con una bestemmia: e tirò avanti. — Ad una seconda, più viva ed imperiosa, credette opporre una di quelle risposte che non ammettono replica; snudò la spada, e fece arco di tutto il suo corpo, per spingersi avanti e dare una lezione a quel marrano. Era costui di quelli che sanno mostrare il viso all'occasione, e che volentieri cercano un pretesto per torsi il prurito dalle mani; per cui, senza dire all'arrivato “sta in guardia„ capovolse la picca, gli misurò il troncone sulle spalle e sul capo fuor d'ogni regola di buona guerra, e si arrestò solo quando lo vide in tale posizione da essergli impossibile il cader più al basso. Urlò Medicina all'insulto; egli avrebbe in quel momento venduta l'anima, per avere un mezzo qualunque a ripigliare la lotta. — Ma l'astuto combattente, che leggeva il progetto sulla fronte illividita del rivale, lo teneva d'occhi, e gli appuntava il ferro alle coste, facendo árbitro della vita o della morte di lui il suo più lieve atto d'insubordinazione. Medicina si credè spacciato; girò lo sguardo bieco intorno a sè per vedere se mai vi fosse uno scampo, o se alcuno arrivasse. — Trovandosi solo, e sperando di poter seppellire nel secreto la sua viltà, chiese per grazia la vita; e si mise a discrezione del vincitore. “T'abbiamo conciato noi per le feste, — sclamò il villano, — non temere, gigante di stoppa; non voglio dar sì tristo arnese al diavolo.„ “Grazia,„ — ripetè il vinto con un rantolo, che più sapeva di disperazione che d'obedienza. “Vuoi grazia?... ebbene sappi meritarla. Ti conosco al fiuto; tu sei un ladro. Quando un tuo pari vuol metter giudizio, prima d'altro restituisce ciò che non è suo. Fuori dunque quei sonajuoli che hai sgraffignato al castello de' Mantegazzi. Fuori!...„ e accompagnò la parola con tal gesto che gli faceva sentire il freddo dell'arma sulla nuda pelle. Medicina, che avrebbe speso volontieri de' suoi per trarsi da quell'impaccio, sentì un grande accoramento all'atto di staccarsi da quei ducati, frutto delle sue fatiche, che gli avevano fatto buona compagnia nella lunga corsa. — Pronunciò quindi qualche parola per ingannare l'inchiesta; ma vedendo, o meglio sentendo sul suo corpo, che l'altro non se ne mostrava pago, rinversò le tasche delle brache sul terreno, e fe' piover fuori gli spiccioli che v'erano celati. “Alzati adesso, riprese il vincitore; e quando sarai a Milano fa dir del bene a' tuoi morti; che è merito loro se non ti mando a piè di Dio.„ Surse Medicina più snello, e credette potersene andare. Ma le leggi di difesa, improvisate da quei contadini dopo la patita violenza, non gli permettevano di sbiettare senza aver dato conto di sè ad un consesso di padri, che faceva l'officio di direttorio in quella republica improvisata. Gli fu d'uopo pertanto entrare nel villaggio come prigioniero di guerra, e scendere nel fondo di un sotterraneo del castello, ov'era raccolta una dozzina de' suoi, colti e puniti alla stessa maniera. Ivi potè finalmente conoscere la storia della sua sconfitta; e questa ci pare sì strana e bisbetica, che vogliamo lasciare a chi v'ebbe parte il carico di raccontarla. LXXVII. Al rumore prodotto dallo stridere dei chiavacci e dalle pedate di chi s'avvicinava, si scossero i prigionieri, e levarono la testa greve per guardare chi fosse: incerti, se dovessero rallegrarsi di quella comparsa o dolersene, essendo egualmente lecito sperare l'arrivo di un liberatore, e temere quello dell'aguzzino, o peggio. Quando poniamo la sorte capricciosa tra le morse di un dilemma, non è infrequente il caso, che essa uccida la logica dei nostri ragionamenti, svignando per una scappatoja secreta. Così avvenne questa volta. — L'arrivato non era nè il liberatore, nè il bargello; ma l'ospite il meno aspettato. “Oh ve'! — disse uno di quei bravacci inarcando le ciglia dalla sorpresa, — Medicina, il nostro capitano, egli pure alle bujose!„ “Oh oh! per dinci!.. lui!.. qui!.. con noi!.. cosa strana, singolare!..„ risposero in coro i compagni, squadrando da capo a piedi il nuovo arrivato. Chiusa la porta dietro lui, egli andò a pigliare il posto, che i suoi gli avevano fatto serrandosi rispettosamente. — Tutti tacevano; egli il primo ruppe il silenzio. “Così avete voi eseguito i miei ordini? Vi ho messi qui padroni assoluti del castello, e voi vi lasciaste aggratigliare da quattro tangheri? Vigliacconi! Che avete voi fatto? Perchè portate una spada al fianco ed una picca tra le mani? Codardi, soldati da chiocciole! Tanto vale per voi il pregar Dio che vi faccia morir qui, poichè v'attenderebbe a Milano il maestro delle cavezze; mi capite?..„ e, con un gesto assai significativo, rischiarò la frase. “Davvero!.. per pietà!.. misericordia!.. Ho moglie e figli!.. Dio ci scampi....„ soggiunsero ad una voce i disgraziati. “Parli uno alla volta, — interruppe Medicina, che in quella ondata d'interjezioni non comprendeva una parola. — Voglio sentire le vostre discolpe. Parli Golasecca, e ci racconti l'accaduto.„ L'interrogato, che era ebro cotto d'abitudine, come l'indicava il suo nome, alzò il capo sonnacchioso, e con una faccia da tulipano sbucciato mormorò tra i denti: — “Io? non so nulla, io. Messere ne diè in consegna il castello, coll'appendice della cantina. Carta bianca a tutti, purchè si mettesse a soqquadro. Io nuotai nella vernaccia come un papero finchè n'ebbi alla gola; di là chiusi un occhiolino, e non l'ho riaperto che a sole alto, in questo pollajo. — Ci deve esser stato di mezzo qualche affar grosso: ma che fu...? indovinalo grillo.„ — Dopo tali parole accosciatosi di nuovo e rimesso il capo tra le mani, e le mani sulle ginocchia, ripigliò il filo de' suoi sogni dorati, russando come un mantice fesso. Un altro si pigliò il carico di riferire la cosa a Medicina; e se egli no'l fece con ordine, e con parole acconcie, diede almeno indizio al suo capo d'essere perfettamente in cervello. “Ecco, — prese egli a dire; — voi ci avete lasciato a Campomorto coll'ordine di spogliare il castello, d'ammucchiare il meglio che vi si trovasse, e di tenere in soggezione quei pochi sornioni che ci facevano il viso accigliato. Noi abbiamo eseguito appuntino i vostri ordini; ed eravamo così contenti dei fatti nostri, che trovammo tempo e cuore per far baldoria a spese dei signori e del comune. — Dirò di più che quei visi lunghi si spianarono a segno, che ci avrebbero dato dei fichi fiori per renderci sodisfatti. Nel pian terreno del castello surgevano mucchii di bellissime robe raccolte per voi e per noi, che v'aspettavamo da un momento all'altro. Dopo il lavoro vien pe' suoi piedi il bisogno di alzare il fianco, per poi mettersi al riposo. La giornata era stata greve: cominciando da quella corsa per arrivar qui, che abbiam fatto di volo, cariche le spalle e colla pancia asciutta. — Un sacco vuoto, lo sapete anche voi, non sa stare ritto. — Fu dunque convenuto di fare un sontuoso pasto. Ogni massaro del villaggio ci pagò un tributo di polli e d'oche; due enormi pentole sostenute da pali bollivano in mezzo alla corte, mentre vi scoppiettava sotto una fiamma allegra, nutrita collo sfasciume di questa gran topaja. A suo tempo ognuno di noi s'unse il mostaccio in quel sugo. Circolavano nel campo scodelle di zuppa cogli occhioni dorati, che avrebbero fatto gola a un frate: poi ebbimo pollame e carni salse, cacio pecorino e frutta; infine più che il bisognevole per immollare il becco. Oltre i fiaschetti di vernaccia e di vin santo, che ciascuno aveva conquistato per sè, e cui faceva l'amore in disparte, v'erano tre grandi tinozze, alle quali s'andava a spillar del buono, per ammorzar l'incendio della sete e delle parole. Era di quello che schizza agli occhi, e caccia all'aria i fastidj: un vinello, che a Milano non si beverebbe per una manata di terzuoli al sorso. — Da principio eravamo tutti muti, come in un refettorio: poi si sciolsero i scilinguagnoli, e toccò via una parlantina generale, che pareva un mercato. Era una gara a chi le diceva più marchiane: sempre però col dovuto rispetto al signor Barnabò ed a voi, alla cui salute abbiam trincato non so quante volte. — Così dalle parole alle grida, da queste alle canzoni, ci tenemmo desti fino alla tarda ora. La corte pareva un campo di battaglia; ossa, carcami, reliquie d'ogni commestibile, e il suolo molle anch'esso da rivi di vino; poichè i beoni, credendo di aver proveduto alla sete d'un mese, non si curavano di turar gli spilli. — In mezzo a quella baldoria, io non tralasciai di predicare a' miei compagni: stiamo in gamba, figliuoli: non è casa nostra codesta: non per lo spreco; che m'importa a me della roba altrui? ma non vorrei che ci andasse di mezzo l'affar nostro: giudizio, che può capitar ancora un serra serra. — Ma era voce al deserto: eccezion fatta di alcuni pochi, tutti erano come colui là (e additava Golasecca) ebri più che una monna. Intanto s'era fatto bujo del tutto; spirava un'aria fresca, e s'aveva bisogno di dormire. Levate le mense, quelli che avevano gambe a reggersi entrarono nei vestiboli del castello, e cercavano riposo sulla fresca paglia che s'era distribuita in doppia fila lungo i muri degli androni. Mezz'ora più tardi, un russare generale attestava che tutti erano addormentati. “Siate buono, o messere, e non ridete di quel che sto per narrarvi. Dite che la è cosa strana, prodigiosa, e che pare incredíbile: ma credetela, affè di Dio, perchè essa è vera. De' miei compagni ve n'è qui ancora un buon numero; essi aggiungeranno fede alle mie parole. I fatti sono fatti, e senza una ben grave cagione non saremmo col muso alla grata; chè il sangue l'abbiamo anche noi nelle vene, e...„ “Avanti, avanti„ — interruppe Medicina, cui quelle proteste sì discordi dalle opere gli mettevano un razzolio interno tutt'altro che piacevole. “Scusate, messere, torno alla pesta. Io non so quanto tempo durasse la calma tra noi; ma non erro asserendo che doveva esser molto inoltrata la notte, quando il silenzio fu turbato da uno strido di uno dei nostri, che riposava nel fondo dell'androne, presso una finestra rivolta alla corte. — Non fu però il grido che destò gli altri; la stessa causa che operò sul primo diffuse, colla rapidità del lampo, lo sgomento in tutti quanti. E lo sgomento, ve lo giuro, fu orribile; tanto che il tranquillo dormitorio parve divenuto uno di quei gironi d'inferno descritti da quel messer di Firenze, che deve esservi andato per saper raccontar tante paure. — Chi gridava a piena gola, chi gemeva sommesso, chi sospirava. V'erano di quelli a cui la voce, era tolta in un col respiro; e che per riaverla spalancavano le fauci, e contorcevano la bocca, senz'altro sprigionar che un rantolo simile a quello d'uno che affoga. Era un'oppressura, un affanno, un morir d'ogni istante. Alcuni pochi avevano potuto levarsi in piedi di colpo; altri, raccogliendo tutte le forze, erano riesciti a balzare a mezza vita dal loro strame. I più o giacevano inerti, o lottavano cogli spasimi di una convulsione e parevano indemoniati... — Ah messere, non era e non poteva essere altro che il demonio la funesta cagione di quel malanno! Dite che io sono un pazzo, ma interrogate tutti quanti i miei compagni; questi che son qui, quelli altri che incontrerete dappoi: tutti ad una voce vi ripeteranno quel che ora io vi narro. “La finestra posta in fondo all'androne si era spalancata, come scossa da un soffio di vento gagliardo. I cardini delle imposte mandarono uno stridío acuto; e le muraglie e la volta tremavano. Sulla soglia della finestra comparve un grosso animale col pelo irto e bruno, gli occhi di fuoco, la golaccia svivagnata, guernita di zanne candide ed orribili. — Tutto quanto il camerone era immerso nelle tenebre le più fitte; intorno a quel fantasma splendeva una luce fosca, che si moveva con lui, e pareva uscire da' suoi peli. Io non so dirvi a quale specie appartenesse quella laida creatura; era qual cosa come un mastino od un lupo. — Il certo si è che il primo grido si levò quand'esso, balzando dalla soglia, si gittò d'un salto sul petto di colui che gli era sdrajato più vicino. Lo strido fu acuto ed evidentemente involontario. Il mostro non si arrestò: corse dall'uno all'altro giaciglio pestando e soffocando allo stesso modo, l'un dopo l'altro, quanti v'erano distesi. Ma il più strano si è, che la sorpresa e il soffocamento, i gemiti e le strida si manifestarono in un sol punto per tutto il camerotto. L'orribile spauracchio era dapertutto; scorreva da cima in fondo, per assidersi sul petto d'ogni uomo. Uno d'aspetto, ei si moltiplicava quante erano le vittime, per tormentarle tutte ad un modo e in un'istante. “I miei compagni erano scompigliati: i capi avevano perduto la scrima. Tutti volevano e tentavano sottrarsi fuggendo. — Oh l'orribile tormento il volere e non poter fuggire! le membra aggranchite non obedivano alla volontà; l'ansia della fuga andava crescendo quanto erano scemate le forze necessarie per togliersi dal posto. Finalmente, il riescirvi di alcuni pochi più pronti e meno oppressi, fu d'esempio ai più. Quelli si precipitarono alla porta; questi si rialzarono; i peggio conciati cominciarono a dimenarsi con minor spasimo. Alla porta era uno stivamento indescrivibile: nessuno pensava alla roba, tutti a mettere in salvo la vita. Si obliarono armi, mantelli, bisacce: — Fuori, fuori, gridavano taluni a cui era concesso pronunciar parola — largo, largo, un po' d'aria, ahimè, io affogo, io crepo, — sclamavano gli altri, cercando farsi strada tra la pressa colle pugna e coi gomiti. “Una parte dei nostri era già fuori, e sentiva ristorarsi all'aria fresca. Io e quei poveretti che erano meco, collocati nella parte più lontana dall'uscita, eravamo gli ultimi a trovar salvezza. L'orrendo spettro vagolava ancora dinanzi ai nostri occhi; ma le sue forme s'andavano leggermente scomponendo, come certi nuvoloni neri travagliati dal vento. — Intanto bisognava vedere come la davano a gambe i fuggitivi. Invano tentò rattenerli la guardia della porta; si sarebbero gittati sulla punta dell'aste piuttosto che dar indietro. E alle spalle di costoro, gli altri, che non avevano albergato con noi, ed ignoravano d'onde nascesse lo sgomento, cedevano alla spinta nascosta, e senza interrogare nè i compagni nè sè stessi, fuggivano, senza sapere dove o perchè. “Ecco come fu abbandonato il campo. Rimproverate, se vi basta l'animo, a quei pochi, rimasi soli e senza mezzi di difesa, sfiniti dallo spavento e dal male, il non aver ripreso l'armi, e conservata la posizione. I terrieri, che forse conoscevano quel brutto gioco del demonio, che assai probabilmente fidavano in lui, non appena videro le nostre file scompaginate, cominciarono a imporla tropp'alto e a far da padroni. — D'armi non avevano difetto: v'erano le nostre. Noi eravamo sì pochi, e quei pochi erano stremi di forze a segno, che donne e bimbi avrebbero potuto compire la nostra disfatta. — Eccovi, messer Capitano, la brutta storia dei casi nostri. Abbiamo perduto un bel bottino e offuscata la nostra riputazione; ma la colpa, credete, non è nostra. Ove ci mette mano il demonio, sfido tutte le armi della Signoria a tener sodo[26]„. Medicina, pel solito incredulo di tutto, piegò la fronte davanti all'ineluttabile potenza dell'inferno, ed assolse i suoi soldati da ogni imputazione, preparandosi a dividere con essi la mala fortuna del carcere. Ma di dentro arrovellava al pensiero di tornarsene a casa a mani vuote, dopo d'aver avute in pugno un tesero, “Tornare? — ei chiedeva a sè medesimo — quando e come tornerò? come finirà questo negozio? che penseranno fare i soldati del Conte di Virtù? che dirà il signor di Milano?„ Così da un dubio passava all'altro, da questo a quel cruccio, e si sentiva rimescolare la bile, e se la pigliava con tutto il mondo, non osando e non potendo pigliarsela coll'invincibile autore di quella ciurmeria. — Il solo tesoro che portò seco da Campomorto, quando il giorno dopo venne posto in libertà, fu un cumulo d'ire, che nutrì e coltivò perchè portasse frutto a suo tempo. CAPITOLO UNDECIMO LXXVIII. Fra il punto in cui ci troviamo, e quello in cui risaluteremo Agnese nella casipola di Pavia, v'ha di mezzo un intervallo non insignificante di giorni felici. Questo spazio rassomiglia ad una strada comoda e piana, alberata sui fianchi, rallegrata da frescure e da delizie, ma così dritta e simmetrica che, quando si è ad un capo, è impossibile il non vederla fino in fondo. È cosa strana invero che la felicità riprodotta col linguaggio dell'arte perda la vivezza de' suoi colori, e riesca sempre sbiadita e monotona nella sua realtà. Gli è perciò, che il pittore non chiede inspirazioni al cielo in pien meriggio, o all'albero carico di fiori e dì frutta, o al volto eternamente composto al sorriso: ma ritrae più volontieri un mesto tramonto, un'aria nubilosa, od una lacrima, che fa velo a due grand'occhi neri. — Il dolore è, o pare, cosa più eletta che la gioja. Il tratto di storia, che ci sta davanti, è appunto una di quelle epoche di completo ben essere, che meglio vuolsi raccomandare alla fantasia dei lettori, che non tentare di riprodurre colle parole. — L'uomo nulla meglio sa imaginare che la felicità, quantunque non siavi cosa di cui egli faccia più scarsa prova. Quel giorno, e quei giorni, passarono pei nostri amanti in un'intimità pura ed ingenua; quale si conviene a due creature che, dopo aver con eroica fermezza serbato un secreto di vita o di morte, vengono ad un tratto prosciolte dal voto, e fatte libere di svelarsi gli arcani affetti. — Entrambi ritornavano addietro colla memoria per rifare passo passo la strada che li aveva guidati al compimento dei loro desiderj. Non vi fu nulla che tacessero; perchè non eravi cosa di cui dovevano arrossire. Correva la loro esistenza come un fiume ingrossato dalla piena; ma le onde di esso, benchè copiose e frementi, non erano meno limpide che la fonte da cui scaturivano. Ciascuno ebbe una lunga storia a raccontare; ciascuno ne ebbe una ad udire. Era essa per entrambi una successione di speranze e di disinganni, di buoni e di tristi presentimenti: era una lotta continua tra la mente ed il cuore, in cui la prima esciva sempre vincitrice, portando lacrime e schianto nel suo stesso trionfo. Agnese, l'ingenua e pura fanciulla, non fu meno schietta; perocchè dal canto suo credeva di avere smesso le armi, solo quando erano divenute inutili. — Narrò ella, come nascesse il suo amore da una severa pietà, diritto e dovere d'ogni anima gentile. Già in lei ardeva la fiamma di una passione indomabile, che ancora sognava d'essere libera e padrona di sè. Narrò quale fu la sua emozione all'accorgersi di avere ricevuto il battesimo della maturità, accogliendo nel suo cuore il più nobile e gagliardo affetto. Ma quell'emozione era dessa gioja o dolore? Lo chiese mille volte a sè stessa, e il cuore non le seppe rispondere. L'ebrezza dell'amore era combattuta dal dubio di non essere amata; e quando pure lo fosse, altri dubj nascevano in lei dal pensiero, che un uomo potente cede, per solito, alle consentite affezioni il superfluo della sua esistenza affaticata da continui trionfi. Nulla tacque la schietta donzella: nè i contrassegni di una preferenza privilegiata, cui ella dava il nome d'ossequio, ed era amore; nè le sollecite cure a lui prodigate, che ella chiamava pietà, ed era di bel nuovo amore. — Svelò come le ardite sue manifestazioni fossero spesso scontate col rimprovero e col fuggevole pentimento; e come le timide reticenze erano alla loro volta aspreggiate dall'accusa di pusillanimità. Ahi quante volte, avvicinandosi a lui colla speranza di trovare conforto, indietreggiò desolata, leggendo nei suoi sguardi una peritanza fatale ad un cuore già divenuto geloso! Non di rado, sentendosi forte ed apparecchiata, erasi decisa d'affrontare il pericolo di combatterlo, di superarlo; ma poi, non appena ella metteva in gioco le sue armi, cedeva, più affranta e più schiava di prima, all'insuperabile fatalità. Una stessa parola, un atto istesso di che jeri esultava, era oggi la sua tortura: desiderava di parlare e di svelare il cuor suo, e temeva ad un tempo d'essere udita e compresa. — Chi non provò amore, non conosce queste dure battaglie. Un affetto, nato e cresciuto sotto il durevole influsso di circostanze propizie, avrà le sue gioje; ma, com'esso giunge troppo presto all'apogeo della sua esistenza, riescirà insipido e passaggero, al pari d'ogni frutto precoce. In quelle ingenue confidenze tutta l'anima d'Agnese sgorgava schietta e faconda dalle sue labra, senza quelle lusinghe sfrenate che cangiano l'amore in delirio. La sua virtù, come il velo trasparente in cui s'avvolge la mistica bellezza degli eletti, teneva in rispetto gli sguardi. Sarebbe stato più pericoloso per lei il mostrarsi meno sicura di sè, e più agguerrita; giacchè le armi diventano una provocazione quando sono scarse ed inopportune. — Per le anime generose, l'inscienza del male è un'egida invulnerabile contro la quale si spezzano le più ardite volontà, i più baldi propositi. — E infatti Agnesina, resasi a discrezione del suo signore, ebbe in lui l'amante che brama e, ad un tempo, il fratello che difende. Per un pezzo, quel soggiorno fu pei nostri innamorati un paradiso di continue delizie, una palestra di nobili virtù, un tempio di amor casto ed illibato. — Vegliate, o angeli, sull'innocente: fatele schermo ai pericoli colle candide vostre ali, affinchè quel fiore non sbucci anzi tempo sotto i torridi raggi della passione. L'eroismo di un momento non è caparra di queta e perseverante virtù. — Vegliate, vegliate. Fra tanta gioia però non erano infrequenti i sospiri; e non ultima cagione di essi era per Agnese la lontananza dalla sua buona governante. Più e più volte ella ne aveva chiesto conto; instava con amorosa sollecitudine perchè venisse prontamente richiamata; la attendeva ogni dì, ogni ora; sentiva d'avere troppe e grandi cose a dirle; e, in mezzo a tanta festa, aspettava pur da lei qualche conforto. Ad ogni improviso rumore si levava, come per moverle incontro; e al riconoscere l'inganno ritornava al suo posto, non osiam dire mesta, ma per un momento alquanto men lieta. Il conte aveva la più deliberata intenzione d'aderire alle preghiere d'Agnese; ma l'incarico voleva essere affidato a persona di fiducia ch'ei non potè trovare sì presto. L'invio di costui e l'arrivo di Canziana dovevano essere un mistero, come lo era la presenza di Agnese. Ond'è, che la donzella per molti giorni non potè essere sodisfatta; e che, pur sussistendo la felicità dei primi istanti, i sospiri divennero più frequenti, ed il suo occhio si coperse di qualche lacrima passaggera. La donna è spesso fatta scherno del mondo perchè pronta al pianto ed al riso. — Ma è legge forse che il riso ed il pianto sieno invariabilmente l'espressione della gioia e del dolore? V'hanno, è vero, lacrime di tristezza, molli ed infeconde come la pioggia d'inverno; lacrime d'ira, improvise e fatali come la gragnuola. Queste e quelle però sono d'ordinario generate da una costituzione morbosa; e quando sembrano sgorgare dall'anima, gli è che questa subisce l'influenza della materia inferma. Ma v'hanno altresì le lacrime del pentimento, ben più belle e soavi che le prime. — Oh benedetta la donna che, avendo errato, sa piangere! — Quel lavacro depura il suo animo, come il corso di un ruscello deterge le pietruzze dell'alveo, dianzi nascoste nel limo. — Che diremo infine delle lacrime d'amore? Un cuore vuoto d'affetto forse le chiamerà insipide. Ma chiedete a chi amò s'egli ebbe mai in altro modo dalla sua donna una più eloquente protesta d'affetto? Quel pianto non è nè gioia nè duolo; è amore tradotto nel più fedele ed efficace suo linguaggio. — Esso rivela che nel cuore di lei si agita un ultimo dubio; che la volontà, non ancor doma del tutto, fa un ultimo sforzo. Ma, non temete, l'estrema lotta non farà che dare maggior rilievo al vostro trionfo. — Il labro è impotente a tradurre il soverchio affetto; il pianto è il complemento della parola. — Non rammentate alla donna le sue promesse; rammentate le lacrime ch'ella versò, cedendo la fronte al vostro primo bacio. A quella memoria si ritempreranno gli affetti omai stanchi ed assueti; voi sentirete il cuore di lei, muto poco prima, rispondere al vostro con un battere fervido e giovanile. LXXIX. Ad un angolo del castello, la bruna muraglia sopportava un'alta torre coronata di merli e guernita di bertesche e vedette, com'era la moda di quel secolo, in cui anche una cosa di puro spasso doveva portare l'impronta della prepotenza che era nell'indole degli uomini. Sul terrazzo eminente da cui si godeva una magnifica vista, e dove non arrivava sguardo indiscreto, solevano i due amanti recarsi ogni dì, e passare qualche ora, ricreandosi alla vista del cielo, dei monti lontani e dell'infinita pianura racchiusa tra quelli. Le parole loro erano il soverchio di quella interna commozione che il cuore non può capire. E benchè il senso di esse fosse già noto ad entrambi da lunga mano, pure il ripeterle e il riudirle era sempre una dolcezza nuova. Intanto il superfluo di quei gentili pleonasmi era portato via dall'aria, e si levava al cielo in un coi profumi del suolo e colle preci degli uomini. — In quel mare di felicità, il Visconti ricordava talvolta l'esser suo, ed additava alla sua amica le terre, i colli e le città che obedivano a lui; ma non insuperbiva della sua grandezza, bensì gustava la gioia di un padre che guarda i numerosi suoi figli. — Una volta, parodiando leggiadramente la crudele sentenza dell'imperatore romano, sclamò: “Oh perchè l'umanità non ha un sol capo, chè io vorrei baciarla in fronte, e coronarla di fiori come le antiche baccanti, perchè tutta fosse felice, come io lo sono.„ — E Agnese, la tenera, l'appassionata fanciulla, s'imparadisava a quegli accessi di carità come fossero opera sua; e rinvigoriva, se pur era possibile, il proposito d'amar sempre e sempre più quell'uomo, che doveva render felice e grande la sua patria. Un dì, al tramonto, stavano entrambi sul terrazzo contemplando e ragionando come di consueto. Mano mano che la luce del giorno scemava, le parole si facevano più rade e più solenni; e gli sguardi, quasi avessero bevuto fino alla sazietà l'ebrezza dei mutui incontri, correvano dagli oggetti circostanti al lontano orizzonte, cercando il primo apparire d'una stella per darle un addio. La luna, pallida come una nuvoletta perduta negli immensi spazii, a poco a poco ripigliava il suo mite splendore, sì funesto ai tristi, sì caro ai buoni. — L'aspetto del mondo era mesto: ma la mestizia, che pioveva da quel cielo sì sgombro e da una natura sì calma, era dolce come il suono di un nome amato ripetuto dall'eco. — Seduti sullo stesso muricciuolo, col dorso appoggiato ad una comune spalliera, i due amanti tenevano le destre congiunte in una stretta piena di affetto e larga di promesse. Così, mentre il labro era muto, l'anima, con un linguaggio ancora più eloquente, parlava d'amore. Ad un tratto, il conte fissò Agnese negli occhi, e s'accorse che la fanciulla tentava di nascondergli una lacrima. “Perchè piangi?„ — disse il conte, stringendo con maggior tenerezza la mano della sua amante. “Piango io forse? — rispose Agnese fingendo meraviglia, e sforzandosi di eludere l'inchiesta con un sorriso. — Ah no....; ma se ciò fosse, vicino a voi, io non piangerei che di gioia.„ “La menzogna è pietosa; ma è menzogna. Una lacrima posava poco fa sulle tue ciglia, come una goccia di rugiada sugli stami di un fiore. Una mia parola, un mio sguardo la scossero; io la vidi scorrere sulle tue vesti, io la sentii scendere sulle mie mani. — Le lacrime di gioia non abbruciano come la tua.„ “Perdonate, e non mi chiedete di più. Neghereste voi che il cielo è sereno, perchè un vapore diafano intorbidò in quest'istante il lume di una stella?„ “Se il cielo fosse mio, come tu la sei, vorrei chiedergli perchè quella nube osa intercettarmi il debole raggio che pur mi è dovuto. — Io sono avaro della mia felicità. Non cederei a un morente il più tiepido de' tuoi sguardi, fosse egli bastante a ridonargli la vita. — Rispondimi dunque, o Agnese, perchè quella lacrima?„ “Perdonate alla miseria del nostro sesso. — Quando noi vagheggiamo da lontano la felicità, abbiamo fede nel destino, e ci abbandoniamo ad esso con spensierata sicurezza. Ma quando la mente riposa nella piena sodisfazione de' suoi desiderii, oh allora incominciano nuovi dolori! Noi diventiamo gelose del bene che possediamo, noi preleviamo sul futuro una trista anticipazione di mali possibili. — Giovanni, quella lacrima che voi scopriste non è un'accusa, è una confessione. — Io sono felice, troppo felice, e piango talora perchè temo e sento di non essere degna di tanto. Alcuna volta la vostra nobile grandezza mi fa terrore. Quando il mio occhio si perde sulla ricca pianura che ne circonda, e dico tra me: questo suolo obedisce a colui che mi ama, la mia mente si perde, e la timida ancella vorrebbe tornare nella polvere, per non scontare col rossore la sua temerità.„ “Ingrata, interruppe amorosamente il conte, tu dunque dubiti dell'amor mio?„ “V'ha qualcosa al disopra di noi. Il destino è legge per tutti. Il mio signore può inalzarmi fino al trono e coprirmi colla stessa sua porpora, ma niuno potrà mai colmare l'abisso che divide la vassalla dal principe. — Lasciate ch'io vi dica tutto: il mio pianto, dopo essere stato la confessione d'un dubio, divenne una preghiera. Oh non deridere, o amico, la stranezza de' miei voti! Quella preghiera, fervida e pietosa quanto la parola di una madre che implora dal cielo la salute del suo bambolo, era vuota ed insensata.„ “Ma perchè parli con un linguaggio che io non comprendo? Perchè ti compiaci di mescere l'amaro nel calice di felicità che la providenza ci porge?„ “O Giovanni, perchè voi non nasceste tra il popolo, come io nacqui? Allora il mio amore, correndo sur una carriera piana, di pari passo col vostro, giungerebbe pieno ed integro sino a voi. — All'altezza di un trono gli affetti di una povera fanciulla arrivano assottigliati e dispersi, come salgono alle nubi i profumi dei fiori.„ “No, mia Agnese, non dir così. — Tu non devi esser confusa fra le donne a cui Dio affidò soltanto l'ignorato governo di una famiglia e il cuore d'uno sposo. Tu sarai, come la Beatrice del Poeta, il mio genio tutelare che, dopo avermi sollevato dagli immondi gironi, mi condurrà nel soggiorno beato della verità e della giustizia. Non rimpianger la fortuna altrui; non scongiurare il destino. — Ricorda le parole di tuo padre; pensa che la felicità compagna d'amore non deve essere la nostra meta, ma il luogo di riposo in cui riavremo lena per correre a più nobile scopo. — Ci si farà guerra: ebbene, prepariamoci ad essa colle alleanze; associamo le forze, e la vittoria sarà nostra. Io ebbi in te la virtù di Maffiolo; in me avrai tu il suo braccio. Quando avrò errato inutilmente cercando uno sguardo leale, un labro sincero, io mi specchierò nei tuoi occhi, o Agnese, interrogherò la tua voce, e tornerò a credere che la virtù non sia bandita dal mondo. Stanco talora, perduto d'animo, nauseato da tante ribalderie, non appena avrò posato la fronte sul tuo seno, troverò ristoro; e alle incalzanti pulsazioni di un cuor muliebre, rinascerò alla vita operosa e alla fiducia nella mia stella.„ Dire che le parole del conte fossero tanto efficaci da convincere lo spirito il più renitente, e offrirne a prova il fatto che esse calmarono le apprensioni di Agnese, sarebbe tradire la storica verità, e dar corpo ad ombre fuggevoli. L'ardore di chi voleva convincere era molto al disotto della docilità di chi bramava essere convinta. Le voglie imperiose, le fervide aspirazioni, i desiderj che hanno la forza di necessità, spesso si vestono ad arte di una diffidenza affatto superficiale, che dimanda spiegazioni per udirsi ripetere una cara verità; che crea degli ostacoli pel piacere di abbatterli. Con questo mezzo si ritorna a quelle usate parole, che tra gli amanti hanno sempre il prestigio di una novella improvisa e gradita. Così sott'altra forma si rischiarano i patti, si rinfrancano le promesse, si ripetono i giuramenti. Ma quei giorni felici non sfuggivano alla inevitabile legge d'ogni cosa terrena: erano essi fugaci come, e più che il decorrere di una vita placida e consueta. Invano i due amanti, che vedevano con dolore abbreviarsi la misura del tempo accordato a tanta e sì dolce intimità, si studiavano di suddividerlo in ore e minuti per goderlo a bricioli, per bevere a sorsi la felicità. — Ma guai se ci sforziamo di trattenere il tempo che fugge! esso è, o ci sembra immobile, solo quando il desiderio, più rapido di esso, gli vola davanti. Venne il dì, in cui il conte dovette partire per Pavia: quel dì già designato da lungo tempo, e che, finchè era lontano, pareva non dovesse arrivar mai. Ciascuno avrebbe voluto indugiare ad un dimani indefinito. — Ma pur troppo, spuntò l'oggi inesorabile, e bisognò dividersi: con quante promesse del conte, con quante lacrime d'Agnese, lo imagini il lettore. Poveretta! ella rimaneva tutta sola; il desiderio di rivedere Canziana si faceva allora assai più urgente; e la delusa aspettativa più dolorosa. Ma appena il conte fu di ritorno in città, provide a che gli addobbi del casolare, destinato alla dimora della fanciulla, fossero attivamente accelerati. I motivi di un tal mistero non hanno bisogno di spiegazione. Il Conte di Virtù non era uomo da soffrire che il nome della sua amata fosse confuso con quello d'altre, che attraversavano il peristilio del castello, occhieggiando questo o quel cavaliere, e che entrate povere e spoglie, escivano talvolta colla imponente rigidezza delle dame, gareggiando con esse pel lusso delle vesti o per l'arroganza del portamento. — Agnese non dimandò il motivo di questo allontanamento; lo comprese, e l'approvò; perchè anch'ella, sebbene ignara dei costumi della corte, sentiva il peso degli sguardi altrui e paventava i giudizj del mondo, ingegnoso troppo nel cercar pretesti a' suoi severi giudizj, credulo sempre, quando si tratta di prestare fede ad ogni meno onesta apparenza. La scelta di una casa remota e abbandonata riesciva oltremodo opportuna. A coltivare le superstiziose credenze del vulgo, ordinò il conte che l'esterno dell'edificio conservasse il suo primiero squallore. — Intanto ferveano i lavori all'interno; e gli operai, che attendevano ad assettarla, erano chiamati da paesi lontani, perchè, estranei all'influenza delle superstizioni popolari, alla lor volta non tradissero il secreto dell'incumbenza. Che fosse quella casipola, come distribuita, ed ornata, l'abbiamo già veduto nelle prime pagine. — Ma perchè fosse meglio allestita, il conte, malfidando ne' suoi gusti e bramando di prevenire quelli d'Agnese, volle rimettere la direzione degli apparecchi a persona amica della fanciulla. Quest'idea gli aperse la via a prepararle una sorpresa. Pensò di proposito a Canziana, spedì in traccia di lei, e la fece venire a Pavia annunciandole che vi avrebbe trovato l'amica sua. LXXX. Dopo la catastrofe, l'infelice governante era ritornata a Campomorto. Non v'è parola che valga a dipingere convenientemente il dolore in che era immersa. La sua pietà però non era sterile: alla preghiera e al pianto cedeva quelle ore che le sopravanzavano ad una continua operosità; nè questa, fino ad un certo punto, fu scompagnata dalla fiducia di salvare la sommersa. Ma ogni ora ed ogni minuto seppellivano una speranza. I primi tentativi erano stati vani. Più tardi, ancorchè ormai si disperasse della vita d'Agnese, continuarono le indagini, consigliate da una pietà non del tutto scevra di conforto. A quest'effetto, Canziana prometteva un generoso premio a chi scoprisse la salma della sventurata. — I contadini di Campomorto, che s'ingegnavano di fare il possibile pel meglio della amata padrona e della sua amica, ramingarono più giorni nelle terre che fiancheggiano l'Olona, frugando ogni bosco ed ogni cespuglio, interrogando i mandriani e i boscajuoli, battendo alla porta delle case e delle capanne. — Ma ogni ricerca era sempre vana; gli interrogati si stringevano nelle spalle, e gli esploratori se ne ritornavano la sera, più che stanchi, scorati; e presentandosi a chi li aveva spediti, rispondevano con un crollar del capo, che non aveva bisogno di spiegazioni. Alla povera donna non rimanevano più nè consolazioni nè speranze. — Piangeva dirottamente pensando che l'amata fanciulla era morta, e morta a quel modo, abbandonata da tutti; senza che alcuno de' suoi cari le fosse vicino a raccoglierne l'estremo respiro. — Dolevasi di non averle prodigato le ultime cure, e spingeva il dolore alla disperazione, pensando che tutti questi fatti erano stati in sua mano; e che ella stessa, co' suoi consigli, aveva data occasione ed impulso a tanta sventura. Scorreva con impazienza il campo delle ipotesi per scegliere la meno crudele, e la più acconcia, a giustificare il misterioso smarrimento. — Forse la sommersa era sepolta nel fondo di un gorgo; e in questo caso non era sperabile il ritrovarla che al ritorno della magra estiva. Forse, giunta fino alla foce dell'Olona, era travolta nel Po e trascinata, Dio sa dove. Forse, gittata sur una riva deserta, era divenuta preda di qualche belva. — Il pensiero che quella, cara spoglia fosse insepolta ed oltraggiata, era peggio che un coltello nel cuore per la desolatissima donna. Nelle ore interminabili dell'aspettativa, nelle due notti vegliate per istudiare nuove pratiche ed intavolare altre ricerche, oh come l'infelice si rammaricava al pensiero, che le sue stesse parole erano state la causa, o l'occasione, di sì grande disgrazia! E intanto, mentre si facevano languide le ricerche, divenivano più pungenti le cure; il cessare delle speranze non la guidava punto alla rassegnazione. — In due soli giorni la povera Canziana si era fatta sparuta, scarna, tabida, come l'infermo che si rialza dal letto, non guarito ma stanco di un disperare inerte. E al par di costui, in preda ad una inquietudine febrile, correva le deserte sale del castello, evocando da ogni oggetto le memorie del passato, per rendere ancor più tetro e spaventevole la realtà del momento. Pareva che si compiacesse di porre la mano sulla piaga, non per difenderla, ma per istraziarla sempre più. I mezzi consigliati dalla ragione erano tutti esauriti: ad una ad una le speranze erano tornate vane; e la povera donna s'infliggeva intanto l'inutile martirio di riandare il passato, per maledire ciò che ella aveva fatto inscientemente, per deplorare quello che avrebbe potuto fare, e non fece. La mente, logorata nelle ricerche, sembrava riposare in questa crudele tortura, come se l'accusare sè stessa di complicità col destino, fosse ormai l'ultimo e l'unico affare che le rimanesse. In questa sublimazione del dolore, le lacrime dell'infelice s'asciugarono; gli occhi divennero arsi e sgranati come quelli d'un delirante: la febre le prestava una forza fittizia e bugiarda; e, condensando nel suo cervello una vitalità anormale, minacciava di toglierle il senno. — Dopo d'avere errato con tanta incertezza fra mille pensieri, e non aver raccolto che delusioni, ricorse alle più vaghe idee; e, scelta a caso la meno saggia, fissò in essa la mente, e affaticò su di essa quel poco di ragione che il dolore le aveva lasciato. — Povera donna! un giorno ancora simile ai due precedenti, ed avrebbe impazzito. Noi sappiamo già che Agnese, in mezzo alla sua felicità, non aveva scordato la buona governante. Non imaginando per certo che il suo dolore potesse farsi tanto minaccioso, pensò nondimeno ad affrettarle la consolazione di saperla viva e salva. — Fortuite circostanze obligarono il messo a ritardare la sua spedizione. Ma per buona sorte ei giunse ancora in tempo. — Canziana, sentendo che la sua diletta Agnese era salva, e ricevendo un secreto avviso del conte che le ingiungeva di apparecchiarsi a rivederla fra pochi giorni, fu ad un punto di morir dalla gioja. Quei dì, che passarono come un lampo per Agnese, furono una vera eternità per Canziana. — A questa però riescirono utili per ristorare alquanto le forze, le quali, al cessar del delirio, erano scomparse del tutto. Ella abbandonò Campomorto con una gioja che non si può descrivere. Giunta a Pavia, s'installò nell'abitazione destinata ad Agnese; e, assecondando le istruzioni del conte, attese a che fosse proveduta di quanto potesse renderla più gradita alla sua nuova abitatrice. Pensi il lettore come dovesse riescire l'incontro delle due donne. Per verità, ciò che fu ascoltato o detto da ciascuna di essa, a confronto di tanto amore e di tanta ansietà, potè in quel momento sembrar languido e freddo. — Le frasi sonore, le smanie e le strida, soverchiano quasi sempre la passione; ma quando questa è, come nel caso presente, sì valida e sublime da essere àrbitra della vita di chi la nutre, non v'ha parola od atto che sappia esserne interprete fedele. — Perciò appunto le due amiche, al primo rivedersi, rimasero mute; soltanto dopo uno scoppio di pianto, interrotto da abbracciamenti e da esclamazioni, escì libera la parola a chiedere ed a raccontare, a benedir Dio e gli uomini. Canziana narrò le sue pene, Agnese le sue gioje. Le parole dell'una facevano sèguito alla storia dell'altra. Alle narrazioni tennero dietro i commenti; e in ciò, l'età e l'affezione accordavano a Canziana il diritto d'essere la prima ad interrogare, e di spingere le sue dimande fin dove avrebbe potuto giungere una madre. — La buona donna fu discreta; e con un tuono, che prometteva amorevole indulgenza, toccò i più scabrosi argomenti di modo, che la fanciulla potè rispondere senz'essere tradita dall'infido linguaggio del rossore. Agnese narrò come e quanto fosse amata dal conte; e non nascose di riamarlo con tutte le forze dell'animo. Ma ciò ella diceva con quel candore che, accennando alla gravità del pericolo, offre certa testimonianza della salvezza. Canziana se ne rallegrava di tutto cuore; e benediceva dentro di sè alla providenza, che aveva vegliato sull'innocente. — La inconsapevolezza del male, caparra di una virtù illibata, era per lei una severa ammonizione sul grave cómpito che le spettava da quel momento in poi. Accoglieva però di buon grado l'incarico di vegliare sulla sua cara fanciulla; e si proponeva di trovare in una prima occasione il momento e il coraggio per indurre il conte a porre la virtù di Agnese sotto la salvaguardia di un legame benedetto. Dall'arrivo di Canziana al momento in cui lasciammo Agnese alquanto melanconica ed abbattuta, trascorsero sei mesi, epoca che vorremmo saltar di piè pari, non perchè sia vuota d'interesse, ma perchè una storia d'amore sarà meglio indovinata da un cuore sensibile, che non esposta dal più diligente raccontatore. Preveniamo soltanto una doppia dimanda, che ci pare inevitabile. — Agnese era dessa ancora la pura donzella di Campomorto? Canziana aveva mantenute le sue promesse, e poteva andar superba della sua vigilanza? Nella storia s'incontrano inevitabilmente delle scene assai poco maneggevoli. Esse ne ricordano certe vedute pittoresche a cui l'artista s'avvicina coll'occhio appassionato, e davanti alle quali spiega tutto l'apparato dell'arte sua col proposito di trarne un magnifico quadro; ma che poscia, sottoposte a più minuto esame, diventano nelle singole parti meno belle e meno attraenti; onde il primo entusiasmo scema, e nasce la tentazione d'abbandonare o di correggere l'opera della natura, sostituendovi qualcosa del proprio, a rischio di sembrare infedele ed ammanierato. — Anche il novellatore, quando la storia tace, o non giova a' suoi fini, può lanciarsi liberamente nel vasto campo del verosimile, ed ivi raccogliere a discrezione imaginose avventure, che allettano e commovono come i fatti veri e naturali. — Ma il cronista ha la via e la meta segnata; nè può escirne per questa scappatoja. Sincero espositore dei fatti, egli deve narrarli quali sono: tutt'al più, imitando chi copia, potrà lasciar nell'ombra, come obliati, quegli accessorii, che per interessi ben più urgenti di quelli dell'arte, meglio è nascondere. Il disegno generale della scena apparirà, malgrado ciò, nella sua interezza; e per chi vuole aver nozioni sui particolari di essa, rimarrà aperto l'adito ad interpretare ciò appunto che, a bella posta, si è solo leggermente accennato. LXXXI. Dopo sei mesi di soggiorno a Pavia, Agnese, benchè costretta a condurre una vita da prigioniera, si era fatta ancora più avvenente: ma la bellezza florida, gioviale, che brillava un dì sul volto della giovinetta, cresciuta all'aria aperta e libera d'ogni pensiero, cedeva il posto all'espressione più eloquente di un'anima che ha raggiunto il suo sviluppo, e si è, per così dire, perfezionata nel dolore. — Fra la vispa donzella di Campomorto e la pensosa Agnese di Pavia, passava la differenza che suol essere fra la fanciulla e la donna, fra chi sogna un avvenire tutto rose e speranze, e chi confonde colle sue gioje pur vive e dolcissime, l'invidiato ricordo di un bene, che non tornerà più. Il suo aspetto aveva subito un mutamento, soverchio pel breve tempo trascorso, anche fatta ragione al rapido progresso di una esistenza giovanile e piena di vigore. — Volendo dar conto di questo prodigio, nulla di più opportuno che rassomigliarlo allo sviluppo repentino e straordinario proprio a chi si rileva da una malattia mortale felicemente superata. Pareva che la sua statura fosse assai più alta, tant'era divenuto maestoso e severo il suo portamento. Tutta la persona aveva acquistato quel lusso di forme, quella copia di grazie, che in una donzella di precoce sviluppo sono doti annunciate, ma non raggiunte; onde si dice essere il bottone di un fiore ancora più bello pel profumo e pei colori che promette, non appena sarà sbucciato. Chi cercasse ora nel suo sguardo la franchezza e la serenità di pochi mesi prima, giurerebbe che quelli non erano gli occhi d'Agnesina; sì grandi, sì neri, e sempre tanto avidi di luce. Ora, sotto il velo delle ciglia ancora più folte, vibravano essi, a quando a quando coll'usata sicurezza, un fuoco vivo del pari e penetrante; ma poi si chinavano a terra languidamente, come se avessero speso una soverchia vitalità, e bramassero riposate nell'ombra. Il viso, non più florido come in passato, si abbelliva di un pallore diafano, che lascia travedere la morbidezza dei tessuti e il decorrere dell'onda vitale. Sotto il doppio arco delle sopraciglia fortemente tracciate, scendeva il naso di attica perfezione; ma alla irreprensibile bellezza delle linee, gli si aggiungeva la mobilità delle rosee narici, che accompagnavano la concitata cardiopalmia. La bocca, disegnata da labra alquanto tumide e colorite da un incarnato simile a quello del corallo smunto, talvolta era socchiusa ed atteggiata a nobile sdegno; tal'altra semiaperta sembrava implorare un'aria più libera od accentare una parola, che esciva dall'anima per correre ad un lontano ascoltatore. In addietro, la terra di Campomorto era angusta alle sue corse. Da che si trovava in Pavia, le mura della sua volontaria prigione le bastavano; anzi, al fuggir dell'inverno, invece di rifarsi della lunga immobilità cui erasi condannata, restringeva ancor più la cerchia de' suoi passi, e stava le intere giornate chiusa nella sua camera, leggendo davanti allo scrigno, e lavorando all'ago ed al trapunto presso la finestra, che le offriva il più largo campo di cielo, e da cui spiava più da lungi chi si avvicinasse alla sua dimora. Chi oserà dire che Agnese è felice, se ella è tanto pensosa, se la vediamo ripudiare ad una ad una le dilette abitudini della giovinezza, e trascorrere le ore e i giorni come una derelitta, dimenticando il liuto e le ballate dei trovatori? Ma come potremo convincerci che Agnese è sventurata, se ella giura a Dio ed agli uomini d'essere felice fra i felici della terra! La era infatti: e lo mostrava in modo da non lasciarne dubio, ogni dì, verso il cader del giorno, quando presentiva il rinnovarsi di un caro convegno, e ne affrettava la gioja cogli ansiosi desiderii. Allora non si doleva che della lentezza del tempo; pigro sempre a confronto della foga de' suoi palpiti. Le sue gote ripigliavano il roseo d'altri tempi; le labra si tingevano del più vivo incarnato; e gli occhi sprigionavano dalle folte palpebre due pupille ancor più nere e brillanti del consueto, cupide di aria e di luce, sempre le prime a ravvisare chi spuntava da lungi sull'estremo della bastía, ferme e sicure nel sostenere l'incontro di un altro sguardo lungamente desiderato. Ma prima che l'occhio facesse questa scoperta, prima che l'udito riconoscesse, fra i varii strepiti, lo strepito noto d'una pedata, il cuore salutava il benvenuto con un battere sì vivo e concitato, che le toglieva il respiro. Oh allora Agnese non mentiva! ella era veramente felice: felice a segno, da credere che un solo istante di quel benessere fosse guadagnato a buon patto con una intera vita di squallore. Quando la persona aspettata era giunta, dopo un minuto di silenzio e di raccoglimento, ella risurgeva più vivace che mai. La contentezza traboccante dal cuore, angusto alla piena di troppi affetti, effundevasi su tutta la persona e traducevasi in sguardi sereni, in facili sorrisi, in motti arguti, in lacrime di tenerezza. — Ma se fosse possibile analizzare quelle lacrime, le troveremmo composte di ben diversi elementi; poichè tutto ciò che noi chiamiamo dolore e piacere, non è sì nettamente spartito, che l'uno non contenga in sè qualche particella dell'altro. Scopriremmo, che le lacrime dei primi dì non erano simili in tutto a quelle dei giorni susseguenti: un tempo esse erano vaporose, e sottili come l'etere; ora s'erano fatte più dense, e forse già un poco amare. Da quando un tal mutamento? LXXXII. Era un giorno d'inverno. — Una bruma spessa e grigiastra pesava sull'aria e copriva il sole; il quale, apparendo a quando a quando attraverso i vortici della nebbia, sembrava la forbita rotella di un eroe d'Omero. Il suolo era coperto di una copiosa fiorita di neve, qua pesta e ridotta a fango, là intatta e pura come un letto di gigli. Da lontano il bianco velo, perduto nella tinta turchiniccia dell'aria, stendevasi in un orizzonte indefinito fino a toccare le nubi, senza che uno screzio meno fosco rallegrasse in alcuna parte il funereo lenzuolo, entro cui dormivano abbracciati il cielo e la terra. Agnese, di tempra squisita e facile alle emozioni, non potè essere straniera a quella scena di mestizia universale. Ella, per cui la vista del sole e dei monti, gli sconvolgimenti, fossero pur terribili, della natura, erano vita e gaudio, ritorceva stanca e nojata lo sguardo dalla finestra, entro la quale s'incorniciava la monotona nevicata. Pure, mentre il giorno correva pigro e sconsolato, si confortava pensando alle immancabili dolcezze della sera. — Sotto la volta azzurra della sua stanza, alla luce artificiale dei doppieri, calate le cortine del verrone, e chiusa al di fuori ogni men lieta apparenza, ella creava nella sua mente una primavera d'amorose parole e di fervidi affetti. Canziana, la buona e fedele amica, aveva dal canto suo fatto ogni sforzo per rallegrare quel tetro soggiorno. Quando la padrona taceva, persuasa che quel silenzio fosse doloroso, tentava scuoterla colla memoria delle andate cose; e passava in rassegna le glorie della famiglia dei Mantegazzi e le avventure tante volte udite dall'ottimo messer Maffiolo. Commendava la sapienza di suo padre e la bellezza della madre sua; poi alle lodi del casato innestava con fino accorgimento quelle del Conte di Virtù, celebrandone la generosità e la domestichezza, e facendo i più onorevoli raffronti tra lui ed i tiranni che reggevano altre contrade. Chiudeva, infine, pigliando un acconto sul futuro, ed effondendosi in augurj e voti i più lieti. Ma quando s'accorgeva che le sue parole non erano ascoltate dalla compagna, visibilmente assorta in altre considerazioni, ella (privilegiata fra le femine di buon cuore, che d'ordinario peccano di loquacità) sapeva imporsi la legge d'essere discreta e tacere. In quei momenti non sentivasi altro strepito, fuorchè lo spunto dell'ago, che forava il sciamito teso sul telajo d'Agnese, e il trottolare del fuso, scosso dalle mani di Canziana; oppure, se tali operazioni si allentavano, il respiro affannoso della fanciulla. Nell'infrequente ricorrere di simili casi, Canziana soleva essere ancora più assidua e più affettuosa verso la sua padrona; e, scambiando pietà per pietà, ometteva perfino le solite sue pratiche nella vicina chiesuola, sostituendo ad esse una più devota e più amorosa sollecitudine per la figlia sua. Ma proprio in quel dì era arrivato un tale, che recava notizie di Milano e della sua casa, e ripartiva all'indimani. Prima d'andarsene, ei voleva raccogliere le nuove e i comandi delle due donne, per farne parte agli amici: sapendo di rendere con ciò un doppio servigio, a chi lo inviava ed a quelli cui era inviato. Tutto ciò in secreto: perchè la pratica colla famiglia di Maffiolo avrebbe potuto costar cara a chi dimorava in Milano. — Ragioni poi d'egual peso e di pari prudenza consigliavano il messo a non accostarsi al casolare. E perciò Canziana dovette recarsi da lui: ed Agnese ebbe ad aggiungere una sua preghiera per indurre la governante a non rompere questo debole filo che la congiungeva alle domestiche pareti, cui ella inviava, dal profondo del cuore, il più amorevole addio. Quando la governante esci va per questa bisogna, era già ora tarda; sulla porta della casa, volgendosi indietro per baciare la mano alla padrona, promettevale non l'avrebbe lasciata sola che il tempo necessario per far due volte la via, e per raccogliere e dare nel modo più spedito le opportune notizie. — Forse alla comune mestizia, produtta dalla stessa cagione, dovevasi attribuire la dolorosa peritanza d'entrambe; non era la prima volta che l'una passava qualche ora lontana dall'altra; ma giammai prima d'ora sembrò all'una e all'altra tanto penoso il distacco. — Ciò che avvenne poi, diede a quell'insolita incertezza nome ed autorità di presentimento. Un'altra persona, sull'animo della quale pesava un cruccio d'egual natura, era il Conte di Virtù. Invano aveva egli cercato di seppellirlo nelle brighe dello stato; invano aveva riunito intorno a se il collegio dei sapienti, per trascinarsi con esso nel vortice delle assidue cure. In quel dì le brame, le speranze, i trionfi, le vanità erano cosa ancor più fredde ed insipide: ogni pensiero, ogni cura, ogni blandizie si specchiava nello squallido aspetto della natura. Un tale stato, tanto grave come insolito ad uomo che sortì una tempra vigorosa, gli faceva desiderare una decisa sofferenza; perchè l'addolorarsi è vivere, mentre l'indeterminato scontento di sè era qualcosa di simile ad una lenta agonia. Prima dell'ora solita, affastellò le pergamene, rinchiuse i codici, e congedò i suoi fidi. Ritiratosi nei suoi appartamenti, lasciò credere d'aver bisogno di riposo; intanto, elusa la vigilanza dei cortigiani, scese per una scala secreta, aperse una piccola porta, di cui egli custodiva la chiave, ed avvolto in un mantello bruno col cappuccio calato sugli occhi, escì al cadere del giorno sui valli, dirigendosi di buon passo verso la dimora d'Agnese. Delle cento volte che ebbe a visitarla, questa era la prima che, giunto alla sua casa, la trovasse chiusa; giacchè era solito ad essere atteso e segnalato da lontano. All'improviso ed affrettato bussare, Agnese trasalì; ma non provò sgomento; anzi, cedendo istintivamente alla gradevole sorpresa, che interrompeva la sua fastidiosa aspettativa, senza porre mente che era sola, senza far capolino dalla finestra per vedere chi fosse e che si volesse, s'avviò ad aprire. — Nell'andito che conduceva alla porta, regnava un'oscurità quasi completa. Ella camminava dunque alla cieca, fino in capo ad esso; e là, guidata dalla pratica, cercò e trovò il paletto del catenaccio, lo fece scorrere nelle anella, e schiuse la porta. Allora sul fondo bigio dell'aria, che alla dilatata pupilla d'Agnese fu luce viva, riconobbe le sembianze del conte. Costui non le diede tempo di scambiare un addio: d'un balzo si precipitò nell'andito e, sbattendo indietro la porta, stese le mani per incontrar quelle della fanciulla, che strinse amorosamente, volendola far guida alla sua momentanea cecità. — Camminando al suo fianco, egli teneva la sinistra mano nella destra di lei, e coll'altro braccio faceva cintura al suo agile imbusto. In quei pochi passi, aspirò il profumo de' suoi capelli, numerò i battiti de' suoi polsi, indovinò i soavi contorni di una vita snella, sorretta da un fianco turgido e provocante. — Benchè la scaletta fosse lievemente rischiarata dai raggi del tramonto, egli non rinunciò alla dolcezza d'essere condotto da sì pietosa scorta; ed arrivato al salotto, si allontanò solo da lei quanto era necessario, perchè l'uno sedesse dicontro all'altra. “O signore, prese a dire la fanciulla, qual caso impreveduto vi conduce qui prima dell'ora solita? Io non vi aspettava sì presto; ed era trista e tapina, pensando che avrei dovuto attendere non meno di un'ora: un'ora!...„ “Ma tu eri rassegnata ad aspettare la notte, — disse il conte con un tuono di scherzevole rimprovero; — io no; non ebbi tanta virtù: il bisogno di vederti fu così imperioso che vinse ogni abitudine, ogni rispetto.„ “Guai se l'umile vassalla non avesse appreso a divorare in secreto le sue impazienze; — soggiunse Agnese. — Guai se stanca di aspettare il suo nobile signore, avesse abbandonato questo ritiro; e, per giungere più presto a lui, osasse varcare la soglia del castello, ed eludere la sospettosa vigilanza de' suoi sergenti!... Siate sincero, e dite, o signore, l'ardita donna sarebbe ella stata bene accolta?„ “Agnese mia, riprese sorridendo il conte, non ti far più bella con quel tuono di dispetto. Io t'amo già troppo; rabbellita ancor più da quella nobile alterezza che ti brilla ora sul volto, come potrei mostrarti che la mia passione per te può ancora rendersi più ardente?„ “Adulatore! — ripigliò Agnese, con un sorriso leggermente marcato; — voi dite sì belle parole, come se mi guardaste di pieno giorno; pochi minuti fa, la luce ora meno incerta, e voi eravate cieco a segno da volermi guida ai vostri passi.„ Il conte sorrise dell'ingenuità d'Agnese; ma non volle trarla d'inganno. — Dopo un istante di silenzio, la fanciulla gli chiese se egli avrebbe bramato che s'accendesse una lucerna. “No, rispose il conte, la luce morente del giorno mi fa sembrare ancor più soave il tono argentino della tua voce. Non bisogna offrire ai sensi già inebriati tutti i profumi della bellezza in una volta. D'altronde, io vedo i nobili contorni della tua persona, disegnati sul lucido crepuscolo che attraversa l'invetriata del verrone. La mano di Giotto non tracciò mai forme più angeliche delle tue.„ Agnese non aggiunse parola; o meglio non seppe scegliere, fra le molte che le si presentavano alla mente, quella che dicesse il vero; o, se l'avesse trovata, non avrebbe avuto il coraggio di pronunciarla. Quel silenzio intanto non era muto del tutto; nella sospensione d'animo d'entrambi, emergevano più distinti i sospiri, che Agnese cercava invano di comprimere. “Mia diletta, prese a dire il conte; a quanto vedo, oggi siamo soli.„ “Canziana è fuori; ma rientrerà fra pochi minuti.„ “Quella buona donna non ti abbandona mai, — soggiunse il conte con un leggiero accento di amarezza, che sfuggì alla fanciulla; — ella t'ama assai; quasi io comincio a divenire geloso della tenerezza che tu senti per colei.„ La fanciulla rise a queste parole. “Avvicinati a me, Agnese, e porgimi la tua mano, perchè stringendola abbia almeno un compenso alla privazione di contemplarti.„ Agnese spinse più avanti la sedia, e stese la mano al conte. “Sei di poche parole, ripigliò questi; che hai, ben mio? forse sei tu scontenta di me? dimmi tutto.... è egli possibile che il tuo cuore, che batte sì fortemente, neghi al tuo labro una sola parola?„ “O Giovanni, ripigliò Agnese assai commossa, che potrei io dirvi, che non abbia già mille volte ripetuto? — Io vi amo, o signore; vi amo con tutta l'anima; il dirlo, il ripeterlo non è egli un indiscreto rimprovero diretto al destino, che da tre mesi copre una nobile passione col velo del mistero, quasi fosse una colpa?„ “Hai ragione di dolerti, — soggiunse l'amante stringendo la destra della fanciulla tra le due mani, ed accostandola alle sue labra — Ma il tuo rimprovero dovrebbe essere rivolto a me. — Io lotto fra la legge dettata dalla mia condizione, e quella che tu padrona del mio cuore, árbitra della mia felicità, a miglior ragione, hai dritto d'impormi. — Credi, però, Agnese; non è a mio vantaggio che io trascino nel mistero il nostro affetto. Quante e quante volte ho ripetuta quella parola, che tu mi hai detto appena fosti salva; oh perchè non nasceste voi in una condizione pari alla mia? Sì: noi saremmo a quest'ora le due più felici creature della terra!„ “Altra volta voi mi ricordaste le parole di mio padre, ed io n'ebbi pronto e salutare conforto. Ora tocca a me a ripeterle.„ “La dimenticanza, questo sudario delle tombe che consuma i nostri cari che vi riposano, indebolirà le memorie or vivissime di tuo padre: allora, attraverso a quelle, brillerà di una luce più sinistra la storia di un affetto che io ho sacrificato a tiepide prudenze, -quell'affetto che non dovrebbe essere, e non è secondo che all'amore di Dio!„ “No, mio signore; qualunque sarà il mio avvenire, io non attribuirò mai a voi il male che mi affligge. Da voi non spero, e non attendo che il bene.„ “Ti è grave la incertezza a cui ti condanna un rispetto mondano: non negarlo, mia cara Agnese, l'hai detto....„ “Vi è caro il mio lamento? Grazie, o signore; sì, io mi lagno del destino, perchè temo che il vostro amore rassegnato possa condurvi all'oblío.„ “Tu deplori nel destino la prima cagione, l'unica sorgente dei dubii che ti travagliano. Ma il più pietoso e più indulgente amore non ti impedisce di scorgere che fra quella prima causa e l'ultimo suo effetto, v'ha di mezzo la mia libera volontà. Questa, sorretta da una passione ardente, com'è la tua, dovrebbe rovesciare quanti ostacoli si frappongono al vantato desiderio di rendere felice la persona amata. — Tu oggi discacci questo pensiero perchè è un'accusa; e mi ami troppo per accusarmi. Quel pensiero tornerà in campo dimani; lo combatterai di nuovo, esso rivivrà sempre finchè durano le tristi circostanze in cui versiamo. A poco a poco, ciò che nei primi tempi ti parve in me una necessità insurmontabile, diverrà a' tuoi occhi pura e vulgare convenienza; ah, non surga mai quel giorno in cui tu lo chiami arte maliziosa per rallentare un legame, per isfuggire al compimento di una sacra promessa...!„ “Sperda Iddio l'augurio: non mi spaventate con sì funeste visioni.„ Se non sapessimo che l'amore del conte era sincero e sviscerato, avremmo diritto di sospettare che tali parole racchiudessero il maligno disegno di smagliare la rete in cui si era avviluppato, e d'escirne a buon patto. D'ordinario, le scene fra gli amanti riboccano di promesse, di preghiere, di giuramenti; sono questi i mezzi più efficaci a smovere una volontà restía, a decidere una mente travagliata dalle incertezze. Ma il conte, che era troppo leale per destreggiare le felici circostanze in cui il caso lo aveva collocato, non faceva progetti, nè avanzava promesse per conquidere la virtù di colei, ch'egli appunto amava per la sua virtù. Uomo avveduto ch'egli era, in ciò si mostrava il più ingenuo, il più candido cuore che mai; ben sapendo che non era mestieri pregar molto per ottenere tutto. Eppure egli giungeva inavvertitamente alla stessa meta per una via opposta. La sua diffidenza provocava l'altrui fiducia; i suoi dubii destavano la sicurezza della sua ascoltatrice; ei s'accusava, ella lo assolveva, e gli accordava in premio una confidenza ancor più viva ed illimitata. In quello scambio d'affetti, le parole diventarono per Agnese imagini troppo pallide degli interni sentimenti. Combattere i detti dell'amante con altri detti d'egual tenore, era per lei quanto mettere in dubio le proprie convinzioni, e profanare la religione del proprio cuore. Meglio le parve lo scongiurare l'infausto presagio, opponendo alla modesta peritanza di colui una luminosa prova di fiducia, un atto di pronta e completa soggezione. L'ardente fanciulla non discusse, come facciamo noi, l'arduo quesito; ma lo sciolse d'un tratto, lanciandosi nelle braccia dell'amante con quell'abbandono, che vuol dire: — invano tu tenti di offuscare le tue virtù, invano tu metti a prova il mio cuore; esso è giù tuo, tuo per sempre, tuo ad ogni patto. Quando, pochi istanti dopo, s'udì battere alla porta, Agnese rinvenne dal suo delirio, e, senza saperne il perchè, si trovò gli occhi e il volto inondati di pianto. Ma ben comprese che volessero dire quelle lacrime, quando sentì il bisogno di nasconderle all'amica sua. — Fu tosto accesa una lampada. Agnese, facendo violenza a se stessa e studiando di ripigliare la solita compostezza, mosse ad incontrarla. Nel momento in cui ebbe aperto l'uscio e si trovò di faccia a Canziana, il lume che ella teneva a mano vibrò un raggio indiscreto sul suo viso, e lo mostrò sfolgorante di una bellezza affatto nuova. — La buona donna, colpita da quella improvisa visione, non disse parola, perchè aveva tutto indovinato. E Agnese?.... poveretta, se le fosse stato possibile articolare un accento avrebbe ripetuto, colla sposa della Cantica: — “_Il mio amico è mio, ed io son sua_[27].„ LXXXIII. Da quel dì, dopo quel convegno, l'esistenza d'Agnese subì un mutamento assai importante. La vita di quella donna può dividersi in due epoche, e questo giorno ne segna il confine. — Gioje, speranze, dolori ebbero in seguito eguale vicenda nell'animo suo; ma non eguale l'indole e l'intensità. Ella provò nuovi istanti di gaudio inesprimibile; ma le sue dolcezze più profonde, più interne, più nascose, non andavano mai disgiunte da una soavissima mestizia, che le dimandava nuove lacrime. Prima di quel giorno ella soleva riguardare la sua felicità come l'effetto che tien dietro immancabilmente alla sua cagione: l'amore non le dava soltanto la contentezza presente, ma era un pegno sicuro di quella ben più grande e durevole che le veniva promessa per l'avvenire. Da qui innanzi invece, il suo poetico dimani erasi fatto una positiva attualità, ricca di bene, ma pur troppo non scevra di dubii e di apprensioni. — Se il cuor suo non poteva più chiedere nulla al mondo ed agli uomini, la ragione molto doveva chiedere a sè stessa. Vero è, che il cuore era sempre vittorioso; ma la vittoria attestava la lotta; questa il travaglio e l'incertezza. La speranza dei giorni addietro le faceva gradire la promessa di un bene futuro e lontano, quasi che il suo stato presente non potesse capire tutto quello che gli era serbato. La speranza dei giorni successivi all'opposto la guidava ad affrettare con animo impaziente il compimento di un patto, senza il quale crollava in parte il meraviglioso edificio della sua esistenza. — È cosa ben diversa lo sperare l'aggiunta di un bene ad un bene, e l'attendere un fatto che ci guarentisca da un male. Spera sorridendo colui che oggi è felice, ed aspetta un dimani ancora più felice. Ma l'ansietà di chi attende un giudizio è sempre grave e severa, anche quando abbia ragione di crederlo favorevole a' suoi voti. Torneremo ad Agnese tra breve. — Prima di ripigliare il filo degli avvenimenti che la riguardano, ci è necessario arrestarci alquanto alla corte di Milano, dove si congiura a suo danno. Ma poichè quel luogo e quelle persone ci richiamano alcune memorie storiche, e queste alla lor volta risvegliano in noi qualche idea generale sulle nostre condizioni civili e politiche, così prima ancora di ripigliare la cronaca, registreremo brevemente, come in un sommario, alcuni fatti, aggiungendovi qualche nostra osservazione. — Chi non s'accomoda a digressioni, e preferisce continuare la storia di Agnese, non ha che a lasciar di mezzo il capitolo seguente. FINE DEL PRIMO VOLUME. NOTE: [1] Crescenzi, _Anfit. romano_, parte 1.ª Milano 1648. [2] _De vulg. eloquentia_ lib. 1.º cap. XVI. [3] Dante, _De vulg. eloq._ cap. XVI. [4] Dante, _Purgatorio_, Canto XVI. [5] Lettera di _Fra Guittone d'Arezzo_, ai cavalieri di Pisa; Roma, 1745. [6] Dante, _Paradiso_, canto XXXI. [7] P. Giovius. _Hist. XII Vicecom._ Ediz. princ. Parigi 1549. [8] P. Giovio. Vite dei XII Visconti. [9] Raccontasi che in Firenze una donna assalita da un leone e derubata di un bambino poppante raggiungesse il rapitore, e postasi ginocchioni sui passi di lui, glielo chiedesse con tale accento di pietà, che indusse l'animale ad abbandonare la sua preda. A proposito di generosità associata alla ferocia, udite un'altro aneddoto non meno meraviglioso e certo più verosimile. — Un novelliere persiano ci racconta (Alkurdi tradotto dal persiano da A. Chodzko), che sul Kurr, torrente rapidissimo che corre tutto sciolto in ischiume in mezzo alle frane di due scogliere, erasi gettato un ponte per dar passaggio ad un'armata, che, con gran scorta di cammelli e di carri, e col consueto sèguito di donne e di servi, accorrevano a reprimere la rivolta scoppiata in una provincia della Persia. La carovana passato il ponte dovette arrestarsi all'improviso; la sosta fe' retrocedere bruscamente quelli che stavano al retroguardo. Nel trambusto un cammello urtò una donna, che si teneva al petto il suo bambino, la spinse a terra, tolsele dal braccio il carico e lo lanciò di colpo oltre la sbarra del ponte nei vortici della fiumana. La desolata, in procinto di perdere la ragione, fra le grida e le smanie teneva fisso lo sguardo sulle onde, sperando discernervi l'oggetto perduto; ferma nel proposito di perire per lui o con lui. — Ma i lini che ravvolgevano il bambino erano bianchi come la schiuma, e travolti nei gorghi del torrente, sotto il velo di una densa nube di vapori, sfuggivano agli sguardi di tutti. Ad un tratto un'aquila, che aveva il suo nido sur una altissima rupe, scendente a picco nel letto del fiume, guidata, dal suo istinto, o fatta accorta dalla sua vista acutissima di un nastro rosso, che stringeva i lini intorno al corpo della creatura, piombò sovr'essa, la ghermì per la benda, e la trasse seco nell'aria. È facile imaginarsi, come rimanessero attoniti coloro che avevano seguito coll'occhio fisso, e con un'angoscia mortale quel fatto prodigioso. Ma il cambiar della scena ed il rinovarsi di una nuova e più strana avventura, non scemavano punto lo sgomento generale. — Il bambino era salvo dalle acque solo per subire tra gli artigli dell'animale una morte egualmente certa e mille volte più crudele. L'aquila ingannò i presentimenti di tutti. Spiegando le ali, non si sollevò nelle regioni perdute dell'aria, nè corse a rinchiudersi nel suo covile, — ma con un volo di traverso toltasi a quel suolo ingombro di burroni e di precipizii, scese a poca distanza su di un piano coperto d'erba; ed ivi depose la sua preda, cui sembrò vagheggiare scuotendo le penne e mandando un grido acuto. Un branco di que' soldati accorreva a quel luogo coll'intendimento di uccidere il rapitore e di sottrarre in qualsiasi modo la vittima. L'esito di quest'impresa era assai dubio; e l'aquila la prevenne; perocchè mossa, Dio sa da quale istinto, ripigliò il volo, abbandonando la preda, che fu restituita incolume alla madre desolata. Non è affar nostro il discutere sull'autenticità di questi racconti, che sembrano, invero, parto della fantasia de' poeti; nè ammesso il fatto, ci dobbiam occupare di sciogliere il quesito, se azzardo o istinto guidasse quegli animali a perdonare alle loro vittime — Diremo soltanto che quanto è nel vasto campo del possibile rispetto ai maestosi sovrani del deserto e delle nubi, ci sembrerebbe inammissibile ed assurdo in un ordine subalterno d'esseri viventi, cui la natura rese tanto più cupidi e feroci quanto fece meno forti e potenti. [10] Questo fatto avvenne il 25 agosto 1369. Vedi il Corio, il Giulini ed il Verri all'anno sudetto. [11] _Il Principe_, Cap. III. [12] Il Principe Cap. XVIII. [13] L'Azario ci riferisce che Barnabò aveva publicato un editto il quale proibiva ai cittadini di Milano il circolare di notte per città senza lume, sotto pena del taglio di un piede. [14] All'incirca verso quest'epoca si cominciò a dare ai prìncipi il titolo d'Altezza. Una lettera di Jacopo dal Verme al duca di Milano, colla quale gli dà parte della presa di Bologna, comincia così: _Illustris Princeps, et Excelse Pater, Domine noster — Sicut ante Celsitudinis Vestrae conspectum ecc._ — Giulini Docum. Volume ultimo pag. 272. [15] P. Giovio. Vite dei XII Visconti tradotte da Lodovico Domenichi. Venezia 1549. Milano 1853. [16] P. Giovio. Vita dei XII Visconti. [17] Vedi il Corio all'anno 1374., il Verri. Cap. XIII, e Matteo Villani. R. I. S. volume XIV. [18] Appendice alle memorie ecc... Docum. ined. Volume ultimo. [19] Vedi il Corio all'anno 1340. [20] Vincenzo Monti. [21] Giulini all'anno 823. [22] Vedi il Giulini all'anno suddetto. [23] Ovidio, _Metam._ Lib. 1.º [24] Divina Commedia Canto XXII del Paradiso. [25] _Dante._ Canzone in lode di Beatrice figlia di Folco Portinari. [26] Chi non s'accomoda a tale racconto, consulti il _Dictionnaire des sciences médicales_, vol. IV, all'articolo _Incube_, ove il dottore Parent espone un fatto simile accaduto nei tempi moderni ad un battaglione napoletano, che da Palmi si recava a Tropea. Le milizie, estenuate dal caldo e da una lunga marcia, presero alloggio in una vecchia abbazia mezzo diroccata. A mezzanotte il riposo generale venne turbato da grida, cui tennero dietro il tumulto e la fuga. La cagione del disordine fu una visione simile a quella che pose in iscompiglio la banda armata di Campomorto. — Il dotto scrittore, per ispiegare questo fenomeno, asserisce che la generale disposizione fisica dei soldati poteva rendere ognuno di essi suscettibile a subire, in un'unica maniera, l'impressione dello sgomento. Il primo grido echeggiò nell'animo di tutti, e impresse sulle travagliate fantasie una sola allucinazione. Checchessia di questa spiegazione, a noi basta il potere aggiungere fede non al fatto, ma alle apparenze del fatto: nè, per quanto ci sembri stiracchiata la spiegazione del dottor Parent, osiamo posporla a quella di F. Eudes de Mirville, che racconta questo aneddoto, con mille altri di simile natura, nel suo libro intorno _agli spiriti_; e in pieno secolo XIX, con una pompa di dottrina veramente meravigliosa, ci vuole ricondurre al medio evo, per ripopolare il mondo di genii e di diavolerie. Del resto, il Sacchetti e il Passavanti elegantissimi scrittori del quattrocento, ne raccontano come cose autentiche delle avventure assai meno credibili di questa. [27] Lib. della Cantica. Cap. II, v. 16. VOLUME PRIMO Pag. lin. errata corrige 92 6 di quello; gli usciva di quello, gli usciva 114 5 predilettoe prediletto 173 31 desriveore descrivere 212 30 barda barba Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate dall'autore a fine volume sono state riportate nel testo. End of Project Gutenberg's Il Conte di Virtù vol. 1/2, by Carlo Belgiojoso *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL CONTE DI VIRTÙ VOL. 1/2 *** ***** This file should be named 58247-0.txt or 58247-0.zip ***** This and all associated files of various formats will be found in: http://www.gutenberg.org/5/8/2/4/58247/ Produced by Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg-tm's goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation's EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state's laws. The Foundation's principal office is in Fairbanks, Alaska, with the mailing address: PO Box 750175, Fairbanks, AK 99775, but its volunteers and employees are scattered throughout numerous locations. Its business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. 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