The Project Gutenberg EBook of La Francia dal primo impero al 1871, by Heinrich von Treitschke This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org Title: La Francia dal primo impero al 1871 Author: Heinrich von Treitschke Translator: Enrico Ruta Release Date: March 12, 2009 [EBook #28317] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LA FRANCIA DAL PRIMO IMPERO *** Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni, and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net. Images courtesly provided by Alberto Mello. ENRICO VON TREITSCHKE LA FRANCIA DAL PRIMO IMPERO AL 1871 TRADUZIONE DI ENRICO RUTA VOLUME II BARI GIUS.LATERZA & FIGLI TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI 1917 PROPRIETÀ LETTERARIA OTTOBRE MCMXVI--45237 PARTE QUARTA LA REPUBBLICA E IL COLPO DI STATO La repubblica e il colpo di Stato. [Scritto ad Heidelberg nel 1868.] I. Nei giorni che Napoleone ritornò da Mosca, il generale Mallet una mattina evase dal manicomio di Parigi dov'era rinchiuso. Propalò la favola, che l'imperatore era caduto: da un momento all'altro la macchina di quel potente impero dispotico si rifiutò di funzionare. Funzionari e ufficiali s'inchinarono al pazzo, il quale osò dichiarare: «il governo sono io!». Il prefetto della Senna dispose la sala del consiglio, in cui si sarebbe adunato il governo provvisorio di Mallet: un ministro fu tenuto sotto catenacci e serrature; le truppe della guardia aprirono la prigione ai compagni della cospirazione. Quando l'imperatore venne a sapere con quale illimitata potenza era venuto fatto a un pazzo di comandare una mattina sulla capitale a sua posta, esclamò sdegnato: «Un uomo qui è tutto? I giuramenti, le istituzioni non contano nulla?». Era passato da allora un lungo tempo, in cui pareva che la vita parlamentare si sostenesse sulla libera cooperazione del popolo o almeno della classe dominante. Eppure la sostanza di questo stato era rimasta dispotica, il governo si teneva in lotte incessanti con l'umore mutevole della società. Bastava un improvviso momento di debolezza alle Tuileries, e un ardito colpo di mano compiuto da un piccolo partito avrebbe potuto rovesciare l'autorità dello stato e imporre una costituzione aborrita dalla maggioranza del paese. La rivoluzione di febbraio fu appunto un colpo di mano siffatto, non propriamente altrettanto insensato, ma appena meno ingiustificato della scesa di testa del pazzo nel 1812. Il ministro Rouher sollevò l'indignazione dei partiti liberali, quando espresse, tuttora sotto la repubblica, la prima e la più famigerata delle sue alate parole, qualificando la rivoluzione di febbraio come una catastrofe. Se non c'inganniamo interamente, verrà tempo in cui il giudizio della storia sonerà di gran lunga più aspro, e designerà la rivolta di febbraio come una pazzia e un delitto. Chi riconosce l'inconsistenza della situazione di fatto, e noi non abbiamo punto palliato gli errori del governo di luglio, non per questo giustifica coloro, che senza un disegno e senza una meta distruggono le istituzioni in vigore. Laddove il movimento grandioso del 1789 e la necessaria difesa della libertà del 1830, altamente giustificati in sé stessi, riceverono puramente una significazione più elevata dalla potente ripercussione sul mondo europeo, all'opposto la rivoluzione di febbraio non ci porge nulla che sia degno di ammirazione. La sua grandezza consiste solamente nelle conseguenze, da nessuno volute, che produsse in Francia, e principalmente nell'influenza spiegata in Germania e in Italia, dove l'idea dell'unità nazionale, maturata in lunghi dolori, aspettava soltanto il segnale per cimentarsi nella lotta. Senza dubbio un avvenimento così importante non era un caso; anzi una necessità profonda si annidava nel duplice fatto, che la borghesia di Francia non mosse un dito per la difesa del proprio dominio, e che un regime apparentemente consolidato potè cadere di botto, per un tumulto improvviso di piazza. Ma in questo guazzabuglio di debolezza che ha perduto la testa e di passione losca, solamente l'adulazione al popolo scoprirà un segno di grandezza, la voce della sollevata coscienza nazionale. Nella lotta per la riforma della legge elettorale l'opposizione con imprevidenza puerile si attenne al pericoloso mezzo delle dimostrazioni popolari. Il partito sovversivo, che per sua propria confessione non contava tra i seguaci sicuri a Parigi più di tremila affiliati, profittò dell'occasione per una lotta di barricate: e la lotta pareva cessata, perché il re aveva ceduto e Guizot si era dimesso. La pace era conchiusa, quando di botto dalla folla ammassata davanti al ministero degli esteri partì quel colpo enigmatico, di cui nessuno neppure oggi sa dire con sicurezza se fu un caso o l'atto precipitato di uno spaurito o una bricconata demagogica sull'esempio delle bravate consimili nella guerra della fronda. I soldati di guardia al ministero si credettero assaliti e risposero al colpo con un fuoco mortale: la folla scoppiò in un urlo selvaggio di vendetta. Gli operai si sollevarono in cieco furore. Il re, rovesciato da quel fatale _abattement du troisième jour_ paventato in tutte le rivoluzioni di Parigi, diede inconsideratamente la partita perduta prima del tempo: il partito vincitore del momento dichiarò la repubblica. E la repubblica s'insediò in cima a un ordinamento amministrativo dispotico, che a mala pena era in grado di comportare un trono parlamentare. Un popolo di raffinata civiltà ricevè il governo dalle grida di una turba plebea nel palazzo Borbone; e questo governo improvvisato si dové subito completare coi nomi di una seconda lista, acclamata nel palazzo di città da un'altra moltitudine di popolo. La più lussureggiante città del mondo fu obbligata di botto ad avvezzarsi alla semplicità della vita repubblicana, che in un ambiente siffatto non poteva riuscire ad altro che ad una caricatura della monarchia. Una nazione, le cui classi colte quasi alla vecchia maniera spagnuola vedevano la meta della propria ambizione unicamente nelle cariche dello stato, gettò questo immenso potere statale nelle mani di un magistrato mobile. In verità, l'insensatezza dei fantasticatori politici non ha mai osato una più pazza incongruenza. Trentacinque milioni di francesi riceverono per telegrafo la notizia, che il loro stato aveva cambiato regime, e si conformarono senza resistenza al nuovo ordine. Predominò l'apparenza, che in questo stato accentrato non sarebbe sorta la questione, decisiva in ogni paese germanico, del come si sarebbero comportate le provincie davanti al colpo di mano della capitale. Ma, col fatto, la volontà del paese non era ancora spenta completamente. Già sotto Luigi Filippo un giornale liberale aveva sentenziato, che Parigi era tuttora solamente la cittadella del potere, ma non era più il cuore della Francia. Questa sentenza adesso si sarebbe avverata per un breve corso di tempo: per la prima volta dai tempi della Convenzione la provincia mostrò indipendenza di risoluzione verso la dittatura della capitale. La borghesia e la popolazione conservatrice delle provincie erano troppo straniate dall'attività politica, le pubbliche autorità troppo abituate all'ubbidienza meccanica, perché difendessero risolutamente la costituzione giurata. Ma, passato il primo sgomento della sorpresa, la maggioranza della nazione si mise all'opera con efficace costanza e con l'istinto infallibile della disperazione, per ribattere il regime improvvisato del febbraio e scotere il giogo dei radicali e degli operai della capitale. La nazione era priva di qualsiasi attaccamento a una determinata dinastia, ma era convinta della necessità della monarchia e tanto più della intangibilità dell'ordinamento vigente del diritto di proprietà; e manifestò con sicuro tatto questo sentimento prima con le elezioni reazionarie dell'assemblea nazionale, poi col suo atteggiamento ostile verso la sommossa di luglio e in fine con l'elevazione di un pretendente al seggio presidenziale. Tenendoci strettamente a cotesti dati, noi siamo in grado di prendere la difesa del popolo contro l'indignazione di parecchi nobili francesi, i quali a proposito di questa rivolta arrabbiata alzano le spalle e sentenziano, che il carattere di tale popolo sia siffattamente originale, che si sorprende sempre di sé stesso. Chi si proponesse di considerare la rivoluzione di febbraio con l'animo del satirico, troverebbe nell'orribile guazzabuglio di questa società in frantumi la materia rispondente. Comunque, la civiltà mite dei nostri tempi non si smentì nemmeno in quei giorni di vertigine. Non appena la barbarie della plebaglia si fu sfogata nel saccheggio di alcuni castelli, principiò un governo umano e decoroso con a capo uomini personalmente integri. Tale moderazione apparve molto confortante nella condotta seguita dal nuovo governo rispetto agli Orléans; e con legittimo orgoglio Lamartine poté dire nell'assemblea nazionale: «Nessuno può rivolgerci questa domanda: che cosa avete voi fatto della vita di un cittadino?». Ma se il movimento fin dal principio rifuggì da un inutile spargimento di sangue, esso però palesò ben poco di quell'entusiasmo giovanile e idealistico, di quell'ebbrezza di speranza, che illuminò e infiammò gl'inizi della prima rivoluzione. Migliaia d'impiegati spergiuri domandarono l'abolizione del giuramento politico, e la repubblica annuì alla preghiera. Noi non spendiamo una sola parola sull'imprudenza politica di tale provvedimento: giacché precisamente il morso della coscienza negli uomini dimentichi del dovere dimostra, che per la media degli uomini il giuramento pure costituisce un legame di fedeltà più solido di quello che la frivolezza voglia concedere. Domandiamo semplicemente: l'anima giovanile di uno schietto movimento di popolo sarebbe stato capace di una tale manifestazione di cinico disprezzo umano? E che cosa si era mai raggiunto con la caduta della monarchia, con la slealtà generale della burocrazia? Solamente una nuova semplice rivoluzione contro il trono, solo un cambiamento alla cima dello stato. Nessun terzo può descrivere l'inutilità di cotesta rivoluzione più causticamente, che non abbia fatto lo stesso Lamartine con invidiabile ingenuità. Non appena il governo provvisorio nel palazzo di città si fu liberato della calca delle turbe plebee, i novelli capi dello stato si misero a tutt'uomo a fissare le grandi idee politico-sociali, che la repubblica avrebbe realizzate. I tribuni del popolo si frugarono bene nel petto per «trovare quei pensieri che sgorgano dal cuore e che sono la suprema politica, perché sono la suprema natura e la suprema verità». Giacché l'istinto, come c'insegna Lamartine, è il legislatore supremo; chi traduce nella scrittura le decisioni dell'istinto scrive sotto l'alito di Dio! Finalmente i pensatori si alzarono da sedere e con ardente entusiasmo notificarono alle turbe la seguente «filosofia delle rivoluzioni»: suffragio universale e abolizione delle leggi di settembre (cioè due desiderii, che Luigi Filippo in sostanza aveva già accettati negli ultimi tempi del suo regno); inoltre alcune nuove acquisizioni, e cioè: fraternità come supremo principio statale, esterminio della miseria mercé l'amore e, per soprassello, soppressione della schiavitù dei negri! Giorni dopo, Lamartine aggiunse anche il principio dell'abolizione della pena di morte; in fine i grandi uomini si diedero con le lacrime agli occhi «il bacio della vita» e annunziarono il lieto messaggio al popolo in delirio. Per tutto questo, dunque, le strade della capitale furono arrossate di sangue, per questo una scossa terribile fu riserbata alla pace del mondo! E che cosa sarebbe mai stato della rettitudine e chiarezza tedesca, se mai noi avessimo potuto ammirare una tale vertigine! Fu tirato fuori tutto l'armamentario della rettorica rivoluzionaria: fu chiamato al voto «ognuno che nel suo titolo di 'uomo' porta i diritti del cittadino»: ogni francese è sovrano e nessuno da ora in poi può dire a un altro: «tu sei più sovrano di me». In tre giorni i vecchi partiti invecchiarono di un secolo, e come allora il gran Carnot organizzò la vittoria della libertà sul dispotismo, adesso il nuovo ministro dell'istruzione Carnot si mise a organizzare la vittoria della luce sulla cultura! L'albero della libertà splendeva su ogni piazza; su ogni chiesa, su ogni edifizio pubblico l'iscrizione: «Libertà, Eguaglianza, Fraternità!». Il superbo nome di «cittadino» cacciò via di nuovo il cortigiano «signore»; e il poeta popolare Festeau si diede a magnificare con iperboli spocchiose il nuovo «Risveglio del popolo»: _le géant souffle, un trône est emporté!_ Né doveva mancare la sublime semplicità dei liberi stati del mondo antico: un carro tirato da buoi trascinò la statua della libertà sotto gli occhi ironici dei parigini _blasés_, e sui _boulevards_ fu portato su e giù a spasso un grande bossolo di stato, in cui ogni cittadino poteva versare il suo obolo per la repubblica. Nelle vene del radicalismo moderno non scorre una sola goccia di quell'austerità rigidamente morale, che animò un tempo i pii compagni della democrazia inglese. Perciò, non appena il rigore delle autorità si allenta, non si manifesta in nessun luogo la coscienza del dovere politico, anzi all'opposto si rivela dovunque solo sfrontata cupidità del proprio interesse sociale. Aveva poca consistenza il magnanimo entusiasmo suscitato pel momento nel popolo eccitabile, quando a teatro la Rachel declamava con fervore infiammato la Marsigliese. Neppure un sol ceto della società, fin giù agl'invalidi e ai sordomuti, si teneva dal presentare, esigendo e minacciando, i suoi desiderii all'autorità dello stato. Una legione di cacciatori d'impieghi assediava il governo: ogni ambizione, che non aveva trovato il suo appagamento sotto il sistema parlamentare, ora faceva ressa. Osservando la quantità delle nuove uniformi repubblicane e il nepotismo sfrontato che s'inoculò nella repubblica sul modello del regno di luglio, ci ricordiamo con terrore di ciò che un tempo Luigi Filippo aveva predetto: che, cioè, le condizioni dell'America spagnuola sarebbero state il campione della Francia. Onnipotenza dello stato e rapido cambiamento dei detentori del potere: ecco il nocciolo delle nuove aspirazioni del popolo. Nei primi giorni della rivoluzione il consiglio municipale di Parigi, insediato dietro elezione, fu subito deposto; e in suo luogo fu nominata una commissione di cittadini giudicati idonei alla carica pel fervore dei loro sentimenti repubblicani. Tutti gl'impiegati furono dichiarati senz'altro dimissibili per ragioni di pubblico bene. E soprattutto l'amovibilità dei giudici fu tenuta per un gioiello di libertà repubblicana: un principio, che col fatto ebbe esecuzione e che fu difeso con ardore da Victor Hugo e i suoi colleghi. Tutto ciò in nome della libertà! A tutti gli impiegati era dovuto dallo stato lo stipendio, a tutti gl'indigenti l'assistenza. Dopo la vittoria gli operai lì per lì confermarono ancora una volta l'antico principio, che ogni classe sociale, dove proceda come classe, cade nell'egoismo, nella πλεονεξία. Il parlamento operaio, che nelle sale del palazzo del Lussemburgo dibattè sotto la presidenza di Luigi Blanc la soluzione della questione sociale, trattò di tutto e di ciascuno; ma si rimase d'accordo solo in questo, che gli operai parigini lavorassero un'ora al giorno meno dei compagni delle provincie, come pure, che dei 34 candidati di Parigi alla dieta non meno di 20 appartenessero al ceto operaio! Quando gli agricoltori domandarono di essere ammessi alle deliberazioni, furono loro concessi quattro rappresentanti su quattrocento lavoratori cittadini. Posto in ansia, il padre di famiglia delle classi medie ritenne conveniente esprimere la sua alta considerazione alla nuova potenza della classe operaia. Ognuno, anche l'artista, il negoziante, l'industriale, si dichiarò operaio, e perfino il candidato reazionario, che non poteva negare di essere affetto dal peccato della proprietà fondiaria, si denominò almeno _propriétaire cultivateur_. Si guardava con occhi sentimentali il camiciotto di Albert, operaio e membro del governo: il camiciotto era esposto nella bottega, come indicava il _Moniteur_, e ognuno poteva persuadersi, che effettivamente la Francia aveva la fortuna di essere governata da un chiavare in corpo e persona. Sopra questa società, in cui si era destato tutto l'egoismo dei bassi ceti e ogni forte sentimento del dovere era spento, era collocato un governo, che si qualificava da sé eccellentemente attraverso la confessione dello stesso Lamartine: _la popularité c'est le pouvoir tout entier:_ un governo soggetto a ogni capriccio del popolo eccitato, senza forse nemmeno un capo universalmente riconosciuto. Un nuovo tempo era venuto, tutti i vecchi capiparte erano logori, dovunque s'invocavano uomini nuovi. Un sintomo di rovina più significativo di questi e inseparabile dai grandi rivolgimenti, era la menzogna universale di quasi tutti i partiti. La menzogna costituiva il più esoso tratto caratteristico del movimento, e un ammonimento per tutti coloro che trattano i gravi affari della politica come un gioco fantastico. Troppo spesso Cormenin nei suoi libelli velenosi aveva gridato per scherno alla monarchia di luglio: «la repubblica è morta davvero! Contro chi promulgate le vostre leggi di settembre, se non contro i repubblicani?». Troppo spesso la classe operaia era celebrata anche dalle persone moderate come il vero e proprio popolo, ed era ripetuta l'intelligentissima massima: «le repubbliche sembrano guidate immediatamente dalla Provvidenza, perché non si vede nessuna mano mediata tra il popolo e il suo destino!». Ora dunque la repubblica ideale era fondata mercé l'esaltazione del quarto stato divinizzato, e sul momento apparve manifesto, che la celebrata forma di stato prettamente francese contava nelle classi colte non più che pochi seguaci seri. Ma gli uni erano legati dalla forza delle loro proprie frasi, gli altri aderivano alla repubblica per paura. Il secondo e poco meno penoso tratto caratteristico della nuova società era la mancanza di riflessione prodotta dalla paura della morte. La sollecitudine per la sicurezza della borsa e della testa smorzava ogni altro sentimento. Fin dalla caduta dell'impero la nazione non aveva più goduto un lungo periodo di pace interna, ed entrava quasi altrettanto affaticata nella nuova rivoluzione, come si era trovata al termine della prima. Sentiva quanto poca forza morale le era rimasta per opporre resistenza all'anarchia; sapeva per una tremenda esperienza ciò che significava il dominio del quarto stato; e imparava ora, che nel tessuto artificiale della moderna economia fondata sul danaro e sul credito ogni perturbazione sociale si presenta impareggiabilmente più devastatrice che non nelle semplici relazioni di scambio del secolo decimottavo. La paura era la grande schiava del tempo; e rimane a spettacolo memorabile e profondamente vergognoso il vedere fino a qual segno questa, che era la più generale delle passioni, amareggiasse e abbrutisse le classi possidenti. Uno dei più famosi masticaspavento, Dupin, confessa egli medesimo, che in quel tempo parve diventata letteralmente una verità l'ardita immagine miltoniana della tenebra visibile. La signora di Girardin chiuse i suoi intellettuali articoli di appendice, scritti durante il tempo della pace sotto il nome di Visconte de Launay, con una dipintura acre, ma purtroppo veritiera, dell'abbrutimento contemporaneo. La Francia, esclamò, si spezza in due eserciti col duplice grido di guerra: _guillotinez! fusillez!_ Gli uni vogliono il saccheggio, gli altri la difesa dai saccheggiatori con tutti i mezzi del potere. Il contrasto degl'interessi tra il terzo e il quarto stato, che dopo i giorni di luglio era apparso appena leggermente e confusamente, nel febbraio scoppiò subito violento, e sentito con lucidità di coscienza. Gli operai si erano battuti per le strade; la borghesia, che durante la battaglia si era tenuta in disparte, fece presto a riacquistare il senso delle cose e a capire che nella sanguinosa lotta di classe le toccava lottare a che fossero strappati al quarto stato i frutti della vittoria. Perciò anche i vecchi repubblicani del medio ceto, come Arago e Marie, principiarono di botto a perdere le staffe del loro ideale. Perciò perfino il misuratissimo Tocqueville parlò con passionata violenza dei repubblicani borghesi, del maledetto color di rosa in politica; perché questo pugno di ben pensanti fantasticatori aveva ingenuamente improvvisato una forma di stato, che non poteva derivare la forza di vivere altronde che dal dominio del quarto stato. Ma nessun popolo colto, e tanto meno l'accentrata Francia, può stare senza governo, nemmeno per un istante. La repubblica esisteva di fatto, teneva frattanto in suo potere la macchina burocratica, offriva la sola garanzia possibile per la sicurezza della borsa. Perciò avvenne, che gli stessi borghesi che nel loro intimo esecravano la repubblica e i suoi fondatori, si dichiararono unanimemente pel nuovo governo. Gli stessi nomignoli di partito, «repubblicano di oggi» e «repubblicano di ieri», tradiscono la corruttela morale di questa società frustata dalla paura. Come profondamente era discesa la intellettuale nazione, se applaudiva le frasi vuote di Lamartine, perché il poeta metteva avanti la faccenda dell'«ordine»! Lo stesso maligno cospiratore Caussidière fu ammirato dai borghesi riconoscenti. Costui aveva costituito una guardia di polizia con gli eroi delle barricate, e questi baldi compagni «creavano l'ordine col disordine». Nessuno meglio del partito vincitore conosceva il valore di cotesti omaggi ai poteri del momento. Perciò annunziò il principio: «la repubblica è al di sopra del suffragio universale»; contestò al popolo e alla rappresentanza popolare il diritto di ristabilire la monarchia, e volle il differimento delle elezioni fino a quando il popolo fosse istruito. Ledru-Rollin comandò ai prefetti di prendere tutti i provvedimenti che assicurassero alla repubblica la cooperazione del popolo! Conseguentemente volle subito mandare nelle provincie commissari con poteri illimitati, secondo l'uso della Convenzione, per plasmare la nazione. Saggiamente, non fu sottoposta immediatamente al voto generale la domanda: riconoscete la repubblica? L'elezione per l'assemblea nazionale fu ciò che gli americani del nord chiamano _a Hobson-choice_: un'elezione, in cui non è possibile un no. Solo il cieco dottrinarismo della nuova democrazia francese poteva dare un qualsiasi valore al fatto per sé stesso comprensibile, che i deputati eletti in nome della repubblica salutassero il nuovo regime con diciassette o con ventisei voti. Come stavano le cose, importava solamente la voce: noi vogliamo che lo stato sussista. L'enorme maggioranza dei deputati era decisa a sostenere la repubblica fino a quando fosse stata l'ultimo baluardo della proprietà, e a scavalcarla immediatamente, non appena si fosse presentata la possibilità della monarchia. Lo spacco profondo, che separava la società, correva anche attraverso il governo. Il caso aveva collocato cotesti uomini sulla breccia della società; e governavano, come disse incisivamente Lamartine, pel diritto del sangue versato che bisogna stagnare. Magari tutti i membri del governo avessero avuto parimente salda e chiara soltanto la volontà di stagnare quel sangue! Invece, accanto ai repubblicani moderati, quali Lamartine, Arago, Dupont, il crudo radicalismo era rappresentato in tutte le sue gradazioni, fin giù al comunismo, da Ledru-Rollin, Luigi Blanc, Albert. Le passioni di classe della borghesia e degli operai, eccitate al più alto grado e pel momento inconciliabili, ecco che avrebbero dovuto intendersela tra loro entro l'ambito di un governo! Il mondo civile non disconoscerà mai al Lamartine, quanto spesso nei primi giorni dello scompiglio abbia fronteggiato la furia, degli anarchici ora con frasi impetuose, ora col pronto dileggio, sempre con alto coraggio personale. Noi sopravviventi di quella età sappiamo bene, che un singolo uomo, e tanto più un uomo di lettere, poteva assai scarsamente a quei tempi, e sappiamo pure come risibilmente abbia esagerato i propri meriti il vanitoso tribuno del popolo; nulladimeno egli per un momento parve davvero il campione del terzo stato e della proprietà, e fu esaltato come tale ben oltre le frontiere della Francia dai più entusiasti oratori della borghesia. Fece del suo meglio per serbare incolume ai francesi il loro glorioso tricolore, ed espiò in tal modo una parte della colpa, gravante su di lui, di avere egli stesso scatenato improvvidamente la rivoluzione. Ma il coraggio del bizzarro sognatore riuscì solo per un momento a calmare la paura dello spettro rosso: egli stesso, Lamartine, qualifica l'andazzo del suo governo come un correre verso un lontano oscuro, _marcher vers l'inconnu_. Alla debolezza dei moderati parve soprattutto impossibile stabilire l'unità nel seno del governo ed escluderne i democratici sociali; d'altronde si temeva che un passo ardito non provocasse lo scoppio della guerra civile. Perciò tra i membri di questo governo esisteva così poca coerenza, che Lamartine non sapeva proprio nulla del pazzesco disegno di Ledru-Rollin d'inviare in tutto il paese commissari come quelli della Convenzione! I repubblicani moderati al governo non erano liberi, toccava anzi a loro portare le conseguenze della propria misura, e, una volta che avevano abbattuto il trono con l'aiuto dei comunisti, lusingare almeno con parole sonanti la cupidigia dei loro alleati. Lamartine dichiarò che lo stato, la provvidenza dei forti e dei deboli, aveva in caso di necessità l'obbligo di procurare lavoro ai bisognosi. Carnot annunziò che l'economia politica, finora scienza della ricchezza, sarebbe divenuta d'ora in avanti una scienza della fraternità. Di gran lunga più pericoloso sonava il linguaggio dei giornali ufficiosi a proposito della proprietà, e la cosa non si fermò alle parole, I finanzieri moderati Garnier-Pagès e Duclerc compilarono un disegno d'imposta progressiva, e intendevano di raccogliere nelle mani dello stato l'amministrazione delle ferrovie, delle banche, delle società di assicurazione. L'occhio acuto di Cavour discerse subito, che cotesta condiscendente debolezza dei moderati avrebbe incomparabilmente più che non la minaccia del rosso spaventati i possidenti. Cotesti esperimenti economici non si accordavano quasi a parola coi provvedimenti proposti dall'icario Cabet per arrivare a poco a poco dall'ordinamento costrittivo della proprietà privata all'eden comunistico? E non si viveva già in pieno paradiso comunistico, se lo stato costringeva i risparmiatori ad accettare titoli di rendita di stato in luogo dei 335 milioni di lire di pure rimesse, che avevano depositato nelle casse di risparmio, e per giunta assegnava loro un ottavo in più sulla rendita? Già ricompariva il sinistro disegno di emettere assegnati in quantità arbitraria; e solo con gran fatica fu combattuto da Fould e dallo scritto occasionale di Bastiat _Maudit argent_. Marie, ministro dei lavori pubblici, aveva già aperto le sue officine nazionali; e vi accorrevano in folla migliaia di operai senza pane, i quali percepivano dallo stato il salario del loro non far niente. Il ministro nutriva la puerile fiducia, che queste turbe pagate dalla repubblica avrebbero formato una guardia di sicurezza contro il comunismo. Anche Luigi Blanc trovò ridicole tali speranze, e infatti gli operai profittarono della loro vita in comune nelle officine nazionali per organizzarsi militarmente alla guerra delle barricate. Nessuna meraviglia, che di 1329 milioni di entrate quell'anno 613 milioni, cioè 61 milioni più che nel 1847, siano stati spesi nella sola capitale! Il pavido borghese aveva tuttora davanti agli occhi le terribili scene dei giorni di febbraio, quando la folla urlante, guidata da un macellaio che brandiva la coltella, si precipitò all'assalto del palazzo Borbone; e i conquistatori delle Tuileries non furono indotti ad uscire dal castello reale, se non dopo assicurati, che non si sarebbero loro perquisite le tasche. Per giunta, ecco che Ledru-Rollin rievocava le ombre sanguinose di Robespierre e di Saint-Just, e i suoi onnipotenti commissari già principiavano nelle provincie a condonare qua e là le tasse sui salari, per spianare il terreno al dominio del comunismo pratico. Dalle moltitudini saliva per mille voci il grido: «Deve sparire la proprietà o la repubblica! Il rosso dell'amore tra gli uomini sostituirà i colori, _la tricolore de nos devanciers_, di un'età superata! Abbasso tutti i vizi dei tempi monarchici, e prima di tutto l'eredità dei beni e dei titoli!». Quando i radicali moderati posero la repubblica al di sopra del suffragio universale, Proudhon si diede a un pensiero anche più ardito e dichiarò: la rivoluzione è al disopra della repubblica! Non era dubbio, che dietro quel grido di delirio non fosse sempre una decisione seria. Se anche il pathos della prima rivoluzione non era andato immune dall'esagerazione rettorica, ora i luridi fogli della nuova repubblica condotti alla maniera di Marat mostravano del tutto una sete di sangue epigonica, falsa, spasmodicamente sforzata. Tuttavia si comprende benissimo, che da tali minacce una società di godimento e di lavoro concepisse un cupo e cieco terrore. Durante lo stesso febbraio la rendita al cinque per cento discese da 120 a 55: l'esportazione degli articoli della moda parigina di primavera si arrestò completamente. Nella città dei forestieri intere file di case erano vuote, centinaia di macchine erano ferme, e al popolo senza lavoro la repubblica come primo benefizio portò un'imposta addizionale di 45 centesimi: un peso che non era menomamente compensato dall'abolizione dell'imposta sul sale. Anche Bonaparte dopo il 18 brumaio aveva iniziato il proprio governo con un inasprimento d'imposta del 25 per cento; ma il popolo lo tollerò di buona voglia, perché desiderava il nuovo dispotismo. Ora, invece, la repubblica esecrata veniva in un'ora infelice ad aggravare i balzelli; e per tutte le classi di possidenti corse un grido di collera. Borghesia e agricoltori si tennero compatti come un sol uomo, unanimi non già in un qualsiasi pensiero politico, ma nella passione della propria conservazione. Come a quel tempo in Prussia i contadini a Berlino erano i più fedeli alla bandiera del re, così in Francia i piccoli ortolani del contorno di Parigi erano i più fieri nemici del comunismo. L'aforismo tanto biasimato di Machiavelli, che l'uomo perdona più facilmente l'uccisione dei genitori e dei fratelli che il furto del suo avere, ebbe in quest'occasione la conferma. A torto i nemici del comunismo si arrogarono il titolo di partiti moderati; una parola arguta, in modo incomparabilmente più calzante, designa i due partiti come _la montagne rouge_ e _la montagne blanche_. Fanatismo e violento furore divampavano dall'una e dall'altra parte. L'una e l'altra erano risolute a una battaglia sociale decisiva, e le elezioni per l'assemblea nazionale facevano indovinare a quale delle due sarebbe toccata la vittoria. Queste elezioni palesarono per la prima volta ai dottrinari del radicalismo l'ingrata verità, che nessuno è meno democratico della moltitudine. L'istinto della conservazione economica si mostrò più forte delle minacce dei partiti e degl'impiegati. Il ministro Carnot nelle sue circolari elettorali espresse invano un'idea altamente civile, ripetuta volentieri oggigiorno dai prefetti dell'impero: egli dichiarò che è un pregiudizio reazionario la vecchia opinione, che degne doti del deputato siano la proprietà e la cultura. Il contadino nella sua semplicità pensava diversamente; egli accordò la sua fiducia solo ai possidenti, perché ogni proprietario è un naturale nemico dei comunisti. La proprietà fondiaria fu rappresentata nell'assemblea nazionale più numerosamente che non nelle camere della monarchia di luglio. La classe agricola oberata di debiti, soggetta, ignorante, s'inchinò questa volta solamente a una autorità: alla Chiesa. Il delirio della paura sociale aveva rideste tutte le torbide e confuse forze delle anime, anche la cieca bigotteria: mille cuori smarriti cercavano consolazione nel confessionale: la raccolta degli ultramontani principiava a maturare. Siccome appena un settimo dei francesi vivevano nelle città superiori ai 10.000 abitanti, i contadini diedero il tracollo, e a palazzo Borbone accanto a un forte partito montagnardo comparve un esiguo gruppetto di repubblicani azzurri, e contro questi e quelli una schiacciante maggioranza di reazionari. Fra tutti i parlamenti di quell'anno procelloso nessuno era più infecondo, nessuno più immorale. Le poche teste politiche scomparvero quasi sotto la mediocrità generale e l'insipienza di cotesti 900 rappresentanti del popolo. Anche gl'ingegni soffrivano sotto la gran menzogna del tempo: la repubblica aveva paura di sé stessa. La maggioranza reazionaria considerava la repubblica soltanto come un terreno neutrale, che per fortuna sarebbe stato presto abbandonato; e la dichiarazione corrente: «noi riconosciamo lealmente la repubblica come un governo di tutti per tutti», esprimeva cotesto sentimento in modo molto perspicuo. Il signor Thiers che sotto la prima impressione del timore aveva gridato: «Adesso non ci rimane che farci dimenticare,» riprese presto nuovo coraggio, e innocentemente significò: «Prima io preferivo la costituzione inglese. _Forse_ io mi sono ingannato; _forse_ la costituzione americana è meglio appropriata alla Francia!». Quanto ai legittimisti, era notorio, che agognavano il momento di una levata di scudi: il che fu loro impedito solo dalla codardia e dall'incapacità del loro pretendente. E un'assemblea siffatta, la cui maggioranza non credeva né a sé stessa né alla propria opera costituzionale, avrebbe messo mano a quell'ardito lavoro per l'essere o il non essere, che forma generalmente il destino delle costituenti! Dopo la vittoria elettorale i possidenti presero animo per abbattere le bande di operai che minacciavano la tranquillità della capitale. La forza del governo provvisorio si era logorata nelle lotte sociali delle prime settimane; anche la commissione esecutiva nominata dall'assemblea nazionale era insiememente, come disse Lamartine, necessaria e impossibile. Nelle classi medie si consolidava l'opinione, che solo la sciabola poteva rovesciare l'anarchia. Il poeta, le cui persuadenti parole di conciliazione erano state tuttora nel febbraio accolte con plauso dalla borghesia, ora, dopo appena poche settimane, era un uomo usato, finito. E adesso la feroce sollevazione del 15 maggio palesava da quale terribile inselvatichimento e traviamento d'idee fossero dominate le moltitudini: il «popolo» tentò di annientare l'assemblea nazionale. In effetto, se nel febbraio una turba di popolo aveva potuto arbitrariamente disperdere la camera monarchica, perché mai un'altra turba nel maggio non avrebbe tentato il somigliante col parlamento della repubblica? «Il popolo non viola mai la costituzione», disse l'avvocato Michel difendendo i cospiratori del 15 maggio. Quel giorno non emerse unicamente la ferocia anarchica, ma anche la propaganda conquistatrice della prima rivoluzione: «liberazione della Polonia, guerra alle potenze orientali!» diceva il grido di guerra dei cospiratori. Da allora la borghesia si persuase pienamente della necessità della dittatura. Quando fu celebrata, il 20 maggio, la festa della Concordia e centomila guardie nazionali, ossia la borghesia armata, sfilarono per un'ora davanti alle moltitudini fitte degli operai, ognuno, preso da presentimento, ebbe ricondotto l'animo al mattino del giorno della Belle-Alliance: avvenne, come se due eserciti pronti alla lotta volessero prima della mischia mostrare l'uno all'altro la propria forza. La decisione si avvicinava. Nel giugno la rivolta operaia esplose nella lotta sociale più formidabile, che sia avvenuta nella storia moderna dopo la guerra dei contadini in Germania. Di rado i figli di un popolo si sono battuti con pari furore; e siamo in grado di argomentare quale fosse la ferocia dell'urto, se anche oggi dalla bocca di francesi intelligenti apprendiamo spesso giudizi iniquamente duri sul carattere sincero di Cavaignac. Il borghese si batteva pei suoi averi, l'operaio intendeva di godere integralmente il prezzo della vittoria della rivolta di febbraio, stata tutta opera sua; ma il soldato bramava soprattutto da lungo tempo di vendicare l'onore mortificato della divisa. L'esercito, compiuto nei giorni di febbraio il suo obbligo, aveva abbandonata senza troppa esitazione la pacifica monarchia borghese; sperava dalla repubblica un tempo di vittorie, si aspettava, quando l'Italia si sollevò, di ricalcare un'altra volta la «via sacra» di Montenotte e di Lodi. Ma la primavera dei popoli, in luogo di allori, gli portò solo tormento ed umiliazione. Già i vincitori di luglio avevano dimostrato poco riguardo per l'esercito; per colmo, gli eroi di febbraio non la rifinirono più dallo scherno verso gli abbrutiti mercenari: aberrazione inconcepibilmente stupida e affatto non francese! Il governo provvisorio esortò invano «a ripristinare l'unità del popolo e dell'esercito momentaneamente turbata». I soldati, la più parte contadini e rimasti fedeli anche nelle variopinte uniformi alle idee sociali del villaggio, erano esasperati dal servizio incessante di quei giorni burrascosi, e per giunta si vedevano sempre più esposti agli oltraggi dei demagoghi; talché l'esercito, che in altri tempi aveva con ardente entusiasmo offerto la spada alla rivoluzione, ora invece si trovò subito di fronte ai fondatori della nuova repubblica con un odio implacabile. Finalmente la bandiera rossa era a terra, l'autorità dello stato si era rotta con la democrazia sociale, le officine nazionali furono chiuse. La proprietà era salvata e, ciò che più conta, si era acquistata la persuasione, che le fondamenta della nostra società sono più salde di quanto si credeva, e che la «questione sociale» dev'essere risoluta con mezzi più miti di quelli affermati dai radicali degli ultimi quarant'anni. L'importanza storica di queste battaglie in città consiste principalmente in questo, che la lotta e le atrocità avevano spianato la via a un'êra di pacifiche riforme sociali. Evidentemente dominava la sciabola, e il governo di Cavaignac aveva innegabilmente acquistato maggior potenza e animo, che forse nessun ministero tedesco del tempo. L'infinito affetto, che la borghesia salva portava al dittatore, rivelava la paura immensa da cui in fine era stata liberata. Chi però guardava più a fondo, certamente poteva intravvedere, che anche il nuovo detentore del potere si sarebbe logorato in poco tempo e sarebbe stato dimenticato. Anche Cavaignac, come poco avanti Lamartine, avrebbe sperimentato, che i tempi democratici amano il potere e odiano i potenti. Il suo partito, quello dei repubblicani azzurri, rimase poi come prima: un piccolo gruppo senza base nel popolo. Gli operai astiavano il loro domatore, ma i contadini e una gran parte della borghesia erano tuttora scontenti dei fatti di luglio: essi agognavano la monarchia. Come mai una tale repubblica avrebbe potuto contare sull'amore dei francesi? Forse che in realtà non era una schiavitù ribellata? E potevano anche i moderati non consentire, quando Proudhon lanciava l'invettiva: «cotesta repubblica parlamentare inzuccherata di giacobinismo e di dottrinarismo non è niente altro che controrivoluzione»? La capitale era sottoposta allo stato d'assedio; si discuteva la costituzione della nuova libertà sotto la protezione delle baionette. I rivoltosi erano condotti davanti ai tribunali straordinari da leggi con forza retroattiva. La violazione delle lettere e tutte le male arti della polizia segreta erano in vigore come al tempo dell'imperatore soldato. Migliaia di operai erano deportati di là dal mare, e la vendetta dei trasportatori non cedeva alla rabbia dei livellatori. Questa era la libertà, e per questo il benessere del paese cadeva in rovina, per questo la superba nazione era condannata nella grande politica a una completa impotenza! Più tardi Thouvenel con giusto dolore lamentava, che durante il tempo della repubblica la sua patria in Europa fosse stata considerata assente. Sotto Luigi Filippo la considerazione del regno non aveva mai patito così profondamente, giammai i suoi interessi europei erano stati trattati da fatui dilettanti con maggiore leggerezza e insensatezza. Il manifesto di Lamartine all'Europa aveva annunziato con frasi strepitose al felicitato continente, che sotto la guida della libera Francia si apriva un'êra di fraternità universale. Per la perfetta tranquillità dei vicini, a questa «bella pagina di filosofia nazionale» era anche aggiunto il codicillo conclusivo: «la Francia sarebbe felice, se le fosse dichiarata la guerra e fosse costretta, malgrado la sua moderazione, a crescere in potenza e in gloria»! Scoppia fuori da ogni parte, attraverso il fragore verbale della fraternità dell'amore cosmopolitico, la cupidigia d'impadronirsi del Belgio e della Savoia, la smodata vanagloria nazionale. «Oggi le idee penetrano da per tutto, e le idee portano il nome della Francia!». Lo stesso spirito di grandigia parla da ogni pagina della storia della rivoluzione di Garnier-Pagès e dalla profezia di Proudhon: le frontiere delle nazioni spariranno da sé, non appena avrà dovunque trionfato l'economia nazionale della nuova Francia. L'alleanza con la Russia secondo Lamartine è «il grido della natura, la rivelazione della geografia»; e nello stesso istante desidera la liberazione della Polonia! Egli spera che la Prussia con bello esempio precederà le altre potenze orientali nella reintegrazione della Polonia, e non dubita che il nostro stato si terrà contento d'indennizzarsi sui paesi del Reno, nello Schleswig-Holstein, lo Hannover o altrove, _et ailleurs_! Non meno stupefacente di queste vedute è la conoscenza che Lamartine mostra degli uomini dirigenti. Il re Federico Guglielmo IV sembra a lui un formidabile uomo di forza, «capace di comprendere tutto, di tentare tutto, di osare tutto»! Saggi sufficienti a illustrare una sapienza politica, alla cui celeste innocenza non bastava il frasario d'uso parlamentare: è veramente, come dicono nella campagna di Gottinga, una politica che non mena a niente: _eine Politik wo's gar nicht giebt_. Con che riso sardonico l'astuto pretendente, che se ne stava da parte in agguato, avrà dovuto intendere cotesti oracoli repubblicani! Per la salute del mondo, Lamartine non fu mai in condizione di menare ad effetto la sua geniale politica estera: tutte le forze dello stato si consunsero nelle lotte civili. Finalmente sotto Cavaignac tornò al ministero degli esteri un uomo d'affari, Bastide, un repubblicano rigido, così poco addestrato ai maneggi diplomatici quanto lo stesso dittatore. La conquassata repubblica era tuttora a mala pena al caso di prendere una decisione nelle questioni europee, e, quando le venne fatto, seguì fedelmente le orme di Guizot; salvo che al frasario conservatore sostituì il radicale. Anche la filantropica seconda repubblica fu ossequente al tradizionale principio francese, secondo il quale la potenza della Francia si basa sulla rovina dei vicini. Solo un uomo ingiusto censurerà la Francia di avere indugiato a riconoscere il potere centrale tedesco e a ricevere ufficialmente il nostro ambasciatore imperiale Federico von Raumer, che apparve subito accanto all'ambasciatore prussiano von Willisen. Chi potrebbe volerne ai francesi, se non compresero la sottile differenza tra un tedesco prussiano e un prussiano tedesco, e se confessarono apertamente, che non sapevano che si pensare del nostro immaginario potere centrale? Un ambasciatore, il quale per l'occasione offriva al ministro Bastide un libro che aveva ottenuto un successo, cioè le _Considerazioni di un vecchio professore di storia sullo stato della Francia_, non poteva seriamente aspirare ad essere considerato come il rappresentante di una grande potenza. Più grave era l'atteggiamento ostile della repubblica verso la sollevazione dello Schleswig-Holstein, e addirittura riprovevole l'animosità invidiosa contro la lotta dei piemontesi. Intendeva accettare repubbliche figlie a Milano e a Venezia, ma non mai un vitale e potente regno subalpino. La dominazione austriaca in Italia sembrava al dittatore meno pericolosa di un nuovo generale Bonaparte alla testa di un esercito vittorioso. Quando il re Carlo Alberto sollecitò a Parigi l'invio di uno sperimentato condottiero per le sue truppe battute, gli fu risposto con un freddo rifiuto. Noi vogliamo la libertà dell'Italia, scrisse Bastide a Bixio a Torino, ma non la supremazia del Piemonte, che può riuscire più pericolosa all'Italia dello stesso governo austriaco. Con idee siffatte si riusciva solamente alle mezze misure; e la stessa repubblica veneta, che implorò insistentemente l'aiuto della Francia, ottenne puramente l'appoggio di una innocua dimostrazione della flotta francese. II. In questo modo l'infelice stato tentennava, sconvolto, non libero all'interno, disprezzato e quasi senza volontà all'estero. Di tale condizione era degna anche la nuova costituzione repubblicana, che indubitabilmente, fra le tante costituzioni nate morte di quell'anno, era la più assurda. Della commissione costituente dell'assemblea nazionale facevano parte diversi uomini segnalati, come Tocqueville; e di aver menato a termine un'opera tanto incongruente la colpa fu la falsa situazione di questa repubblica mal suo grado. La lotta quotidiana e logorante per la sicurezza dell'avere e della vita non profittava certo a idee politiche feconde. I legislatori non potevano sottrarsi alla convinzione, che la Francia abbisognava di un governo forte; ma nello stesso tempo temevano l'arbitrio di una Convenzione e anche più l'usurpazione di un presidente ambizioso. E si sperava di sfuggire a un tal pericolo proclamando l'idea dottrinaria, né ancora pienamente attuata in nessuno stato del mondo, dell'assoluta divisione dei poteri come il supremo principio di ogni governo libero. Il popolo sovrano trasferì il potere legislativo a un'assemblea nazionale, che siedé in permanenza per lo spazio di tre anni senza potere essere disciolta. Quando di tanto in tanto si aggiornava, nominava a rappresentarla una commissione dal proprio seno; e quando spirava il termine del mandato, una commissione nuovamente eletta ne prendeva subito il posto. Nulla, il puro nulla era stato previsto per tutelare questo corpo di 750 membri dalle decisioni avventate: ogni legge che aveva deliberata, entrava in vigore un mese dopo, nei casi urgenti anche tre giorni dopo l'approvazione. Si poneva appena mente, che la stessa democrazia dell'America del Nord non ha rinunziato a quella fonte di mutui emendamenti e temperamenti, che costituisce il sistema delle due camere. Ma quello che decise il sistema della camera unica non fu lo zelo di eguaglianza dei radicali né furono le condizioni sociali di un popolo che è fuso in una massa compatta di contribuenti, sibbene la paura sociale dei possidenti. Noi abbiamo bisogno della dittatura, e la dittatura non comporta partizioni; solo l'unità del potere assicura l'ordine: tali erano le considerazioni reazionarie, che indussero la maggioranza alla sua decisione radicale. Alla repubblica una e indivisibile corrispondeva la camera una: non si volle vedere, che solo i governi dispotici godono il privilegio della semplicità. In tal modo parve effettuato quello spauracchio di una legislatura senza limiti, che mosse un tempo Mirabeau ad esclamare: «io preferirei di vivere a Costantinopoli piuttosto che in Francia sotto il dominio di un parlamento siffatto!». Ma sotto questa assemblea teoricamente onnipotente era un presidente, capo del potere esecutivo, della _force publique_. L'idea di porre un collegio a capo del potere esecutivo ebbe pochi sostenitori. Le tristi esperienze raccolte sotto il Comitato di salute pubblica, sotto il direttorio, sotto il governo provvisorio preoccupavano in modo purtroppo comprensibile: l'intima natura di questa nazione tendeva a un solo dirigente, vale a dire alla monarchia. La Francia a quel tempo contava in impiegati e in cittadini stipendiati dallo stato per pubblici servizi 535.365 persone, di cui 18.000 funzionari e pensionati della legion d'onore e 15.000 _cantonniers_, senza computarvi il numero, che non fu calcolato, degli agenti del ministero del commercio. Aggiungiamo le forze di terra e di mare quasi altrettanto numerose; consideriamo inoltre, che la Rivoluzione aveva distrutto quasi tutti i poteri indipendenti, e che da secoli dipartimenti e comuni, istituti di beneficenza e privati erano parimente avvezzi a richiedere di più sussidi lo stato, e vedremo emergere chiaro, che il capo di una siffatta amministrazione era il monarca, col suo vero titolo che avrà sempre. E cotesto uomo potente era il nemico nato della costituzione, perché questa proibiva che fosse eletto! Per colmo, l'assemblea nazionale diede al presidente una consacrazione, che nel mondo moderno vale più dell'olio di Rheims: doveva essere eletto direttamente dal popolo sovrano. Invano i seguaci sinceri della repubblica diffidarono di una siffatta tirannide popolare, che in uno stato accentrato eguaglia apertamente il panteismo politico. Il socialista Felice Pyat predisse in un memorabile discorso il destino imminente: un presidente eletto in questo modo potrà dire all'assemblea nazionale: «io solo ho dietro di me tanti voti quanti voi tutti insieme, io solo valgo pel popolo più di qualunque vostra maggioranza». A tale considerazione la gente ingenua non diede peso, pensando che il presidente era eletto in autunno e l'assemblea nazionale era rieletta da capo nel successivo maggio, e che perciò l'assemblea veniva a godere da parte del popolo la fiducia più recente e più efficace. Altri nutrivano preoccupazioni morali rispetto a un'elezione del presidente fatta dall'assemblea nazionale: ciò valeva quanto corrompere l'assemblea, porre le redini dell'amministrazione nelle mani di una mediocrità ligia e, in conclusione, fondare un dominio come quello della Convenzione. La maggioranza dell'assemblea era ispirata dall'odio alla repubblica: voleva stabilire un potere autonomo accanto al parlamento, per poi, all'occorrenza, ripristinare il trono. Donde seguì che i repubblicani sinceri si accordarono per la più parte a seguire la via meno popolare, cioè a propugnare l'elezione del presidente fatta dall'assemblea; i monarchici occulti, invece, seguivano la regola radicale dell'elezione popolare. Da una parte si attribuiva al presidente una incalcolabile potenza morale, dall'altra il suo potere veniva sospettosamente circondato da limiti legali, che per un uomo onesto erano superflui, per un uomo senza coscienza erano vani. Il presidente era il capo supremo dell'esercito, nominava tutti gli ufficiali, ma gli era inibito di vestire l'uniforme e di comandare personalmente il minimo reparto di truppa: il che era un'offesa grossolana a tutte le consuetudini e alle idee tradizionali dell'esercito francese. Gli era assegnato un appannaggio, troppo alto per la virtù di un repubblicano, ma miseramente gretto per le pretese, che la Francia era abituata da secoli a esigere dal capo dello stato: il povero diavolo, che invidiava ai deputati la loro paga giornaliera, rimpiangeva malvolentieri i tempi dei re. Il presidente aveva la facoltà di proporre leggi all'assemblea nazionale, ma non godeva del diritto di veto, e solo poteva rimandare alla camera i disegni di legge per la ripresa in esame. Talché è obbligato a portare la responsabilità dell'applicazione delle leggi, che disapprova. Di più. Non solo è condannato a stare per tre anni accanto a un'assemblea nazionale ostile, senza punto il diritto dell'appello al popolo per comporre il dissidio; ma si esige anzi, che il presidente personalmente responsabile scelga il suo ministro parimente responsabile dalla maggioranza del parlamento. Sicché la maggioranza viveva sotto una tale ossessione di idee monarchiche, da pretendere anche dalla repubblica lo stesso regime parlamentare concepibile solo con la monarchia! E mentre si finse di vivere a repubblica, fu mantenuto poi inalterato il dispotismo amministrativo di Napoleone, salvo alcune modificazioni sconclusionate. Fu estesa la competenza del consiglio di stato in materia di ordinanze, e devoluta la nomina dei suoi membri per sei anni all'assemblea nazionale: che era evidentemente un'insensata infrazione al principio della divisione dei poteri. In tal modo il presidente responsabile, sia nella deliberazione e preparazione dei disegni di legge, sia nell'interpretazione delle norme amministrative, doveva seguire la via prefissa da uomini, che non godevano la sua fiducia. Finora il consiglio di stato era il custode dello spirito di classe e della tradizione burocratica. Come mai l'imperiosa burocrazia avrebbe tollerato, che cotesto architrave dell'amministrazione fosse aperto alle oscillazioni delle lotte parlamentari? I legittimisti domandarono, per le ragioni ambigue che sappiamo, l'autonomia dei comuni; ma la maggioranza del parlamento rigettò, con la stessa risolutezza mostrata un tempo dalla Convenzione, ogni raccostamento al modello americano. La repubblica una e indivisibile guardava con vigile diffidenza qualunque moto tendente nelle provincie all'autonomia; e come i negozianti di Marsiglia si costituirono in associazione per ottenere la rimozione delle oppressive misure di quarantena, corse pei fogli parigini l'allarme, che il federalismo della Gironda alzava nuovamente il capo! L'amministrazione dei dipartimenti e dei comuni rimase sostanzialmente quale era sotto il re borghese: un tentativo sconnesso e dilettantesco di riforma fu arrischiato solo nei sottodistretti di dipartimento. Il circondario per l'innanzi era amministrato dal sottoprefetto con l'assistenza di un consiglio distrettuale, mentre il cantone, suddivisione del circondario, non aveva alcuna importanza nell'amministrazione e valeva puramente come circolo giurisdizionale del giudice di pace. Ora, invece, il sottoprefetto di botto veniva a comandare egli solo nel circondario, e corrispondentemente s'istituiva in ogni cantone un consiglio cantonale eletto. A questo proposito, legittimisti come F. Bechard e radicali come Lamennais avevano sovente ricordato, che la maggioranza dei comuni locali erano troppo piccoli per l'amministrazione autonoma. Per la qual ragione si pensò di stabilire nel cantone il centro di gravità di una nuova autonomia. Ma i singoli membri non permisero di venire staccati ad arbitrio dalle giunture ferree dell'amministrazione napoleonica. Questo stato non tollera consigli amministrativi eletti, ai quali non presieda come capo deliberante un funzionario governativo: ragion per cui i consigli cantonali non entrarono mai in vita. Le sole riforme effettive, che l'amministrazione introdusse in questo campo, consisterono nel ripristinamento dell'inamovibilità dei giudici abolita nei giorni della vertigine rivoluzionaria, e nell'istituzione di un tribunale che decidesse sui conflitti di giurisdizione. Anche l'esercito rimase qual era: l'egoismo degli abbienti non volle ammettere, che la famosa eguaglianza di tutti i francesi portava di conseguenza l'universalità del servizio militare obbligatorio. Domandiamo ancora una volta: in che cosa il capo supremo di questo stato burocratico si differenzia da un re? Manca al potere monarchico del presidente il carattere ereditario. Ma chi ripensa al destino toccato a Luigi XVI, a Carlo X e a Luigi Filippo, ascolterà non senza un sorriso l'affermazione, che la moderna corona francese sia stata ereditaria. Gli mancava, inoltre, il veto: ma il diritto di veto era esercitato dai re francesi tanto di rado, quanto dagl'inglesi. Gli mancava, infine, l'irresponsabilità; ma chi può sul serio affermare, che quei tre re non abbiano portato alcuna responsabilità? Anzi, per l'appunto il presidente, solo che fosse mediocremente un uomo, si vedeva costretto a una guerra di vita e di morte contro l'assemblea nazionale. E siccome i legislatori lo presentirono, con fiscalità avvocatesca provvidero che il presidente, non appena usurpasse le attribuzioni dell'assemblea nazionale, fosse spogliato sul momento dell'ufficio, che fosse immediatamente convocata la suprema corte di giustizia, e via dicendo. Ma anche tali minacce rimasero senza effetto davanti all'onnipotenza dello stato burocratico napoleonico; onde si venne a ricorrere a un'estrema garanzia: il presidente doveva giurare la costituzione. Mirabile cecità! Tutti i giuramenti politici erano stati aboliti, e l'intera nazione aveva richiesto il diritto di non essere legata alle istituzioni dello stato per mezzo di obblighi di coscienza. Ciò era una giusta conseguenza della libertà dei culti. E l'unico uomo il quale possedeva come nessun altro la potenza e la voglia di lacerare la costituzione, egli solo doveva giurare! Non gli sarebbe bastata la coscienza di alzare il braccio, caso mai avesse voluto cogliere il frutto del dominio che gli pendeva seducente innanzi agli occhi. Ma, se in qualsiasi circostanza è sempre una difformità e un'imprudenza accampare terribili pretensioni che avanzano di troppo la media della virtù umana, come ci appaiono per altro miserabili cotesti legislatori, i quali presumevano di aver salvato la rocca di una costituzione insostenibile, sol perché ne scaricavano la responsabilità della resistenza sulle spalle di un terzo! Per conseguenza non riesce affatto strano, che in molti comuni il solo uomo che accogliesse la pubblicazione dello statuto al grido di _vive la costitution!_ fosse il sindaco. Il duca di Broglie sentenziò a punto: questa costituzione ha slargato i confini dell'umana stupidità! Parimente il vecchio furbo Dupin nel dotto commentario che fece di quell'aggeggio, seppe contenere a stento la sua malignità ironica. Anche nel rimanente, il contenuto della carta non era tale da sedare le perplessità dei possidenti. In effetto, dopo un eccellente discorso di Thiers la privata proprietà era stata riconosciuta e l'imposta progressiva rigettata. Ma non fu possibile, in questo tempo di cupidigie, scartare l'idea del fantastico Lamennais, di preporre alcuni diritti e doveri generali, che stessero in testa alla costituzione. Donde gli edificanti insegnamenti della sapienza e della virtù, come per esempio: «è dovere dei cittadini amare la patria e difendere la repubblica col pericolo della propria vita»; e anche qualche proposizione meno innocente, che potesse almeno interpretarsi in senso comunistico, come la seguente: «è dovere della repubblica procacciare i mezzi di sostentamento ai cittadini bisognosi», e così via. Avendo infine l'articolo 110 affidata la costituzione alla sorveglianza e all'amor di patria di ogni francese, Ledru-Rollin ne inferì il diritto dell'assemblea nazionale di chiamare il popolo alle armi; ma i possidenti vi scorsero tremando un avvenire pieno di guerre civili. III. Quell'oscillare della maggioranza tra opposte paure si spiega facilmente col fatto, che i legislatori in quell'articolo erano agitati dall'angustioso presagio di un candidato alla presidenza, il cui solo nome voleva dire la fine della repubblica. Luigi Bonaparte disse la verità, quando nel 1850 esclamò, parlando agli alsaziani: «Questa costituzione è fatta in gran parte contro di me». Il ripristinamento del suffragio universale, non mai a nessun patto potuto ammettere dall'_homme principe_ Enrico V, importava pei napoleonidi il rinnovamento del titolo legittimo, al quale appunto essi dovevano il trono. A essi soli fra tutti i pretendenti era dato collocarsi sul terreno del nuovo diritto pubblico. Il nome della casa illegittima spuntava da per tutto, dovunque l'antico regime era stato distrutto; perfino nella repubblica di Venezia fu avviato un maneggio per l'elevazione della dinastia dei Leuchtenberg. Nelle lotte di febbraio, come già in tutte le sommosse del tempo monarchico, presero parte separatamente anche alcuni bonapartisti; e nel tumulto al palazzo Borbone proprio un colonnello imperiale piantò per la prima volta il tricolore sulla tribuna. Da allora non passò un mese senza piccole agitazioni bonapartiste sui _boulevards_. Fin dal 26 febbraio un proclama del governo provvisorio diceva: «Non più legittimismo, non più bonapartismo, non reggenza! Il governo ha preso tutte le necessarie misure per rendere impossibile il ritorno delle antiche dinastie e l'elevazione di una nuova». Le teste calde del partito, come in altri tempi dopo i cento giorni, si riunivano al caffé Foy; e uno degli assidui era il deputato socialista Pietro Bonaparte, che con tanto zelo dichiarava: «Quale uomo intelligente può volere l'impero? Esso è ormai non più che un glorioso ricordo storico: il suo ristabilimento è una chimera». Nella colluvie dei fogli d'occasione che portavano sulla testata il nome della repubblica con un aggettivo sonoro, c'era anche una «repubblica napoleonica». La condotta del partito era determinata dalla stessa situazione: fomentare agitazioni, affinché l'attrito dei partiti li corrodesse tra loro, e alla fine gli abbienti guardassero a un forte potere dello stato come al supremo dei beni. Il maneggio in breve divenne tanto sospetto, che il governo provvisorio fece arrestare Persigny. Per la prima volta, dopo la sommossa di febbraio il sangue scorse il 12 giugno, in un tumulto insignificante suscitato al grido di «viva l'imperatore!». È fuori di dubbio, che nelle avvisaglie della sollevazione di giugno gli agenti bonapartisti tennero mano al gioco, sebbene vada inteso, che un cozzo di classi tanto notevole e inevitabile non possa essere stato preparato solamente da artifizi e intrighi. Né mette conto rintracciare coteste trame; giacché in verità i milioni di voti non si accaparrano con le piccole arti dei cospiratori. Il bonapartismo, come partito organizzato, ebbe sempre una assai scarsa importanza. Possedeva strumenti devoti nei deputati côrsi Pietri e Conti; e più tardi acquistò con Emilio Girardin, rottosi con Cavaignac, un alleato pericoloso, e con la _Presse_ un organo abilissimo, senza coscienza. Si contava con sicurezza anche sul rappresentante radicale del popolo Napoleone Bonaparte, figlio di Girolamo, il quale gareggiava col cugino Pietro in tonanti invettive contro la foia omicida dei re. Più seguito ebbe la condotta dello stesso pretendente. Non lasciò correre un istante, che non profittasse dell'ora favorevole: per cinque volte in cinque mesi diede con lettere pubbliche notizia di sé alla nazione. E nel febbraio apparve a Parigi «per mettersi al servizio della sua patria». Nella lettera al governo provvisorio viene espressa l'esatta concezione bonapartistica della rivoluzione di febbraio: egli ammira il popolo di Parigi il quale «ha eroicamente cancellato le ultime tracce dell'invasione straniera». Accolto dal governo con diffidenza, ritornò subito a Londra, dopo aver dichiarato con un'altra lettera ai governanti: «Dal mio sacrifizio riconosceranno la purezza delle mie intenzioni». Nelle elezioni dell'assemblea nazionale nel giugno, il nome del principe sortì in quattro dipartimenti, anche a Parigi, mentre vigeva tuttora a suo danno la legge di proscrizione. Il governo propose che fosse mantenuta. Ma siccome i radicali, con a capo Jules Favre, espressero la fiducia, che i Bonaparte non potevano più in nessun modo riuscire né ora né poi pericolosi alla repubblica, si decise per la riammissione del principe. Una tale cecità degli avversari sconcertò alquanto il pretendente nel suo calmo riserbo: in una lettera datata del 15 giugno rifiutò tre delle elezioni, aggiungendo però queste parole sincere: «io non nutro ambizioni; ma se il popolo m'imporrà doveri, io saprò adempierli». Ma dai primi giorni si accorse del granchio, e si affrettò a chiarire in un'altra lettera, che egli voleva una repubblica savia, grande, sapiente. Nel luglio fu rimesso in iscena il movimento popolare, e fu rifiutata con una quinta lettera anche l'elezione in Corsica. Noi non ci arrischiamo di decidere, se il principe ha scritto a Parigi qualcuna delle lettere datate da Londra. L'accortezza non si disgiunse dalla sua tattica; giacché, mentre esercitava la virtù civile della rinunzia, il pretendente sventava i disegni degli avversari, che speravano di logorarlo prima del tempo nei dibattiti dell'assemblea nazionale. Per giunta, egli non era affatto un oratore, e tale da conquistarsi con la parola la ghirlanda a cui aspirava. Frattanto l'elezione presidenziale si avvicinava, ed era tempo di mostrarsi personalmente al popolo: per cui, quando nelle elezioni suppletive di settembre i quattro dipartimenti gli si mantennero fedeli, anzi a quelli se ne aggiunse un quinto, il principe si decise ad accettare. Il 26 settembre entrò nel parlamento tra l'esclamazione generale di _le voilà!_ prese il suo posto pronunziando un paio di parole fedelmente repubblicane, però senza senso concreto, e s'irrigidì in un profondo silenzio. I suoi nemici gli risparmiarono di parlare. Quante erano le immaginabili banalità che la fantasia dei radicali si esauriva ad escogitare, tante ne furono diffuse dalla stampa e dalla tribuna sul conto del principe: fu rimessa in circolazione perfino la mitologia della prima rivoluzione. Luigi Bonaparte era un agente della perfida Albione, assoldato per rovesciare la gloriosa repubblica: era un visionario, uno sciocco, segnalato non per altro che pei mustacchi cerati. Qualche testa fina, come Montalembert, posta sull'avviso da quei vituperii della Montagna, finì col domandare, se un uomo così ferocemente coperto di oltraggi poteva essere un uomo del tutto insignificante. La più parte della gente colta s'ingannò: credevano fermamente alla nullità personale del principe: più tardi, però, avrebbero saggiato un disinganno, di cui non si era provato nel mondo il più singolare, dal tempo dell'ascensione al pontificato di Sisto V. Ma gl'incauti oratori presentivano l'effetto, che i loro attacchi avrebbero avuto sulle moltitudini? Erano sinceri, quando unitamente con tali denigrazioni personali manifestavano uno sconfinato disprezzo per la potenza del bonapartismo? O mostravano puramente il coraggio del ragazzo, che fischia all'oscuro per ingannare la paura? Come era mai possibile che la repubblica, proscritti i Borboni, avesse richiamato i napoleonidi incomparabilmente più pericolosi? Fu anche respinta la proposta schiettamente repubblicana di escludere dal seggio presidenziale i principi delle dinastie decadute; e ciò, perché i dottrinari vi vedevano una ineguaglianza illegale, i conservatori già speravano in segreto l'elezione del principe, e i radicali affettavano di non temerlo. Quando poi in primavera il cittadino Pietri fu mandato commissario civile in Corsica e tutti i voti dell'isola caddero su bonapartisti, la stampa repubblicana si consolò avvisando, che non si trattava di altro che di una innocente stamburata del patriottismo locale, e che il Pietri, repubblicano provato, non ne portava alcuna colpa. Erano tanti sempliciotti davvero? E nemmeno l'ultima elezione del principe, che era la nona, aprì gli occhi ai ciechi? Quanto a taluni repubblicani, bisogna comunque supporre, che il disprezzo da essi ostentato era ipocrito. Tuttora nell'ottobre Lamartine, sì, assicurava, che fosse stupida e ridicola la paura, che un Bonaparte o un Borbone potesse abusare del popolo; ma perché mai egli stesso nel giugno aveva proposto, che fosse mantenuto l'esilio di Luigi Bonaparte? Parimente, se in alcuni circoli radicali fu ventilato il disegno di catturare una notte tutti i Bonaparte e trasportarli a Caienna, questo per lo meno dimostra, che non tutti i repubblicani partecipavano a quella tranquillità. D'altra parte, la grande maggioranza dei repubblicani effettivamente teneva il bonapartismo per morto e seppellito: tutti gli scritti che gli uomini del partito pubblicarono dopo il colpo di stato, concordano nell'affermare, che nessuna frazione era meno temuta di quella dei bonapartisti. Cotesta confessione implica nello stesso tempo l'autocondanna dei repubblicani; giacché un partito che conosceva così poco il popolo, era manifestamente incapace di governare una democrazia. L'enorme illusione, in preda alla quale viveva allora la società colta di Parigi, insegna quanto sia alta la barriera che anche nei nostri tempi democratici separa i ceti colti dagl'incolti; e, insieme, ci consente di rivolgere uno sguardo profondo sulla condizione innaturale di uno stato accentrato troppo eccessivamente, in cui era stata affatto dimenticata l'esistenza delle provincie. Per noi che li abbiamo risaliti alle origini, non serbano più alcun mistero i motivi che condussero all'elezione del pretendente. La paura dello spettro rosso continuò a essere la passione dominante nel ceto degli abbienti. Dovunque in Europa la marea primaverile era in decrescenza, dovunque sorgeva quello sciagurato desiderio d'intorpidimento, quell'indolenza, che nel nostro paese ebbe la sua espressione caratteristica nella massima: ci vogliono i soldati contro i democratici. Nelle mani del pretendente le aberrazioni del radicalismo europeo fruttavano. Abitudine e ottusità, tardità e preoccupazione economica, che sono le alleate tradizionali della reazione, dominavano sui cervelli dei contadini. La dittatura di Cavaignac non era altro che un momento dell'eterna lotta pei fondamenti della società; ma il contadino aspirava ad una tranquillità più durevole. I meriti del generale, che per altro non erano menomamente comparabili con le splendide gesta alle quali un tempo Bonaparte si era richiamato, valevano ben poco per le popolazioni campagnuole; d'altronde i contadini lo conoscevano appena: per loro era puramente uno degli aborriti repubblicani. D'altra parte, i lavoratori della città perseguitavano di astio indissolubile il vincitore dei sollevati di giugno: sarebbe stato il benvenuto per loro qualunque capo di governo avrebbe reso la pariglia ai generali africani. Luigi Bonaparte lo previde. A Londra, quando gli parlavano della ferrea rigidezza di Cavaignac, disse secco secco al direttore Lumley: «colui mi spazza la via». Il fatto è questo, senz'altro: le popolazioni delle campagne volevano la monarchia. Delle due dinastie borboniche la più recente era impossibile per ora, la più antica per sempre. Né l'una né l'altra vantavano un aspirante. Il disegno, ventilato da alcuni zelatori, di fondere i due rami della casa Borbone, andò a monte, sia perché gli Orléans non potevano rinnegare la propria origine rivoluzionaria, sia perché i rigidi legittimisti erano più di qualunque altro partito ostinati ferocemente nell'odio all'Orléans, compare dell'usurpatore. Perciò Luigi Bonaparte rimase il solo presidente possibile, nel caso che la nazione avesse voluto ristabilire il trono; e nello stesso modo come egli acquistò il potere sol perché non c'era altro mezzo per riparare all'improvvisata del febbraio, così il secondo impero si è retto fino a oggi sostanzialmente per questo, che la nazione non sa che cosa potrebbe sostituirlo. La stampa di sinistra non si stancava di gridare al popolo: se eleggete Bonaparte, voi fondate l'impero. E una volta che, ciò non ostante, il napoleonide fu nominato, per gl'imparziali non è più il caso, dunque, di contendere sul sentimento monarchico dei contadini. Né possiamo convincere di menzogna Luigi Napoleone, per avere egli, nel proclama emanato a giustificazione del colpo di stato, presentato l'elezione del 10 dicembre addirittura come una protesta contro la costituzione repubblicana. Le numerose schede portanti la designazione _Napoléon empereur_ e dichiarate nulle dai magistrati scrutatori, non lasciavano il menomo dubbio sull'intenzione dei votanti. Le ingiurie dei radicali erano servite soltanto a innalzare l'importanza del principe nell'opinione del popolo delle campagne. Le comiche scese di testa dell'avventuriero di Strasburgo e di Boulogne non impressionavano la povera gente; alla quale anzi andava a genio, che il pretendente avesse arrisicato due volte la testa pel fatto suo. E quando anche molti degli elettori effettivamente tenessero il principe per un pazzo, non per questo il _Journal des débats_ era autorizzato alla disperata invettiva: «la Francia gioca, la Francia vuol giocare!». L'opinione degli elettori giungeva in sostanza a dire: «noi giudicavamo ogni possibile forma di monarchia come più salutare di questa repubblica»: e chi ha il coraggio di tacciare di stoltezza un tale convincimento? L'arma del pretendente, la potentissima fra tutte, era il nome. Di rado un popolo è stato più barbaramente punito, per le vuote fantasie della sua vanità nazionale. Le persone colte a furia di vagheggiamenti fantastici avevano fatto dell'imperatore soldato un idolo; adesso avrebbero toccato con mano, che anche nel secolo decimonono vivevano milioni di uomini che credevano all'idolo. Contro ogni aspettazione, l'esercito in principio si mostrò poco sensibile alla malia del gran nome militare. Certo, la stella di Cavaignac era sul tramonto anche nel mondo militare. Gli ufficiali si aspettavano, che egli presto avrebbe cacciato via l'assemblea nazionale con un napoleonico _le règne du bavardage est fini!_ giacché tra loro non aveva misura l'odio contro i _pékins_, cioè i ciarloni, gli avvocati. Quando invece serbò, col concorso di Charras, Lamoricière, Leflô, un irreprensibile contegno parlamentare, l'autorità del generale africano principiò ad affievolirsi nelle truppe. Ma siccome il pretendente era egli stesso un _pékin_, il suo nome riuscì a soppiantare solo in alcuni reggimenti quello del valoroso generale. Gli uomini delle grandi guarnigioni erano in parte conquistati al comunismo. Insomma l'armata, che avrebbe deciso un tempo, come ognuno presentiva, del destino della Francia, era apertamente divisa di sentimento. Né, oltre le due forze prepotenti dell'istinto monarchico e della gloria napoleonica, si contavano le ragioni concorrenti, che presso i partiti facevano inclinare la bilancia dalla parte del principe. Un grande gruppo realista credeva fermamente, che il principe avrebbe costituito per loro il ponte di passaggio: un pretendente per l'altro pretendente! La più preziosa virtù del triste sciocco non sarebbe altro che la buona volontà di sobbarcarsi. Molti socialisti pensavano egualmente: il principe sarà presto logoro; allora verrà il momento per noi. Altri, per contro, opinavano alla disperata, come il Saint-Arnaud nelle sue lettere: «il principe è l'ignoto, e la salvezza posa tuttora nell'ignoto». Infine parecchi furbi facevano questo calcolo: «se nessuno dei candidati raccoglie due milioni di voti, l'elezione tocca all'assemblea nazionale, che senza dubbio designerà un repubblicano azzurro»; e per conseguenza si accordavano a favore del principe. Il governo si proponeva di mandare commissari nelle provincie, per «indagare» sull'opinione del paese; ma dové astenersene, perché ogni ricordo della Convenzione suscitava i contadini a rivolta. In tal modo gli agenti del principe si trovarono ad avere le mani libere; e dimostrarono al mondo, che il suffragio universale provocava una nuova tattica di partito, più grossolana e senza scrupoli. Furono messe in giro le più grosse contafavole, quanto più assurde, tanto più efficaci: il principe intendeva di distribuire al popolo i duemila milioni ereditati dallo zio, e rimettere tutte le imposte per due anni. Cantastorie e figurinai giravano pei villaggi celebrando la magnificenza dell'impero; e riportava dovunque un gran successo la poesia sublime di quella canzone da organetto, che dobbiamo alla musa di Emilio Girardin: Si vous voulez un bon, Prenez Napoléon! Con quanto fervore qualche buon contadinotto credette davvero, che il vecchio imperatore in persona fosse ritornato! Il principe, che si era atteggiato a erede della Rivoluzione per lo spazio di due decenni, adesso di botto, siccome i fanatici del quieto vivere e dell'ordine miravano a lui, si offrì alle speranze degli ultraconservatori. A questi nuovi alleati aveva prestato un pegno dei suoi buoni sentimenti fin dal tempo che era a Londra; infatti, durante le agitazioni dei cartisti, egli si era ascritto come artigliere. «Il mio nome è il simbolo dell'ordine e della sicurezza», diceva il suo manifesto elettorale. Egli si designò protettore della famiglia e della proprietà: ai francesi sarebbe di nuovo permesso «di contare sopra un domani». Nessuno tra i repubblicani volle credere, che il povero pazzo avesse steso da sé questo manifesto così bene scritto e così accortamente ponderato; nessuno notò, che l'ultima proposizione dell'appello consonava parola per parola con la conclusione del proclama, che un tempo a Boulogne fu sequestrato all'avventuriero. Solamente quelli che accostarono il principe e pensarono di dominarlo, non tardarono a fare esperienza, che sotto le sue maniere flemmaticamente bonarie si celava la fermezza dell'autocrata. Avvicinandosi il giorno delle elezioni, lo stesso Cavaignac non poté più dubitare del sentimento monarchico dei contadini; perciò una forte maggioranza di voti a favore del principe era ritenuta per lo meno possibile. Ma all'estero, dove ogni conoscenza della Francia era attinta unicamente alla stampa parigina, il risultato dell'elezione produsse una sorpresa indescrivibile. Tra tanti milioni di uomini, solo Cavour aveva nel novembre tranquillamente predetto, che tra poco le famose misure energiche della rivoluzione sarebbero approdate a questo risultato: Luigi Bonaparte ascenderebbe al trono imperiale. Il 10 dicembre, racconta un bonapartista in delirio, «di botto il pensiero del popolo venne fuori trionfante, potente, completo, irresistibile, come il fiore dell'aloe, che d'un colpo tonante sboccia in un attimo e si spande». Riuscito eletto il pretendente da più di cinque milioni e mezzo di voti, la capitale era schiacciata dalle provincie, la borghesia dai contadini; e, insiememente, precipitavano d'un colpo le tacite speranze dei realisti, perché l'espettazione, che il principe avrebbe spianato la via alla monarchia, riposava sulla supposizione, che avrebbe potuto ottenere non più che una debole votazione. Ora, invece, egli veniva a trovarsi potentemente collocato al disopra dei partiti, coperto dalla colossale maggioranza della nazione. La natura delle cose gli consigliò di lasciare che i vecchi partiti si dissolvessero completamente. Parenti e parassiti, lacché e cacciatori di posti, e la pompa e il fasto di una corte regale accolsero il presidente, quando salì dalla semplicità repubblicana alla cerimonia del giuramento nel palazzo dell'Eliseo. Quel giorno stesso, però, egli disse: «io so bene di dovere un minimo di voti alla mia persona, alcuni ai socialisti e ai realisti, e quasi tutti al mio nome». Parola modesta; solo che, purtroppo, conteneva questo annunzio: la legittimità della quarta dinastia è ristabilita! IV. Le lotte parlamentari che ora ardono come le ultime lingue di fuoco di un cratere spento, fanno vivo riscontro, per la loro cruda veemenza accoppiata nello stesso tempo all'impostura impotente, con le languenti contese di parte, che un tempo turbarono la nazione dopo la caduta del dominio del Terrore; salvo che sono anche più imbelli, più indegne, più bugiarde di quelle. Un presidente imperiale, un'assemblea nazionale in preponderanza realista e una costituzione repubblicana nata morta componevano le tre forze motrici dello stato: la Francia, notavano con malizia i democratici sociali, si era ingabbiata nella sua nuova carta come in uno strangolatoio. Se, infatti, il presidente avesse voluto mantenere, anche malgrado dell'assemblea nazionale, il potere monarchico di cui godeva come capo dell'amministrazione, sarebbe stato fermato sulla sua via dal principale ostacolo: la completa mancanza nel parlamento di un partito bonapartista visibile. Cotesta situazione innaturale decise sostanzialmente il corso irresistibile degli eventi; il quale era immutabilmente prefisso, giacché la pacifica classe agricola, che era il sostegno del bonapartismo, non contava nel suo seno rappresentanti politici in parlamento. Per gli altri quattro partiti, legittimisti e orleanisti, repubblicani e socialisti, sorgeva irrefutabile la questione: era lecito disprezzare l'ambizione di quell'uomo, il quale aveva sotto di sé il potere esecutivo, e aveva alle spalle la forza morale di cinque milioni e mezzo di suffragi? E l'assemblea nazionale, che mancava essa stessa di appoggio nel popolo, non era tenuta a cercare un terreno d'intesa con la nuova forza della tirannide popolare? Lo spirito di parte fu più forte di tali considerazioni patriottiche. Si era formato il tacito accordo, come disse Thiers, che nessun partito avrebbe sfruttato la repubblica a suo pro. Il che vuol dire, che ogni partito segretamente sperava di sentir presto battere l'ora del proprio dominio, e che era deciso a non cedere il passo a nessun altro. Tanto meno a quello sciocco di presidente. Tra tutti gli errori in cui i partiti possono incorrere, il più perdonabile è senza dubbio l'inverso giudizio fatto di un uomo politico entrato da poco nelle lotte della vita pubblica; eppure la media degli uomini rimette più volentieri qualunque altro errore, fuori di questo. La lotta dei liberali contro il conte di Bismarck ha condotto anche noi tedeschi a fare la poca onorevole esperienza, che solamente alla banale vanità sembra una degradazione personale il riconoscimento dell'importanza di un avversario preso in dileggio. A Parigi gli avvertimenti del conte Molé e di pochi altri imparziali erano fatti al vento: la maggioranza dell'assemblea nazionale non volle adattarsi a rispettare in pace il presidente. Non lo avevano conosciuto prima, e non vollero conoscerlo ora. Il suo primo messaggio al parlamento offriva un lucido prospetto della situazione del paese; ma lo stesso stile senza frasi, lo stesso riserbo da uomo di stato emanante da quell'atto valse come una novella prova dell'inettitudine del presidente. Il principe era e rimaneva un pazzo, uno «zolfanello», uno straccione animato dall'ambizione banale di pagare i vecchi debiti e contrarne dei nuovi, di sentirsi chiamare monsignore, di tenere serve e cavalli, e via dicendo: il tutto sul tono di quelle finezze, di cui Victor Hugo il Grande ha vuotato il sacco addosso a Napoleone il Piccolo. Il principe era pervenuto alla sua carica in nome dell'«ordine», e conseguentemente «si circondò di uomini d'ordine di tutti i partiti». Principiava l'êra desolante della reazione europea, giacché di tutti gli stati provati dalla tempesta del marzo il solo piccolo Piemonte mostrò l'energia morale di serbarsi fedele alle idee liberali. Per farsi riputazione nell'Europa bramosa di pace, il principe doveva appoggiarsi ai conservatori. Sul complice e zelatore di tale reazione contava l'assemblea nazionale che, eletta nella primavera del 1849, era presieduta da Dupin con sfacciata partigianeria. L'elezione si era risoluta in una nuova protesta del popolo contro la rivoluzione di febbraio. I repubblicani moderati perderono quasi tutti i seggi, essendosi la loro alleanza coi fanatici dell'ordine già sciolta fin dall'autunno precedente. La colossale maggioranza degli eletti era di reazionari, vale a dire di realisti. Il club bonapartista della via Montmartre si era fuso col grande club dei così detti moderati della via Poitiers: in generale i contadini bonapartisti elessero candidati realisti, perché costoro erano i soli reazionari colti che essi conoscevano, e che erano loro raccomandati dal parroco. Soltanto dalle urne delle grandi città sortirono in copia i nomi democratici sociali; ragione sufficiente per rinfocolare da capo la rabbia di partito dei reazionari. Nel giugno del 1849, quasi contemporaneamente con l'apertura di questa camera, scoppiò a Parigi e a Lione una rivolta repubblicana prestamente domata: passò di nuovo sul paese la follia del terrore, solo che adesso il terrorismo dei «moderati» non conobbe più limiti. «È tempo», diceva un proclama del presidente, «che i buoni prendano coraggio e i malvagi tremino». Gli stessi uomini, che prima avevano dichiarato intollerabile la temperata severità delle leggi di settembre, a stento ora riuscivano a sfogarsi nei provvedimenti di arbitrio contro i repubblicani. Senza esitazione Odilon Barrot da ministro ricorse contro le riunioni popolari alle stesse leggi scadute fin dal 1793, che Guizot nel febbraio aveva esumate contro Barrot e le adunanze riformiste. Il governo venne autorizzato a chiudere tutti i clubs politici e a proibire le associazioni operaie pel miglioramento del salario. Il consiglio municipale di Parigi fu nominato dal presidente, e fu limitata per gli operai la libera elezione di domicilio nella capitale. Frattanto si susseguivano le deportazioni: con quale frequenza echeggiava a Lambessa il disperato grido dei prigionieri: «giudici o morte»! L'estremo fascino, che circondava tuttora il gran nome della repubblica, andò perduto in cotesti saturnali della reazione. Parve perciò comprensibilissimo, che gli alberi della libertà nel gennaio del 1850 fossero rimossi dalle piazze di Parigi. Come un tempo il primo Napoleone ebbe poco da aggiungere alle leggi eccezionali repubblicane del 18 fruttidoro, così ora il secondo impero deve ai predecessori la più parte dei più famigerati provvedimenti di sicurezza del suo dispotismo. Per esempio, il prescritto draconiano che all'autore del più piccolo articolo di giornale fa ordine di sottoscriversi, è un benefizio della repubblica. I compagni di Luigi Blanc e di Albert erano in esilio fin dall'estate del 1848; nel giugno del 1849 il medesimo destino toccò a Ledru-Rollin e ai suoi prossimi seguaci. I pochi superstiti della Montagna schiumavano di rabbia; e chi in una adunanza vedeva esplodere l'uno contro l'altro questi due opposti irreconciliabili, il materialismo sfrenato e il gretto furore pretesco, sentiva che il giorno della libertà era tramontato. «Il popolo è l'insurrezione, _les assommeurs sont incalomniables_»; così gridava la destra. Perfino uomini miti e coltissimi, come per esempio l'economista Carlo Dunoyer, diventarono reazionari fanatici in quelle lotte furibonde dei partiti: qualunque richiamo alla necessità di un'amnistia suscitava a tumulto tutte le passioni comuni dei moderati. Finalmente nella primavera del 1850, nei giorni in cui l'elezione del socialista Eugenio Sue a Parigi fece correre di nuovo i brividi addosso ai possidenti, la reazione celebrò il suo ultimo trionfo: la legge del 31 maggio depennò dalle liste tutti gli elettori che non potevano dimostrare di dimorare almeno da tre anni nella loro residenza abituale. In tal modo la grande maggioranza dei lavoratori, cioè tre milioni su dieci milioni di elettori, fu defraudata del voto. Esultò la maggioranza, inebbriata dalla vittoria; presto però avrebbe appreso, che il famoso «capolavoro della restaurazione sociale» segnava il principio della fine. La maggioranza rivelò sfrontatamente, come al tempo del re borghese, il proprio egoismo di classe, anche nelle questioni non strettamente politiche. Chi esemplificava a questi industriali il libero scambio degli stati vicini, si sentiva rispondere con scherno: «gli altri popoli mandino pure in malora le proprie officine in grazia delle vuote teorie; tanto meglio per la nostra industria protetta!». Concordavano in siffatte idee tutti i giornali, dal repubblicano _National_ all'_Univers_ ultramontano. Il disegno di legge doganale liberale di Sainte-Beuve fu messo da parte, il ministro liberoscambista Buffet e Leone Faucher furono costretti ad accordarsi davanti alla paura dei protezionisti, e il trattato di commercio col Piemonte non si poté rinnovare se non sotto date limitazioni, perché il Piemonte in fatto di navigazione non era da annoverarsi tra i piccoli stati innocui! Era insolenza quella di Massimo d'Azeglio, quando fin dall'aprile del 1849 scrisse canzonando al suo amico Rendu: «il vostro stato lo chiamate ancora repubblica?». L'assemblea nazionale consumava le proprie forze in siffatti espedienti del furore partigiano e dell'egoismo sociale. Anche il solo prodotto durevole di cotesti legislatori, la legge sull'istruzione del 15 marzo 1850, portava il vasto suggello della mentalità di partito. Subito dopo l'assunzione del presidente, il ministro ultramontano Falloux nominò una commissione per la sistemazione della scuola: era presieduta da Thiers, volteriano. Non invano gli _Annales de la propagande de la foi_ erano diffusi nel paese in 170.000 esemplari, né invano il vescovo Dupanloup faceva da anni il panegirico delle idee dell'89. Il clero si era accostato alla repubblica con pia sommissione, per impetrare subito alla Chiesa la libertà d'insegnamento e di associazione. Laddove i liberali avevano esitato finora a rinvigorire la potenza della Chiesa, che era l'unica forza sociale serbante tuttora una certa indipendenza di fronte all'onnipotenza dello stato, ora invece la paura economica invocava l'ordine a ogni costo. La solidarietà degl'interessi conservatori esigeva che il clero plasmasse e educasse uomini quieti di spirito. In nome dell'ordine, volteriani e ultramontani stretti in bella unione decisero non solamente l'abolizione dell'assolutismo nell'università di Parigi; il che era nei desiderii di ogni animo libero; ma l'assoggettamento dell'istruzione letteraria all'influenza della Chiesa. Quattro vescovi entrarono a far parte del consiglio superiore della pubblica istruzione, e insieme con loro, per ragioni di decenza, anche alcuni rappresentanti degli altri culti: la Chiesa fondò scuole a volontà, e lo stato non richiese più alcun titolo d'idoneità scientifica dagl'insegnanti ecclesiastici. Anche nella politica estera si manifestò lo stesso cieco zelo di settarismo rivoluzionario. Nella contesa per la costituzione tedesca la Francia naturalmente si schierò allato all'Austria. Solo quando il principe di Schwarzenberg mise avanti il suo disegno di fondazione di un impero di settanta milioni di sudditi, solo allora a Parigi si spaventarono: temerono da una tale proposta, innocente anzi che no, un rafforzamento della Germania, e fecero minacce persistenti a Berlino e a Vienna, fino a quando l'Austria non rifiutò l'adesione dei suoi stati alla confederazione germanica. La questione italiana, tirata avanti tra i peccati di omissione del passato anno, era adesso interamente caduta. Quando poco prima dell'impresa di Novara il re Carlo Alberto domandò aiuto a Parigi, il presidente era propenso a consentire alla proposta; ma i ministri temerono l'ambizione del Piemonte, e la Francia si tenne spettatrice inerte del dominio della sciabola rafforzato di nuovo dall'Austria nel Mezzogiorno di Europa. Per tutto l'anno 1849 il presidente serbò una grande inclinazione a dare man forte al Piemonte; ma lo ritenne il quietismo, lo spirito reazionario dell'assemblea nazionale. Si contentò di prevenire la Toscana dall'adesione a una unione doganale austriaca. Tanto meno parve tollerabile l'intervento armato degli austriaci e dei napoletani a Roma. Ma gli uomini d'ordine tuonarono contro il radicalismo magnanimo degli ardimentosi triumviri romani, gli ultramontani lamentarono il derubamento del _Patrimonium Petri_, e anche protestanti liberali, come Coquerel, in quei giorni di felicità reazionaria levarono al cielo il papa come il migliore amico della libertà. Da tali imbarazzanti contraddizioni sorse in fine il disegno, che la Francia sarebbe intervenuta a favore del papa, insieme, e della libertà. Luigi Bonaparte previdentemente, fin da prima della sua elezione, aveva cercato di destreggiarsi tra le due direzioni: il due dicembre scrisse al nunzio, che non aveva niente di comune in Roma col cugino radicale Canino, e che egli voleva il ristabilimento dello stato pontificio; cinque giorni più tardi scrisse sul _Constitutionel_, che, non ostante tutto, non approvava la spedizione a Roma. Quando salì al governo, l'impresa romana era già cosa conclusa, e l'uomo che un tempo aveva indetto guerra al papato temporale, fu condotto a limarsi per cinque mesi nel tentativo impossibile di far giustizia nello stesso tempo al papa e al liberalismo. Il primo atto importante di politica estera della repubblica, la quale «non doveva mai movere guerre contro la libertà degli altri popoli», si aprì con uno strappo alla costituzione; la prima spedizione guerresca del napoleonide, con una rotta. La nuova assemblea nazionale spinse finalmente le cose alla piega decisiva. Radunatosi questo parlamento reazionario, l'agente diplomatico liberale Lesseps fu richiamato, e rinnovato con sanguinoso calore l'assalto a Roma. Cadde la repubblica romana, prostrata dalle armi della libertà francese: la Francia prestò servizio di birro al papato di ritorno, e gli ultramontani tripudiarono sulla rovina dei demagoghi senza Dio. Era palmare, che la politica dell'intervento della Francia aveva riportato a Roma lo stesso premio, che in Ispagna al tempo di Luigi XVIII: i più gravi sacrifizi di danaro, di uomini e di riputazione tornarono unicamente a profitto della potenza dell'Austria e del partito reazionario. È indubitabile, che il principe non desiderasse menomamente un ripristinamento incondizionato del papa re; anzi Gioberti stesso attesta con quanto zelo Tocqueville, ministro degli esteri, si adoperasse per ottenere garanzie in pro dei diritti politici dei romani. Se non che il presidente non aveva la forza di resistere alla foga reazionaria dell'assemblea nazionale; né al napoleonide era consentito di lasciare invendicata la rotta delle armi francesi. Cacciato l'eroico manipolo di Garibaldi e ristabilito l'antico sgoverno, il principe indirizzò a Edgardo Ney la famosa lettera, che domandava per lo stato pontificio amnistia, amministrazione laica, principii liberali di governo e il codice Napoleone. Il che non era un richiamo valevole pel momento, giacché il presidente conosceva bene, mentre scriveva, l'implacabile odio vendicativo della Curia; era una riserva per l'avvenire e, insieme, un segno ai liberali di Europa, che il principe non aveva ancora rinunziato per sempre ai sogni rivoluzionari della giovinezza. In tal modo il parlamento faceva da manovale a una reazione vendicativa, e la trappoleria repubblicana era uno schifo per ogni uomo sincero e onesto. Come mai istituzioni di tal sorta avrebbero ispirato un tremebondo ossequio a un principe imperiale? Non cadeva dubbio, che il presidente avrebbe battuta una terribile strada, verso la meta a cui una fede fatalistica lo sospingeva. Era la strada sicura, tanto più che all'indole senza scatti e per nulla impassibile del nipote era completamente estraneo quel gusto brutale delle azioni violente, che era proprio della natura guerriera dello zio. Se altra strada non fosse stata davanti, che quella della violenza, a tutti coloro che conoscevano il passato di cotesto cinico sarebbe parso evidente che egli, stimolato dalla temeraria sfrontatezza di Morny, avrebbe rotto il giuramento con la fredda calma di un giocatore, che onora il successo come suo Dio. E, in verità, l'atmosfera morale di quella età senza fede e senza ideale era poco propizia alla lealtà della coscienza. Se gettiamo uno sguardo sugl'intrighi realisti dell'assemblea nazionale, non possiamo trattenere una dura parola: in cotesta maggioranza cento se ne contavano, che si sarebbero arretrati davanti al rischio del colpo di stato, ma nemmeno trenta davanti allo spergiuro. Una volta che Thiers ed Emilio Girardin, che avevano aiutato il presidente a conquistare il potere, subito dopo lo abbandonavano, noi arrischiamo la scortese affermazione, che cotesta diffalta non fu provocata da scrupoli di coscienza. Questi signori diedero le spalle a Luigi Bonaparte, perché andò a vuoto la loro speranza di dominare l'autocrata. Specialmente dopo la rivolta del giugno 1849 il presidente sentì la necessità di procedere di accordo coi reazionari. Cercò dapprima di governare parlamentarmente, e nel viaggio che fece nel paese durante l'estate del 1849 si comportò con molta prudenza. Felice occasione di conoscere uomini e cose, e intessere tra il tintinnio dei bicchieri le prime fila della grande cospirazione. Chi oggi rilegge a mente fredda quei brindisi e quei discorsi ufficiali comprende, sempre con nuovo stupore, che solamente i vanitosi oratori dell'assemblea nazionale potevano sorridere di quelle arti di seduzione tanto abili e pericolose. Dovunque, il principe seppe lusingare la boria provinciale: a Rouen lodò la perfezione delle industrie, a Saumur, sede della grande scuola di cavalleria, lo spirito militare; a Poitiers ricordò i giorni procellosi di Carlo VII, ad Epernay le ultime lotte dell'imperatore. Parlò rugiadoso, come un mite uomo di ordine; diffidò dalle teorie dei cervelli esaltati, richiamò alla fede, al rispetto della proprietà e della famiglia. Stimò anche necessario di rievocare un colpo di stato sul tipo di quello del 18 brumaio; perché, spiegò innocentemente, «la Francia non si trova ora nella condizione che richieda un rimedio così eroico». Ad Ham, sicuro, ad Ham, dove la popolazione si affollò tripudiando intorno al prigioniero liberato, egli riconobbe con contrizione i peccati della giovinezza: ora non capiva più quella presunzione che un tempo lo spinse ai tentativi violenti di sovversione, e non lamentava affatto di averli dovuti espiare. Solo una volta, ad Angers, tradì, alquanto più chiaramente, il suo desiderio riposto: «io non ho né il genio, né la potenza di mio zio»: parola significativa in un paese, le cui provincie sono abituate ad attendersi ogni prosperità dal capo dell'amministrazione. A malgrado di una tale riservatezza del principe, non era però verosimile che un capo di stato responsabile si sarebbe vincolato ai consigli dei terzi. Il presidente dichiarò nel modo più reciso al principe Napoleone, suo arrogante cugino, che non avrebbe mai tollerato l'influenza di chi si sia, e che intendeva di governare nell'interesse delle moltitudini, non mai di un partito. Anche i ministri sentirono presto sopra di sé la forza di una volontà fatta: s'indussero perfino a decorare, apparentemente per meriti verso la repubblica, i congiurati di Strasburgo, e con tutto ciò non riuscirono a cattivarsi la soddisfazione del padrone. Solo che il principe cercò di legare a sé la testa forte del gabinetto, Tocqueville. Il quale però argomentò: «il principe vuole creature, non già ministri». Inoltre il presidente, il 31 ottobre 1849, annunziò all'assemblea nazionale che la repubblica abbisognava di una guida unica e ferma; che perciò aveva dimesso i ministri e si era circondato di uomini «tanto solleciti della responsabilità mia quanto della loro». «La Francia», esclamò, «cerca la mano, la volontà, la bandiera dell'eletto del 10 dicembre. Tutto un sistema ha trionfato il 10 dicembre. Il solo nome di Napoleone è un programma, e significa, all'interno, ordine, autorità, religione, benessere del popolo, e, all'estero, dignità nazionale». Principiò il governo personale. Conformemente alle dottrine dell'idea napoleonica, vennero chiamati al ministero specialisti come Fould, Rouher, Hautpoul, i quali espressamente dichiararono di stare fuori dei partiti e di riconoscere un solo partito, «la salute della Francia». La piega degli eventi, che del resto risultava inevitabilmente dalla situazione di responsabilità fatta dalla costituzione al presidente, era tale, che Tocqueville convenne perfino: «forse il principe fa bene a mandarci via». Pochi giorni dopo, a una riunione di dignitari della magistratura il presidente insegnò, che la Francia aveva visto passare in varia vicenda costituzioni e governi, e solo le creazioni dell'imperatore erano rimaste! La voglia di dominare dell'assemblea e la volontà sempre palese e vigile del presidente si erano già azzuffate più di una volta in intrighi odiosi. Fedele agli usi dissipati del tempo che era un fuggiasco, il principe viveva in eterni imbarazzi di pecunia. Ma s'ingannava l'assemblea, se sperava che la nazione avrebbe, come pel passato, ripetute a dileggio le beffe di Cormenin su _Louis le désireux_. Mormorarono i contadini della spilorceria dei deputati, quando il presidente annunziò ostentatamente la vendita dei suoi cavalli; e il fido Achille Fould trovò sempre nuovi speculatori pronti ad arrischiare il loro danaro sulla grossa partita del principe. L'ostilità dei due poteri, rattoppata cento volte miserabilmente, precipitò in fine ad aperta rottura dopo la legge elettorale del 31 maggio 1850. Ognuno aveva temuto disordini in conseguenza di cotesto attentato a quanto la nazione aveva di più sacro, di cotesta grossolana offesa all'eguaglianza. Quando il popolo, con tutto ciò, persisté nella sua ottusa infingardia, allora in tutti i partiti si sollevò la questione: tale essendo il torpore della nazione, anche un colpo di stato sarebbe tollerato? Si ridestarono speranze antiche e angustie nuove. L'estate del 1850 vide tutti i partiti monarchici affaccendati in alacre faccenda, e rivelò di nuovo la profonda slealtà dei repubblicani dell'oggi. I legittimisti pellegrinavano a Wiesbaden, gli orleanisti a Claremont. Thiers, naturalmente, aveva inteso soltanto di esprimere il proprio rispetto personale al vecchio re; più francamente, Berryer confessò di essere andato a Wiesbaden a compiervi una missione politica. L'una e l'altra manifestazione non ebbero successo. Anzi il duca di Chambord non era adesso affatto disposto a un riconoscimento incondizionato del nuovo diritto pubblico. E veramente tra gli orleanisti si annunziava il disegno, che il duca Joinville concorresse al seggio presidenziale. Anche per questo partito il giuramento alla costituzione non formava alcun ostacolo; sarebbe prestato, come candidamente racconta Dunoyer, solo sotto la tacita riserva, che la Francia avrebbe al più presto ristabilita con mezzi pacifici la monarchia. Mancava però l'ardimento della risoluzione. Nel frattempo il presidente profittò destramente del favore del caso, che gli permetteva d'inaugurare le ferrovie costruite dagli Orléans. Percorse per la seconda volta il paese e civettò apertamente intorno al favore delle moltitudini. «I miei migliori amici abitano nelle capanne, non nei palazzi», esclamò agli operai delle strade ferrate della Piccardia; e ricordò la parola dell'imperatore dei plebei: «il mio polso batte all'unisono col vostro!», e lamentò con dolore, che la costituzione gli avesse risecato il diritto di grazia. Mostrò a Lione vivo interesse per la cassa di soccorso degli operai: l'applauso dei setaiuoli gli aprì il cuore, e parlò loro come «rappresentante di quelle due grandi manifestazioni nazionali che nel 1804 e nel 1848 si proposero di salvare per mezzo dell'ordine i sublimi principii della Rivoluzione». Anche più trasparente predisse, che l'amor di patria secondo le circostanze avrebbe potuto comandare la rinunzia o la perseveranza, e infine prese fervorosamente commiato: «sarebbe immodesto, se io vi dicessi come l'imperatore: o Lionesi, io vi amo! ma permettetemi di dirvi dal profondo del cuore: o Lionesi, amatemi!». E continuò a parlare in cotesto stile, finché a Caen disse chiaro e tondo: «se il popolo mi imponesse una nuova soma, sarebbe grave colpa da parte mia il sottrarmi all'alta missione!». Nulladimeno, il tripudio delle moltitudini operaie importava poco: i destini del paese erano librati sul puntone della spada. L'odio dell'esercito contro ogni forma parlamentare continuava in nulla disasprito anche sotto l'assemblea reazionaria. Si principiò col disprezzare come chiacchieroni i generali africani: veterani imperiali e giovani lanzichenecchi ambiziosi bramavano di porsi di gran lunga al disopra dei benemeriti condottieri. Attivi faccendieri rinfrescavano infaticabilmente i ricordi della gloria imperiale; e in cento caserme spiccavano le effigie dell'uno e dell'altro Napoleone con sotto il ritornello: _Dieu nous l'a pris et Dieu nous l'a rendu!_ Al ritorno dal suo secondo viaggio, il principe passò la grande rassegna sul piano di Satory: il vino corse a fiumi, e i soldati ubbriachi gridavano: viva l'imperatore! La stampa europea scoppiò di nuovo in risa di scherno sul povero pazzo: i bengali di Satory furono paragonati coi tuoni di Austerlitz e il nipote ai fuochi con lo zio al fuoco. Non si riflette alle tante volte che nell'età dei Cesari il destino del mondo fu deciso con simili espedienti. Subito dopo, il generale Changarnier, comandante delle forze armate di Parigi, fu rimosso, e furono divise le sue funzioni e affidate a uomini ligi. Il generale aveva titubato a lungo, tanto da essere la «sfinge» guardata con paura dai partiti in lotta; in fine si buttò ai realisti, perché opinava di dominare il principe e perché non penetrava la situazione del paese. Nemmeno una compagnia, affermava pateticamente, aiuterebbe il presidente al colpo di stato: «discutete in pace, o rappresentanti del popolo!». Così stavano le cose, quando si riaprì dopo un breve aggiornamento l'assemblea nazionale. S'incrociarono dall'una e l'altra parte accuse e contraccuse furibonde, tutte egualmente giustificate, tutte egualmente ignominiose: fedele riflesso di una vita pubblica menzognera, in cui gli uomini leali si contavano sulle dita. Possiamo bene prestar fede al principe, che spesso, davanti a coteste selvagge zuffe parlamentari l'animo gli veniva meno. Il secondo anniversario della sua elezione, egli nel palazzo di città dichiarò, che il suo era il solo potere legittimo, che fosse sorto dal febbraio: piaggiò l'esercito, mutò i ministri a piacimento. Diffidante, Thiers esclamò: _l'empire est fait._ Milioni di uomini sentivano, che questa lotta senza uscita tra i due supremi poteri dello stato non poteva, non doveva durare. Una cupa astiosità si appesantiva sul paese. Nessuno voleva esprimere la propria opinione, perché da tutti si temeva; e nessuno poteva esprimerla, perché la stessa fantasia degli uomini era mutila: non avevano alcun concetto, alcuna idea dell'imminente futuro. L'ipocondrico scritto di Raudot sulla decadenza della Francia, che fu una mortificazione per la boria nazionale, contò, non ostante le esagerazioni, numerosi lettori. Efficacia anche maggiore ottenne lo scritto brutale di Romieu sullo «spettro rosso», con la sua faziosa requisitoria contro «il popolo, questa bestia feroce e stupida». Gli almanacchi e i fogli clandestini, di cui si nutriva la borghesia di provincia, si compiacevano d'infinite invettive contro i nemici della proprietà. L'industria e il commercio non erano in grado di elevarsi, la scienza e l'arte tacevano affatto. La gente si consolava tuttora col pensiero, che cotesta era la conseguenza dei giorni turbolenti; solo più tardi si riconobbe, che effettivamente, dopo la febbre degli ultimi sessant'anni, la forza creatrice della nazione era giaciuta alquanto tempo appassita. Se non che, piú grave di tutte le sollecitudini del momento, premeva l'ansietà degli enimmi del 1852, anno che avrebbe portato contemporaneamente l'elezione del presidente e dell'assemblea nazionale. Il clero, che da tre anni si era tenuto lontano dal pretendente, ora, dopo la caduta della repubblica romana, era entrato con riconoscenza tra le fila bonapartiste. Anche nei suoi viaggi il principe aveva guadagnato molti aderenti col suo tatto obbligante. In effetto, dal popolo non era amato menomamente, perché gli mancava l'opportunità di mostrare la propria importanza alle moltitudini. Solo che ai vantaggi che già da tre anni lo raccomandavano al popolo, se ne aggiungeva adesso uno nuovo di assai maggior peso: Luigi Bonaparte si trovava già al governo, e la nazione aveva orrore di qualsiasi incerta novità. E siccome non si presentava contro di lui nessuno speciale candidato, rimaneva indubbiamente stabilito, e nessun imparziale lo ha contestato, che il popolo, contrariamente al disposto della costituzione, avrebbe rieletto il principe. Il che era tanto sicuro, che nemmeno una dichiarazione esplicita del presidente di non accettare la rielezione, avrebbe distolto il paese dal suo proposito anticostituzionale. Quale spettacolo, se il popolo avesse eseguito egli stesso il colpo di stato, fomentando in ogni capanna la slealtà e l'indisciplinatezza; se migliaia di funzionari, se l'intera Francia ufficiale avesse incitato la nazione a lacerare lo statuto! Ma i rappresentanti popolari di una democrazia erano poi autorizzati a osservare, contro la volontà del popolo sovrano, la lettera di una costituzione divenuta impossibile? No, certamente: se nel turbine delle contese di parte sopravviveva tuttora una favilla di spirito patrio, l'assemblea nazionale doveva decidere il rimaneggiamento legittimo della costituzione. Tale era la volontà del paese: 79 consigli generali dei dipartimenti sopra 85 domandavano la revisione dello statuto. Che dietro le richieste della revisione si nascondessero alcuni motivi assai loschi, che non fosse sano rimettere in questione il nuovo diritto pubblico fondato appena di recente; tutto ciò non meritava considerazione a confronto con un depravamento politico senza pari e a confronto con l'altro pericolo della guerra civile. Per quanto i complici del bonapartismo abbiano favoleggiato a meraviglia sulle trame sinistre dei rossi, è però certo, che la democrazia sociale preparava per le elezioni del 1852 un ultimo colpo disperato. Una rete di società segrete copriva di nuovo il paese come al tempo della Restaurazione. Laggiù, nel Mezzogiorno, dominava la società dei montagnardi col suo tenuto organo, _l'Ami du peuple_. In quelle provincie infiammabili l'antico fanatismo borbonico era stato soppiantato da un fiero movimento radicale, che aveva il centro a Marsiglia. Che le cospirazioni comunistiche, anche esse, non vi fossero affatto spente, ciò è ormai fuori dubbio dopo le recenti rivelazioni sull'Internazionale. Si doveva rimanere inerti davanti al malanno che maturava? Il generale Changarnier, quando fu arrestato la mattina del 2 dicembre, opinò che avrebbero potuto risparmiarsi l'incomodo; tanto, la rielezione del presidente era già assicurata. Gl'inconsiderati moralisti, che ripetono tuttora cotesta affermazione e dichiarano il colpo di stato una violenza superflua e inutile, non farebbero meglio a ponderare, se fra tutti i colpi escogitabili, che avrebbero potuto ferire la Francia, il più terribile non sarebbe forse stato proprio _le coup d'état populaire_, vale a dire, la lacerazione dello statuto perpetrata dalla generalità della nazione? Con tutto ciò il quadro della situazione inauditamente intrigata non è ancora compiuto. Data per certa la rielezione del principe, era altrettanto assodato, che i contadini avrebbero rimandato all'assemblea nazionale una maggioranza di reazionari realisti, giacché non esisteva ancora per nulla un forte partito bonapartista preparato al parlamento. Talché, anche la revisione dello statuto, se pur si fosse attenuta solo a rendere possibile la rielezione del presidente, anticipava non altro, che lo spettacolo di nuovi intrighi infiniti. Solo il ripristinamento della monarchia, già da un pezzo invocata dalle moltitudini, e propriamente della corona napoleonica, l'unica possibile allora, avrebbe avuto virtù di ridare allo stato la salute; e, in effetto, il dilemma «repubblica o monarchia?» fu seriamente dibattuto dalla commissione parlamentare, che trattò della revisione nell'estate del 1851. Un'eccellente relazione, dovuta alla penna di Tocqueville, propose all'assemblea di decidere per la revisione. Ma l'accecamento della Montagna e di alcuni avversari fanatici del presidente impedì che si raccogliesse sulla proposta la maggioranza voluta di tre quarti dell'assemblea. Il diritto esistente era insostenibile, la riforma era preclusa dal voto del 19 luglio. Il problema del prossimo futuro, secondo la parola cruda del radicale Schölcher, sonava: _à qui le canon?_ V. Il profondo disgusto che suscitano in ogni uomo retto i grossolani panegirici della stampa bonapartista, non c'impediscono di riconoscere, che in quel momento il presidente era il solo uomo che perseguisse uno scopo politico chiaro, conseguibile. Già da mesi, tutti parlavano della minaccia del colpo di stato, eppure in quell'infinito torpore della nazione un atto violento sembrava altrettanto difficile quanto l'idea della difesa. I partiti si corrodevano in vane leghe, preparandosi, dopo la catastrofe, a giustificare la loro inerzia con la frase vuota: che il disprezzo all'indegno presidente aveva impedito ogni vigilanza. Anche Tocqueville non fece che abbracciare lo sconsolato partito di aspettare il colpo di stato e d'intervenire in seguito, affinché almeno un lecco delle civili libertà fosse salvo! Come ci appare sicuro e superiore, in mezzo a una tale babele, il presidente! Nell'estate del 1851 intraprese il suo terzo viaggio, e chi nelle concioni peregrinanti del principe udiva la reiterata professione di fede immutabile allo statuto proprio in uno con l'annunzio non metaforico del colpo di stato, doveva convenire che la mancanza di coscienza dello zio aveva un degno erede. A Digione il principe diede l'affidamento, ormai non più inconsueto, che avrebbe seguito la voce del paese: «e, credetemi, la Francia nelle mie mani non perirà»: e arrischiò una vivace spostatura contro l'assemblea nazionale, che avrebbe approvate tutte le misure di rigore, rigettate tutte le proposte di clemenza. Sebbene il _Monitore_ avesse soppresso il passo, pure un nuovo turbine d'indignazione si scatenò nell'assemblea. Né gli animi eccitati si calmarono, quando alcune settimane dopo, a Beauvais, il principe pronunziò le evangeliche parole: «È confortante il pensiero, che nei supremi pericoli sovente la Provvidenza presceglie un solo a strumento di salvazione». Generalmente traspariva da questi discorsi lo studio di presentare il bonapartismo come un sistema del giusto mezzo, egualmente lontano sia dalle impossibili utopie che dall'antico regime, «quali si fossero le forme in cui questo volesse ammantarsi». Come mai in giorni siffatti Guizot potesse scrivere un libro su Monk, e ciò nella speranza non dissimulata che il principe seguisse il miserevole esempio di quell'eroe; cotesto era un mistero anche pei devoti dell'impeccabile ministro. Ma al presidente era riserbato un ultimo trionfo: la legge del 31 maggio. Sembra a noi del tutto ammissibile, che solo di contraggenio il principe avesse dato il suo consenso a questa limitazione del suffragio universale, il quale, del resto, costituiva il solo titolo legittimo della sua dinastia: d'altra parte, egli non aveva facoltà d'impedire la legge. E appunto di quest'opera inconsiderata decise ora di servirsi come arme contro l'assemblea nazionale. La stampa bonapartista, con a capo il sempre disinvolto Véron, aprì la campagna contro la legge. Di più, il principe saggiò un tentativo, poi subito smesso, di approccio ai democratici sociali, e finalmente il 4 novembre in un messaggio al parlamento disse: «Nutrite voi forse meno fiducia di Noi nell'espressione della volontà popolare? Ripristinare il suffragio universale significa prendere la bandiera alla guerra civile e l'ultimo argomento all'opposizione». Era quello, dopo il rigetto della revisione dello statuto, un altro grosso sproposito del parlamento l'ostinarsi, per odio al presidente, a tenere in vita una legge che tutti confessavano insostenibile. E così il presidente apparve ora alle moltitudini come il difensore della democrazia di contro a una casta tirannica. In uno stato burocratico la lotta tra il potere esecutivo e il legislativo deve infallibilmente menare alla vittoria dell'esecutivo, quando però il capo dell'amministrazione possa contare sulla validità del proprio volere e sull'indifferenza delle popolazioni. Sin dalla fine di ottobre, dichiarata la guerra, un gabinetto di proseliti personalmente ligi circondò il presidente. Già da un pezzo il principe aveva ravvisato nel generale Saint-Arnaud l'avventuriero arrischiato e senza coscienza che faceva al caso suo. Per procurare al suo uomo un po' di grido, fu intrapresa una spedizione contro i Cabili. Tornato dall'Africa vittorioso, l'eroe ottenne il portafoglio della guerra, e immantinente risovvenne alle truppe il dovere della cieca ubbidienza militare. Il presidente ricevé gli ufficiali con l'assicurazione: «il giorno del pericolo io non mi condurrò come i miei predecessori; non vi dirò: marciate, vi seguo! vi dirò: io marcio, seguitemi!». In conseguenza di tali avvenimenti, i questori della camera presentarono la mozione, che l'assemblea nazionale avocasse a sé il regolamento di ordine dell'esercito. Che, dati gli umori ostili dell'esercito, cotesta idea non avrebbe seguito, era evidente; ma, affinché tutta l'azione dell'assemblea non apparisse un vacuo apparato verbale, bisognava venire all'estremo tentativo di difesa. Il parlamento era colpevole di falli indimenticabili, perché troppo sovente aveva posto al disopra del bene del paese l'odio reazionario della fazione: ed ora, giusto contrappasso, gli toccava di andare alla malora sotto la rabbia settaria della Montagna. L'odio ai dispregiatori dei sacri giorni di febbraio stava ai socialisti più a cuore, che non la preservazione della repubblica. Essi si ribadirono come i rappresentanti schietti di quella democrazia dell'invidia, che gl'italiani qualificano col nome incisivo di _democrazia di rappresaglia_. E non vollero prestare nuove armi agli assassini del suffragio universale: la mozione dei questori fu rigettata. Fu il terzo grosso sproposito del parlamento. Esso stesso, il parlamento, diede la partita perduta. Il presidente, secondo che ammette lo stesso Granier sulla fede di Cassagnac, era deciso, non appena la proposta dei questori fosse stata approvata, a rispondere immediatamente con un atto di autorità. Caduta la proposta, disse sollevato: _cela va peut-être mieux!_ Ora sapeva, che contro di lui non esisteva nemmeno l'ombra di una volontà, e che se il colpo di stato avesse incontrato mille avversari, non un uomo si sarebbe mai afflitto per quel parlamento. La sola giustificazione possibile del colpo di stato è nelle incalcolabili perturbazioni che minacciava di apportare l'anno 1852, e nella necessità della monarchia, ammessa ormai dalle manifestazioni non ambigue della volontà popolare non solo, ma, in fondo, perfino dalle ultime discussioni dell'assemblea nazionale. Il presidente scansò gli sbagli del 18 brumaio, e prese a modello la rigidezza ferrea, rapidamente risolutiva, con cui altra volta lo zio aveva compresso il 13 vendemmiale Parigi sollevata. Anche ai quattro uomini, che soli il principe aveva iniziati ai suoi torbidi segreti, Morny, Saint-Arnaud, Persigny e Maupas, appartiene la testimonianza, che tutti insieme seguivano con la sicurezza della virtuosità le teorie del catechismo della tirannide di Machiavelli. Morny era l'anima dell'impresa: dal silenzio del suo gabinetto dirigeva i movimenti delle truppe, quando alla fine il 3 dicembre, con sua alta soddisfazione, la rivolta nelle strade si annunziò abbastanza fiacca. Se il 2 dicembre fu una necessità, e oggi qual uomo che abbia senso politico può ancora contestarlo? è però non meno sicuro, che negli animi superficiali degli sfrontati venturieri offertisi sicari al colpo di stato, non è a ricercare nulla di quella profonda serietà, di cui un atto di ardimento storico suole compenetrare gli audaci autori. La sera del 1º dicembre disse il signor di Morny: «se è questione di scopa, procurerò di trovarmi dalla parte del manico»; e il mattino del giorno seguente, mentre i birri invadevano la camera dei deputati, Saint-Arnaud e Mocquart si baloccavano con spiritosaggini scimunite: come sarebbero stati spassevoli a vedere il piccolo Thiers e il piccolo Baze in camiciola, davanti ai graduati di polizia! E coteste vecchie storie innominabili, il signor Véron dopo quindici anni le serve in tavola un'altra volta, con vanitoso compiacimento. La massima incontestabile, che un uomo di stato non deve volere nulla più morale del necessario, non basta evidentemente a discolpare la frivola e feroce criminosità dello strumento del necessario. Se una congiura, perpetrata dai custodi stessi della legge, è certamente la più esosa di tutte le violazioni del diritto, per giunta cotesta enormezza fu resa quasi inespiabile dalla nullità morale dei consoci, dei quali il presidente si valse. E anche l'esecuzione del colpo di stato procedé con brutalità sproporzionata e inutile. Lasciamo ad altri il rimestare in quella lordizia e descrivere particolareggiato, come il generale Forcy fece prendere pel colletto i deputati, come il generale Saint-Arnaud fece punire di morte sul momento i còlti sulle barricate, come la soldatesca avvinazzata si sparse dopo la vittoria ad assassinare e inferocire nei viali dei boulevards, come i difensori delle barricate rimasti lì furono spazzati via in mucchio, tanto che i superstiti si riversarono al camposanto per riconoscere a un braccio, a un piede sporgente dalla terra i loro cari caduti. Il sistema delle deportazioni e delle proscrizioni, maneggiato dall'assemblea nazionale con così miserabile maltalento, si ritorse adesso contro i suoi autori. È ben lecito calcolare, che durante lo stato d'assedio proclamato su una gran parte del paese, 80.000 persone furono imprigionate: nemmeno a Napoli e a Roma la reazione aveva così radicalmente fatto piazza pulita degli avversari. Tra gli avvenimenti della rivoluzione di brumaio il giudizio morale stima il più obbrobrioso non già la brutale irruzione della soldatesca nella sala dei cinquecento, ma la seduta serotina del 19 brumaio, non menzionata dalla maggior parte delle opere storiche, nella quale essa medesima, l'assemblea dei cinquecento, dichiarò di avere il generale Bonaparte ben meritato della patria. Del pari, il punto tragico impressionante del colpo di stato di dicembre non è la barbarie degli sgherri, non è il pathos rettorico a buon mercato che i deputati sfoggiarono in faccia ai soldati irruenti; è invece la sorte delle rappresentanze popolari, le cui armi spirituali, quando vengono al cozzo con la potenza del pugno, si rivelano compassionevoli: e noi lasciamo ai bonapartisti il gusto di farne le beffe. Il terribile della catastrofe è il fatto, che la maggioranza della nazione approvò il colpo di stato. Può darsi che il presidente, da professatore fatalistico qual era della fede napoleonica, avesse stimato le simpatie popolari più forti di quel che erano; comunque, aveva per sé l'enorme maggioranza delle provincia, e gli operai della capitale non lo avversavano. Appena mille sollevati, appartenenti i più ai ceti colti, erano accorsi alle barricate. Gli uomini del camiciotto guardarono con malizia, come i principali _transporteurs_ fossero raggiunti dal taglione. Il sobborgo Sant'Antonio era stato completamente disarmato fin dalla sollevazione di giugno; e ai membri dell'assemblea nazionale che comandavano la resistenza fu risposto con sprezzo: «perché combatteremmo contro l'uomo, che ci ha dato il suffragio universale?». Tanto era profonda la voragine, che separava le folle dai repubblicani colti! La grande maggioranza della popolazione della capitale diede prova di una frivolezza completa; la ressa dei curiosi invase i luoghi delle barricate vinte come un circo di nuovo genere, e tutti si rallegravano, che gli annali della capitale del mondo si fossero ancora una volta arricchiti di un formidabile avvenimento. In alcuni dipartimenti del centro e del Mezzogiorno tumultuarono i contadini e i piccoli borghesi; nel Varo a capo della rivolta era una dea della libertà. Comunque, fu significante, che gli umili nelle provincie principiassero finalmente a mostrare una volontà; del resto le turbolenze furono per ogni dove facilmente sedate. Noi non annettiamo valore al fatto, che la versatile burocrazia anche questa volta si conformò, e nella sua grande maggioranza sottoscrisse il riconoscimento formale del colpo di stato, che il nuovo sovrano, con sicura conoscenza degli uomini, richiese immediatamente; né vogliamo indagare se il rialzo, con cui la borsa di Parigi salutò il 2 dicembre, fu provocato da abili incette da parte dei compari di Fould. Ma la gioia cieca dei possidenti, la rapida ripresa degli affari, la completa indifferenza con cui era guardato ogni nuovo tratto violento del governo, non lasciavano dubbi sull'opinione del paese. Sette milioni di francesi sancirono col loro voto il colpo di stato. E l'esercito? Come mai i figli del contado avrebbero prestato la loro spada al napoleonide, se i contadini non avessero voluto l'impero? In luogo di attaccarsi alle particolari falsificazioni che si frammischiarono nel voto universale, conviene piuttosto all'uomo politico cogliere nel nodo vitale l'essenza di una società democratica, il significato del proverbio criminosamente abusato _vox populi vox Dei_. Il più duro assolutismo che conoscesse il secolo decimonono, fu fondato da una manifestazione della volontà popolare democratica. Nei primi anni si trovarono di conserva contro il nuovo sovrano presso che tutte le menti rappresentative della nazione, quasi tutti i nomi illustri dell'arte e della scienza, della politica e delle armi; nemici tutti; e con una unanimità a stento udita nella storia. Principiò un tempo, in cui i cervelli imbamboliti si adagiarono nel puro nulla del non pensare, e per le nature più nobili andò perduto quasi tutto ciò che forma per loro il miglior contenuto della vita; innegabilmente, però, le moltitudini furono per alcuni anni felici e contente. Tanto grama è l'importanza dell'ingegno e del pensiero in una età di democrazia e di economia! La rivoluzione di febbraio feriva gl'interessi della proprietà; ragion per cui le si levò subito contro un'opposizione vittoriosa. Il colpo di stato fu un benefizio per l'industria e il commercio; non colse nessuno così gravemente come i capi spirituali della nazione, gli uomini del pensiero; e perciò l'opposizione si ridestò a rilento, e tanto più poi, perché in questo popolo la potenza delle idee non aveva più la forza di annientare il dispotismo. Non la Francia, sibbene la spada tedesca avrebbe un giorno annientato il terzo come già il primo Napoleone. Il parlamentarismo, che per lo spazio di una generazione aveva mosso e occupato la nobiltà intellettuale del paese, sparì in un sol giorno, senza lasciar traccia, come inghiottito dalla terra, senza nemmeno un ricordo potente dietro di sé, senza un partito fervente. Perché effettivamente in cotesto stato burocratico esso non era mai vissuto, e nello spasimo dell'agonia solo questo aveva ricordato alla nazione: che la servitù della Francia era stata stabilita per mezzo del parlamento. Offese violente alla costituzione, come la legge del 31 maggio, e segrete trame traditoresche con gli Orléans: ecco le ultime gesta degli eroi di virtù del parlamento francese. Le estreme cause della catastrofe rimontano lontano. Il presente, perduto di sé stesso come Narciso, ripete senza riguardo la grave verità, che la Francia ha rotto con la sua storia. Esso non sa, che in questa sola parola è tutto un mondo riboccante di colpa. L'esperienza di ogni giorno insegna fino a qual punto la risoluzione di principiare una nuova vita devasti le anime anche più salde, e quanto raro avvenga. E noi ci meravigliamo se una grande nazione, che è dimentica del suo passato, vada barcolloni tra l'indisciplinabilità sediziosa e la sottomissione cieca! Noi protestanti non riusciamo a considerare le precipitose convulsioni della vita francese, senza lamentare ancora una volta il calamitoso editto che bandì dalla Francia la fede evangelica. Quando a un popolo ardimentoso e geniale non resta altra scelta che la Chiesa dell'autorità e del piatto ossequio; quando nelle questioni più sacre, supremamente personali, gli è tolta la debita libertà, gli è tolto il terreno della discussione e della comprensione, allora un'agitazione convulsa invade tutta intera la sua vita spirituale; terribili contraddizioni vengono immediatamente a cozzo, e la società, sbattuta da una lotta irresolubile, ritorna sempre a cercare di nuovo la propria salvezza nella servitù. Conferisce ai tedeschi il riandare anche la complicità del proprio popolo, la complicità dell'intera Europa. Non solamente il papa salutò con riboccanti benedizioni l'eroe del 2 dicembre; in tutti i paesi europei i possidenti acclamarono al nuovo sovrano. Taluni, come lord Palmerston, penetrarono la necessità del rivolgimento; i più si rallegrarono spensieratamente di essere stati sgravati alla fine dalle ansie per la sicurezza dello scrigno. Perfino lo czar Nicola, l'antico avversario dei Bonaparte, riconobbe benevolmente i meriti che il presidente si era acquistati per la causa dell'ordine. La corte viennese segretamente sperò che il colpo di stato ricondurrebbe decisamente a una restaurazione borbonica; perciò Felice Schwarzenberg non stimò inopportuno celebrare _un individu tel que Louis Napoléon_ come un eroe della causa conservatrice. Il nome stesso «salvatore della società» depone come un indimenticabile testimonio di miseria per l'animo virile di quella età profondamente caduta. Ma anche più miserabile dell'allegria del borghesume salvato, apparve la vigliaccheria del radicalismo tedesco, il quale, in luogo di resistere virilmente in casa alle improntitudini della reazione, per un anno intero confermò il proprio coraggio civile nelle spiritosaggini niente pericolose su «Lui». Ma quanto più rumorosamente i radicali berteggiavano e schernivano, tanto più profondamente il nuovo sistema s'insinuava nelle istituzioni dei paesi vicini. «Il suffragio universale è il lavoro», proclama la meglio fondata tra le spampanate del nuovo bonapartismo: il 2 dicembre significa il principio di una nuova età piena di una produzione economica elevata al grado supremo. Laddove il primo impero aveva con la sua tracotanza violenta chiamato a raccolta tutte le forze morali dei vicini, ora invece cotesta nuova scostumatezza e crapulosità francese traboccò dalle frontiere rovinando e stupidendo: tirannide di una immoralità senza idee, alla quale in quei cinquant'anni non si sottrasse interamente nessun popolo di Europa. Il nuovo sovrano indubitabilmente era molto superiore al suo _entourage_. Tanto che fin dal principio a un giudizio imparziale non poté sfuggire, che egli non si proponeva né di calcare le orme sanguigne dello zio, né di disfarsi nella nullità del cavaliere di ventura coronato dalla vittoria. All'opposto, per la prima volta nella nuova Francia iniziò egli un regime, che dagli esordi aveva a misurarsi con l'opposizione della capitale: tuttora sotto lo stato di assedio un terzo degli elettori parigini pronunziarono il loro _no_ avverso il nuovo ordinamento. In tale rischio, il presidente non poteva sdegnare nessun'arme che gli venisse a mano. Si servì della sciabola, e, alla maniera dello zio, parlò all'esercito come alla parte scelta della nazione. Si servì del confessionale, e incorò gli ultramontani alle più arrischiate speranze. Si servì della dedizione degli spiriti, e la burocrazia, ligia in ogni tempo, fece presto a ricorrere a tutti gl'intrighi della vecchia polizia imperiale. La rabbia del tacimento, _la fureur de silence_, dominò in Francia, mentre la stampa presidenziale annunziava con giubilo: noi abbiamo un padrone! L'introduzione del nuovo statuto dichiarò, che il capo supremo dello stato era personalmente responsabile. L'articolo fu assai motteggiato; eppure conteneva una delle poche verità sperdute fra le tante bugie accumulate in cotesta costituzione. L'enorme responsabilità, che pesava sul nuovo sovrano, sarebbe stata comportabile solamente nel caso, che egli fosse riuscito a sanare il proprio governo dalla macchia dell'origine e a dare sviluppo a quelle idee di progresso, che indubbiamente sono involte nella sostanza proteiforme del bonapartismo. Fu ristabilita la calma, non già la pace degli spiriti. Già fin da prima del colpo di stato una circolare segreta del radicale «Comitato di opposizione» aveva dichiarato, che da ora in poi era impossibile ogni perdono in riguardo delle classi abbienti. Adesso, per giunta, alle vecchie contese che scindevano il paese ne era sopraggiunta una nuova, e talmente soverchievole, che al paragone tutte le altre scissure sparivano: la Francia si ruppe un'altra volta, come dopo i cento giorni, in due nazioni: i vincitori e i vinti del 2 dicembre. E cotesto contrasto durò fino alla caduta del terzo Napoleone. Il secondo impero ha apportato parecchi successi cospicui alla potenza e al benessere del paese, ma per lo spazio di venti anni non gli venne mai fatto di persuadere la nazione al tranquillo e incondizionato riconoscimento del novello regime. PARTE QUINTA IL SECONDO IMPERO Il Secondo Impero. [Scritto in Heidelberg nel 1871.] I. L'opinione corta dei molti viene sempre determinata dall'impressione dell'ultim'ora. Da quando il secondo impero ha trovato una fine obbrobriosa sul campo di Sédan, la figura del terzo Napoleone è fitta nella mente del popolo tedesco come quella di un empio violatore della pace, e questo giudizio nazionale non sarà forse mai cambiato, certo non lo sarà nell'avvenire prossimo. Se io mi arrischiassi di ripubblicare, corrette oggi e completate, le osservazioni sul recente fenomeno del bonapartismo che scrissi nel 1868, mostrerei la presunzione di voler influire sul sentimento popolare, che ben a ragione domanda sempre idee semplici, complete, senza contraddizioni. Mi rivolgo alla breve cerchia di coloro, che non s'infastidiscono di riandare la conturbante storia clinica del popolo francese in questi ultimi ottant'anni. Chi ha cercato di farlo coscienziosamente, prima di condannare perentoriamente l'edifizio statale di Napoleone III, proporrà piuttosto il quesito, se è possibile, innanzi tutto, di ben governare cotesta nazione; e ne caverà la conclusione, che il secondo impero non ha cagionato la rovina della Francia, ma l'ha trattenuta per due decenni. Toccò all'ultimo Bonaparte, mercé la propria accortezza, mercé il favore della fortuna e la debolezza dei popoli vicini, di alzare ancora una volta lo stato francese a una pienezza di potenza, che sopravanzava di gran lunga la potenzialità morale della nazione. Non possiamo affermare, che il contegno dei nostri vicini a nostro riguardo sia cambiato sostanzialmente dal tempo del trattato di Vienna. E cerchiamo la ragione di cotesta politica ora irritante, ora minacciosa, ora violentemente aggressiva, non già in un sistema qual si sia, ma, parte nel carattere nazionale, che non muterà, fintanto che l'educazione del popolo francese sarà volta a svegliare l'ambizione esteriore in luogo dell'intimità morale dell'anima; parte in noi stessi, nel nostro sminuzzolamento, nelle nostre guerre civili, che permisero ai francesi di fare assegnamento sulla debolezza della Germania. Ora che l'impero germanico gloriosamente risorto ha strappato il terreno sotto i piedi a tutte coteste amichevoli calcolazioni dei vicini, il tedesco può con superbo sentimento di tranquillità riandare i recenti destini del paese confinante. Il tema, tuttavia, si presenta poco grato. Giacché l'antico e irrevocabile presentimento, che anche cotesto pomposo impero si sarebbe alla fine rivelato per niente altro che una nuova precarietà, ha già da tempo impresso un segno passionato di esagerazione su tutti i giudizi dei nemici del pari e degli amici. Ogni parola di condiscendenza ci si secca nella penna, quando udiamo con quale sfacciata ciarlataneria il bonapartismo ha saputo cantare la propria gloria: il nostro modesto elogio tedesco non salirà mai alla grandiosità dell'apoftegma di Rouher: «no, no, non è stato mai commesso un errore!». Anche un comodo biasimo appare triviale rispetto a un sistema, sul quale, come sopra una gigantesca avventura, gli stessi avversari moderati, fin da gran tempo prima che soccombesse, avevano calato in forma solenne la pietra sepolcrale. In tale eccesso di lode e di condanna è difficile mantenere la linea ferma e netta del giudizio storico; tanto più difficile, in quanto l'intima contraddizione del bonapartismo, la diabolica mezza verità, che noi abbiamo così spesso dimostrato essere il carattere fondamentale del dispotismo rivoluzionario, si presenta nel secondo impero con una energia addirittura suicida. Il terzo Napoleone non ha mai, con la parola o con l'opera, stabilita una tesi, che egli stesso non abbia subito dopo tolta via con una antitesi. Delle pericolose passioni di cui febbricitava la Francia, egli personalmente era certo più immune, che non forse qualsiasi uomo in vista tra i francesi contemporanei; solo che la necessità di sostenersi, l'intima essenza del suo sistema lo forzava a solleticare continuatamente quelle passioni; di modo che sopra di lui e sopra la sua Casa si compì la nemesi, che presto o tardi doveva raggiungere la tracotanza sacrilega dell'intero popolo. La malagevolezza maggiore per venire a un sicuro giudizio politico è determinata dai fondamenti sociali del nuovo stato francese. In ogni tempo l'egoismo di casta è stato la disposizione congenita di tutte le classi dominanti; e allora appare odiosissimo agli occhi della posterità, quando si manifesta ingenuo e inconscio ai dominanti che hanno cambiato natura. Ognuno oggigiorno sente emanare dagli scritti dell'antichità la superbia intellettuale di quelle dense aristocrazie, che guardavano sugli schiavi e i banausi come sul vuoto aere. Pochi o nessuno di noi sospettiamo, quanto noi stessi siamo compenetrati da sentimenti e pregiudizi affini. Il ceto medio, che al presente determina in Germania l'opinione pubblica, riconosce nell'illimitata concorrenza la sostanza della libertà sociale, e nella più ampia discussione il primo inevitabile presupposto della libertà politica: esso tra lotte indimenticabili si spupillò dalle fedi dommatiche. Dobbiamo a un tale spirito l'emancipazione dei contadini; a quello dobbiamo, se i nostri ceti colti sono i più liberali e i più giusti di tutte le classi governanti della storia. Tuttavia un severo esame ci dice, che anche noi, mentre lavoriamo per questo puro ideale politico, parliamo poi soltanto come gente scatenata. Un superbo gentiluomo del secolo decimottavo più facilmente avrebbe potuto intendere le idee della crescente borghesia, che non noi iniziarci nel globo intellettuale del quarto stato. L'inclinazione delle classi lavoratrici è stata descritta da Aristotele col classico: χαίρουσιν ἐάν τις ἐᾷ πρὸς τοῖς ἰδίοις σχολάζειν: parola, che nei tempi moderni più liberi può bene essere mitigata, ma non mai confutata. La vita privata, la fatica e la cura della casa, forma per questi strati sociali il nocciolo dell'esistenza: potrebbero con pieno diritto aspirare a prender parte al governo dello stato, ma non si trovano in condizione di offrire allo stato un'opera durevole e regolare. Si riscaldano di rado per quella vivace lotta degl'intelletti che per l'uomo colto forma il pane della vita, e sono molto proclivi a dar via la libertà del pensiero per un governo forte e benigno, che promova energicamente il benessere dei molti: tra tutte le potenze spirituali è però sempre quella della Chiesa, che esercita su cotesti animi l'incanto più forte. È questa la ragione che difficolta al dotto un giudizio sicuro sul più recente grado di sviluppo del bonapartismo. Nel mondo moderno l'importanza del quarto stato non era stata mai così invadente come sotto il secondo impero. Al tempo della Convenzione le moltitudini parigine dominavano il potere dello stato e mutuavano una parte della loro potenza al sicuro lavoro della macchina amministrativa. Sotto Napoleone III erano fuori del governo; ciò non ostante il quarto stato costituiva la classe più importante: il continuo riguardo al contentamento degli umili formò il pensiero direttivo del nuovo bonapartismo. Anche oggi, sotto la così detta repubblica, l'avvenire della nazione è indubitabilmente nelle mani dei contadini e degli operai. Solo che dove domina il quarto stato, ivi domina anche il suo concetto sensuale della vita. E nella nuova Francia appare così spaventosa la rozzezza morale, il disprezzo di tutti i beni ideali, che senza volerlo si corre a una congettura, la quale, certo, non è storicamente dimostrabile. L'apparenza è, che tutti i nobili elementi latini e germanici siano stati interamente schiumati da questa nazionalità commista, e che sia tornato sopra a ribollire il sedimento impuro dell'antichità celta. Se di sotto a un tale strato fitto d'ipocrisia e d'immoralità vuole distinguere il merito di un siffatto sistema sorretto sul quarto stato, l'uomo colto deve reprimere con forza molte delle più care e nobili idee proprie del suo ceto. Il secondo impero capita nei due più ricchi decenni contemporanei; e se riflettiamo con quale agilità ha pazzamente corvettato e ha cangiato il giudizio del mondo sul terzo Napoleone, sentiamo vivamente come siamo diventati vecchi in pochi giorni. Il nuovo bonapartismo, opposto vivente dell'infingardo regno borghese, ha trasformato più profondamente e più violentemente di qualsiasi altro regime moderno le condizioni sociali del suo paese; la baldanza del suo assoluto volere osò parecchie riforme recidenti dalle radici, per le quali un parlamento non avrebbe trovato né il coraggio né la spregiudicatezza. Solo che la precipitosa caduta di questo sistema dell'affario conferma ancora una volta la regola, che un governo tanto meno è stabile, quanto più ampiamente allarga la propria attività. Raccogliamo innanzi tutto le brevi memorie del presente negli stadi principali che il secondo impero ha percorso. La sua storia si divide in due periodi nettamente distinti. Nello stesso modo come un tempo, subito dopo l'anno 1840, sorse opinione, che la stella degli Orléans corresse all'occiduo, così, dopo il 1860 il giudizio generale ritenne, che l'impero del terzo Napoleone avesse sormontato il suo culmine. Con questo, però, che il decennio dell'ascesa era la fase del dispotismo non mitigato in nulla, laddove il decennio della discesa era il tempo delle prove liberali! Non occorre altro che guardare freddamente in faccia questi dati di fatto per riconoscere immediatamente la verità, che il bonapartismo con le concessioni alle idee liberali dei ceti più alti aveva rotto fede a sé stesso, e che la nazione non era più capace di comportare un regime di libertà. Al colpo di stato seguì prima un anno di transizione, che fu per l'immoralità del nuovo sistema la stagione della fioritura. Laddove i mentiti discorsi del presidente al tempo dell'assemblea nazionale trovavano spiegazione nella situazione politica, in appresso, invece, la gherminella repubblicana del 1852 appare semplicemente frivola e ordinaria. Il presidente stimava necessario un terzo plebiscito per consolidare la propria potenza? Oppure il fatalista opinava di poter salire al supremo potere solamente, come lo zio, per tre gradi? Certo, era decisivo il fatto, che il 2 dicembre il principe tenne a serbare l'apparenza, che il colpo di stato servisse a salvare la repubblica. Ciò in riguardo alle grandi potenze, le quali in verità diedero la loro approvazione alla vittoria dell'«ordine», pur non volendo nessuna di loro il ripristinamento dell'impero. Insomma, la Francia ufficiale imposturò, ancora per lo spazio di dieci mesi, con frasi ipocrite la fede repubblicana, quantunque il colpo di stato nient'altro potesse significare, che l'erezione del trono. Nel settembre del 1852, durante il viaggio ufficiale attraverso il paese, il presidente assicurava tuttora, che nel grido ripetuto «viva l'imperatore!» egli riconosceva più un tenero ricordo che una espettazione: ma il ministro dell'interno faceva prender nota dei nomi delle persone che in quel viaggio imperiale venivano a contatto col principe, «affinché non vadano perduti alla storia». Il flemmatico uomo si era tenuto freddo e calmo in mezzo a quell'ardente entusiasmo popolare, il quale indubitabilmente dimostrava, che le popolazioni avevano interpretato il senso dell'ultima elezione di dicembre assai più giusto, che non le grandi corti. Alcune settimane più tardi la brama del paese di ristabilire l'impero si manifestò irresistibile: la nazione esigeva, secondo l'enfatica espressione del sindaco di Sevres, lo sposalizio della Francia con l'inviato di Dio. Seguì allora, stesa da Troplong, quella relazione del senato, che noi senza esitazione possiamo definire il capolavoro del moderno bizantinismo. Perché mai anche il linguaggio del fido senato non avrebbe dovuto sinfoniare fino all'ardimento ditirambico? Appunto, Troplong medesimo lo confessa: vi sono momenti in cui anche l'entusiasmo ha il diritto di risolvere questioni! La nazione incorona sé stessa incoronando Napoleone; in tal modo ella trae nobile e pacifica vendetta dei trattati del 1815. La repubblica cede la propria essenza tramessa alla dignità imperiale mercé il popolo sovrano, e la grande ombra dalle nubi guarda appagata l'esaltazione del nipote. Sotto la tutela del nuovo trono si svolgono veementi tutte le energie del lavoro e la vertigine della speculazione: giace una quiete profonda sulla vita intellettuale e politica. L'opinione dei popoli odiava l'imperatore in cui vedeva il cagnotto della reazione europea, che perseguitava per ogni dove, perfino nell'asilo dei paesi liberi, i campioni della repubblica; e tremava pensando all'ora, in cui egli infallibilmente avrebbe imboccato la via dello zio. Le corti tentennavano tra la ripugnanza contro il risalito e il rispetto verso il salvatore della società. Negli affari europei dava il tono la Russia; e precisamente quella corte mantenne di fronte al napoleonide, non appena fu esaltato imperatore, l'attitudine della rigida alterigia legittimista. In quel torno i disordini orientali offrirono l'opportunità di sperimentare la potenza della Francia e i talenti del suo capo. Seguì un brusco spostamento delle alleanze e dei rapporti internazionali, che ricordò vivamente il tempo splendido del Consolato, allorché Bonaparte, minacciato pur dianzi da una coalizione soverchiante, riuscì in pochi mesi ad assembrare in lega gli stati del Mezzogiorno e del Settentrione contro il diritto marittimo inglese. In verità, i risultati della spedizione di Crimea ebbero scarsa efficacia sul mondo orientale, quasi nulla; ma la gloria guerriera delle aquile imperiali fu novellamente sancita, e i rinfranchi del paese si palesarono inesauribili, giacché nel bel mezzo della guerra la capitale lussuriò anche di più nell'orgia della vita neonapoleonica e apparecchiò una fastosa esposizione alle industrie dell'Europa. Il napoleonide ebbe la soddisfazione, che nell'anniversario della sua conquista di Parigi un congresso europeo raccolto sulla Senna sotto la presidenza dell'ambasciatore francese segnò la conclusione della pace. La preponderanza della Russia era spezzata. Di nuovo la Francia si chiamava la grande nazione. Subito dopo venne alla luce il principe imperiale: gli eserciti francese, inglese, italiano, turco e russo festeggiarono in pari tempo in Oriente la nascita del principe ereditario. Il sistema nazionale era eternato, come dissero le autorità nello stile del primo impero. Nel febbraio 1857 l'imperatore poté congedare il devoto corpo legislativo con la confidenza, che presto si direbbe del secondo impero come un tempo del Consolato: «regnava da per tutto il contento, e chi non nutriva nel cuore malvage passioni gioiva della felicità del paese». Capitò allora un contrattempo: l'attentato di Orsini stornò per alquanto tempo Napoleone III dal suo comportamento, e il sistema, prima appena raddolcito, di oppressione fu novellamente raggravato. Il subisso di felicitazioni da cui fu inondato l'imperatore per l'avvenuto scampo, dimostrarono però al mondo fino a qual segno le popolazioni avessero bisogno di lui: che indubitabilmente parlava in loro un certo qual misto di sentimenti nobili e di servilità, come nell'ode _Divis orte bonis_ che in un'epoca affine Grazio cantò ad Augusto. Nessuno ha così incisivamente significato di cotesto attacco la ragione ideale, come l'_enfant terrible_ dei bonapartisti, il marchese di Boissy, con le parole: «noi tutti amiamo l'imperatore, perché ognuno dice a sé stesso: in quale pantano cadremmo, se Napoleone morisse!». Proprio in quei giorni in cui l'opinione pubblica liberale farneticava nuovamente sull'imperatore, egli s'incontrò con Cavour a Plombières, e portò a maturità il pensiero più ardito e più benefico della sua politica europea. Giacché, per quanto lo stesso imperatore abbia più tardi peccato rispetto all'Italia e per quanto anche il corso degli avvenimenti abbia deluso le aspettazioni del napoleonide, pure al terzo Napoleone rimane la gloria, che senza il suo aiuto il risorgimento dell'Italia forse non sarebbe stato mai iniziato, e certamente non avrebbe trionfato. Nelle ore in cui tra le tripudianti acclamazioni degli operai di Parigi l'imperatore si accingeva a partire pel campo, appariva effettivamente un sovrano nazionale, il rappresentante della Rivoluzione. Dopo la vittoria di Solferino l'egemonia della Francia tra i popoli latini parve assicurata. Anche i liberali illuminati s'inchinarono al liberatore dell'Italia, e in ampia sfera fu ripetuta la lode smisurata: Napoleone il Piccolo riposava agl'Invalidi, Napoleone il Grande regnava alle Tuileries. Era il tempo che l'Europa nella solennità del Capodanno tendeva l'orecchio a Parigi, con l'emozione angosciosa del bambino bruciato. Ed ora, con la consapevolezza della propria potenza, l'imperatore arrischiò la grande riforma della politica commerciale: la superba idea di raccogliere tutta l'Europa occidentale in un unico dominio aperto al libero scambio si avviò verso l'effettuazione. Eppure l'ora felice dell'impero era già dileguata. Principiò il dichino, da quando la storia richiamò dovunque nuove complicazioni sociali, a cui non rispondeva menomamente la pretesa della Francia di essere maestra di tutto il mondo. La stessa fondazione del regno d'Italia era, per lo meno, tutt'altro che profittevole alla supremazia della corona napoleonica. Inoltre, l'inevitabile inazione del gabinetto durante la sollevazione polacca dimostrò che la Francia non era abbastanza forte per garantire i suoi così detti alleati. L'imperatore tentò indarno di comparire ancora una volta come il patrono della pace europea; egli invitò a un congresso le grandi potenze con espressioni quasi minacciose: ogni rifiuto avrebbe tradito segreti disegni, che temevano la luce del giorno! La guerra dello Schleswig-Holstein, e con quella il grande imbocco della politica tedesca, principiò per l'appunto quando coteste burbanzose parole si sparsero pel mondo. Il ritegno dell'imperatore durante le lotte per Düppel ed Alsen gli procurò da parte dei tedeschi riconoscenza e talvolta eccessivo apprezzamento, motteggi e biasimo da parte del suo popolo. Frattanto il secondo impero aveva trovato nel Messico la sua Spagna. Una catena di strafalcioni grossolani, una inesplicabile disconoscenza della vitalità ed energia degli Stati Uniti condussero a una disfatta obbrobriosa, misero a repentaglio la dignità e la riputazione della corona, sconvolsero siffattamente le finanze e l'esercito, che allo scoppio della grande guerra germanica lo stato non era nella condizione voluta per l'entrata in campagna. In tal modo si compì la fondazione dello stato settentrionale tedesco: un terribile colpo per tutti i più cari pregiudizi dei nostri vicini: e nello stesso tempo l'unificazione dell'Italia incominciata dalla Francia fu spinta a termine dalla vittoria della Prussia. Nel frattempo l'imperatore era invecchiato, e i validi coadiutori che sostenevano la sua corona, l'uno dopo l'altro, erano spariti: Saint-Arnaud e Magnan, Pietri e Mocquart, Fould, Pélissier e Walewski, e poi i tre non surrogabili, che più di tutti avevano lavorato con coscienza di uomini di stato alla fondazione duratura dell'impero: Billault, Thouvenel e quel Morny, che aveva inculcato così spesso al despota tentennante la fresca energia della risoluzione netta. D'altronde, qui come per ogni dove, il dispotismo si era rivelato incapace di produrre nuovi grandi ingegni di uomini di stato. L'opposizione delle classi colte si ridestò a nuovo ardore, l'attitudine di fronda ritornò a essere un'arte in moda, e fin dal tempo della ritirata del Messico risonò tra gli avversari il grido sempre più baldanzoso: _l'empire est défait_. Lo sfasciamento del _Crédit mobilier_ e il disavanzo crescente del bilancio dello stato, lo spopolamento delle campagne e l'urbanesimo suscitarono il sospetto sulla sanità del nuovo rigoglio economico; e la giornata di Königgrätz aguzzò gli occhi sui rischi e le menomazioni alla propria patria. Anche la fiducia dei popoli vicini fu distrutta dalle fondamenta dal brutto affare del Lussemburgo e dalla rioccupazione di Roma. Così, incalzato di dentro e di fuori, dopo reiterati slanciamenti e arretramenti, alla fine Napoleone si buttò avanti sulla strada delle riforme costituzionali, che già aveva aperta col decreto del 24 novembre 1860. Ma il richiamo «guerra o libertà», che saliva dalle fila dell'opposizione, testimoniava tristamente sia dell'oltracotanza abituata a calcare coi piedi il diritto dei vicini, sia, insiememente, della disperazione di un popolo, che sente l'indegnità della propria posizione senza trovare in sé la forza durevole per risollevarsi. Il contegno servile della popolazione nella campagna elettorale del 1869 dimostrò, che effettivamente l'energia politica era completamente svanita. Non punto una volontà popolare ferma e sicura, ma solamente la confusa e lunatica scontentezza delle classi alte indusse il despota a cedere a mano a mano alle rinascenti idee costituzionali. Finalmente il ministero Ollivier arrischiò il tentativo di riconciliare la tirannide col parlamentarismo: tentativo, che doveva sommergersi nel suo proprio assurdo. La gherminella costituzionale placò tanto poco il livore dei vinti del 2 dicembre, quanto la malvagia libidine guerresca della nazione. L'imperatore cercò di liberarsi dalla sua posizione insostenibile, prima con un appello al popolo, poi con una guerra ardentemente agognata dalla nazione. La nostra buona spada mandò in frantumi il suo trono; e senza fede, senza dignità, nel modo stesso come in altri tempi si era inchinata al colpo di stato, così ora la nazione abbandonò il «salvatore della società», perché sul campo di battaglia non era stato fortunato. II. Le reiterate e violente vicissitudini del trono nella moderna storia francese e l'egoismo impronto con cui ogni classe dominante ha messo a profitto il proprio potere, hanno annientato in Francia la monarchia, nel senso antico e schietto della parola. L'intima contraddizione nella vita di questo stato si può brevemente compendiare nella proposizione seguente: la Francia non può fare a meno di un gagliardo potere statale raccolto in una sola mano, e nulladimeno ha perduto interamente i costumi e le tradizioni della monarchia legittima. Il nuovo sistema bonapartistico non era né un dispotismo illuminato sullo stile del secolo decimottavo, né un semplice ripristinamento dell'impero militare napoleonico, ma una forma statale per sé stante, affatto moderna: una tirannide personale, eletta dalle moltitudini e governante a pro di cotesto quarto stato pervenuto alla coscienza di sé. Laddove nella monarchia legittima, anche sotto una corona assoluta, tutte le istituzioni e i costumi statali convergevano allo scopo di sottrarre la persona del monarca alla lotta dei partiti e di assicurare anche sotto un principe inetto il regolare andamento della cosa pubblica, all'opposto nella Francia bonapartistica la persona del monarca portava fondamentalmente la responsabilità del destino dello stato. Talché un ministro geniale, sotto un imperatore senza talento o impopolare, non sarebbe stato in grado di assicurare la durata al sistema. Il dottrinario del secondo impero, il duca di Persigny, curò di designare l'eletto del popolo come _homme-peuple_: sotto la forma adulatoria l'espressione recava l'esatto significato, che cotesta potenza imperiale era una dignità supremamente personale, che doveva affermarsi nella sollecitudine quotidianamente rinnovata pel bene delle moltitudini. È vero, che la maggioranza degli elettori aveva esaltato il terzo Napoleone in virtù del suo nome: ma nessun uomo imparziale poteva da cotesta potenza dei ricordi napoleonici trarre la conclusione, che la moltitudine dei francesi fosse attaccata ai Bonaparte con la medesima fedeltà con cui i prussiani ai legittimi Hoenzollern o un tempo gli olandesi alla casa tirannica degli Orange. Ogni vincolo di pietà tra popolo e casa regnante fu spezzato in Francia dalle tempeste di due generazioni. Qui l'unico legame possibile tra governanti e governati è costituito dall'interesse; e, col fatto, nessuno stato della storia modernissima ha fatto valere così spregiudicatamente, come il secondo impero, l'egoismo dei suoi sudditi. Il nuovo bonapartismo è stato effettivamente, come amici e nemici lo hanno qualificato, un _gouvernement indiscutable_; non già semplicemente a cagione della sua origine equivoca, ma principalmente per la ragione che lo spirito di cotesto sistema era grossamente materialistico, e perciò non comportava prove incondizionate. È evidente che il capo di uno stato siffatto dovesse essere e rimanere responsabile. Quando Laboulaye e gli altri dottrinari dell'_empire libéral_ partivano in lizza contro cotesta situazione di fatto in nome dei noti principii costituzionali, che regno e responsabilità, insiememente concepiti, fanno contraddizione, e che lo stabilimento dell'impero ereditario esclude per sé stesso la responsabilità del capo dello stato, ebbene, essi davano nel vuoto. Le teorie giuridiche della monarchia parlamentare non comportano adattabilità a una tirannide democratica. La fondazione dell'impero era solo un cambiamento di nome, che non mutava nulla di sostanziale alla vera natura della carica presidenziale. La trasmissibilità di cotesta corona rimase sempre come niente altro che un assegnamento incerto sul futuro, laddove, invece, la responsabilità dell'imperatore era un principio, la cui immutabile permanenza era ognora affermata dai dignitari dell'impero Rouher e Troplong, e il cui adempimento pratico veniva reso possibile dalla stessa costituzione. Bastava che l'imperatore si credesse sicuro del favore delle moltitudini, ed egli, secondo l'articolo 5, aveva facoltà di appellarsi al popolo sovrano: che era un'arme violenta del dispotismo, la quale, usata al momento opportuno e conformemente alla morale napoleonica, era al caso di accrescere sempre che volesse la soverchianza della corona, e in effetto escludeva ogni speranza di un onesto regime parlamentare. Per contro, posto che le moltitudini venissero nell'idea, che l'eletto non rappresentava più i loro interessi, il proemio della costituzione indicava la via per richiamare l'imperatore alla responsabilità. Dichiarare irresponsabile un capo dello stato francese, ivi è detto, «ciò significa mentire al sentimento pubblico; ciò significa ammettere una finzione, che per tre volte è andata dispersa nel turbine delle rivoluzioni». Più chiaro di così non si può dire, che l'imperatore portava e voleva portare la sua corona col pericolo permanente di essere cacciato da una quarta rivoluzione. Con ciò, dunque, nella superba Francia si era giunti a questo, che la legge fondamentale di una nazione civile con ingenuità cinica confessava: il nostro regime è un gioco _va-banque_, ogni sicurezza del diritto pubblico è una lustra, ogni costituzione nient'altro che un espediente! La corona napoleonica non godeva la sicurezza della monarchia ereditaria, e appunto perciò era provvista di una pienezza di potenza, che un monarca legittimo non ha mai raggiunta: «essendo il capo dello stato responsabile», dice quel proemio, «la sua attività deve essere libera e senza impacci». Non vi è alcun dubbio, che il nuovo bonapartismo nutriva, come il primo impero, il disegno di fare da terreno neutrale, su cui venissero a ritrovarsi insieme gli avanzi dei vecchi partiti. Esso non si diede briga del passato dei suoi cooperatori, e prese ai suoi servigi quanti riconobbero il nuovo ordine. Permise, dopo alquanti anni di compressione, il ritorno degli avversari esiliati che si obbligavano all'ubbidienza, e non si discostò mai dal proposito di collocare la grandezza della patria al disopra dei partiti. Chi non ricorda lo scritto pateticamente generoso dell'imperatore, che ordinava il rilascio del pericoloso cospiratore Barbès, perché questi aveva espresso il suo entusiasmo patriottico per la guerra di Crimea? Similmente l'impero non volle favorire un ceto solo; seppe contentare l'ambizione e la foga industriale della borghesia e, nello stesso tempo, ripristinare la nobiltà: un eccellente mezzo per vincolare alla corona migliaia di famiglie sia mercé la comune ambizione, sia mercé il timore di una soppressione di titoli nobiliari male acquistati; ma anche una prova, che s'intendeva di riguardare le inclinazioni e i pregiudizi delle classi più alte. Appunto: l'eletto del popolo si applicò un pezzo al disegno di aggiungere all'antica una nuova nobiltà napoleonica. Nei brindisi e nei proclami il signor di Persigny esaltava come merito peculiare del nuovo sistema «l'eminente idea sociale», per cui, avendo ogni governo precedente rappresentata soltanto una delle tre classi della società, l'impero invece le rappresentava medesimamente tutte. Tale vanteria conteneva qualche apparenza di verità. Il quarto stato dominava interamente sulla vita pubblica, non più però a forza di turbolenze e barricate, come nei primi tempi della repubblica: specialmente nelle condizioni ordinarie non era affatto in grado d'impadronirsi immediatamente del potere, come avevano potuto farlo un tempo la nobiltà e la borghesia; e sotto il secondo impero aveva apparentemente, come gli altri tre stati, solo l'incombenza di ubbidire e lavorare. Ciò non ostante, il quarto stato costituiva in Francia la classe politica, ed era di continuo glorificato dalla burocrazia con panegirici adulatorii. «Dio ha primieramente rivelato il Salvatore a questa che è la classe più numerosa e più interessante della società», affermavano le circolari dei prefetti; e prima delle elezioni del 1857 il ministro Billault dichiarò ufficialmente: «i contadini e gli operai hanno creato l'impero, quelle moltitudini di uomini operosi, che formano l'ampia base del suffragio universale». Perciò il signor di Morny esortò gli elettori a mandare nei corpi legislativi, in luogo dei così detti uomini politici, commercianti presi dalla cerchia della propria professione; e il signor Granier secondo Cassagnac asserì anche più rudemente: «la classe agricola, nocciolo della nazione, domanda già: perché l'imperatore non governa solo?». Lo stesso Napoleone III designò continuamente il suo sistema come il _gouvernement du grand nombre_; e quando in una massima sovente ripetuta dichiarava che il suo governo riposava «sul popolo, fonte di ogni potere dello stato, sull'esercito, fonte di ogni forza, sulla religione, fonte di ogni giustizia», in sostanza con questa tricotomia egli esprimeva semplicemente l'unico concetto, che cotesto regime del quarto stato poggiava essenzialmente su quelle forze, le quali determinano la condotta del popolo. Donde appare del tutto rispondente la società stranamente mista della corte napoleonica, innocente assembramento di preti cortigiani, di demagoghi cortigiani, di soldati cortigiani. Consideriamo l'origine del sistema e la sua esistenza durata per lunghi anni, trascorsa impareggiabilmente più pacifica del governo senza posa osteggiato dei Borboni e degli Orléans, e distrutta in fine non da altro che dalle armi straniere, e non potremo disconoscere, che cotesta forma di stato si era sviluppata necessariamente dalle condizioni sociali del paese. La moltitudine arrivata al dominio, sensibile alle idee semplici e generali dell'eguaglianza e dell'autorità statale unica e onnipotente, inclina sempre all'eguale soggezione di tutti a un tiranno nazionale. Anche nelle condizioni incomparabilmente più sane dell'America del Nord, al tempo di Jackson e di Abramo Lincoln, quella tentazione passò rasente al popolo sovrano. Inoltre in Francia la moltitudine, non abituata a governarsi da sé, possiede, secondo che confessa il socialista Duveyrier, «in supremo grado il sentimento della gerarchia»; e sotto il fanatismo dell'eguaglianza ha così completamente smarrita l'intelligenza della libertà, che mille e mille in perfetta buona fede consentono in quella vanteria del bonapartismo ripetuta fino alla nausea: «il terzo Napoleone è il vero fondatore della libertà, giacché dal tempo del secondo impero più non esistono iloti politici». Il suffragio universale vigeva non più, come sotto il primo Napoleone, ridotto dalle liste elettorali, ma completo e in regolare attività. L'esigenza, manifestata un tempo dal parlamento del lavoro al palazzo del Lussemburgo, che da ora in avanti la superiorità della cultura dovesse tanto poco costituire un diritto quanto la superiorità della forza muscolare, aveva ottenuto completa effettuazione. Il suffragio universale formava la base del nuovo diritto pubblico ed entrava in vigore in ogni elezione, in ogni cambiamento dei principii fondamentali della costituzione: gettò in breve tempo radici tanto salde, che nessun partito ha più pensato seriamente di levarlo. Nelle elezioni del 1863 parteciparono il 73,9 per cento, nei plebisciti che fondarono la costituzione e l'impero dal 75 all'84 per cento della popolazione adulta maschile. Abili strumenti del governo, come Thuillier, cavarono da tali dati la conclusione: «l'impero è la più grande e più felice democrazia, che il mondo ha mai vista coronata dalla gloria e dalla libertà»; ma lo storico, invece, per l'appunto in cotesta enorme partecipazione del popolo discerne la prova dello sconfinato potere del dispotismo democratico. Nei tempi di transizione dal medio evo all'età moderna la storia della maggior parte degli stati ha visto «re della povera gente» i quali, sorretti dalle moltitudini, fiaccarono l'oltracotanza dei piccoli signori. Il dispotismo neofrancese era di un'altra specie. Questo aveva trovato il diritto pubblico già formato da un pezzo, e si sentì chiamato a spianare con gli accorgimenti positivi di un'autorità statale onnipotente l'enorme contesa d'interessi della moderna economia democratica. Si propose, come dice Napoleone III, di «appagare l'attività di questa società anelante, irrequieta, esigente, che attende tutto dal governo»: il sistema, in altre parole, era un socialismo monarchico. Una volta Sainte-Beuve in senato compendiò molto giustamente il cómpito del _socialisme autoritaire_, di cui noi abbiamo già rintracciato i primi vestigi nei primi scritti di Luigi Bonaparte: «esso vuol prendere la parte buona delle idee socialistiche, per strapparla alla rivoluzione, e inserirla nell'ordine regolare della società». Non già semplicemente l'indifferenza alle questioni costituzionali propria di tutti i socialisti, bensì la coscienza dell'affinità elettiva condusse nel campo di Bonaparte molti, come i Bixio, i Chevalier, i Duveyrier, che un tempo stavano accosto accosto alle scuole dei socialisti. Anche quei socialisti che per anni dominarono il mondo borsistico del bonapartismo, i due Pereire e i loro compagni, non avevano minimamente abiurato la loro fede. Ogni regime dispotico è affetto da un tratto mistico: il misticismo del secondo impero si manifestò nella devozione religiosa con cui era celebrata la maestà della volontà popolare, la sagra dell'_homme-peuple_. Non occorre dire che cotesta sagra era immediatamente caduca, non appena la volontà popolare cangiasse. Certo, il bonapartismo non nutriva pregiudizi, né pretendeva, come anni prima i Borboni, di cancellare il passato, ma si sentiva legato di solidarietà con tutti i governi precedenti: celebrava le idee dell'89 come il principio fondamentale, la fiamma vitale della sua costituzione, e professava con labbro eloquente gl'ideali di libertà, anche se poi col fatto la sopprimeva. L'imperatore asserì: «fedele alla mia origine, io non considero le prerogative della corona come un pegno sacro e intangibile, né come un'eredità dei miei padri, che io deva anzi tutto trasmettere intatto a mio figlio». Ma se il bonapartismo non soffriva di fisime legittimiste, pativa però del morbo ereditario della tirannide, dell'odio a ogni salda limitazione legale del potere dello stato. L'imperatore poteva garantire concessioni al liberalismo, ma l'eletto del popolo non poteva mai riconoscere una sincera reciprocità di diritti e di doveri fra sé e il corpo legislativo, non mai una vera costituzione. Certamente non era dato introdurre una legge se non mercé l'accordo dell'imperatore, del senato e del corpo legislativo; nondimeno soltanto l'imperatore emanava i decreti necessari all'esecuzione, sebbene la savia disposizione del primo Napoleone, che trasmetteva al senato la regolazione dei casi non previsti dalla costituzione, fosse passata anche al secondo impero. Ma siccome fuori dell'imperatore non esisteva alcun potere che fosse in grado di sistemare coteste difficili idee di diritto pubblico, seguiva in fatto, che tutti i grandi atti legislativi dell'impero emanavano soltanto dall'imperatore. Un decreto imperiale ordinò la successione al trono; un decreto fondò nel 1858 il Consiglio intimo, che era un collegio di personaggi fidati al quale l'imperatore esponeva a consultazione tutto ciò che aggradiva, e che in uno col Consiglio di stato incaricato di tutti i disegni di legge doveva secondo la costituzione formare «la ruota più importante della nostra nuova organizzazione». Un decreto imperiale concesse al corpo legislativo il diritto di mozione, un altro decreto gli ritolse cotesto diritto e gli accordò in risarcimento il diritto d'interpellare il governo. L'imperatore aveva facoltà di decretare sempre che volesse lo stato d'assedio ed era solo tenuto a ottenere suppletivamente la sanzione del senato. In breve, il formidabile dettame napoleonico _le pouvoir reprend ses droits_ poteva entrare in vigore ogni momento: da un istante all'altro tutte le classi dei cittadini dello stato potevano, come nel 1858, esser poste fuori della legge da una legge di sicurezza. La mano di ferro in guanti bianchi, cotesto rimedio gradito agli assolutisti pei nostri tempi malati, era col fatto divenuta il retaggio della nuova Francia. Solamente cinque capisaldi della costituzione non potevano abolirsi senza il consenso del popolo sovrano: la responsabilità del capo dello stato, la dipendenza dei ministri dal solo imperatore, il consiglio di stato consultivo, il corpo legislativo deliberante le leggi e il senato come _pouvoir ponderateur_. In altre parole, la limitazione del potere imperiale, il passaggio al sistema parlamentare era impossibile senza la sanzione della nazione: per contro l'imperatore era libero senz'altro di ampliare la propria potestà, eccetto questo, che non gli era lecito di abolire il corpo legislativo. Nello stesso modo come un tempo il primo Napoleone aveva detto: «il disegno costituzionale di Sieyès abbraccia solamente l'ombra; ma noi abbisogniamo della sostanza, ed io ho collocato cotesta sostanza nel governo», così anche al secondo bonapartismo era dato di vantarsi, che il potere esecutivo formava l'unica forza viva del suo diritto pubblico. È certo, però, che la costituzione del 1852 non ha condotto, come quella consolare, a un accrescimento sempre più soverchiante del dispotismo. L'imperatore ha spesso riconosciuto il bisogno di condizioni di maggiore libertà. Secondo l'assicurazione del duca di Morny, egli nel 1861 lamentava nel Consiglio privato la mancanza di pubblicità e di sindacato come il cancro del sistema; e nel febbraio del 1866 dichiarò al senato: «il mio governo non è stazionario, ma progredisce e vuole progredire». Nel 1865 fece esporre al pubblico i provvedimenti più importanti del suo governo nella compilazione _la Politique impériale_, con la ferma fiducia, che il giudizio pubblico non avrebbe disconosciuto le benemerenze del regime. Se non che la prima condizione della libertà politica, la sicurezza del diritto comune, la quale importa più delle singole concessioni al liberalismo, era onninamente impossibile nella Francia imperiale. Il secondo impero si serbò fino alla caduta come un dominio dispotico, e Napoleone III svelò nelle note parole del suo discorso del trono del 14 febbraio 1853 l'estrema ragione di cotesta situazione illegale: «la libertà non ha mai aiutato a fondare un edifizio politico duraturo, ma lo corona quando il tempo lo ha consolidato». Si motteggi pure la piatta balorda concezione dell'essenza della libertà, che si smaschera in questa mezza verità schiettamente napoleonica; ma la famigerata teoria del coronamento dell'edifizio non è del tutto assurda. Non si può rifiutare l'esempio, mille volte addotto dai bonapartisti, dello stato inglese. Anche l'Inghilterra cominciò a godere pienamente la libertà parlamentare, quando i pretendenti Stuardi più non erano pericolosi, e la casa di Hannover era minacciata seriamente solo in alcune parti separate del regno. In Francia, invece, i tre quarti delle energie popolari rimasero sistematicamente materia greggia pel governo dello stato, giacché tre partiti combatterono continuamente il quarto che era al potere. Giorno per giorno toccava al governo, come del resto a tutti i predecessori dal 1815, di lottare per la propria esistenza; e di cotesta sua posizione aveva coscienza viva, né credeva punto a un subitaneo adempimento della solenne profezia del discorso della corona: «le passioni inimiche, unico ostacolo all'espansione delle vostre libertà, andranno sommerse nell'immensità del suffragio universale». Di gran lunga più chiaramente era espressa la verace opinione dell'imperatore in quel luogo della _Vie de César_: «i partiti politici non disarmano mai, nemmeno davanti alla gloria nazionale». Perciò l'impero finì sempre col ripiombare da capo nelle pavide dottrine della tirannide: se il paese rispondeva nelle elezioni secondo gl'intendimenti del governo, la nazione era contenta e non abbisognava di riforme; se le elezioni riuscivano a favore dell'opposizione, i vecchi partiti erano tuttora vivi, e ogni concessione portava pericolo. Per sua propria confessione, il governo paventava più malanni da un abuso della libertà che da un abuso del potere, e non si faceva carpire mai un diritto definitivo. Con l'elevazione delle moltitudini l'imperatore niente altro temeva più, se non lo scontento delle moltitudini. Il grido _silence aux pauvres!_ che un tempo Lamennais aveva designato come la parola d'ordine della borghesia, valeva anche sotto Napoleone III, ma in un nuovo senso: tutto nella nuova Francia era lecito dire, salvo che non al popolo. Donde il terribile bavaglio del pensiero, dallo stesso primo imperatore appena raggravato, che dalle medesime moltitudini non era sentito immediatamente come una compressione, ma che pure per cagion loro veniva mantenuto fermo. Innegabilmente il bonapartismo si è tenuto lontano da «quel colpevole e imprevidente lasciar andare, che si adorna talvolta col nome di libertà». Il piccolo commercio dei libri offrì un grato campo alle sue cure paterne: nei primi due anni dell'impero già seimila volumi erano stati depennati come immorali dalle liste dei librai ambulanti. Anche il più modesto dei diritti politici, il diritto di petizione, era mozzo. Era permesso presentare petizioni soltanto al senato, che le lasciava sospese a suo libito: tra il corpo legislativo e le moltitudini doveva intercedere semplicemente l'assenza di ogni rapporto. Siccome il diritto delle riunioni politiche, che è legato al suffragio universale come l'àncora al bastimento, venne addirittura annullato dall'impero, può sembrarci strana, ponendovi mente, la rapidità e l'infallibilità con cui le nuove idee di opposizione al governo, affluendo tutti gl'ingegni alla capitale, si diffondevano mercé le libere conversazioni in tutto intero il ceto colto. Ma la disposizione delle persone colte era presa poco in considerazione dal bonapartismo. Anche gli operai potevano discutere tra loro delle proprie aspirazioni sociali. Ciò che bisognava impedire, era l'influenza delle persone colte sulle moltitudini: il profondo scontento degli uomini di pensiero non doveva a nessun patto permeare il quarto stato. Donde la distinzione profondamente accorta fatta dal ministro Pinard tra l'istinto innato di sociabilità e il diritto puramente relativo di riunione. Donde il fatto, che l'unione ginnastica tedesca di Parigi, grazie al favore della casa Rothschild, formò in Francia l'unica associazione che non fosse interamente estranea alle idee politiche; e la superba nazione, che aveva conquistato alla terraferma il diritto di associazione, era nell'anno 1866 talmente sprofondata al disotto delle sue speranze, che perfino i liberali non sapevano elevarsi oltre il desiderio, che dovessero permettersi le pubbliche riunioni almeno negli ultimi venti giorni prima delle elezioni! Che poi alla chetichella non si preparassero guai, lavorava la polizia segreta, la zelante discepola dei Maupas, dei Pietri, dei Lespinasse. Era in funzione anche un gabinetto nero, per quanto l'enorme aumento del movimento postale moderno permetteva le miserabili arti di un'età soggetta. Napoleone III nella sua entrata a Milano, acclamato freneticamente da un popolo a cui portava la libertà e seguito passo su passo da un nugolo di spie i cui ben noti ceffi di briganti italiani suscitavano il riso dei neolatini, ecco una scena, che presenta in piena luce il carattere di cotesta tirannide popolare. Per simili ragioni si spiega anche, come l'ineguaglianza del diritto rispetto ai prodotti sia durevoli che efimeri della stampa, che in uno stato non fondato sulla legge è affatto inevitabile, prevaricasse sotto l'impero oltre ogni misura. Secondo il signor Rouher le idee dell'89 stabiliscono solamente un diritto del singolo di pubblicare la propria opinione, non già un diritto di comunicazione collettiva. I libri, che la povera gente non legge, godono di una libertà di stampa quasi intera. Prévost-Paradol curò, come un tempo i nostri liberali sotto la censura di Karlsbad, di rendere suppletivamente note nei suoi libri le trattazioni che la polizia non gli aveva permesse nella rivista. Per le gazzette aveva vigore l'oracolo di Granier: la stampa inasprisce le controversie senza risolverle, il governo le risolve senza inasprirle. Un armamentario abbastanza soddisfacente per mansuefare la stampa era già predisposto nelle leggi della repubblica: l'imperatore, di soprassello, vi aggiunse nel febbraio 1852 anche l'ammonizione di polizia. In virtù di novantuno ammonizioni piovute nello spazio di quindici mesi sui giornali già da un pezzo intimiditi, il signor di Persigny produsse nella pubblica discussione «quella temperatura moderata nella quale, e soltanto in quella, prospera la libertà». Più importante pel sistema era l'altezza della tassa di bollo sui giornali: il bollo ne avviluppò molti tra le difficoltà finanziarie, li condusse a lerci rapporti con le potenze della borsa, e, soprattutto, precluse la stampa colta alle moltitudini. Il popolano poteva bene cavare dal piccolo _Moniteur_ poco costoso la convinzione dello splendore dell'impero, oppure corroborare la sua educazione morale sulla perfetta scimunitaggine e sull'oscenità del _Petit Journal_ e fogli affini di ciancerie e pettegolezzi. La stampa forestiera era assoggettata dopo, come prima, a una brutalità semplicemente russa: per nessuna qualsiasi via indiretta era dato che al popolo pervenisse notizia, come qualmente in qualche parte del mondo vivessero dei pazzi, i quali non tenevano l'impero come il più libero e il più felice stato del globo. Aggiungiamo, inoltre, una censura teatrale la cui meticolosità altamente comica richiamava sovente ai tempi del vecchio imperatore Franz, e conveniamo francamente, che il governo faceva per l'innocenza politica delle moltitudini ciò che il governo poteva. A questo senso d'incertezza, che impediva qualunque cambiamento serio del sistema, si accompagnava la macchia morale che bruttava il colpo di stato, e che poteva essere, per quanto dimenticata, perdonata non mai. Napoleone nella _Vie de César_ confessa, che il più grave cómpito di un governo sorto dalla violenza è quello di riconciliarsi gli uomini dabbene. Anche il 2 dicembre, non è dubbio, non fece che ricondurre una rivoluzione in pro del trono; mutò ben poco nei più importanti istituti dell'amministrazione, principalmente nello spirito: per l'uomo colto, che non può veramente vivere senza la libertà del pensiero, col fatto principiò con quel giorno una nuova età. Perciò perfino il moderatissimo Tocqueville non seppe risolversi a prestare il giuramento all'impero. L'accomodazione degli spiriti agili non offriva alcun compenso al profondo disgusto morale della nobiltà intellettuale della nazione. Se il vecchio Dupin ricevé un'alta carica dal bonapartismo perché l'infelice era già ridotto «a dover toccare le rendite dei suoi beni»; se il principe Napoleone, che il due dicembre nessuno riuscì a trovare, si affrettò, dopo la vittoria, a entrare nel campo del fortunato cugino; e via di questo passo all'infinito; potevano bene, questi uomini, consolarsi col sublime apoftegma di Dupin: «io ho sempre appartenuto alla Francia, non mai a un partito». Ma all'accorto autocrata certamente sorgeva spesso il dubbio, se erano davvero coteste le forze morali, su cui potesse reggersi un regime. Una volta un dignitario dell'impero proclamò: «Per le moltitudini come pel singolo vale la regola, che chi domanda e ottiene favore, si lega di gratitudine a chi glielo ha concesso. Questo impone il pubblico pudore». La verità di coteste parole, la cui sovrana alterigia di virtù richiama Guizot, doveva apparire evidente a ogni imparziale, ma difficilmente a una burocrazia, che già aveva visto a terra tanti troni. Burocrazia, d'altronde, la quale con tutta la sua solerzia di servizio covava però uno spirito di corpo affatto deciso: salita in alto in nome dell'«ordine», voleva serbarsi ceto dominante e perciò, dai prefetti fino alle guardie campestri, era reazionaria nell'anima. Anche il partito del governo, che col dolce appoggio dei prefetti era entrato nel corpo legislativo, era composto di fanatici dell'ordine. L'imperatore era la testa più libera del governo; nulladimeno, per tutto il tempo che la dinastia non fu riconosciuta senza riserva dai liberali, si vide costretto ad attuare le sue riforme per mezzo di uomini che aborrivano ogni progresso. In tal modo, da qualunque parte ci facciamo, noi ritorniamo alla conclusione, che l'impero doveva essere e rimanere un dispotismo democratico. La conseguenza di cotesta forma statale appare indubbia, alla prima occhiata. La piramide della vecchia amministrazione napoleonica, fatta col e pel dispotismo, piantata sull'idea dell'onnipotenza dello stato, trovò il suo vertice naturale nel despota eletto, che impiega in pro delle moltitudini il potere statale e che nei casi estremi è atteso dalla rivoluzione. Anche il Consiglio di stato, il numero dei cui membri fu notevolmente accresciuto, forma di nuovo, come sotto il primo imperatore, il capo e, nello stesso tempo, l'alta scuola dell'amministrazione. Protegge gl'impiegati dalla persecuzione giudiziaria, e discute i disegni di legge con tale minuziosità di formalismo, da far sembrare superfluo al grosso pubblico ogni altro dibattito in parlamento. L'enorme aumento degl'impiegati e l'elevazione degli stipendi legava la burocrazia al sistema, e l'introduzione dei _cadres de non-activité_ facilitò l'allontanamento, senza troppe cerimonie, dei caratteri incomodi. Anche l'indipendenza della magistratura sembra a stento tuttora un riparo contro l'assolutismo. La promozione dei giudici avviene fondamentalmente come ricompensa di sentimenti dinastici; l'introduzione dei membri del tribunale nella commissione giudiziaria non avviene più, come un tempo, per opera del presidente del tribunale e dei consiglieri anziani, ma per opera del presidente e del procuratore generale. Accanto a cotesta gerarchia delle autorità vige, come prudente concessione alle idee degli anni trascorsi, il _système consultatif_, la, così detta da Persigny, gerarchia della libertà, vale a dire il corpo legislativo, i consigli generali, distrettuali e comunali, che non hanno parte effettiva nel potere statale, ma sono autorizzati a manifestare di tempo in tempo il proprio consiglio alla burocrazia in nome dei possidenti. Ora, se riesce di mantenere la buona disposizione dell'esercito mercé guerre brevi e fortunate e quella delle moltitudini coi giochi e coi lavori pubblici, e di saziare fino al collo la gente istruita con l'ambiziosa servilità della _fonctionnomanie_ e della bizza dell'oro, ne vien fuori una specie di stato affatto destituito di ogni contenuto morale, ma benissimo idoneo a serbare l'ordine e il lavoro all'interno e la potenza statale all'estero: che è, come dire, una riproduzione moderna dell'impero bizantino. Anche lì l'imperatore, una volta riconosciuto dai partiti del circo, poteva contare sopra un governo passabilmente tranquillo. Una rigida burocrazia attirava a sé tutti gl'ingegni, assicurava allo stato un'esistenza millenaria, e un movimento attivissimo alla società. Un esercito tecnicamente eccellente riportò per secoli trionfi sugli Ostrogoti e i Vandali, sui Cretesi e i Siri, sugli Armeni e i Bulgari; e se prestiamo fede a Carlyle e ad altri forti intelletti dei nostri tempi, gl'ideali di libertà del nostro secolo non sono in generale da considerarsi altrimenti, che come una specie di rosolia della modernità. Negli anni fiduciosi del suo dominio Napoleone III ha certamente creduto all'immutabilità delle idee fondamentali della sua nuova costituzione consolare e non ha sognato nemmeno un sistema parlamentare; poiché i più astiosi attacchi dei suoi vecchi scritti movevano precisamente contro cotesta forma statale, e anche quando fu sul trono non risparmiò il suo dispregio a coteste «singolari dottrine dei teorici, cotesto sistema supergeniale, coteste vuote astrazioni». In fine gli agenti dell'imperatore zelarono ad ostentare nei loro discorsi uno sprezzo sconfinato contro il parlamentarismo. Perciò Saint-Arnaud ardeva di sdegno contro la vecchia carreggiata fangosa sulla quale si cade miserabilmente, Baroche contro gli scrupoli pedanteschi dei giuristi costituzionali, Troplong contro il congegno impacciante e forviante della macchina parlamentare. Persigny e il principe Napoleone si rifacevano eternamente al vecchio articolo di fede del bonapartismo, che il sistema parlamentare è oligarchico, che è pernicioso al bene dei molti ed è lusinghiero solo per la vanità dei singoli. E il signor di Morny per l'appunto lamentò, pare impossibile, la sostanziale teatralità dei dibattiti parlamentari: bizzarro rimprovero sulla bocca del bonapartismo, che nelle arti del ciarlatanismo non ha mai trovato il suo maestro. Tale avversione, nata dall'istinto del dispotismo, venne cresciuta e pasciuta dall'inquietante ricordo degli Orléans. I quali erano pel secondo imperatore ciò che i Borboni erano stati pel primo: un oggetto di sollecitudine e di persecuzione incessanti. Noi non rimproveriamo l'invocata confisca dei beni della Casa, perché chi conosce la storia del demanio francese non può negare che questo provvedimento, per quanto esoso possa parere, risponde pienamente alle tradizioni della corona. Ma le maligne allusioni e le fiancate a danno della monarchia di luglio, che ricorrono di continuo nei discorsi dell'imperatore, attestano l'implacabile rancore del carcerato di Ham. Quanto poco da principe fu il discorso del presidente nel castello di Amboise, allorché, rilasciando Abdelkader prigioniero, paragonò la sua propria magnanimità con la tapinità del caduto governo! Capitava, anzi, al livoroso uomo di smarrire il decoro, come pensava agli Orléans: quando annunziò il proprio fidanzamento alle alte corporazioni dello stato, non seppe inibirsi di motteggiare sulla piccola principessa mecklemburghese, di cui l'erede della corona di Luigi Filippo si era dovuto contentare. E quando il duca d'Aumale dispettò il principe Napoleone con la sua mordace lettera sulla storia di Francia, immediatamente fu ordinata la soppressione generale di tutti gli scritti della cacciata dinastia: ordinata dallo stesso príncipe, che un tempo nelle carceri della monarchia di luglio aveva goduto piena libertà di stampa. Di un tale astio contro il regno di Luigi Filippo fece testimonianza anche la costituzione dell'impero: nella quale le idee dei tempi parlamentari sono cancellate fino alle ultime vestigia, e di una rappresentanza popolare vi si può parlare solamente in senso figurato. Anche noi tedeschi conosciamo gli abusi delle autorità nella elezioni politiche; pure ci è dato affermare arditamente, che, in forza dell'indipendenza dei nostri comuni e dell'educazione delle nostre moltitudini, i casi più vergognosi della corruzione elettorale tedesca, arrivano a stento agli esempi dei tempi di Guizot. Era riserbato al bonapartismo di oscurare tutti i predecessori, e di illustrare così terribilmente alla democrazia l'effetto a due tagli del suffragio universale, che il ministro repubblicano Carnot dovè confessare: «il suffragio universale senza l'educazione del popolo è un pericolo, senza libertà è una menzogna». La lode della sincerità, che i _satisfaits_ amavano tributare al sistema elettorale del bonapartismo, col fatto era ben fondata. «Il tempo dei mezzi meschini, dei mezzi segreti è passato», disse il ministro Persigny nella sua prima circolare elettorale del febbraio 1852. «Quale imbarazzo per gli elettori, se il governo non designasse egli stesso gli uomini di sua fiducia!» e, aggiungevano ufficiosamente i prefetti, «non rispondendo alla dignità del governo il fare qualcosa a mezzo, esso combatterà i candidati contrari». In ogni collegio fu presentato un candidato ufficiale. Ogni altro candidato era _desavoué d'avance_. Giacché, o era un avversario, e sarebbe stata una folle speranza presumere di menare a fine anche adesso, sotto l'imperatore responsabile, propositi ostili al governo; o era un amico, e allora non era lecito, in grazia di un meschino interesse personale, porre a cimento il pubblico bene! Si arrivò a combattere i candidati bonapartisti che non si erano cattivato l'appoggio dei prefetti: chi doveva il proprio stallo unicamente a sé stesso, poteva cadere nel vizio dell'indipendenza. Lo strisciamento del così detto partito illuminato governativo divenne a poco a poco tanto scandaloso, che una volta il signor Rouher ne fu indotto a dichiarare compiacentemente: «noi riconosciamo al partito governativo il diritto di correggere i nostri errori quando abbiamo torto». Anche il segreto non offriva alcuna garanzia alla libertà del voto. La votazione procedeva per comune, e i piccoli comuni della campagna ubbidivano infallibilmente agli ordini del rispettivo sindaco, il cui zelo ufficiale si era vie più rinfervorato da quando al signor di Persigny era venuta la felice idea di aprire anche ai sindaci villerecci la speranza fino allora preclusa del nastro rosso. Nei primi anni l'imperatore contò tanto fermamente sull'influenza dei suoi funzionari, che il ministro Billault vietò ai sindaci di comparire personalmente nella votazione comunale. I collegi erano rimaneggiati a placito del governo; e nella formazione delle liste elettorali la burocrazia mestava con libertà sovrana, di modo che la popolazione di Parigi incommensurabilmente salita contava nel 1863 meno elettori di sei anni avanti. E da quando, nella seconda elezione dell'impero, alcuni che avevano rifiutato il giuramento erano riusciti a farsi eleggere, ogni candidato era tenuto a prestare in anticipazione il giuramento allo statuto. I comitati elettorali caddero sotto la proibizione del _code Napoléon_; la libertà del voto esige, come dichiara ufficialmente il signor Thullier nel 1865, che gli elettori non siano «terrorizzati» dai comitati. Un caso grazioso generalmente disponeva, che la mattina delle elezioni pubblici affissi sulle cantonate riferissero le nuove ferrovie e canali che lo stato si proponeva di donare al dipartimento. A questa corruzione elettorale dall'alto si sposò a poco a poco un sistema di corruzione privata tale, che quasi si trattasse di accumulare nell'impero tutte le magagne del parlamentarismo inglese e dell'antico parlamentarismo francese. Le spese elettorali, che, per altro, data la grande estensione dei collegi di provincia, erano considerevoli per gli stessi candidati ufficiali a cui lo stato alleviava una parte del dispendio, erano quasi incomportabili agli sprovvisti di una fortuna, specialmente da quando i candidati presero l'uso di promettere al corpo elettorale opere di pubblica utilità, di costruire monumenti, fontane, e via dicendo. Un corpo legislativo nato da siffatta origine non doveva conseguentemente esser padrone in casa propria. L'imperatore nominava i presidenti e i questori; e siccome notoriamente in Francia anche il presidente del tribunale si crede in dovere di militare in un partito, i presidenti del parlamento imperiale esercitavano un «terrorismo» sfacciato contro i loro avversari politici. Un tratto magistrale del dispotismo democratico era anche l'alta indennità assegnata ai deputati. In Europa la Francia aveva la rappresentanza popolare più costosa: il bilancio delle due camere, che sotto Luigi Filippo ammontava a 2,2 milioni, salì nell'impero a 12 milioni. Questo andamento, che sembra essere sfuggito alla riflessione dei nostri tedeschi fanatici della dieta, risponde, come dice la legge, «ai fondamenti democratici della nostra costituzione», alimenta l'indolenza verso i doveri civili gratuiti, favorita conseguentemente dallo stato burocratico, e abbassa indubitabilmente l'autorità morale della rappresentanza popolare. L'ineleggibilità degl'impiegati parve una concessione al liberalismo, giacché non era a sperare da un impiegato napoleonico una condotta appena appena indipendente nel corpo legislativo; solo che in cotesto stato burocratico si veniva a sottrarre al parlamento, insieme con la burocrazia, anche la competenza tecnica: la grande maggioranza della camera era composta di dilettanti. Tuttavia il postulato più congruente della costituzione sul corpo legislativo era il prescritto, che la stampa dovesse pubblicare semplicemente un resoconto ufficiale dell'andamento delle sedute. In tal modo veniva effettivamente espresso senza equivoco il carattere segreto del parlamento e il volere del governo di non permettere mai il rafforzamento dell'assemblea. Il corpo legislativo approva o respinge i disegni di legge in blocco; quanto alle proposte di emendamenti «che tanto spesso turbano l'economia di una legge», ne è permessa la semplice consultazione nel caso che il consiglio di stato le abbia precedentemente dichiarate ammissibili. Il principio della dipendenza del ministro esclusivamente dall'imperatore era mantenuto nella costituzione con tale fiscalismo, che solamente ai membri del consiglio di stato, e non già ai ministri come tali, era consentito di rappresentare il governo davanti al corpo legislativo. La proposta di una provvisione al famigerato conte Palikao, condotta poi a fine sotto altra forma, e l'insensato disegno di un ampio diboscamento furono per lunghi anni i due soli notevoli abbozzi di legge che vennero ritirati davanti all'opposizione dei deputati. Nei casi dubbi la presunzione legittima parlava naturalmente contro il corpo legislativo; e siccome il solo imperatore era autorizzato alla conclusione dei trattati di commercio, seguiva che anche la radicale trasformazione delle tariffe doganali era condotta esclusivamente dalla corona. Non meno deplorando era il procedimento rispetto ai diritti finanziari della camera. Certo, avevano fatto presto a passare i giorni baldanzosi della vittoria, quando il ministro Bineau era al caso d'impiantare l'innocente teoria, che la rappresentanza popolare determina la somma da erogarsi per l'amministrazione dello stato, ma che sull'impiego nei singoli capitoli decide esclusivamente il governo. Ma, anche dopo estesi alquanto i diritti del corpo legislativo, permanevano tuttora cinque bilanci, il _budget général, extraordinaire, supplémentaire, rectificatif_ e il _budget de l'amortissement_, che potevano tutti pubblicarsi in forma provvisoria o definitiva. I bilanci provvisori abbisognavano di tre, perfino di cinque anni, per arrivare alla forma definitiva! Di continuo giacevano contemporaneamente tre o quattro bilanci annuali non ancora chiusi. Il governo godeva della facoltà, abusata senza riguardo, dei _virements_, cioè della distrazione dei fondi approvati ad altri capitoli, entro le 59 sezioni del bilancio. A farla breve, davanti a un sistema finanziario talmente caotico, che la vera situazione risultava di rado chiara perfino all'occhio conoscitore di Achille Fould, ogni sindacato parlamentare efficace si arrestava muto. Il senato napoleonico era anche più nullo del corpo legislativo. Una camera alta, che riunisce in sé competenza e indipendenza, e che poi in cotesta società democratica viene fuori dalle elezioni fatte solamente dai consigli generali dei dipartimenti; ecco, è un'idea, che fu molto discussa dai partiti liberali. L'imperatore preferì la nomina fatta esclusivamente dalla corona. Il senato formò il ritrovo dei dignitari e dei bigotti dell'impero, e, soprattutto, l'ospizio di tutti gli strumenti logori che l'imperatore buttava da parte. A ogni modo le discussioni del senato, giusta il desiderio del fondatore, non erano nemmeno più, come quelle della camera dei pari sotto gli Orléans, «meramente un pallido riflesso dei dibattiti dell'altra camera»; esse significavano puro niente, e solo di tanto in tanto attraevano un'attenzione fugace, quando il fanatismo dell'ordine si sfogava tra questi beniamini dell'impero in scenate veementi. Il senato era «il custode del patto fondamentale della nazione», e vigilava gelosamente sui propri diritti. Respinse con indignazione una istanza che perorava la presentazione delle petizioni anche al corpo legislativo, e nel 1865 proibì fuori del senato qualsiasi discussione che mirasse a mutamento o critica della costituzione. Si mostrò più tollerante verso l'alto. La voce di un solo senatore, quella del maresciallo Mac-Mahon, si levò avverso la legge di sicurezza del 1858. I decreti imperiali, che alteravano la costituzione, furono sempre accettati con contrizione dal custode del patto fondamentale, ma sollecitamente, senza proteste. Del suo diritto d'iniziativa, per quanto è a nostra notizia, il senato ha fatto uso soltanto due volte: quando stese una relazione sui trovatelli e quando discusse il primo libro di un _code rural_. Tale modestia rispondeva ai buoni costumi burocratici dello stato, ed ebbe anche il suo premio: secondo la costituzione il capo dello stato aveva facoltà di guiderdonare della loro buona condotta i singoli senatori; e pochi anni dopo tutti i senatori vennero stipendiati. I prodotti parlamentari del bonapartismo erano con calcolo prudente diretti a questo: che non dovessero mai costituire una forza. Donde la ferrea conseguenza che l'edifizio statale era puramente un'apparenza. La profonda contraddizione intima, che già da due generazioni compenetrava lo stato francese, non fu risoluta in alcun modo nemmeno dall'impero. Se l'avidità e l'ambizione nazionale dei francesi favorivano il dispotismo, nulladimeno anche durante quel tempo di stanchezza sopravvissero in questo popolo altamente dotato molte forze ideali, intese a forme più libere di stato. La nazione sentiva sempre il bisogno di essere governata da un'autorità ferrea, e, insieme, di assalire il governo. Se il sistema parlamentare era una falsità su questo suolo e abusava del dispotismo amministrativo ai fini dei partiti, anche l'impero però non era meno una falsità. I ricordi dei grandi giorni della Rivoluzione e del tempo in cui l'Europa tendeva l'orecchio in ascolto alla tribuna del _Palais Bourbon_, duravano indelebili: la forza di queste tradizioni impediva, che la dileggiata «gerarchia della libertà» diventasse un innocuo accessorio dello stato. La necessità degli ordinamenti costituzionali circa il 1860 picchiava adagio alle porte, ma percettibilmente, anche in Russia; le colpe della reazione europea avevano rafforzato tra i popoli il sentimento della solidarietà. La civiltà del secolo sforzò dovunque il dispotismo a mettersi la maschera liberale, e costrinse i bonapartisti a celebrare l'imperatore soldato come un eroe della libertà e della pace. Diede anzi un'importanza crescente al pietoso corpo legislativo dell'impero. Alla pace sepolcrale delle elezioni del 1852 seguì la veemente lotta elettorale del 1857. Invano il discorso del trono vantò, che solamente qualche contrasto di opinione in qualche luogo aveva turbato il contento generale. Invano la stampa ufficiale cercò di dipingere come traditori e cospiratori i cinque uomini di coraggio, i quali, soli nel corpo legislativo, avevano osato per lo spazio di sei anni di opporsi al governo. A ogni modo, la coorte serrata dei deputati ligi era rimasta tuttora immune dal contagio. «Mi parli fuori, Morny ci guarda», disse perplesso un deputato di saldo carattere all'Ollivier, quando costui, che era uno dei cinque, si mise a parlargli nell'aula. Ma la società colta incominciò a plaudire ai discorsi dei cinque; il «frondeggiare» e l'opporsi tornò in moda. L'imperatore e il suo Morny seguivano con cautela il cambiamento di umore del tempo; pensavano di tenere a segno l'opposizione con concessioni opportune, senza rinunziare a nessun diritto sostanziale dell'_homme-peuple_. Quando già, dopo la campagna d'Italia, era stata concessa un'amnistia generale, apparve di botto, completamente inaspettato, e, in verità, non punto strappato da un movimento prepotente dello spirito nazionale, ma liberamente emanato dalla decisione spontanea dell'imperatore, il decreto del 24 novembre 1860, _le décret sauveur_, come lo chiamò il marchese di Boissy, che permetteva la pubblicità delle sedute parlamentari. Così l'essenza del corpo legislativo venne mutata d'un colpo; di un gran consiglio generale diventò una forma di rappresentanza popolare. Subito, però, il nuovo acquisto del diritto d'interpellanza fece anche manifesta l'inconsistenza di un parlamento che doveva soddisfare la nazione senza limitare il governo. La discussione delle interpellanze eccitava il popolo con la sua rettorica veemente e, in fondo, a vuoto, tormentava l'ascoltatore intelligente con l'eterna ripetizione delle idee elementari ormai trite e ritrite della dottrina costituzionale; e il rendimento pratico si riduceva a ritardare di un mese gli affari. Con quel decreto del novembre era arrivato per lo stato di Napoleone III il momento, che per ogni governo malcerto è il più critico: l'istante che comincia a riformarsi. Ma questo istante, essendo la forza politica della nazione presso che spenta, durò dieci anni interi. L'opposizione prese vigore lentamente; riportò alcuni successi nelle elezioni del 1863 e più nelle elezioni suppletive e nella ricostituzione dei consigli comunali: nella potente capitale si determinò una importante maggioranza contro il governo. Era venuta su una nuova generazione, la cui coscienza non era compenetrata dalla memoria dei terrori dei giorni di febbraio; e il despota doveva essere assalito sovente dal sinistro pensiero: che cosa accade ora, se le moltitudini, abituate come sono a addebitare all'imperatore ogni calamità, anche il cattivo raccolto e la penuria, in un momento di strettezze economiche fanno causa comune coi ceti colti, covanti già da un pezzo il livore? Principiò, come Morny, a tenere per inevitabile il ravvicinamento al sistema parlamentare. Ogni anno apportò nuovi diritti al corpo legislativo: visione degli atti della diplomazia, approvazione dei crediti supplementari, e via di seguito; finché la tribuna, che era uno spauracchio pel corretto bonapartismo, fu ripristinata nel bello emiciclo del Palazzo Borbone. Ciascuno di questi esperimenti di saggio non era per l'opinione pubblica invadente che una semplice leva per sollevare nuove esigenze, fino a quando non si conchiuse col domandare chiaro e netto il parlamentarismo «inglese». Occorre tuttora la prova, che le classi colte erano prese da un inganno enorme? Un solo sguardo all'importanza delle moltitudini insegna, che quei desiderii dottrinari non toccavano affatto il punto cancrenoso del nuovo stato francese, e che la loro realizzazione non avrebbe, senz'alcun dubbio, contentato per nulla la classe politicamente più influente. Ciò che questo stato esigeva, era la limitazione del potere statale ottenuta mercè una trasformazione fondamentale dell'amministrazione. Su questo nuovo basamento poteva sorgere forse, col progredire degli anni, un governo parlamentare. Invece, la stampa ricantava l'antica canzone della divisione dei poteri; domandava, senza confessarlo a sé stessa lealmente, il puro ritorno a un sistema caduto sotto le proprie colpe, il ritorno a quel burocratico-parlamentare dispotismo di partito, che per tanto tempo era stato per la Francia una calamità. Tutto ciò che chiedevano i dottrinari dello _empire libéral_, la Francia lo aveva già posseduto con l'atto addizionale dei cento giorni; e sotto il secondo impero come sotto il primo era altrettanto inconcepibile, che l'eletto del popolo, il dominatore assoluto dell'amministrazione e dell'esercito, che rappresentava la generalità della nazione, dovesse ubbidire lealmente a una maggioranza parlamentare, che aveva dietro di sé soltanto una parte del popolo. Ma chi, come l'autore di queste linee, insisté allora sull'eretica affermazione, che «il bonapartismo parlamentare fosse la menzogna di tutte le menzogne», si vide precipuamente spacciato dai liberali con l'affermazione, che tutto stava che il parlamentarismo principiasse con l'esistere, perché poi l'indipendenza dell'amministrazione si sarebbe fatta da sé! Tanto era cieca tuttora la fede nelle forze meravigliose del vecchio modello costituzionale! Ma si era poi prodotta nella vita dei partiti una salutare chiarezza, la quale giustificasse l'espettativa, che la nazione sarebbe per comportare più felicemente che non negli anni trascorsi l'enorme contraddizione tra l'amministrazione dispotica e il regime costituzionale? La risposta esprime un profondo rimprovero. I vecchi partiti erano consunti, i nuovi non ancora nati. La monarchia dei Borboni e degli Orléans formò i repubblicani, la repubblica tirò su una generazione di reazionari, e sotto l'impero lo spirito di contraddizione creò in verità molti scontenti, ma non punto un forte partito liberale con propositi precisi e tenaci. Il dominio dei legittimisti nella nuova Francia era impossibile; se pure ci è dato, d'altronde, servirci di questo pericoloso aggettivo a proposito delle vicende incalcolabili della nazione francese. Gli orleanisti avevano imparato poco. Non i soli espatriati si divoravano in un'odio sterile, come quel Dunoyer, un tempo tanto sennato, il quale ora nella sua opera sul secondo impero non ha saputo esprimere altro che corruccio e assurdi e l'eterno _quiconque est loup agisse en loup_. Anche quelli rimasti a casa non si erano emancipati dalle idee dei già da un pezzo trascorsi dì: la responsabilità ministeriale e il contegno ostile verso la Germania costituivano tuttora gli articoli capitali della loro fede politica. I repubblicani moderati contavano ancora, come venti anni avanti, molti nomi altamente rispettabili e virili, ma non erano spalleggiati dalle moltitudini, e vivevano anch'essi meno del novello pensiero che dell'odio contro il due dicembre, «che non è una data, ma un delitto». Dei radicali, alcuni erano convolati al principe rosso, altri si ubbriacavano di fantasticherie sterminatrici di ogni stato, di ogni ordine sociale. Quale abisso di dissolutezza blasfematrice si aprì a Liegi, quando nel congresso degli studenti il leone del Quartiere latino fece udire il suo ruggito! E qual furore frenetico e bavoso nei fogli volanti di quella letteratura profuga, che empiva le vetrine dei librai di Ginevra e di Bruxelles! I _pamphlets_ dei rossi sulla moglie di Cesare testimoniavano l'antica e torva affinità tra la sete di sangue e la lussuria. Le minacce dei Boichot e dei Pyat contro il Soulouque bianco, che una volta bisognava pure decidersi a rinchiudere in una gabbia accanto alle belve nel _Jardin des Plantes_, gl'immondi vituperii dei profughi contro la regina d'Inghilterra quale alleata di Napoleone, tutto ciò mostrava la pertinacia in nulla allentata del tradizionale atroce odio di partito, che di necessità impediva la franca riconciliazione delle persone assennate. Dovunque guardiamo, non scorgiamo mai in nessun luogo uno scopo conseguibile, in nessun luogo nemmeno un nuovo ideale falso, che fosse propugnato da un partito potente e conscio. Dovunque una cupa e confusa inquietudine, che permetteva ai più tristi duellatori, a un Rogeard e a un Rochefort, di rappresentare una parte, anche se non sapessero scrivere meglio che perversamente e impudentemente. Si raccolse a poco a poco sotto la guida dell'Ollivier un nuovo partito del centro, liberale insieme e dinastico, il _tiers parti_: chi però conosceva l'agile chiacchieratore, dubitava seriamente, se era a cercare proprio lì la forza morale, che avrebbe ringiovanito uno stato ammalazzato. Si comprende l'acre sprezzo del despota pei suoi nemici, pel vino spumante di quei discorsi di opposizione. I discorsi di tre ore l'uno, con cui il vecchio Thiers soleva rapire il corpo legislativo, colpivano a segno con alcune punte acute e maligne le debolezze e i falli del bonapartismo; ma tradivano a ogni passo la sterilità intellettuale del vegliardo che si disfaceva in una vanità cavillante. I liberali si erano alla fine convertiti alla regola casalinga di prudenza, che la migliore costituzione è quella esistente, sempre che si sappia farne buon uso: fin dal 1863 erano rientrati nell'agone della politica pratica, e una parte dei loro pubblicisti difendeva già le idee avveniristiche dell'indipendenza dell'amministrazione. Solo che queste idee non costituivano un vasto programma di partito pel pubblico bene, non erano approfondite e comprese nella loro importanza vera. La _France nouvelle_ di Prévost-Paradol, il celebre programma del liberalismo, non conteneva un sol capitolo sull'amministrazione dei comuni. In quel parlamento pieno di lamentazioni furono manifestate nuove idee quasi soltanto dal banco dei ministri: davanti alle teorie liberoscambiste del potente «viceimperatore» Rouher, gli eroi dell'opposizione figuravano la più parte da reazionari. Non pareva verosimile, che nei lunghi e silenziosi anni di riflessione su sé stessa la nazione non avesse proprio imparato nulla delle virtù della disciplina parlamentare, del tranquillo predominio di sé, del contegno virile! Ancora e sempre l'antico uzzolo fanciullesco degli effetti teatrali, l'antica atroce ferinità dell'odio di partito. Nessuna seduta del corpo legislativo soddisfaceva i parigini _blasés_, se non era drogata da un _incident_, da una scenata di maldicenza e furore di parte. Dopo che i legislatori con la faccia in fiamme e con un selvaggio dimenamento di braccia si erano sfogati per un pezzo nel palleggio dei vituperii, il presidente aveva cura di levarsi solennemente e di pronunziare quella parola tragicomica che, inconcepibile nel parlamento inglese o nel tedesco, divenne nel francese una espressione addirittura rituale: «Signori, l'incidente è chiuso!». Presto si sarebbe provato, se i piccanti incidenti erano in grado di allevare una generazione di statisti parlamentari! Donde derivò, in fondo, l'evoluzione liberale, che alienò a mano a mano dal dispotismo democratico le classi abbienti finora soddisfatte? Da tre fonti. Dalla onesta indignazione della nessuna libertà dello stato; dalla brama inarrestabile di novità; e finalmente e principalmente da quella gelosia per la Germania, che passava come un filo rosso attraverso tutte le fluttuazioni dello spirito pubblico. Già da quando fu fondato lo stato tedesco settentrionale, da quando l'idolo del _prestige_ francese principiò a vacillare, la maggioranza della nazione cominciò a sentire vivamente l'onta del dispotismo; ma questo nuovo sentimento liberale, proprio perché non era stato punto acquistato e travagliato con una faticosa elaborazione, non si manifestò veramente stabile e di tempra provata. Solo dopo la battaglia di Königgrätz l'imperatore si vide costretto a una seconda riforma decisiva. Il 19 gennaio 1867 scrisse a Rouher quella lettera teatrale, che annunziava solennemente il «coronamento dell'edifizio». La discussione delle _adresses_ venne, per desiderio di Morny moribondo, sostituita dal diritto d'interpellanza. Ma anche questa savia riforma ancora una volta svelava semplicemente l'assurdità del sistema. Il ministro di stato, che dopo il decreto del novembre aveva parlato pei suoi silenti colleghi come un difensore platonico, adesso in verità era il capo del ministero. Il viceimperatore Rouher rappresentava la politica del governo all'ingrande, ogni ministro difendeva, in forza di uno speciale incarico, l'amministrazione del proprio ministero. Da ciò sorse inevitabilmente la necessità di una politica comune del ministero, affinché non si rinnovassero anche più spiacevolmente i casi, già troppe volte avvenuti, di stridente contraddizione tra i vari ministri. Per giunta, lo stesso despota democratico responsabile doveva costantemente respingere ogni solidarietà tra i ministri. Di più: quanto maggiormente i dibattiti prendevano sostanza di contenuto e di vita, altrettanto risultava sensibile, che la finzione costituzionale dell'infallibilità del re non è altro, che una circonlocuzione dell'idea «dominio della legge». Siccome non è concepibile in un parlamento l'appello alla ribellione, dovevano dunque esservi funzionari responsabili che rispondessero a ogni pubblica lagnanza. Perciò la tirannide responsabile era incompatibile con la libertà di parola di una seria discussione parlamentare; ogni rimprovero, in tal caso, andava a colpire l'imperatore, scoteva l'autorità della corona, oppure, come va da sé, era soffocato dal campanello presidenziale. Invecchiando, il despota si difendeva ancora: ricordò novellamente alla nazione «i titoli legittimi dei Bonaparte», le menzionò novellamente i potenti plebisciti, che avevano fondato con sei grandi votazioni la potestà della sua casa. Ma la fede nell'avvenire dei Bonaparte era andata a fondo, da quando l'imperatore si era attaccato un'altra volta a quella Chiesa avida di dominazione, la quale troppo bene sapeva, che il bonapartismo aveva assai più bisogno del proprio aiuto che non essa della sua protezione. I bonapartisti parlavano ancora con baldanza, cercavano anzi di assumere il tono affabile della monarchia patriarcale. Nelle _Memorie_ di Véron, negli _Annales de la paix_ di Guettrot e simiglianti libri, parlava un'affettuosità fanciullesca, che ricordava il _Libretto del re Giovanni di Sassonia_ e le operette affini prodotte dalla servilità dei piccoli stati tedeschi. Ma il tono era ricercato e affettato: il parallelo, di moda in altri tempi, tra Augusto e il terzo Napoleone cominciava a sollevare nel mondo i fischi. La stampa dichiarava sempre più animosamente, tra il plauso degli stranieri, che solo il parlamentarismo, l'intero e vero parlamentarismo, poteva salvare la calante Casa imperiale. Sonava sempre più alto l'antico aforismo _la France est centre gauche_, laddove un prossimo avvenire doveva far manifesto, che l'ebbrezza di un successo guerresco è a questo popolo sempre più cara di qualsiasi ideale politico. L'imperatore non poteva più tenere con mano ferma, una volta allentate, le redini del governo. Una ricca concessione seguì l'altra. Nel marzo del 1868 apparve la legge sulla stampa. Il giudizio del tribunale della polizia dei costumi venne a sostituire l'arbitrio delle ammonizioni di polizia; e con l'abbassamento della tassa del bollo i giornali acquistarono la possibilità dell'assetto finanziario e dell'indipendenza. Certo, la penetrazione della stampa colta nel quarto stato, che era ciò che più importava, non era punto facilitata dalla lieve riduzione del bollo. Le persone colte non vedevano di buon occhio la fondazione di giornali locali indipendenti, in grado di sorvegliare per filo e per segno i maneggi dei prefetti onnipotenti; a cotesto liberalismo la sgargiante rettorica dei grandi fogli parigini sembrava più importante di una stampa di provincia modesta ma efficace. Nello stesso mese entrò in vigore la legge sulle riunioni, che dava in tutto prova della vigile diffidenza del dispotismo: non si permetteva adunanza, se prima i partecipanti non avessero precedentemente dichiarato ciascuno la propria persona, la condizione, il domicilio; facoltà incondizionata ai prefetti di rimandarla, sempre che ne temessero pericolo per la pubblica quiete. Ma anche questa limitata libertà di riunione effettivamente era troppa per una nazione, che aveva malmenato il diritto di socialità nella sconvenienza dei clubs e delle cospirazioni. Janzé e gli altri rugiadosi creduloni del _tiers-parti_ tripudiavano, che non fosse a un dipresso rimasto nulla più della costituzione del 1852. Solo che noi domandiamo: in che modo ha usato la Francia della sua nuova libertà? E anche adesso la risposta suona profondamente triste. Si palesò ora per la prima volta quale mostruoso pericolo costituiva il fatto, che un popolo passionato e geniale si fosse per lo spazio di due decenni interamente disabituato dalla vita pubblica. Quando riflettiamo alla follia che seguì al turbine di febbraio, dopo che la nazione aveva potuto per lo spazio di una generazione attingere ammaestramento e consapevolezza dalla libera stampa, noi non ci stupiamo affatto che una generazione, la quale non si era più addestrata alla disciplina della libertà e non aveva alcuna conoscenza degli affari dello stato, non sapesse distinguere tra radicalismo e spirito di libertà, e si abbandonasse senza guida al turbine delle passioni. Tutto il nauseabondo lordume, che un tempo si era rincantucciato tra le colonne della stampa spatriata, adesso era venduto sui boulevards della capitale: i palati sovreccitati inghiottivano avidamente la _Lanterne_ di Rochefort, indubitabilmente il più comune e il più insipiente giornale d'infamia, che sia mai apparso in una nazione incivilita. Urlava nei clubs parigini la bestialità selvaggia di una plebe scostumata: di tempo in tempo i demagoghi menavano a spasso il popolo sovrano in una _journée_, in immondi eccessi per le strade. Qual meraviglia, se i borghesi impauriti già movessero a Rouher lamento, che la mano del governo non fosse più sentita? E venne il giorno della prova, l'elezione del 23 maggio 1869. La questione per la Francia era di sapere, se dietro questo mostruoso clamore radicale non si nascondesse forse una qualche forza morale. La prova fu sostenuta vituperosamente. Nelle elezioni del 1852 il governo aveva riportato 5 milioni di voti contro 872.000 dati all'opposizione; nel 1857 6 milioni contro 840.000; nel 1863 il numero di voti dell'opposizione salì a milioni 1,8 contro 5,36, e nel 1869 a milioni 3,31 contro 4,66. Alla prima occhiata questi numeri sembrano una chiara dimostrazione dell'ingrossamento continuo dell'opposizione. Eppure la verità era ben diversa. I primi tre risultati delle elezioni erano l'espressione fedele, l'ultimo una falsificazione della volontà del paese. L'enorme maggioranza della nazione si era col fatto talmente convertita alle idee liberali, che Emilio Girardin, l'augure delle rivoluzioni, credeva già di vedere il principio della fine; ciò non ostante, essa non trovò in sé il coraggio di opporre resistenza a quelle male arti della pressione elettorale napoleonica, che Rouher mise in azione anche questa volta. Era una solenne dichiarazione di bancarotta della nazione; e, per giunta, ognuno sapeva che il dispotismo, intimidito e scoraggiato, non si trovava più in condizione di adoperare i mezzi violenti di un tempo. Dopo questo grande saggio di fermezza del carattere nazionale, era facile prevedere, che si sarebbe dimostrato una lustra anche il progresso dell'intelligenza politica, che gli ultimi anni avrebbero dovuto arrecare. La nuova camera risultò composta di 40 radicali, 60 appartenenti al recente _tiers-parti_ e 200 mammalucchi ed arcadi, fida falange di Rouher. Ma la così detta opinione pubblica si rivelò ancora una volta come una forza irresistibile. Una parte dei bonapartisti, spaventati dal fracasso della stampa e dei clubs volse di botto a sinistra, e così, con un atto di completa insensatezza, nacque la mozione dei 116, che domandava nuovi diritti costituzionali. Rouher fu dimesso; ma, proprio quando si solennizzava il centenario dell'avo, l'imperatore giaceva infermo gravemente, e il mondo sentiva che la dinastia sarebbe condannata non appena quei due occhi si fossero chiusi. Dopo la guarigione il despota angustiato pubblicò il senatoconsulto del 6 settembre, che annunzio il principio della responsabilità ministeriale. Finalmente il 2 gennaio fu chiamato il ministero Ollivier, che iniziò formalmente l'êra del bonapartismo parlamentare. Non impropriamente l'imperatore paragonò sé stesso a un viandante stanco, che si spoglia di una parte del fardello per avanzare più speditamente sulla propria strada: adempì fedelmente a tutti i doveri di un corretto regal fantoccio costituzionale, rinunziò al diritto del carteggio diplomatico coi suoi ambasciatori, e, di più, dimise Haussman, il suo fido prefetto della Senna. Inoltre Ollivier, rifulgendo di sapienza, di unzione e di virtù, annunziò che il governo da ora in poi non avrebbe designato candidati ufficiali nelle elezioni. Tutti i liberali giubilavano, che ora finalmente la Francia vestisse la _toga virilis_, ora finalmente con una novella quarta notte di agosto il governo dalle mani degli avvocati e dei burocratici passasse in quelle dei possidenti indipendenti. Il posato _Journal des débats_ profetava, che presto in Prussia avrebbero sospirato «la libertà come in Francia». Il _Times_ vedeva vicino il tempo, che il virtuoso esempio della signora Ollivier, borghesemente semplice, avrebbe nobilitato i costumi della corte delle Tuileries. Effettivamente, la Francia ora possedeva «la più libera» costituzione della sua storia, uno statuto, che conteneva tutti gli articoli di fede del liberalismo ortodosso di gran lunga più compiutamente, che non in altri tempi l'atto addizionale di Napoleone I. Pure, l'antico dispotismo dei prefetti non si era, in verità, menomamente cambiato: proprio allora, sotto la protezione della recentissima libertà, 450 cittadini francesi, in parte con _lettres de cachet_, furono buttati in prigione, perché la polizia pretendeva di avere scoperto una congiura. Questa inaudita trasformazione magica, che teneva il mondo in sospeso, col fatto era semplicemente la grossolana replica di una commedia, di cui i francesi si erano pasciuti fino alla nausea. Il dispotismo di un partito cacciava l'altro: la soluzione del giorno era novellamente _s'emparer du pouvoir_. Il nuovo gabinetto era composto di uomini appartenenti a tutti e quattro gli antichi partiti moderati, uomini il cui nome irreprensibile era vantaggiosamente separato dall'_entourage_ non ben famato dall'imperatore. Ma da un momento all'altro sgusciarono fuori dallo sdegnoso ritiro tutti gli antichi costituzionali che avevano finora combattuto l'impero a morte, e domandarono sfacciatamente uffici e prebende: nessuno più petulantemente degli orleanisti, i quali avevano sempre conservato il vecchio cupido spirito di consorteria dell'età dell'oro della borghesia. Non era forse umano, che l'imperatrice, gaia e innamorata della vita, guardasse con occhio bieco lo speculatore di virtù Ollivier, che tronfiava nel paludamento della sua civica incorruttibilità, e nel frattempo proteggeva con tanta tenerezza tutti i cugini e i cugini dei cugini, e faceva perfino l'occhio di triglia all'amicizia del vecchio banchiere Magne, a che la rendita non scadesse nemmeno di una lira? Era da far carico all'imperatore, se non riusciva a sfranchirsi dalla diffidenza verso i suoi nuovi amici orleanisti? Il cinico non aveva mai contato sulla fedeltà, stando di fatto, che gli antichi bonapartisti rigidi, come Gerolamo David e compagni, erano legati alla casa dei Napoleone da interessi incomparabilmente più solidi, che non il vecchio Guizot e gli altri transfughi orleanisti. Nel marzo Ollivier raccolse in una costituzione, che era la dodicesima dal 1789, i nuovi diritti della libertà. Ma non vi faceva neppure un accenno a quelle modeste riforme amministrative, che sole possono apportare forza e vita alla costituzione. Il sindaco veniva, come prima, nominato dal governo, il funzionario rimase protetto da ogni querela dei cittadini. La camera, la cui maggioranza non rispondeva punto all'animo del paese, non fu affatto sciolta, e i vecchi arnesi devoti del dispotismo serbarono le loro cariche prefettizie: le nuove commissioni parlamentari, nominate per la trasformazione di tutti i rami della vita pubblica, effettuarono un bel nulla. Ora finalmente si fece avanti la questione, che presto o tardi doveva essere posta. L'imperatore anche adesso era sempre l'eletto responsabile del popolo. Su disposto della vecchia costituzione egli domandava, che il nuovo statuto fosse accettato dal popolo sovrano mercé il plebiscito. Tale domanda significava, che Napoleone si sentiva tuttora l'_homme-peuple_, e che perciò non avrebbe mai potuto guidare un governo sinceramente parlamentare; solo che, indubitabilmente, il diritto positivo dava ragione all'imperatore. Di più, il plebiscito era una necessità politica. I radicali già svergognavano la nuova costituzione, che fosse niente altro che il pasticcio di pochi senatori tecnici: e siccome in questo paese ognuno s'inchina umilmente davanti al suffragio universale, essi presto o tardi avrebbero infallibilmente costretto l'imperatore a fare appello al popolo. Ma i liberali francesi mostrarono ancora una volta di mancare della prima virtù del libero cittadino: il senso della legalità. Della questione di diritto si parlò appena; non si faceva che biasimare il despota, di aver subito seppellito il regime parlamentare appena fondato. L'8 di maggio la nazione con sette milioni di voti contro uno e mezzo ratificò l'impero parlamentare. Napoleone ora sapeva di possedere nella devozione delle moltitudini una riserva contro l'intemperanza dei parlatori parlamentari; ma nello stesso momento fu tormentato dal pensiero degli umori dell'esercito, che aveva dato 47.000 voti contro l'impero. Diveniva intanto sempre più impetuoso l'ardore guerresco dei vecchi bonapartisti, che temevano di essere soppiantati nelle loro cariche dai cupidi amici di Ollivier; e si vestiva di seduzioni sempre crescenti l'idea che propugnavano, di ristabilire con una guerra nazionale la cadente autorità della corona. In questo modo, nel tripudio della nazione accecata, tra il fragoroso clamore guerresco di una scellerata spedizione di preda, il bonapartismo parlamentare andava a sommergersi senza lasciar traccia. Dal 18 brumaio la nazione aveva cercato la libertà in cinque sistemi differenti. Fu addebitato alla guerra europea il fallimento del primo impero, ai legittimisti quello della Restaurazione, alla borghesia quello della monarchia di luglio, agli operai della capitale quello della repubblica. Non si trovava questa volta nessuna giustificazione straniera né un partito, che potesse colpirsi come capro espiatorio. La nazione, tutta intera la nazione aveva con una lunga sequela di follie e di colpe dimostrato di non essere atta, né ora né per molto tempo appresso, a comportare la libertà. III. È un fatto: la guarigione di uno stato malato si può incominciare sia dal basso che dall'alto, per mezzo dell'amministrazione o per mezzo della costituzione. Solo che in Francia tutti gli esperimenti escogitabili di costituzione erano consumati da un pezzo. La speranza in una nuova rivoluzione, espressa dal detto corrente di bocca in bocca: «la Francia ha messo in serbo la libertà», era un confortino da fanciulli. La riforma dell'amministrazione era l'unica via ancora aperta alla libertà politica. Fintanto che i comuni non si contrappongono con la loro propria autonomia alla burocrazia, la libertà di stampa e di associazione mena infallibilmente all'anarchia e l'ampliamento dei diritti della rappresentanza popolare al dispotismo di partito. Soltanto una più libera situazione dei comuni, in modo che, per lo meno, i sindaci non fossero loro imposti, poteva forse indurre le classi abbienti a riguardare come un onore l'esercizio delle cariche comunali. Solo un'attiva partecipazione delle persone colte ai lavori amministrativi poteva finalmente costringere la burocrazia a non sdegnare più i consigli della stampa come un'arroganza di _hommes sans mandat_. E solo, soprattutto, un'intensa attività della vita comunale poteva forse risvegliare le virtù boccheggianti della costumatezza politica e della fedeltà al proprio dovere, sparite quasi nel turbine delle lotte di partito, poteva scuotere alquanto la potenza enorme della imbestiante _routine_ e dello schema che dominava tutta quanta la mentalità nazionale. Torbido spettacolo, quello dell'annientamento della vita pubblica nei primi dieci anni dell'impero. Sotto la polizia napoleonica perfino l'allegria del carnevale per le strade era quasi sparita. E quale risveglio doveva poi seguire a quel torpore plumbeo! Tali erano le circostanze, quando venne a maturazione il giudizio, che lo stato finora si era mosso in un circolo vizioso, e che la riforma dovesse principiare dal basso: la dottrina dell'autonomia amministrativa del Tocqueville, dopo la morte del maestro, era divenuta una forza tra gli uomini pensanti. L'idea dell'autonomia amministrativa era stata derisa come una chimera anche sotto la monarchia di luglio; ora, sotto Napoleone III, il decentramento era la parola d'ordine di una grande scuola di pubblicisti. Odilon Barrot e Laboulaye, Raudot e Desmarets, Regnault e il bonapartista Baudrillart, uomini delle più diverse tendenze, produssero sull'argomento una letteratura, che con la serietà morale e l'alacre fede nell'avvenire annunziava la perseveranza dell'antico e bello idealismo francese, e con l'amabile freschezza attestava quanto erano nuove tali idee sul suolo di Francia. Si principiò a comprendere l'arbitrio antistorico e insipiente della divisione in dipartimenti. Mentre in Bretagna, in Normandia, tra i Baschi e i Guasconi persisteva l'antico spirito provinciale, che era per altro una boria di provincia senza forza politica, e l'alsaziano con tutto il suo patriottismo guardava dall'alto in basso i «francesi neolatini» come un popolo mezzo straniero, col fatto i dipartimenti erano rimasti puri corpi amministrativi. Permaneva impossibile, che paesi come Épinal e Vésoul diventassero centri di uno speciale spirito regionale come Bordeaux o Lione. Era tuttora fattibile designare i dipartimenti con numeri, come aveva un tempo proposto Sieyès col suo odio a tutte le formazioni storiche; tanto apparivano, dopo un'esistenza di sessant'anni, schematici e senza colore. Gli antichi inconvenienti del governo prefettizio diventarono addirittura intollerabili, da quando alla dipendenza dei prefetti furono posti come guardiani dei costumi gl'ispettori generali di polizia e, data la frequenza sistematica dei traslochi, tutti gl'impiegati si assuefecero a considerarsi come uomini senza patria. I consigli generali, è vero, venivano eletti col suffragio universale; ma la loro sfera di azione rimase immutata; anzi qualche uomo indipendente se ne ritrasse, dopo che il governo ottenne il diritto di nominare i presidenti e i segretari e di condurre esso esclusivamente lo scrutinio. Per quanto era certo che un distretto poteva amministrare solamente quello che pagava, altrettanto era certa la morte dell'autonomia in quello stato, i cui consigli generali fin dal tempo del primo imperatore avevano soltanto il misero diritto di riscuotere ai fini dei dipartimenti il quattro per cento sulle imposte statali. Per giunta, una gran parte di questi quattro _centimes facultatifs_ erano impiegati a scopi generali dello stato, per esempio, nel mantenimento dei palazzi delle prefetture e simili. Più aspre ancora erano le accuse contro i circondari: lo stesso Napoleone III nella sua lettera sull'Algeria convenne, che l'abolizione dei sottoprefetti superflui era un desiderio quasi generale. Con l'articolo 57 della costituzione del 1852 la posizione dei comuni era divenuta ancora più soggetta, essendosi il governo riserbata la facoltà di nominare a suo arbitrio il sindaco dai membri del consiglio generale o anche di chiamare a quella carica dominante un abitante affatto estraneo all'amministrazione comunale. Quell'articolo 57 era a buon diritto uno dei più importanti della costituzione, giacché i sindaci determinavano nelle campagne l'esito delle elezioni. Le sedute del consiglio comunale non erano pubbliche, e il consiglio poteva essere sempre sciolto o sospeso dal governo. I più superbi comuni non erano punto più indipendenti di quei minuscoli comunelli, incapaci di una propria vita particolare, che costituiscono la regola nelle campagne di Francia. Anzi le due città più grandi, Parigi e Lione, erano defraudate del beneficio della legge: il loro rispettivo consiglio comunale era nominato ogni cinque anni dall'imperatore, ed era perciò privo di qualsiasi autorità, non ostante le esaltazioni lodative che Napoleone III dopo l'apertura del _Boulevard de Sébastopol_, e spesso anche in seguito, aveva prodigato al suo fido Haussmann. Dei 2379 milioni di entrate già nel 1857 erano stati spesi 877 milioni pel dipartimento della Senna. La preferenza data alla capitale diveniva visibile a distanza perfino negli affari della vita quotidiana; tutta quanta la rete ferroviaria dell'impero era essenzialmente gettata a benefizio di Parigi. Pareva inconcepibile a questa burocrazia l'idea che qualcuno potesse viaggiare altrove che da o per Parigi; e lo sa chiunque ha provato qualche volta a recarsi da Parigi a Bordeaux. Il sistema dell'accentramento burocratico rese ad Algeri le prove più sorprendenti della sua inettitudine all'efficacia creativa. Questa colonia, che poteva invigorirsi solo mercé lo svolgimento affatto libero delle energie individuali, era la terra votata agli esperimenti burocratici, divenuta la caricatura dell'amministrazione della madrepatria. Qui sorrideva all'impiegato la fortuna di un accentramento duplice, poiché tutti gli affari erano in primo tempo decisi nella capitale della colonia e in secondo tempo a Parigi. Nello spazio di una generazione furono saggiati e rifiutati quindici sistemi di organizzazione. Centonovantaduemila europei, ossia la metà della popolazione media di un dipartimento, vi vivevano distribuiti in 71 comuni sotto 3 prefetti, 13 sottoprefetti e 15 commissari civili, e va da sé che il governo di Parigi non aveva alcuna cognizione delle condizioni effettive dell'Algeria, non ostante le infinite relazioni inviate da un esercito d'impiegati. L'imperatore aveva ordinato l'istituzione dei tribunali indigeni, i _medjlehs_, e lasciato ai nativi la scelta fra i tribunali arabi e i francesi. Tutte le autorità riferirono che gli arabi, animati da una mirabile fede nella giustizia dei franchi, preferivano i tribunali stranieri ai patrii; e quando l'imperatore visitò la colonia, venne fuori, che i medjlehs non esistevano affatto! L'immigrazione ristagnò, perché un'esistenza malcerta sotto la benedizione del formalismo burocratico non poteva sedurre nessun uomo attivo. Un esercito di 76.000 uomini era appena sufficiente a guardare la colonia. Gli uffici arabi fondati per la tutela degl'indigeni si rivelarono incapaci d'intendere la popolazione straniera. Nella lettera al maresciallo Mac-Mahon Napoleone III espresse la speranza, che la Francia per opera di un'amministrazione esemplare in Africa sarebbe in grado di acquistare una preponderanza fra tutti i popoli fino all'Eufrate, e che dal domesticamento degl'indigeni coi costumi francesi sarebbe sorta una «potente individualità», un semitismo gallicizzato. Ma questo desiderio doveva infrangersi contro la tenacità della religione e dei costumi di Oriente, quello contro la stupida rigidezza della burocrazia francese. La lettera sull'Algeria dimostrò, che l'imperatore non aveva minimamente smesso la sua antica preferenza per l'autonomia amministrativa. La formola _favoriser l'initiative individuelle_ ritorna quasi con la stessa frequenza come un tempo negli scritti di Cavour. Doveva egli desiderare di affrancare dall'influenza della capitale ostile il ceto agricolo delle provincie, puntello del suo dominio. Sapeva altrettanto, quanto il suo amico Persigny, che l'accentramento finiva con lo spegnere negl'impiegati la coscienza della responsabilità personale; presentiva quante erano le forze preziose, ora ai servigi dell'opposizione, che si sarebbero potute avviare, mercé le libertà comunali, per una strada meno pericolosa. Ma la peculiare indecisione della sua mente, il timore da cui era preso davanti a qualsiasi indebolimento del potere statale, e il riguardo allo spirito di casta burocratico tolsero l'ardimento a tale veduta: onde le tanto celebrate prove di decentramento dell'imperatore rimasero tutte senza contenuto concreto, giacché toccavano la forma, non la sostanza dell'amministrazione. Fin dal 25 marzo 1852 un decreto rimetteva nelle mani dei prefetti una serie di affari che finora incombevano al ministro; poiché «si può bene governare da lontano, ma si amministra solo da vicino». Naturalmente il ministro più tardi informò quali magnifici frutti questo decreto aveva portati. Meno impetuoso dei suoi consiglieri, l'imperatore il 24 giugno 1864 incaricò il consiglio di stato di dare il suo avviso sulla semplificazione della pratica degli affari: quale ritardo, se le più semplici questioni amministrative devono passare per undici istanze! Desiderava anche di abolire l'esattore generale e di porre gli esattori delle imposte dei dipartimenti in rapporto diretto con la cassa della capitale. È chiaro, che con siffatte riforme l'amministrazione guadagna in tempo, ma non il popolo in libertà. Ma tali questioni sono pei popoli latini così poco mature alla discussione, che lo stesso La Farina poteva sinceramente ammirare quelle vacue riforme amministrative di Napoleone III. Solo una volta l'impero ha arrischiato un tentativo per l'istituzione di una vera autonomia amministrativa; e fu nel 1852, quando Persigny consentì ai comuni e ai dipartimenti d'imporre alcuni centesimi addizionali senza l'approvazione dello stato; ma la riforma dopo appena qualche anno decadde per l'opposizione dei prefetti. Più sodamente, i partiti andarono alla sostanza del problema. Il programma di Nancy del 1865 compendiava i più urgenti desiderii dei partigiani dell'autonomia nelle seguenti proposizioni: i consigli generali eleggerebbero essi medesimi i propri presidenti; il sindaco verrebbe nominato esclusivamente dai membri del consiglio comunale (non osandosi chiedere l'elezione del sindaco); allato al prefetto starebbe una commissione permanente del consiglio generale. Questo disegno immaturo e confuso, frutto di un compromesso tra i liberali e i legittimisti, pure diventò la pietra di paragone dei partiti. Nell'odiosa opposizione, sollevata contro gli uomini di Nancy dal _Siècle_ e dall'_Opinion nationale_, si rivelò il terrorismo dispotico della vecchia democrazia incorreggibile, della _democratie autoritaire_; nella eloquente difesa fattane dal _Temps_ e dal _Journal des débats_, invece, il discernimento più maturo del liberalismo colto. Purtroppo la stampa non illustrò e vagliò veracemente queste idee, volte secondo il pregiudizio dei vari pensatori. Tra i propugnatori dell'autonomia si levarono spesso opinioni ostili allo stato: si combatteva lo stato in odio alla burocrazia. Noi non alludiamo punto al frivolo Emilio Girardin, che una volta per ragioni di opportunità difese l'_État fédéré_ e assegnò allo stato il compito di un istituto di assicurazione. Ma anche uomini migliori, come Carlo Dollfus, ricaddero nelle superficiali idee del secolo decimottavo, non concependo altrimenti il governo, che come un sistema di garanzie per la libertà delle persone. E le stesse lotte pel decentramento combattute dal _Temps_, se vedevano un ideale nella sbocconcellatura degli staterelli tedeschi, non riuscivano, con siffatte aberrazioni, che a rafforzare la presunzione della burocrazia. Laboulaye anzi desiderava l'abolizione della giustizia amministrativa, laddove questa costituisce invece un organo indispensabile per tutti gli stati di terraferma, e la sua magnifica perfezione tecnica è una gloria della Francia. Quando poi per assicurare l'indipendenza ai giudici voleva precludere loro l'avanzamento, egli disconosceva onninamente l'essenza di una società democratica. Un sobrio esame genera il criterio, che l'autonomia amministrativa in Francia non fosse in grado di alzare che pretese assai modeste. L'accentramento è cresciuto insieme con l'intima sostanza di questa nazionalità. Solamente la prepotenza della capitale ha reso possibile ai francesi di sostenere, con modiche energie spirituali di lavoro, una posizione onorevole nell'incivilimento dell'Europa; oggigiorno, dopo che le colpe della Comune di Parigi hanno quasi spezzato l'influenza dominante della capitale, sembra inevitabile un abbassamento profondo della cultura, se non pure una ricaduta nella barbarie. Una burocrazia stipendiata con _a latere_ i consigli eletti: questa era e sarebbe rimasta a lungo la forma nazionale dell'amministrazione. Si sarebbe potuto trattare, evidentemente, solo di estendere le attribuzioni di questi consigli, e in seguito di attenere finalmente l'antica promessa dei liberali e, oltre il ricorso al consiglio di stato, aprire ai cittadini anche la via giudiziaria avverso l'arbitrio dei funzionari. Non già che noi intendiamo di rifiutare semplicemente al carattere dei francesi l'idoneità alla libera vita comunale. Giacché i prossimi consanguinei proprio delle più bellicose stirpi del paese, i valloni e i vaudesi, hanno sviluppato con grande compitezza nella terra loro l'autonomia; e gli stessi consigli generali francesi, per lo meno al tempo che era loro consentito di eleggersi i propri presidenti, hanno sovente dato gloriose prove di senso comunale fattivo. Solo che, in forza di un'antichissima deformazione politica, specialmente dal tempo della Rivoluzione in poi, le abitudini e le idee burocratiche sono così profondamente penetrate nel popolo, che una completa trasformazione non sembra possibile. Lo splendido esempio dell'autonomia locale nell'antica provincia di Linguadoca non significa, purtroppo, nulla; ché quei tempi furono. Si poteva lamentare l'ottuso meccanismo della divisione dipartimentale; manifestamente, però, non era fattibile abolirlo. Ogni tentativo di reintegrare le provincie e i loro gradi, come fece un tempo la Restaurazione, avrebbe naturalmente risuscitato l'odio della burocrazia e delle moltitudini contro l'antico regime, risuscitato lo spavento indelebile delle popolazioni davanti a un ritorno della decima e del lavoro servile. L'idea di riunire vari dipartimenti in una regione sotto una grande città come capoluogo, fu sostenuta solo da qualche propugnatore eloquente. Noi però domandiamo: in effetto, si era ancora in tempo, a rispingere indietro l'antichissimo svolgimento storico che aveva concentrato a Parigi i confini del paese? e quante e quali forze spirituali autonome possedeva Lione, fuori degl'interessi di classe del suo clero e del suo mondo commerciale? Una forte autonomia appunto per questo non poteva svilupparsi nei dipartimenti, perché cotesti corpi ufficiali non possedevano forze proprie notevoli. In un paese dove dieci rivoluzioni hanno distrutto tutti gli antichi beni delle corporazioni, non sono possibili altrimenti che per eccezione le istituzioni locali tanto importanti, come gli ospedali circondariali e i nosocomi provinciali in Prussia o le innumerevoli fondazioni delle contee in Inghilterra. Né vi erano troppe speranze di ricostituire cotesti beni locali. La più naturale delle imposte comunali è in tutti i modi l'imposta fondiaria; ma l'elevazione di tali tributi doveva urtare contro una resistenza invincibile da parie di una popolazione agricola oberata. Piaceva al signor Thiers millantare la nuova aristocrazia che, cresciuta dopo la Rivoluzione, costituiva un pegno per l'avvenire della libertà; quasi che un'aristocrazia sociale non dovesse necessariamente sorgere da qualunque sviluppo considerevole dell'economia pubblica! Ad onta di tali sofisticherie permaneva il fatto, che non esisteva nel popolo un'aristocrazia politica di salda autorità. Nella maggioranza delle classi medie non attecchiva affatto una seria volontà di autonomia amministrativa. Né giova appellarsi alle numerose associazioni industriali, in cui l'attività autonoma di quei ceti si è cospicuamente effettuata. Siffatte intraprese, che direttamente o indirettamente profittano alla borsa degl'intraprenditori, non provano nulla rispetto all'energia politica dello spirito pubblico. Tanto che la scuola di Manchester, che è maestra di tutte le società economiche, è in pari tempo la nemica dichiarata della «dispersione di lavoro» del _selfgovernement_. Nelle classi medie francesi, la cui mano è sempre aperta alle opere caritatevoli, tutti facevano ressa per la legion d'onore e per gli uffici stipendiati, tutti scantonavano davanti al servizio onorario della giuria, della guardia nazionale, dei comuni. La denunzia era stimata un'infamia, come presso tutti i popoli che hanno scarsamente sviluppato il senso della legalità; eppure in ogni rischio, in ogni offesa al diritto si levava subito lamento alla polizia. Nondimeno l'ostacolo più forte all'autonomia era opposto dal dominio del quarto stato. Le moltitudini democratizzate mostrano ben di rado molta intelligenza del valore della libertà comunale, a cui esse possono partecipare solo fugacemente, al tempo delle elezioni: purtroppo, ubbidiscono generalmente più volentieri a un funzionano stipendiato che sembra fuori dei contrasti di classe, anziché a un magistrato onorario appartenente alle classi abbienti. L'istituzione di una vera e schietta autonomia presuppone una rara forza di rinunzia da parte del potere statale; ma è lecito attendere una siffatta abnegazione dall'assolutismo, se non ve lo violenta una catastrofe formidabile come la pace di Tilsit? Ogni autonomia aggrava di duri sacrifizi gli abbienti; ragion per cui non può introdursi, se non per forza e per ingiunzione dell'autorità dello stato. Laonde ciò che la monarchia legittima in Prussia potè imporre a un popolo tranquillo, educato alla rigida obbedienza, non era dato alla tirannide democratica osarlo rispetto a una nazione irrequieta, che si stima autorizzata a prendere il massimo dallo stato e dargli il minimo. Non era dunque a sperare l'annullamento del sistema amministrativo burocratico; era a pensare soltanto a una moderazione della sua onnipotenza. L'avvenire della libertà politica dipendeva principalmente dall'esito di cotesta modesta riforma. Se non che i liberali, non appena arrivati al potere, seguirono l'esempio di tutti i governi precedenti. Ollivier gettò indifferentemente in un cantone tutti i desiderii di autonomia amministrativa, di cui egli stesso prima era stato il rappresentante. Di talché la decisione, che il sindaco non dovesse nominarsi se non dal seno stesso del consiglio comunale, segnò quasi l'unico progresso notevole raggiunto dalla vita comunale sotto l'impero. IV. Che questo peccato di omissione originasse dall'essenza del bonapartismo, emerge vividamente, non appena consideriamo l'azione del secondo impero e subito vi scopriamo, che lo stato e sempre lo stato ha guidato e compiuto le grandi trasmutazioni sociali degli ultimi due decenni. I più grandi meriti del nuovo bonapartismo riposano sul campo economico, e anche qui si annidano i più grandi pericoli per la sicurezza dello stato. Certo, soltanto la servilità poteva senz'altro riguardare l'imperatore come il creatore della nuova economia. Leggendo gl'inni dei prefetti sulla _baguette magique_ del bonapartismo, sembra quasi che l'imperatore non abbia fatto altro che girare l'anello incantato, e subito il traffico irruppe dovunque a ribocco; né più né meno come un tempo i fogli cortigiani tedeschi degli ultimi cinquant'anni derivavano il naturale crescimento del nostro commercio e della nostra industria dalla sfondolata sapienza dei Bruck e dei Beust. Tuttavia Napoleone III a buon conto poteva gloriarsi, che il benessere della nazione non aveva dato sotto nessun governo precedente un così magnifico balzo. Sapeva inoltre, che con l'egoismo dei ricchi e con l'astio e l'invidia dei poveri il sistema del lasciar andare non bastava, e che era indispensabile l'aiuto diretto dello stato per l'elevazione delle plebi. Le pretese delle classi lavoratrici verso lo stato salirono incommensurabilmente con le male abitudini di quei diciotto anni; e nessun governo francese potrà in avvenire sottrarsi al socialismo monarchico. L'origine del nuovo potere, il bisogno di sicurezza, il gusto dispotico del vanaglorioso abbagliamento, e, non per la parte minore, l'animo buono e umano dell'imperatore pel quale il soccorrere era una gioia, cooperarono di conserva a imprimere nel secondo impero le idee della _fraternité_ socialista. Non indarno sulla porta del nuovo palazzo del Louvre grandeggiava la statua del Lavoro col corno dell'abbondanza, non indarno in tutti i manifesti napoleonici era esaltato l'ordine come la prima fonte del lavoro. L'ideale dell'imperatore era di menare a termine nella società la vittoria della democrazia mercé la rimozione della miseria delle plebi, mercé i benefizi dell'istruzione, del credito e dei lavori pubblici. «Io voglio», disse una volta, «conquistare alla religione, alla morale, al benessere quella parte tuttora tanto numerosa della popolazione, che conosce appena il nome di Cristo, che può appena soddisfare ai bisogni necessari della vita». Noi tedeschi professiamo l'opinione avita, che, solo per eccezione e per non poterne far di meno, la fraterna opera dello stato possa mischiarsi nel libero moto delle energie economiche. Più vasti confini sono prefissi al potere statale della Francia dal cammino della sua storia, ed è innegabile che il socialismo monarchico, accanto a molti esperimenti immaturi e precipitosi, ha anche prodotto molte opere di beneficio durevole. Le _sociétés de secours mutuel_ legarono al sistema migliaia e migliaia. Cotesta cassa di risparmio viene istituita in ogni comune, dove il prefetto la giudica necessaria; il presidente è nominato dall'imperatore. Ne crebbe il numero da 2000 nel 1852 a 4118 in 7 anni, con 534.233 soci e 23 milioni di lire di capitale. I fondi, come quelli di tutte le comunità e corporazioni, dovevano depositarsi presso le autorità dello stato: che era un passo avanti sulla via del socialismo monarchico. Gli antichi istituti di beneficenza, numerosi fin dal tempo antico in questo paese cattolico, furono quasi generalmente riordinati sotto Napoleone III; furono amministrati sotto la sorveglianza dello stato da commissioni di nomina prefettizia. Nuove istituzioni crebbero in folla: cucine pei figli degli operai, novelli ospedali e associazioni per la cura degl'infermi a casa: asili per gli operai mutilati e pei convalescenti, «affinché gl'invalidi dell'officina siano pareggiati agl'invalidi della guerra». I _fournaux_ del principe imperiale assicuravano al lavoratore un pasto economico; le casse operaie dovevano «rifiutare il pregiudizio che i prestiti si fanno soltanto ai ricchi, e affermare la verità che una buona riputazione è una vera proprietà». La capitale aprì i bagni gratuiti e i comuni riceverono sussidi dallo stato per ottenere ai lavoratori i lavatoi a basso prezzo. I grandi mercati di Parigi provvedevano pel conveniente acquisto dei generi di necessità. La cassa dei fornai percepiva un centesimo per ogni chilogrammo di grano e dava sussidi ai fornai, tanto che il costo di un chilo di pane era disceso sotto la tariffa intrasgredibile di 50 centesimi: e in questo modo l'operaio aveva il pane a buon mercato e il fornaio speculava sul basso prezzo. Anche la liberalità dei fornai e dei beccai sarebbe tornata a vantaggio dei consumatori del quarto stato, se la resistenza dei privilegiati non l'avesse lasciata quasi senza effetto. Nei giorni di penuria, come al tempo della guerra americana, venne perfino distribuito per ragion di stato danaro contante tra i lavoratori. Infine l'imperatore abbozzò il vasto disegno di una grande cassa di assicurazione statale dei lavoratori: che era, chiaro e lampante, un'idea socialistica. L'intento sostanziale raggiunto da tanti e tali benefizi fu l'attaccamento personale degli operai alla Casa dell'imperatore. Napoleone III dichiarò pubblicamente dopo l'incoronazione: «la mia prima visita d'imperatore sarà ai sofferenti»; e d'allora in poi tutte le associazioni pel miglioramento delle classi lavoratrici furono poste sotto il patronato dell'imperatore, dell'imperatrice e del principe ereditario. Fin da quando era presidente, Napoleone III aveva fatto tradurre il libro di Henry Roberts sulle case operaie, ed egli stesso abbozzò modelli di abitazioni delle _cités ouvrières_. Il tedesco era invaso da un sentimento assai amaro, allorché, passeggiando in quegli anni per le vie della bella Sundgau, che pareva perduta per sempre per noi, vedeva a sera le schiere fitte di uomini poderosi emigrare dalla porta di Mühlhausen per le linde casette ingiardinate della città operaia: purtroppo, erano la più parte nostri compatrioti, che laggiù erano perduti alla vita tedesca. Il che non ha trattenuto gli economisti nostrani dal riconoscere i meriti umanitari della _Société industrielle de Mulhouse_ e dal leggere con gratitudine i suoi bollettini tanto istruttivi. Era questa effettivamente una riforma sociale che andava al fondo: l'operaio che nella gioconda dimora si abitua ai costumi casalinghi e con una modica contribuzione annuale acquista dopo alquanti anni la proprietà della sua casa, ebbene, non è soltanto elevato economicamente; egli viene rifatto moralmente. E mentre lì e nelle vicine Gebweiler e Beaucourt l'antico spirito delle città imperiali animava l'energia di eccellenti cittadini tedeschi, come J. Dollfus, a menare avanti l'opera benefica a cui lo stato contribuiva solo con parchi sussidi, per contro altre città operaie venivano costruite esclusivamente e in preponderanza coi mezzi offerti dallo stato: così a Lilla la _cité Napoléon_ che contava 9000 abitanti, così a Parigi il nuovo quartiere operaio del sobborgo Sant'Antonio. Delle società operaie fondate sotto la repubblica poche erano sopravvissute: sorte con tendenze radicali, dovevano lottare contro il malanimo del governo; ed erano la più parte, per giunta, consorzi di produzione, e si movevano perciò nel dominio malagevolissimo e ingratissimo della vita consorziale. Ma negli ultimi anni dell'impero il favore dello stato ricercò anche coteste leghe di lavoratori. Alla fine il buon diritto dello sciopero venne riconosciuto, e l'importante legge del 25 maggio 1864 accordò alle associazioni operaie piena libertà. Provveduto in tal modo al pane al quarto stato, non potevano mancare i circensi: parate ed esposizioni per tutto l'anno, rappresentazioni di ogni specie col nuovo benefizio della libertà del teatro, luminarie e spettacoli il genetliaco di Napoleone. Alla Porta San Martino, dove gli antichi _boulevards_ confinano col quartiere operaio, l'imperatore fece sorgere il _Gran Café Parisien_, in cui l'operaio su un divano di velluto poteva gustare il suo _petit verre_ nella luce di candelabri abbaglianti. Parimente, anche il quarto stato doveva partecipare ai vantaggi del debito pubblico, anche la sua borsa attaccarsi al trono imperiale. Dopo che l'assegnazione del titolo fu abbassata a una somma affatto esigua, il numero dei possessori di rendita salì da 292.000 nel 1848 a 1.095.688 nel 1867. È per sé evidente, che cotesta democratizzazione della rendita procurò al sistema molti aderenti; ma è anche più evidente l'influenza nociva sulla sicurezza del credito dello stato, giacché l'uomo di umile condizione è per solito particolarmente suscettibile al timor panico. Dopo la conversione della rendita intrapresa da Villèle sotto i Borboni, e dopo la ripetizione di tale provvedimento per opera di Bineau e di Fould, la cartella al tre per cento fece regola nel debito pubblico francese, come nell'inglese. Di 341 milioni di rendita 303 milioni erano al 3 per cento; e quei titoli erano i preferiti dagli speculatori, giacché la bassa percentuale garantiva la sicurezza da ogni altro possibile abbassamento; salvo, però, che la stessa bassezza della percentuale non andava certo a grado all'uomo d'affari. Ma come fu tremendamente alimentata la foia del gioco, come fu minacciata la solidità del benessere dalla enorme diffusione di tali cartelle, che altalenavano affannosamente nei conflitti della borsa senza mai posa! Non ostante la grande diligenza, il francese ha poca gioia del lavoro: produce indefessamente durante venti anni, per poi apparecchiarsi prematuramente un comodo autunno della vita. La democratizzazione della rendita fondava su questa debolezza nazionale, come aveva fatto, prima della Rivoluzione, l'introduzione del costume antieconomico delle tontine. Il numero dei _petits rentiers_, che a quaranta o cinquant'anni incrociano le braccia, crebbe considerevolmente sotto l'imperatore; e il bonapartismo trovò appunto in quella cerchia una folla fitta di partigiani zelanti, _chauvinistes_ appaltoni. Esaminando ancora una volta cotesto multiforme armamentario della tirannide democratica, siamo indotti a convenire, che un così immediato legame dei bassi ceti con la persona del capo dello stato si ebbe tutt'al più sotto il dominio degl'imperatori romani, ma nella storia moderna non era esistito mai. Uno dei più importanti tra quegli energici espedienti socialistici intesi a domare insieme e ad accontentare i lavoratori, fu il famoso riassetto delle città. L'imperatore volle porsi in grado di buttar giù con la mitraglia ogni turbolenza piazzaiuola; e, se si propose di prevenire il ritorno di sorprese tanto sciagurate quale la rivoluzione di febbraio, adempì puramente al suo dovere monarchico. L'ampia via di Rivoli collegò le Tuileries col palazzo di città, centro antico delle sommosse; il boulevard di Sebastopoli fu gettato tra la via Saint-Martin e la via Saint-Denys, già teatro di tante lotte sotto il regime borghese. L'asfalto, con cui i boulevards furono pavimentati, portò via agli eroi delle barricate i consueti materiali di costruzione. Il palazzo imperiale formò in uno col Louvre una piccola fortezza, che era possibile sbarrare subitamente coi massicci cancelli della piazza del Carosello. Ampi cammini sotterranei pel decorso dei rifiuti, servivano anche, nel caso, a preparare un inaspettato arrivo di truppe sui punti minacciati. Salde caserme in tutte le posizioni strategiche importanti; squares verdi nei nodi stradali, ameni agli occhi e ai polmoni, ma anche agevoli ad abbarrarsi allo scoppio della battaglia nelle strade. In una parola, l'impero parve abbastanza assicurato da un rude colpo di mano. Quando una volta fu squarciato a colpi di mitraglia un quartiere operaio in rivolta, l'imperatore rifiutò con commoventi parole il nome di _Boulevard de la reine Hortense_ proposto per la nuova strada, e scelse quello di un operaio, Richard Lenoir, salito alla ricchezza col proprio lavoro; volendo così attestare la propria alta estimazione alla nobiltà del lavoro e, nello stesso tempo, ricordare agli operai che l'impero sapeva adoperare tanto la frusta che il bericuocolo. Lo stato non si propose di provvedere puramente alla sicurezza, ma anche alla bellezza e alla sanità delle città e alla facilitazione delle vie di traffico. Chi ha visitato Rouen nel 1865, quando le nuove nette linee stradali avevano sventrato allora il vecchio reticolo di vie muffite, vorrà consentire che molte città mancano affatto di aria, di luce, di libero respiro. Ma l'impresa, ben giustificata e condotta sul principio, ingrossò presto oltre tutti i limiti ragionevoli, si contraffece in uno di quei violenti rivolgimenti sociali, che possono accadere soltanto negli stati non liberi. Il colossale è una prerogativa dei despoti; le gigantesche demolizioni e riedificazioni del bonapartismo ricordano in verità quelle grandiose costruzioni di Oriente, che testimoniano non già della grandezza del popolo che le eresse, ma solo della cupezza della sua schiavitù, della potenza dei suoi despoti. Parigi e Lione, Bordeaux e Marsiglia, tutte le grandi e perfino le medie città dell'impero gareggiarono in cotesta furia edificatoria. Strade e acquedotti, cattedrali e palazzi di borsa sprillarono di sotterra; accanto al potente porto militare di Cherbourg, creazione favorita del primo imperatore, naturalmente menata a termine in grande stile dal nipote, sorgevano in tutte le piazze marittime nuovi moli e darsene. Un decreto imperiale accordò ai comuni il diritto di espropriazione, e il socialismo autoritario, imperversando nella più sorprendente spregiudicata maniera contro la proprietà privata, non sorvolò, nelle domande di risarcimento, sulle opinioni politiche dei proprietari cacciati via. Le case più solide vennero così abbandonate al capriccio della fortuna: Ledru-Rollin riguadagnò con un boulevard imperiale i propri beni per metà perduti, cento altri piangevano la rovina dei loro averi. A Parigi, dove il prefetto della Senna Haussmann dovè costringere all'espropriazione sé stesso, ogni estate apportava nuove meraviglie. Nel 1865 erano già stati spesi in dodici anni 1222 milioni, e nel 1869 altri 1500 milioni per la trasformazione della capitale. Bagattelle come i dodici magnifici boulevards che a guisa di raggiera danno all'_Arc de l'Étoile_, attiravano appena l'attenzione. Il potere illimitato di un uomo nella superba capitale era unico nella storia moderna. Dove si era mai udito, che a un possente comune sia stato dichiarato di ufficio, che i suoi abitanti sono nomadi e che esso non appartiene a sé medesimo, ma allo stato? Quanto alla provvisione dei mezzi, un comodo spediente fu porto anzitutto dalla malsana costituzione daziaria delle città. Siccome la sorgente d'introiti più importante delle città rampollava dai dazi, seguiva che qui un consiglio comunale s'induceva al dispendio con facilità di gran lunga maggiore che non nelle campagne, dove le spese comunali erano strappate a stento dalle imposte sui fondi e sugli affitti. Ma quando anche questo mezzo non bastò più, allora fu applicata anche ai comuni la vecchia spropositata teoria, che sia lecito scaricare sulle spalle del futuro i pesi del presente: teoria, che un tempo fu difesa con tanto sterile acume da Gentz, e che adesso godeva di una riputazione ufficiale nel nuovo impero. Bastò un decreto imperiale ad autorizzare i comuni ai prestiti. La Cassa dei Depositi accordò il credito a lunga scadenza e a mite interesse; riconciliatosi col signor Haussmann, si mostrò anche più compiacente il _Crédit foncier_, che consolidò il debito fluttuante di Parigi. Quando riuscì di convertire effettivamente in capitali fissi redditizi i valori investiti, allora anche la speculazione così convulsamente salita potè sortire effetti salutari: a Lione in nove anni, dal 1854 al 1863, il debito dai dieci montò ai cinquantaquattro milioni; ma col forte aumento della popolazione e del benessere crebbero in pari tempo, per l'ammortizzazione del debito e per le spese straordinarie, su tre milioni e mezzo 620.000 lire di sopravanzo di entrate accertate: che, come si vede, è un risultato propizio. Per contro, a Marsiglia in 18 anni, dal 1847 al 1865, il debito crebbe da 17 a 91 milioni e le entrate solamente del cinque e mezzo per cento su 20,9 milioni. Finalmente a Parigi la gravezza del debito si era in otto anni, dal 1859, decuplicato due volte, progredendo da 49 a 984 milioni; e il bilancio preventivo pel 1868 s'impostò su 245 milioni, vale a dire circa più della metà di quanto occorre al regno del Belgio pel mantenimento dello stato! Davanti a tali cifre era effettivamente possibile tranquillarsi solo risalendo alla teoria bandita con giustificata baldanza dai giornali bonapartisti: uno stato, un comune è tanto più ricco, quanto più pesante è il carico dei suoi debiti. Né dava troppa consolazione il fatto, che il prefetto della Senna aveva speso quelle somme prodigiose non puramente pel fasto orientale del palazzo di città che era altresì la sua fortezza, ma anche a scopi utili, e aveva elevato da 1,1 milioni, che erano nel 1847, a 6,5 milioni nel 1867 le spese della capitale per l'istruzione popolare. La speranza dell'imperatore, che la vista delle magnificenze edilizie cittadine avrebbe risvegliato nei provinciali il senso della bellezza, venne meno necessariamente per colpa della precipitazione febbrile delle imprese. Superata la prima impressione di abbagliamento, e in ispecie su alcune nuove piazze a Lione la vista delle superbe fontane tra folti di verzura in mezzo al tumulto del mercato è davvero incantevole, l'occhio del forestiero, e particolarmente del settentrionale abituato alle belle casine serene che spiccano così chiare e nitide nell'aria tenera della campagna, avverte subito il nessun gusto e la gramezza della nuova edilizia. Brulle caserme, incartocciate qua e là di qualche ghirigoro rococò pieno di pretese, ecco tutto; e il tutto è una fedele immagine di questa età della matematica e della muffosità cortigiana, dell'accentramento e dell'uniformazione militare. E soprattutto colpisce sgarbatamente la servile imitazione delle fabbriche parigine; pare quasi che le provincie abbiano smarrito ogni idea propria e indipendente. Ognuno conosce il _Pont Neuf_ con la statua di Enrico IV nell'Isola della Senna; ognuno la torre antica di _Saint-Jacques de la Boucherie_, che come una pietra terminale della vecchia Parigi, allietata da un viale verde, guarda giù la distesa delle magnifiche strade in linea retta: che è uno dei più gradevoli effetti della magia architettonica moderna. Sul ponte di Rouen, allo stesso posto, incontriamo la statua di Corneille; e il consiglio comunale della città normanna non ebbe pace, finché non mise su un mozzicone di torre gotica che, circondata di verde proprio per l'appunto come Saint-Jacques, doveva segnare il confine tra la vecchia e la nuova Rouen, e via dicendo. Non è meraviglia, dunque, se questa eterna uniformità stanca le persone colte; e se si levarono alti e aspri lamenti contro il disamorato spirito d'innovazione, che distruggeva i più venerandi monumenti delle antiche città, e che non sapeva recedere in rispetto nemmeno davanti alla pace del cimitero di Montmartre, davanti ai gloriosi viali alberati del giardino del Lussemburgo. Le considerazioni dei locandieri del popolo pesavano più dei malumori degli amici dell'arte e degli storici. Lo scopo essenziale di tali massicci fabbricati era di dare occupazione agli operai e generosi guadagni. Col fatto, centinaia di migliaia di lavoratori affluivano nelle città. Manifestamente la loro condizione era lieta, perché il salario era elevato, i dazi, gravi pei lavoratori, erano compensati dal basso prezzo del pane, e le abitazioni non eccedenti la pigione di 250 lire erano franche di tassa locativa. Ma è destino del socialismo monarchico il potere iniziare e rinfocolare nuovi moti nella società, ma non il poterli mantenere durevolmente. Questa morbosa furia fabbricatoria doveva pure arrivare a fine una volta. L'idea grossolana, propria del nostro tempo manovale, e già troppo a lungo diffusa e familiare, che lo stato deva promovere l'arte per dar pane agli artisti, operava sul secondo impero con tutto il peso di un problema sociale. Un esercito d'intraprenditori e di coadiutori esigeva un'occupazione fissa dallo stato, che li aveva attratti lontano dal paese e dall'ufficio loro; poiché proprio lo stato aveva, tra con l'ingiunzione o col favore, adescato le città alle trasformazioni edilizie. In tal modo i lavori pubblici dell'impero diventarono a poco a poco officine nazionali nel senso proprio della rivoluzione di febbraio: si fabbricava per fabbricare, e nessuno sapeva dove andava a riuscire cotesta vite perpetua. Il lavoratore venuto dalla campagna non era affatto più contento nelle grandi città: si sentiva sommerso e ubbriacato dal lusso abbagliante, appetto al quale il salario, per quanto rispettabile, gli pareva una misera carità. Tale essendo la smoderata situazione di favore degli operai delle città, lo spopolamento delle campagne venne aumentando in modo estremamente grave. Una volta l'imperatore disse agl'industriali di ritorno dall'esposizione di Londra, che essi avevano ben meritato della Francia, perché ogni splendido prodotto economico di un popolo dà a divedere l'altezza di tutta intera la sua civiltà. Cotesto vanaglorioso _tous les progrès marchent de front_ non era altro che una delle tante illusioni della politica del materialismo. Per l'appunto nella storia del secondo impero lo storico serio trova ancora una volta confermata la triviale verità, che l'uomo non vive di solo pane. Così è: approfondendo questo proverbio, egli riconoscerà, che le società umane, le quali aspirano e tendono solamente ai beni materiali, finiscono col perdere insieme con lo zelo morale anche la forza del progresso economico. L'imperatore sperava, che i contadini reduci dalle città avrebbero diffuso nelle campagne l'abitudine di una nutrizione più solida, carnea; ma nessuno vi ritornava. Anche per l'addietro le laboriose contrade della Creuse, della Marche, del Limousin mandavano lontano i giovani a prestare la loro opera di muratori: ora principiarono a spopolarsi, perché gli operai non intendevano più di dar le spalle ai piaceri delle grandi città. Tra gli anni 1851 e 1856 la popolazione diminuì in 20 dipartimenti, anzi in quello dell'alta Saône circa di un intero decimo: la popolazione di tutto l'impero crebbe non più che di 256.000 anime, e quella della capitale di circa 305.000. In verità gli anni seguenti mostrano un aumento alquanto più vivo, ma le stesse statistiche ufficiose doverono designare coteste condizioni morbose con l'accettevole perifrasi: «la popolazione rimane stazionaria». Nei primi 60 anni del secolo la popolazione dell'impero era cresciuta a un dipresso del 0,57 per cento all'anno: le occorrevano quindi, per raddoppiarsi, 150 anni: alla Germania, secondo i dati raccolti finora, circa 55 anni. A quei sacerdoti di Mammona, che in un fitto stuolo di fanciulli vedono non più che pure bocche inutili, diamo il modo di ponderare quale spostamento di energie abbia arrecato la scarsa fecondità della popolazione francese. Nel 1816 vivevano in Francia su ogni miglio quadrato 500 uomini più che in Germania, esclusa l'Austria; viceversa nel 1861 il miglio quadrato in Germania era divenuto più denso di 300 uomini, e al principio della guerra germanica la Francia era già superata in popolazione assoluta dalla Prussia e dagli stati settentrionali e meridionali della Confederazione! Certo, nessuno esperto in materia si sorprende, che nella nuova età napoleonica le cittaduzze al disotto dei 3000 abitanti siano discese in media tra il 12 e il 14 per cento; giacché l'età delle ferrovie, il cui traffico è per sua natura accentrante, ha prodotto gli stessi fenomeni in tutta Europa. Ma il persistente decremento della popolazione agricola, mentre Parigi e Lilla, Saint-Etienne e altri centri manifatturieri crescevano di continuo, era innegabilmente un sintomo di malsania sociale. Noi però non lamentiamo, come molti patrioti francesi, che la stirpe gallica non mostri più la medesima fecondità, che nel secolo decimosettimo o tuttora oggigiorno al Canadà: l'accrescimento più lento della popolazione, del pari che il difficoltarsi dei matrimoni, si accompagna di regola lato a lato con la grande elevazione della cultura. Solo che, se riflettiamo che la Francia, grazie alla sua libertà di convivenza e non ostante il celibato obbligatorio dei suoi soldati e dei suoi 45.000 ecclesiastici secolari, conta meno celibi che non forse qualunque altro paese d'Europa, il ristagno della popolazione ci appare in una luce assai torbida. La persistente diminuzione dei figli, dei quali nascevano in media da un matrimonio 4,1 sotto il primo imperatore e ne nascono 3,14 sotto il secondo, non si spiega minimamente, considerata in grande, con la cautela della prudenza. Dipende o dalla devastazione morale del vizio o dalla debolezza corporea; ed effettivamente il celibato dell'esercito e la rinnovata distruzione di 200.000 uomini vigorosi inghiottiti dalle guerre del secondo impero, hanno sostanzialmente agevolato il matrimonio agli storpi e agli scriati. Anche il divieto della ricerca della paternità, indetto dal crudo spirito lanzichenecco del primo Napoleone, ha certamente attenuato il numero delle nascite illegittime, e ha perciò riscosso sovente il plauso della scuola di Manchester; ma oggi uomini più seri si pongono la domanda, se quella legge draconiana non ha esacerbato i traviamenti che riescono incomparabilmente più perniciosi alla sanità del corpo e alla morale. La nazione francese non era più in grado di atteggiarsi a prima potenza incontestata del continente; bene o male doveva conformarsi alle condizioni di un equilibrio europeo seriamente inteso. Se il fatto dell'incivilimento pacifico del mondo può, protratto in lungo, tornare solamente in bene, tanto più un'altra conseguenza dell'arresto della popolazione in Francia move a tristezza ogni pensatore. La storia europea esordisce con l'aristocrazia popolare dei cittadini ellenici, e allora toccherà il culmine, quando l'aristocrazia popolare della razza bianca dominerà le terre di là dagli oceani. Nella grandiosa lotta mondiale, che sorge per tali questioni pregne di destini, la sorte più propizia è toccata alla stirpe anglosassone. Anche il tedesco deve guardare con balda fiducia a questo grande avvenire. Perciò si è già da tempo avuto cura, che la solerzia tedesca e l'operosità tedesca abbiano degni rappresentanti nel Mississipì e nel Yang-tse-Kiang, nel Cile come nel Giappone; e fin dal giorno di Königgrätz noi possiamo anche sperare, che nei paesi transatlantici la nazionalità e la lingua della Germania dureranno. Invece il francese avrà in questa gara una parte molto subordinata. La Francia non conosce emigrazione. Significano poco i 200.000 abitanti che abbandonano il paese nello spazio di dieci anni; significano quasi nulla, se poniamo mente, che le buone intelligenze delle classi medie fanno ressa quasi tutte per gl'impieghi, e che la Francia non manda negli uffici degli scali transatlantici le energie della sana gioventù, come la Germania o l'Inghilterra, ma gente per la più parte bacata o corrotta. Chi sa apprezzare pienamente la multiforme ricchezza della civiltà europea, lamenta con dolore, che questo inaridimento di forze del popolo francese minacci di aprire una lacuna irreparabile nella cultura del mondo. Ma il dado è gettato, e se tutti i segni non ingannano, la Francia dovrà rimanere una potenza europea in quel prodigioso avvenire, in cui sarà fatta la storia universale, in cui tedeschi e russi, inglesi e nordamericani troveranno nuove vie al commercio mondiale e nuove forme all'ascensione umana. Il vezzo dei lavoratori delle città, che minacciava così gravemente l'equilibrio delle forze economiche, aveva almeno procurato all'impero il fedele attaccamento dei figliuoli prediletti? La sollevazione della Comune di Parigi dà una risposta schiacciante. I vantaggi, che l'impero accordò agli operai, non sono minimamente da paragonarsi con l'affrancamento da un'oppressione indicibile, concesso un tempo dai Cesari di Roma agli abitanti delle provincie. L'operaio teneva in faccia al bonapartismo un atteggiamento meno ostile che in faccia ai borghesi e ai legittimisti; il suo antico odio contro i _transporteurs_ del sistema parlamentare non era ancora dissipato interamente. Lo stesso intento, così esaltato dai radicali, del dominio diretto del popolo, trovava pochi partigiani: in generale in questo mondo di _business_ non vi era più posto per le teorie e gl'ideali. Una parte degli operai capì effettivamente ciò che i bonapartisti inculcavano loro senza tregua, che, cioè, «solo un governo forte e saldo può recar loro i miglioramenti, che gli arruffapopoli promettono a vuoto». Ma era vano cercare un vestigio di gratitudine sincera verso l'imperial benefattore. Se i potenti dell'impero piaggiavano le mani callose, se il poeta bonapartista Méry cantava agli operai della Tipografia centrale delle Ferrovie: sachez bien que le jour viendra où de vos mains jaillira la lumière; il quarto stato ne tirava la teoria, che esso governava l'impero e che la corte lo temeva. In verità, era assai breve la via che correva tra queste lusingherie e l'atroce canzone, che dopo la rivoluzione di febbraio sgargagliavano per tutti i canti della capitale: un jour viendra que le riche éclairé donn'ra sa fille au forçat libéré! Pochi mesi dopo che Jules Favre aveva pomposamente assicurato, che non esisteva plebe a Parigi, le petroliere della Comune apparecchiavano l'orrenda festa dei morti! Gli atti del Congresso del Lavoro di Ginevra del 1866 porsero un quadro istruttivo del cambiamento di animo di queste classi. Non un discorso sulle fantasticherie comunistiche dei tempi andati. Si disputò commercialmente, con talento pratico e con minacciosa serietà: gli operai intendevano di diventare capitalisti, consideravano la povertà e il salario come un'infamia e desideravano quanto meno la riduzione della giornata a otto ore, laddove al tempo della rivoluzione di febbraio le moltitudini si tenevano a dieci ore. Più tardi, al Congresso del Lavoro di Bruxelles, si domandò il pareggiamento della cultura, di _égaliser les intelligences_, se il mondo voleva effettivamente ottenere la vera eguaglianza. Quando il _demi-monde_ ritornava dalle corse di Vincennes all'elegante quartiere di _Notre Dame de Lorette_, ed era uno splendido rimescolio di cabs, di broughams, di chaises, di snelli cavalli inglesi e di gravi _percherons_, di lacchè rossi e di postiglioni verdi, la folla domenicale che si allineava sui vasti boulevards gettava occhiate in cagnesco e insulti sulla sfilata, e accadeva sovente, che uomini in camiciotto rompessero le file per strappare dalla sua carrozza una bella dama ingioiellata. Chi ha assistito a una tale scena dev'essere ben fanciullone per credere, che la coscienza del popolo si elevi al cospetto del vizio scialante. Era l'antico immortale livore contro la ricchezza, e nemmeno il fasto della corte sfuggiva a una siffatta invidia. «Io voglio lavorare con le vostre mani e voi dovete digerire col mio stomaco»; così dice, secondo il _Propos de Labiénus_, il patto fondamentale conchiuso da Napoleone III col suo popolo; e mille e mille seguivano l'opinione di Rogeard. L'atteggiamento politico di cotesta turba ignorante e insolente, che nemmeno l'emigrazione dei senza mestiere determinato sarebbe riuscita ad espurgare, non si poteva assolutamente calcolare. Anche la battaglia di giugno del 1848 aveva abbattuto solo pel momento la furia di saccheggio dei comunisti. L'iscrizione a una società segreta era, come per l'innanzi, il congruente dovere di onore di ogni operaio che sapeva leggere e scrivere; la lega dell'Internazionale, i cui inizi rimontano probabilmente ai giorni della rivoluzione di febbraio, coscriveva segretamente numerosi affiliati. Il nuovo diritto di sciopero fu abusato fino ai più rozzi e insensati scioperamenti. Una volta, prima delle elezioni comunali a Marsiglia, i giornali ufficiosi minacciarono, che se le elezioni fossero riuscite contrarie al governo, si sarebbero sospese le costruzioni pubbliche della città, che occupavano circa 50.000 operai: ma fu una minaccia che poi naturalmente non si ebbe il coraggio di effettuare. Ciò non ostante, gli operai votarono per l'opposizione, e non già perché amassero i retori del partito in parlamento, ma perché il governo, per quanto avesse fatto per loro, non aveva mai fatto abbastanza. A farla breve, nemmeno alle arti magiche del socialismo monarchico era riuscito di riconciliare il lavoro col capitale. A tutta prima, la preferenza data ai lavoratori delle città sulle popolazioni delle campagne sembra enimmatica, perché l'imperatore ai ceti agricoli doveva il trono. Sovente egli si qualificava, con orgoglio imperatore contadino; e assicurava spesso che, più giusto della monarchia di luglio, intendeva di compiere l'elevazione dell'agricoltura prima della riforma della politica commerciale. Dichiarò il miglioramento dell'agricoltura più importante della trasformazione edilizia delle città, ed esigé dai prefetti, che alla coltura delle terre «rifacessero il debito posto tra i grandi interessi del paese»; per cui i ministri, poiché notoriamente ogni ordine imperiale veniva eseguito, affidarono che gl'illuminati intendimenti di Sua Maestà erano da tempo effettuati, e che l'agronomia non era mai stata tanto popolare e stimata come al presente. Il duca di Persigny curava con zelo particolare coteste inclinazioni bucoliche dell'imperatore; faceva la sua regolare apparizione in tutte le festività agricole del suo paese, nel contado di Forez; per esaltare di contro all'irrequietudine e all'odio di classe delle città l'innocenza, la fedeltà, la temperanza dei contadini. Anche i prefetti impararono presto a melodiare sui trilli di questo Teocrito bonapartista. Ad onta di ciò, perché mai l'agricoltura rimase la figliastra dell'impero? Dai tempi dei bagaudi galloromani l'agricoltore francese effettivamente non era mai stato fortunato: ma perché questa antica triste legge della storia francese non si mutò sotto l'imperatore contadino? I contadini costituivano il sostegno più sicuro dell'impero; il loro sentimento bonapartistico era talmente appassionato, che in caso di bisogno sarebbe stato agevole rievocare appunto nelle contrade più rozze, dell'impero una jacquerie per l'imperatore. Ma precisamente per questo tornava meglio trascurare i contadini anziché gli operai, di cui era immediato il pericolo che minacciavano. Inoltre la modestia e la lentezza dei lavori agricoli offriva poco spazio a quei magnifici spettacoli di parata, di cui la tirannide aveva bisogno. L'agricoltura è la più libera delle professioni e non può fiorire durevolmente senza una certa indipendenza dei comuni campagnuoli; ragione per cui subisce l'opposizione istintiva della burocrazia. Inoltre gl'impiegati, del tutto educati e conformati cittadinamente, si ritrovano nuovi, in completa incompetenza, davanti alla coltura della terra. Da tempo immemorabile non esisteva un prefetto, che fosse egli stesso un attivo agronomo: quel vincolo tra gli uffici amministrativi e le grandi proprietà fondiarie che in modo così prezioso è stabilito nei consigli provinciali prussiani, non era concepibile nelle condizioni sociali della Francia. Fin dalla rivoluzione di luglio la grande proprietà fondiaria era sospettata di sentimenti legittimisti: la monarchia borghese dimostrò al Congresso centrale degli Agricoltori, presieduto dall'antico ministro borbonico Decazes, un malvolere dichiarato, che da allora si perpetuò nella burocrazia. Siccome, per giunta, a ogni grande possedimento fondiario è collegato un casato aristocratico, e siccome i progressi tecnici notevoli dell'agricoltura non possono di regola venire che da questi aristocratici campagnuoli, anche la stampa nel suo zelo di eguaglianza porse un gramo appoggio agli sforzi per le riforme dell'agricoltura. Talché in tale campo i saggi felicitatori dell'imperatore ebbero esito scarso, sebbene Napoleone III abbia indiscutibilmente procacciato, per l'agricoltura mille volte più della monarchia di luglio. Furono fondate una folla di società agricole, e fatte innumerevoli esposizioni, in cui il prefetto appuntava al solerte agricoltore il distintivo d'onore dal nastro azzurro, e anche, nei momenti solenni di virile commozione, imprimeva un casto bacio sulle labbra di una esemplare vergine vaccaia. Grandiosi istituti di credito dovevano riparare alla scarsezza di capitale dei contadini, e fin dal 1859 esisteva, messa su riccamente, una società di assicurazione per la gente di campagna. Nelle scuole elementari fu resa di rigore la diffusione delle cognizioni agricole, e nel 1866 fu disposta con gran fragore un'inchiesta di stato su tutte le escogitabili condizioni dell'agricoltura. Lo stato ha con dispendi enormi dissodato le _landes_ deserte del Mezzogiorno occidentale e le ha ripartite a piccoli proprietari, in modo che oggigiorno la Guascogna comprende tuttora soltanto 9.500 ettari di terre incolte contro 283.000 che erano nel 1857. Nelle regioni più abbandonate della Sologna e del Berry l'imperatore fondò anche poderi modello, i cui successi tecnici, strappati a forza di spese fuori di ogni convenienza, non offrivano certo alcun modello al povero contadino. Tuttavia il maggior merito, che l'imperatore si fece rispetto all'agricoltura, era fondato nella sua politica commerciale. Quando Napoleone III tra l'esosa resistenza dei proprietari di terre ridusse prima il dazio sulle telerie e il bestiame e poi soppresse i dazi protettori agricoli e abolì interamente la scala mobile, egli menò a termine una riforma salutare, che sarà riconosciuta un giorno da una generazione imparziale. Purtroppo, i propositi illuminati del monarca erano però attraversati di continuo dalla saccenteria burocratica. Le società agricole erano sottoposte alla sorveglianza dei prefetti, e perciò non prosperavano. La loro unificazione a un centro era tenuta pericolosa; perfino negli ultimi tempi più liberali dell'impero fu proibito un congresso di vinicoltori. I commercianti eleggevano bensì le camere di commercio, ma il prefetto nominava il _conseil_, che nelle questioni agricole gli dava i pareri tecnici. In tal modo accadeva, che nei consigli non prendeva parte nemmeno uno solo dei grandi proprietari di terre. Il prefetto aveva la presidenza e nominava il segretario. L'onnisapienza burocratica non si teneva non di rado dal vietare la raccolta, se il grano secondo l'opinione del prefetto non era ancora maturo, e vietava la sarchiatura della paglia, perché la tirannide socialistica doveva aver cura degli spigolatori; e quante altre cose meglio sono degne del paese degli Abderiti, il signor di Esterno le ha descritte nella sua unilaterale ma istruttiva monografia _Les privilégiés de l'ancien régime et les privilégiés du nouveau_. Se il sistema delle strade vicinali, ad onta di tutti i richiami dell'imperatore, non si potè sviluppare, e alcune regioni della Francia centrale ricordavano le Gallie romane perché magnifiche strade imperiali attraversavano un paese impraticabile, la colpa era ora e sempre dell'amministrazione burocratica. Solo i comuni autonomi costruiscono le vie vicinali; e, parimente, solo i comuni autonomi assicurano i rimedi all'inconveniente, che i ragazzi dei contadini non imparino mai a conoscere le idee elementari della teoria del loro mestiere. Gl'istituti di credito posti in iscena con tanta pompa, aggranfiati dal furibondo spirito affarista del tempo, non profittarono quasi in niente al mestiere senza pretese del contadino. La società del _Crédit foncier_ impiegò in 13 anni, dal 1852 al 1865, 714 milioni, di cui la metà nella trasformazione edilizia di Parigi, e per la campagna non più che la somma risibilmente meschina di 57 milioni. Anche le _cités ouvrières_ doverono presto rinunziare all'assistenza di quella società, giacché i dividendi alti, che lo speculatore agognava, non potevano certo uscire da un'impresa veramente di pubblica utilità. Altrettanto sterile per l'agricoltura si dimostrò il così detto _Crédit agricole_. C'è di più: gli esattori delle imposte, agenti ufficiali del _Crédit foncier_, ricevendo il premio per ogni somma che versavano alla società, si davano da fare per attirare a Parigi i risparmi dei contadini, invece di far affluire sull'agricoltura il danaro della capitale. Importanti società agricole per assicurazione dalle alluvioni e simili furono costituite invano; il gioco di borsa o l'alto dividendo delle banche di credito di Parigi sembravano più attraenti. E come inciampò nella speculazione, il contadino si disaffezionò dal suo modesto mestiere. In questo modo l'agricoltore ebbe a soffrire sotto il socialismo monarchico per due ragioni: i capitali della campagna affluirono alla metropoli, e in pari tempo salì il salario pei lavori campestri, perché i lavori edilizi delle città richiamavano i giornalieri. Il dirizzone burocratico impedì anche a questo regime del moto perpetuo di metter mano a correggere le antiche leggi difettose che opprimevano l'agricoltore. Il _Code rural_, al quale dal 1808 lavorarono cinque sistemi, non fu mai ultimato. Il principio salutare della libera divisibilità delle terre sortisce effetti palesemente rovinosi, se non viene alleviato l'aggravio delle preselle. Ma l'elevata tassazione delle permute, che i Borboni avevano abolito sull'esempio della Prussia e dell'Inghilterra, reintegrata poi dagli Orléans, continuò tuttora sotto l'impero, in guisa che le contribuzioni degli appezzamenti ampiamente scompartiti avanzavano appena. Le tasse sulla vendita dei fondi e annesse spese legali ammontavano al 10 per cento del valore: nel 1862 furono venduti per 2 miliardi di fondi con un dispendio di 214 milioni tra spese e tasse. Non meno oneroso riusciva con le sue spese e formalità afflittive l'ordinamento ipotecario tuttora immutato. Ma ciò che opprimeva i contadini non erano le imposte dirette, come affermavano gli oratori di opposizione; e nemmeno le tasse irragionevoli sulle porte e le finestre, poiché gli abituri senza finestre, che tanto ripugnano all'occhio dell'uomo del Nord, non sono affatto incomportabili con le abitudini di vita degli uomini del Sud. Ciò che pesava duramente sull'agricoltore era la mancanza di credito, aggravata da una legislazione agraria introdotta sotto il dominio delle classi medie urbane e dalla febbre della speculazione dell'impero. Nel 1850 di 7,846 milioni di proprietà fondiarie 3 milioni erano esentate per insolvibilità. L'assoggettamento della campagna al capitale cittadino, cotesto antico malanno dell'Italia, cominciò a propagarsi anche in Francia: assai di frequente il piccolo proprietario rustico nelle regioni molto appezzate del canale veniva incettato affatto dai fabbricanti di Rouen e di Elbeuf. Perfino la sicurezza delle persone e della proprietà non era abbastanza tutelata in campagna. Tale ineguaglianza era gravemente sentita da un popolo, che aveva rotto con tutti i privilegi. Questa terra meravigliosamente ricca, i cui immensi rinfranchi non possono apprezzarsi facilmente, superò senza troppi lamenti, sugli esordi dell'impero, tre cattive raccolte l'una dietro l'altra, il colera, varie guerre e inondazioni. L'agricoltura cavò, come è giusto, qualche vantaggio dal nuovo risveglio dell'ardore economico. Menzioniamo soltanto l'allevamento dei cavalli, il cui numero e valore, non ostante le ferrovie, salì notevolmente. L'esportazione dei percherons crebbe di anno in anno, e i corridori francesi batterono ripetutamente nelle corse di Baden e di Parigi i cavalli inglesi e tedeschi. Noi inoltre non siamo affatto dell'avviso di molti politici conservatori, che sia necessario all'agricoltura francese il passaggio al sistema inglese dell'affitto. Qui si tratta di costumi e idee tenaci della nazione, che sono più potenti delle dottrine di partito. Ammesso pure che il fittaiuolo inglese raggiunga risultati tecnicamente più splendidi, nulladimeno la Francia nei suoi milioni di liberi contadini possiede un tesoro morale, il cui valore politico aprirebbe facilmente gli occhi agli scettici nell'evento di una guerra europea. Ma i monti d'oro, che l'impero prometteva agli agricoltori, sono tuttora un sogno. Il piccolo agricoltore, ignorante e senza capitale, sa tuttora usare assai poco i concimi, e non sa quasi affatto d'irrigazione e di bonificamento; e tuttora risuona l'antico lamento degli agronomi, che l'agricoltura si volga unicamente ai cereali e trascuri l'allevamento del bestiame e gli erbaggi. Insomma anche sotto l'imperatore contadino l'agricoltura rimase il mestiere più umile, incomparabilmente meno onorato e lucrativo della burocrazia e del foro, dell'industria e della borsa. Mentre l'agricoltura non sapeva risollevarsi dalla sua malsania inveterata, per contro il commercio e l'industria venivano iniziati alle fortune di un'età novella da un atto dell'imperatore, che, già mezzo dimenticato dagl'ingrati contemporanei, basta da solo ad assicurare al nome di Napoleone III una fama imperitura. Per assicurare la libertà del commercio, l'imperatore dové romperla con alcuni dommi della religione napoleonica, con le abitudini burocratiche e coi pregiudizi nazionali; anzi, di più, addirittura con la tradizione storica del suo stato. Un tempo egli aveva rispettato fidamente le idee protezioniste dello zio; poi era stato testimone oculare dell'ardita conversione di Roberto Peel, e più tardi apprese da Cavour, da Michele Chevalier e dai conservatori progressisti della monarchia di luglio, Morny e Girardin, quanto le loro aspirazioni liberoscambiste avessero esacerbato la borghesia. Ma lo stesso Girardin si aspettava solo per un lontano avvenire l'abiura, da parte del governo, dell'antichissima consuetudine del sistema proibitivo. Frattanto l'imperatore aveva capito le mutate condizioni del commercio mondiale; e che egli abbia osato gettarsi nell'alta marea della moderna vita commerciale, che sia stato capace di comprendere la nuova età sullo sboccio, che abbia opposto una volta all'egoismo delle classi un atto monarchico di giustizia distributiva, ecco, in ciò appunto consiste la più bella gloria del suo governo. Egli previde, che la riforma delle insostenibili tariffe della Francia e dell'Inghilterra s'imponeva, e che questa riforma, senza un'intesa reciproca, minacciava di sconvolgere gl'interessi industriali dei due paesi. Ed egli profittò del momento favorevole, quando la riputazione dell'impero dopo le vittorie in Italia toccava il culmine, per cercare, con l'opera di specialisti dei due stati, principalmente di Cobden e di Chevalier, un accomodamento delle reciproche pretese, per altro estremamente difficile, tanto era grande la differenza delle due tariffe. Finalmente il 23 gennaio 1860 il trattato di commercio fu concluso. Subito dopo la statua di Richard Cobden fu rizzata a buon diritto nel castello di Versailles in mezzo ai grandi della Francia. Quando la somma di tutto il commercio di esportazione e d'importazione, che nel 1850 ascendeva a non più che 2500 milioni, ammontò nel 1865 a 7614 milioni; quando l'esportazione, singolarmente degli _articles de Paris_ e degli oggetti anche più fini in cui s'invaloriscono il senso squisito della bellezza e il gusto dei francesi, crebbe affatto smisuratamente; allora siffatti numeri doverono ben provare a ogni persona imparziale i benefizi del libero traffico, ad onta della riconosciuta abilità della statistica imperiale, che dimostrava continuamente ciò che voleva dimostrare. Considerazioni politiche ed economiche costrinsero, l'imperatore a spingere la libertà del commercio sulla via dei dazi differenziali e dei trattati commerciali. Si trattava di cattivare il consenso del corpo legislativo, del quale, dato il cambiamento legale generale delle tariffe, era impossibile far di meno. Si trattava inoltre d'indurre, col timore di perdere il mercato francese, gli stati vicini sul cammino del libero traffico e, nello stesso tempo, assicurare qualche compenso all'industria francese. E soprattutto l'eletto del popolo aveva a cuore di apparire al mondo come l'apportatore di pace e il precursore di un progresso europeo. Volle sentirsi in diritto di dire alla camera di commercio di Lione: «la Francia in Europa dà l'impulso a tutte le idee grandi e magnanime»; e conciliare in tal modo molti interessi di classe danneggiati, appagando la vanità nazionale. Si susseguirono rapidamente l'uno all'altro i trattati di commercio col Belgio, con l'Italia, con la Germania. La diplomazia, conformandosi al sogno d'oro dell'apostolo della pace, parve immergersi completamente nella politica commerciale; e nacque allora quella nuova forma umanissima dei trattati di commercio, la quale non mira più ad assicurare prerogative alle parti contraenti, ma vuole soltanto impedire, che rimanga adito al privilegio dei terzi. Mercé questa catena di trattati commerciali, mercé il trattato di passaporto con l'Inghilterra e via dicendo, fu fondato il mercato libero dell'Europa occidentale, e fu effettuato in senso equo e ragionevole quel sistema federativo europeo, a cui invano si era sforzato di pervenire lo zio con astuta cupidigia di dominio. L'imperatore poté annunziare con soddisfazione: «è compiuta finalmente la terribile invasione da tanto tempo predetta sul suolo inglese», e invitare la sua nazione a «inaugurare baldamente una nuova êra di pace». Cotesta ascensione dei popoli promossa dal dispotismo non ispira certo un appagamento così sereno, quale fu dato un tempo da quel rinfrancante spettacolo di rischiaramento degli spiriti nella libera disputa, che precede in Inghilterra l'abolizione delle leggi sul grano. I liberoscambisti di Francia un tempo lamentavano, che fosse loro rifiutata la diffusione delle proprie idee con la libertà di parola; ma accettarono ora con allegrezza il _coup d'autorité_, anzi lo accettarono con orgoglio. Il che è certamente un triste argomento per l'inefficacia dell'educazione politica. Bisogna pur dire la cruda parola: senza l'imposizione imperiale, la Francia ancora per decenni sarebbe rimasta priva del benefizio del libero scambio. La spaventosa insipienza e l'egoismo della maggior parte dei membri del corpo legislativo, inviluppati in mille affari d'industria e di accanita speculazione, non lasciavano dubbio, che una riforma parlamentare della politica commerciale fosse impossibile. La volontà del monarca in questo caso speciale aveva non soltanto migliorato la legge, ma anche sollecitato l'educazione della nazione alla libertà, almeno per quanto la libertà era compatibile in questo paese. Il momento politico favorevole della riforma fu, sotto l'aspetto economico, scelto assai infelicemente. Il paese soffriva della cattiva raccolta del 1861, il commercio del cotone della guerra americana; e alcuni rami dell'industria effettivamente non erano ancora abbastanza maturi per reggere alla concorrenza inglese. Nulladimeno la disposizione liberoscambista del Mezzogiorno e dell'Occidente prese a poco a poco il sopravvento sulle perplessità protezioniste del Settentrione. Se in Francia si sono consumate nel passato decennio non più che 10 libbre di caffé e 3 libbre di zucchero a testa, e nell'Unione doganale, incomparabilmente meno favorita dalla natura, 10, 50 libbre di caffé e 4 di zucchero, bisogna sempre a ogni modo tener conto delle differenti abitudini di consumo dei settentrionali e dei meridionali; tuttavia anche da queste e consimili cifre risulta chiaro, che l'economia del privilegiato paese non dava ancora ciò che poteva. Principalmente nella stampa si fece sempre più viva la persuasione, che solo l'affrancamento delle forze economiche avrebbe potuto mettere interamente in valore la potenzialità del paese: se la pace durava, pareva impossibile una ricaduta nel sistema proibitivo inteso secondo i dettami della scuola pratica degli ultimi anni. La libertà del commercio dà all'uomo moderno la piena coscienza della sua energia personale. E assai di rado la prima ampia breccia nel sistema della tutela burocratica è stata aperta da un atto dispotico del governo burocratico. Il detto di Napoleone III: «un popolo è tanto più ricco e felice quanta più ricchezza e felicità contribuisce ad arrecare agli altri», era a poco a poco divenuto in Francia un luogo comune. Era a sperare, che cotesta verità fondamentale umana della moderna arte di governo sarebbe appresa anche nei rapporti delle classi e sarebbe applicata nella politica estera. Ma in questo, come in tutti gli altri campi della vita pubblica, la guerra germanica e la terza repubblica hanno apportato una rude reazione: la follia della politica commerciale del grande cittadino Thiers doveva di nuovo dimostrare al mondo, che la _médiocrité méconnue_ di Luigi Napoleone ad onta di tutti i suoi falli era stata più prudente e più liberale che non sarebbe mai un uomo di stato dell'ultima generazione francese. Il famoso aforismo: «la Francia è abbastanza ricca per pagare la sua gloria», non manca di fondamento: la prodigiosa potenza del lavoro e del risparmio nell'economia moderna supera ogni previsione. La terraferma non aveva mai visto forse una produzione economica così gigantesca, come nei due massimi momenti della speculazione sotto l'impero, cioè dopo il colpo di stato e dopo la guerra di Crimea. Era il tempo che Girardin disse: _il n'y à plus rien à faire aujourd'hui que de se faire millionaire_. Perfino cotesto instancabile regime imperiale non poté tener dietro ai colossali progressi del traffico. La riforma delle poste e l'estensione delle linee telegrafiche, che destarono tanta meraviglia dopo il colpo di stato, a breve andare non bastarono più: presto la posta francese rimase alla coda rispetto ai paesi vicini. All'antica rete ferroviaria delle sei grandi compagnie se ne aggiunse una seconda e più recentemente anche una terza: talché, mentre nel 1857 si avevano 1330 chilometri di ferrovie, nove anni dopo si era a 21.050 chilometri in esercizio o in costruzione, e ogni giorno sorgevano nuovi progetti. Le opere dell'impero nel campo della politica economica posero affatto in ombra i provvedimenti dei Borboni e degli Orléans; solo che risentivano morbosamente dei due difetti, che rimontano ai mali politici fondamentali del sistema. L'esagerato accentramento gravava anche sul traffico: il monopolio della banca era sempre in vigore, ed effettivamente la Banca di Francia non era in realtà che la banca di Parigi, e il suo credito andava in preponderanza tutto a favore della capitale. E lo spirito di speculazione vertiginosa e vanagloriosa, che era nell'essenza della tirannide democratica, raggiunse appunto nella vita industriale un'altezza spaventevole: una pioggia d'oro doveva consolare la borghesia defraudata dei suoi beni ideali. Certo, il gioco di borsa è inveterato sul suolo di Parigi, era già in vigore in tempi di economia tuttora bambina, nei giorni di Law, quando evidentemente tornava più rovinoso di ora, che una parte degli speculatori di borsa esercitano come una seria incombenza l'ufficio di pionieri. Ma i 9998 milioni di prestiti esteri che furono negoziati alla borsa di Parigi nei dieci anni dopo il 1855, e nel solo anno 1863 1205 milioni, indicano in verità uno stato di febbre; e tanto più, perché i prestiti più vertiginosi degli stati più discreditati, quali l'Austria e il Messico, l'Italia e la Spagna, la Russia e la Turchia, godevano del particolare favore dei pezzi grossi della borsa di Parigi. Quando gl'ipocondrici eruditi hanno ravvicinato gli epuloni del secondo impero a Roma antica, l'obiezione da fare era semplice: la ricchezza moderna è ammassata col lavoro, quella dei Romani era un ammassamento di rapine. Tuttavia innanzi alle ditte Mirès e Solar, Pereire e Co., e tante altre scandalose fortune nate di fresco, anche quest'ultima consolazione sembra di dubbia efficacia. Il governo stesso risentiva penosamente di cotesta strapotenza artificialmente abbottata della borsa, e si vide costretto nei suoi disegni politici a trarre un partito supremamente indecoroso dal ribasso; e raccolse così non altro che i frutti del suo operato. Il potere statale del bonapartismo si credé in dovere di additare la via anche al capitale della nazione. Indusse i possidenti a collocare miliardi in Italia, nel Messico, in Austria; e a tutti è noto quanto favore partigiano accordò lo stato ai nuovi istituti di credito, e con quanta spudoratezza la Società del Credito mobiliare ebbe agio di sfruttare i più importanti interessi commerciali del paese alla locupletazione della ditta. L'idea di una società di credito che deve servire soltanto allo scopo di trovare nuovi collocamenti al capitale e di provocare nuove imprese per azioni, risponde chiaramente al carattere di uno stato burocratico dove ognuno è abituato a seguire la spinta venuta dall'alto; ragion per cui non ha mai trovato il buon terreno di attecchimento nei paesi dell'attività industriale indipendente, in Inghilterra e nell'America del Nord. La società condusse alcuni anni di abbagliante splendore, che sedussero alla lode anticipata anche l'economista londinese; in seguito, in quel tempo di sfiducia che fin dal 1864 gravò sul traffico, risultò palese, che l'unione in una sola mano di una così ponderosa e multiforme congerie d'imprese superava oltre ogni misura la potenza intellettuale di un uomo. La splendida intrapresa volse al tramonto: anche in questo caso il sistema seppe svegliare energie, ma non seppe menarle avanti e conservarle. Riflettendo su tali esperienze, noi intendiamo bene il perché uno dei nostri principali commercianti tedeschi, un autentico rappresentante della vecchia borghesia, soleva dire mestamente: «tempi come quelli di Luigi Filippo, noi non li rivedremo più!». L'estensione degli affari era smisuratamente aumentata fin dai giorni della monarchia borghese; ma l'arrabattarsi febbrile dello stato socialistico, la grossolana foia di godimento del tempo facevano apparire anche l'attività economica come un'avventura, come un giocar d'audacia. Inoltre la formazione del capitale sempre dal nuovo fu turbata dal fasto della corte e dalle guerre, dall'inaudita spensieratezza dell'amministrazione finanziaria. Se promesse vi sono, non mantenute in seguito, sono indubbiamente quelle fatte dal pretendente di economie napoleoniche, che ritornano sempre negli scritti di Luigi Bonaparte in mezzo a vivaci attacchi contro gli sperperi del parlamentarismo. Ma il nipote non poteva, come lo zio, alleggerire il proprio stato mercé i tributi dei paesi soggiogati, né possedeva il talento finanziario, il senso militare dell'ordine che aveva l'antenato. Il motto d'ordine in voga tra i malcontenti, «libertà o bancarotta», era certo una frase, e altrettanto vuota e frivola come l'altra «libertà o guerra». Le finanze dell'impero anche nella primavera del 1870 non versavano affatto in condizioni tanto disperate, come il bilancio dell'antico regime prima della Rivoluzione; e nemmeno possiamo concedere, che ai tempi parlamentari il mantenimento dello stato si sia segnalato in fatto di ordine e di economia. Soltanto la Restaurazione ha amministrato esemplarmente le finanze, e ciò per opera di burocratici come Villèle e Louis, i quali del resto non aderivano minimamente alla dottrina costituzionale. Durante la fioritura del parlamentarismo l'indebitamento dello stato crebbe invece irrefrenabilmente, sebbene la monarchia di luglio ben poco avesse fatto pel benessere dei molti e per la potenza del regno. Anche la situazione malsincera e malsicura del bilancio è una eredità del tempo parlamentare. Fin dal 1848 Lasteyrie mosse l'accusa ben giustificata: «l'impalcatura del nostro bilancio è rinzeppata d'inganni e finzioni». L'ultimo prestito del regno di luglio, nel 1847, fu conchiuso al corso di 75 lire e 15 centesimi; ma le rendite furono subito iscritte nel Gran libro, mentre il capitale fu versato a poco a poco appena in due anni; donde sortì un corso solamente di poco più favorevole di quello, a cui poté arrivare nel 1868 l'impero, dopo provvedimenti incomparabilmente più grandi e onerosi a favore del pubblico bene. La nota lettera del duca di Joinville scritta poco prima del febbraio porge spiegazioni indubbie sulle angustie dell'economia pubblica del regime borghese. La tirannide socialista volle fare grandi cose, e perciò non le fu lecito di spaventarsi davanti alle spese elevate e ai debiti sopra debiti: più volte ha sospeso subito o limitato l'ammortizzazione del debito; ma a ogni modo anche sotto il regno di luglio si poteva elevare il sensato dubbio: a che cotesto ammortizzamento in piena perdita, se in pari tempo sono contratti nuovi debiti più grandi? L'impero si propose di compensare le spese in necessario aumento con un progresso anche più vivo dell'economia. Un tale sistema non si condanna con l'allegazione di alcuni grandi numeri. Noi piuttosto domanderemo: il benessere del popolo è davvero cresciuto più prontamente che non il carico dello stato? e le enormi spese pubbliche sono state effettivamente produttive? Alla prima domanda bisogna assentire, alla seconda non si può rispondere che con un no reciso. Per sé stesso il peso del debito non era esorbitante. Se la Gran Bretagna portava con facilità i suoi 19 miliardi, la Francia non poteva certo finire di esinanizione sotto il carico di 12 miliardi e 123 milioni. Anche rispetto alle imposte il ricco paese con un sistema razionale avrebbe reso di gran lunga di più che sotto Napoleone; certamente 2 miliardi e mezzo. L'affermazione del benemerito statistico Horn, che ogni francese pagava allo stato un quarto delle proprie entrate, deve essere riguardata da qualunque persona imparziale come un'esagerazione suggerita dall'odio partigiano. Ma la difettosa ripartizione del peso tributario e l'oppressione dell'agricoltore rincarata dallo stesso stato, rendevano impraticabile un inasprimento delle imposte dirette; talché a ogni nuova esigenza lo stato non vedeva altra via che le contribuzioni indirette e i prestiti. E con che furioso aumento crebbero spese e debiti! Il bilancio di emissione aveva rotto già da un pezzo il terzo miliardo, e si arguiva facilmente che non sarebbe mai più ridisceso ai due miliardi: ben a proposito Thiers aveva esclamato una volta, dopo che il bilancio aveva sormontato il primo miliardo: _saluez ce milliard, vous ne le reverrez plus!_ L'impero divorò in media 800 milioni all'anno più del regno di luglio. L'amministrazione del debito consolidato aveva a pagare, nella primavera del 1870, 364 milioni di rendite annue; dei quali 54 milioni risalivano alla repubblica, 133 milioni erano sopraggiunti sotto l'impero. Cosicché il debito si era raddoppiato in 22 anni, e proprio in quelli in cui il suolo francese non era stato mai calcato da soldato straniero. Inoltre era stato preso a prestito tra comuni e dipartimenti un capitale di 2 miliardi; e il debito fluttuante dello stato raggiunse in fine la vertiginosa altezza di 923 milioni. L'avventatezza di una finanza siffatta è palmare. Nello stesso tempo, però, il movimento ferroviario crebbe di dodici volte, il numero delle locomotive salì da 7779 a 25.027, le miniere di carbon fossile diedero un prodotto di 11 milioni di tonnellate nel 1864, vale a dire considerevolmente più dell'intera produzione europea di carbon fossile calcolata da Villefosse pel 1808; e dopo che gli ultimi prestiti della terza repubblica, non ostante le perturbazioni guerresche tanto gravi, hanno pure condotto a un risultato così cospicuo, è lecito tuttavia affermare, che il benessere del popolo sotto Napoleone III è proceduto a ogni modo di pari passo con lo sbalzo violento del bilancio. Ma in che cosa dunque furono impiegate quelle somme colossali? Sopra abbiamo visto, che dei capitali usati nei lavori pubblici una parte, e non più che una parte, può tenersi produttiva. Il politico deve considerare come produttivi anche i 1348 milioni inghiottiti dalla guerra di Crimea, e le spese della guerra d'Italia: la scuola di Manchester ci perdonerà una tale eresia. Pure, come era formidabilmente ingrossata l'inveterata dissipazione e la disonestà della burocrazia sotto la stupidità materialistica di cotesto sistema! Quanti milioni in quelle grandi imprese dello stato sdrucciolavano nelle saccocce di luridi costruttori e borsaiuoli di borsa! La corte, le camere e le supreme dignità dello stato esigevano sotto Luigi Filippo 31,5 milioni all'anno; l'impero dové offrire ai suoi fidi ben altre provvisioni, e richiese a tal fine 58,5 milioni, di cui solo per la corte 26,5 milioni, laddove il re borghese si contentava di 13,3 milioni: la metà. Perfino siffatte spese la stampa cortigiana ascrisse a gloria dell'imperatore; e impiantò come una novella scoperta scientifica la tesi, che il lusso, che è giustificato e riesce allietante solamente come un sintomo di elevato benessere popolare, crei addirittura nuovi valori: che è quell'antica teoria del «dar danaro alla gente», che una volta fu bandita in Germania da penne ligie, al tempo del polacco Augusto e dello svevo Carlo. Solo che una favola da nutrice, che cento anni fa riusciva a stento a mettere l'animo in pace alla buona gente paziente della sorgiva del Nesen e dell'Elba Superiore, avrebbe poi trovato credito durevole presso una nazione orgogliosa e tutt'altro che devota suddita? Circa il 1860 il bonapartismo credé di aver trovato il mezzo di appagamento franco di spesa della sete di gloria nazionale: infatti le spese di spedizioni armate transoceaniche in paesi semibarbari sarebbero state coperte dal bottino e dai tributi. Già le imprese in Cina e in Cocincina avevano dato un esito finanziario dubbio; poi in fine l'inconcepibile follia della spedizione messicana gravò infruttuosamente e ingloriosamente lo stato di un altro miliardo; e d'allora in poi le spese militari, _la grosse affaire du budget_, salirono con una spaventosa rapidità. Rientrava semplicemente nel corso naturale della politica questa espiazione che ora faceva lo stato di vecchi peccati di omissione, e questo non voler rinunziare alla gloria di prima potenza militare. Negli ultimi anni prima della guerra germanica la Francia consumava 449 milioni annui per l'esercito e la flotta; vale a dire 100 milioni interi in più della Confederazione germanica del Nord, che ne usciva con 91 milioni e mezzo di talleri: e bisogna aggiungere i nuovi prestiti, devoluti quasi esclusivamente a scopi militari, e tra quelli, nel solo anno 1868, un prestito di 440 milioni. L'impero si trovava in cattiva coscienza davanti ai discorsi iracondi dell'opposizione, giacché soltanto la sua propria colpa, la disgraziata impresa del Messico, aveva fatto dei nuovi armamenti una necessità. E come fossero delittuosamente scialacquati i denari delle enormi spese militari, lo avrebbe rivelato la guerra tedesca. Il finanziere più capace del bonapartismo, Fould, si esaurì in esortazioni ed ammonizioni; dopo la sua morte l'impero non ebbe che due uomini, i quali godevano di una certa riputazione alla borsa, Germiny e Vuitry. I creditori dello stato, inquieti già da un pezzo, domandavano per propria sicurezza un sindacato parlamentare più severo sulle finanze. Le notevoli sottoscrizioni ai prestiti del 1868 non affidarono minimamente come una prova di un saldo credito statale, perché il ristagno del commercio versava sul mercato abbondanti capitali disoccupati, e dopo le cattive esperienze fatte lo speculatore si guardava dagli altri titoli di borsa. Il politico serio però non può contentarsi del motto di spirito del signor Thiers: «se è pericoloso, come dicono, possedere la libertà, è però molto costoso non averla»: egli anzi deve penetrare la grave contraddizione di principio in cotesta strana economia statale. Le spese statali erano state mutate fondamentalmente dal socialismo monarchico, ma il sistema delle entrate, astrazion fatta della riforma doganale, sostanzialmente non era stato trasformato: un'idea economica creatrice, che facesse piovere dall'alto le ricchezze della nazione per la politica della felicitazione del popolo, non era nata nel mondo in nessun luogo. La Francia soffriva dello sforzo impossibile di voler conservare in pari tempo tutto il lusso e la lussuria della pace e, insieme, il formidabile arnese della politica di conquista. Presto o tardi doveva scoccare l'ora, che una guerra infelice avrebbe mandato a rotoli il castello di carta di questa economia pubblica di farnetico. V. Con quale frequenza non fu espresso nel generale abbrutimento della società sotto la repubblica il nostalgico desiderio: ci si conceda il diritto alla quiete, e il genio francese spiccherà nuovi voli! La quiete venne, venne quiete a macca, ma l'anelato rifiorimento della vita intellettuale non venne; e che non potesse tornare lo mostrava lo stesso lamento, che il mondo si fosse abituato a considerare il pensiero come un lusso, come un'occupazione delle ore morte. La monarchia aristocratica del tempo antico poteva bene portare avanti gli uomini significativi, laddove sotto un dispotismo fondato sulla completa eguaglianza sociale, la potenza delle menti e degli animi non poteva elevarsi di troppo. Si eleggesse pure a modello quanto voleva il bonapartismo i portamenti e le cerimonie di Versailles: i giorni di Racine e di Molière erano andati, e con loro anche il garbo fine di Luigi XIV non tornava più. La nuova corte si mantenne insomma una società di nuovi venuti e di avventurieri: Morny, Walevski, Prospero Merimée non furono dai loro singolari rapporti con la casa imperiale trasfigurati niente affatto in persone per bene. Stava a capo una donna di più che equivoco passato, e le mode che questo capetto affaccendato dettava al mondo con turbinosa vicenda, tenevano in frenesia le sgualdrinelle della capitale. L'imperatore, che nel tratto personale mostrava non già un'affabilità ricercata ma la naturale semplicità dell'uomo perspicace addestrato alla scuola della vita, pure nella sua corte non seppe far di meno dello sfarzo senza gusto dell'avventuriero. Sprezzatore cinico degli uomini, quale era da gran tempo, egli non aveva mai creduto che valesse la pena di mettere seriamente alla prova gli uomini onde era circondato, sebbene i rapporti personali del monarca in un governo assoluto tirino dietro di sé conseguenze inevitabilmente politiche. Perciò intorno al sovrano si pigiava un _demi-monde_ di uomini e donne della specie più abietta. Le rivelazioni sulle Tuileries, con cui i catoni della terza repubblica si pensavano di distruggere la fama del secondo impero, non propalarono certo nulla di più piccante di ciò che già tutti sapevano. Ma lo spettacolo è nauseante: quella corte priva affatto di pensiero, barcollante tra la lascivia e una superstizione da carbonai; quei parenti imperiali avventurieri, che assediano il cugino fortunato di lettere di pitocchi insolenti; quell'eletto del popolo, che crede sul serio alle stupide stregonerie del visionario Home! In un tale guazzabuglio di destrezza e di teatralità non erano rari solamente i caratteri, tanto che l'impeccabile patriottismo di Touvenel era solitario; ma era quasi sparita la fede nella lealtà disinteressata, nella buona coscienza dei potenti. Si sacrificava a Mammona anche più spudoratamente che sotto il re borghese: la cupidigia dell'oro e del godimento, la paura di sembrare ridicoli con qualche debolezza nulla nulla idealistica, costituivano il sentimento dominante nelle ampie sfere della gioventù _blasée_. Quando una volta uno speculatore molto stimato a corte s'impiccò pel suo disgraziato gioco di borsa, pervenne ai giornali l'istruzione, che bisognava risparmiare la famiglia, appianare la perdita dei beni e significare che lo sventurato avesse posto fine ai suoi giorni per l'infedeltà della moglie. Piccoli tratti del genere palesano più chiaramente delle lunghe descrizioni a qual misura quella società misurasse i beni della vita. Parigi, come sotto la reggenza, formava di nuovo l'alta scuola del vizio a tutto il mondo: la civiltà della Francia, parola magica ancora ignota alla prima rivoluzione e che oggi monta la testa dei francesi, si mostrava principalmente nella propaganda dell'immoralità. Pensatori inglesi guidavano da lungo tempo la sfrontatezza non muliebre, la crescente rudezza delle loro dame sul modello di Parigi; e noi tedeschi in quei brutti raddotti, che dalla tapinità dei nostri borghesucci vennero aperti agli stranieri e che perciò dal tipo schietto parigino furono messi a conto della Francia, giorno per giorno sperimentavamo, che la perfetta spudoratezza sprizza per sé stessa dalla parlata francese; per cui non fa più specie. La _grisette_ del Quartiere latino, che con tutta la sua leggerezza era pure la creatura ingenuamente amabile, cantata un tempo da Béranger, era finita da un pezzo. Le successe la _lorette_ senza cuore e calcolatrice, e più tardi, in linea ascendente, la _biche_, la _cocotte_ e alla fine, per colmo, la _pétroleuse_! E nella melma di questa impudicizia si mescolò la masnada letteraria della _petite Bohème_, di quegli scrittori putridi, che nei _cafés litéraires_ sbraitavano in intemerate frenetiche contro ogni sacro modo della vita umana. Lasciamo ai filistei riscaldarsi per quelle orge selvagge, in cui teneva il dominio il cancan regolato dalle guardie di città: da per ogni dove le onde mosse della vita delle metropoli turbinano lo stesso sudiciume. La singolarità della putredine dei costumi parigini consisteva piuttosto in ciò, che si confondevano sempre più i limiti tra la buona società e l'infame, che nessuno sapeva più dire dove principiasse il circolo delle Tuileries e dove finisse quello di Cora Pearl. La spirituale e briosa conversazione degli antichi saloni era sparita; e fu perdita inestimabile per l'urbanità dell'intero continente. La nuova società non dava posto ai pochi veri gentiluomini, tuttora superstiti di migliori dì; non dava posto ai Tocqueville e ai Circourt. I modi sfacciati e pure affettati del _demi-monde_, la sua impudenza facchinesca, il fumare e bestemmiare, il gergo della sua _langue verte_ andarono connaturandosi anche nelle più alte sfere. Teresa, l'eroina dei _cafés-chantants_, trovò con le sue sudice canzoni ascolto presso l'imperatore, ed ebbe una valorosa scolara nella principessa di Metternich; e nei salotti della principessa Matilde i frequentatori giocavano a zecchinette e si vezzeggiavano col nomignolo intimo di _animal_. La grazia vaporosa dell'antica galanteria francese si era involata; giacché bisognava trovarlo, chi potesse parlare di amore a una _femme entretenue_, e chi vi perdesse il tempo in quel mondo ansante, a cui Ponsard teneva lo specchio così: cette aimable jeunesse donne aux femmes le temps que la Bourse lui laisse! Soltanto poche famiglie per bene si tenevano lontane da quello scialacquio grossolano, serbavano il costume nel focolare tranquillo. Era esiguo il numero delle madri sollecite della propria missione. Generalmente costituiva la regola tra i ricchi l'educazione dei figli fuori di casa. La futura burocrazia in collegio imparava fin dalle calugini l'arte difficile di piegare la schiena al più alto per schiacciarla al più basso. Alla donna era permessa ogni libertà; la fanciulla cresceva nel rigore del monastero. L'arte aveva dato da molto tempo le spalle a un siffatto mondo della sensualità e della cupidigia. Lacera il cuore apprendere nelle lettere di Tocqueville, come questo uomo geniale si sentisse in patria più straniero che all'estero, come pensasse di essere sopravvissuto al proprio paese, come cercasse invano le parole per descrivere il buio di caverna delle provincie spopolate. Il poeta francese possedeva tuttora un prezioso privilegio sul tedesco: un vero pubblico, che permetteva a ogni ingegno di conseguire una potente efficacia, e che anche recentemente aveva confermato nella colletta per Lamartine la sua gratitudine alla poesia nazionale. E l'antica passione della scena era tuttora così viva, che in questo paese della burocrazia l'intera metà dei 297 teatri erano mantenuti a spese del comune. Ma, ahimè, qual sacro cibo era offerto in cotesti templi! Dove sono andati gli squilli baccanti di voluttà gallica di vivere, che un tempo Rabelais elevò in onore della diva bottiglia? Dove la protervia deliziosa, che ride in ogni accento della Celimene di Molière? Dove solamente quelle ultime faville della passione della bellezza, che sprizzano ancora dalle voluttuose poesie dei giorni di Luigi Filippo? Chi canta ancora una volta: _ah qu'elle est belle en son désordre quand elle tombe les seins nus!_? Vi fu un tempo che l'amante, la quale amava o fingeva di amare, era già considerata in poesia come un'eroina arrischiata. Adesso è trasportata disinvoltamente sulla scena la troiettuola che non ha mai amato e fa tranquillamente i suoi conti. Gli scapestrati figliuoli di rigidi genitori, giocoso motivo di commedie antichissimo, si riguardavano come vieti: il poeta moderno prediligeva di rappresentare virtuosi figliuoli di viziosi padri, che era un soggetto semplicemente stomachevole, spoglio per giunta anche del triste merito di esser vero nella prosa della realtà. Feydeau creò ora il capolavoro di questa poesia andata a male: Fanny. Quale solletico per gl'imbecilli ammirare in luogo del solito marito geloso l'amante geloso, che spia dalla finestra i coniugali amplessi dell'amata! Che cosa è più orrida in questa sporchizia, la spudoratezza o la scempiatezza? Va sottinteso, che il poeta di una siffatta età esercita la sua arte come una speculazione industriale. Di regola il romanziere fa riprodurre sulla scena in forma di dramma la propria opera per non perdervi il doppio guadagno. Si raffronti la gelida noia dei drammi di Dumas figlio, che seppe strappare all'impudicizia l'ultimo barlume dell'illusione, coi romanzi di Dumas padre, che ancora oggi divertono: è uno spaventevole calo. Anche nei _bouffes_ di Offenbach, impareggiabilmente più spassevoli e vivaci, non incontriamo più la civetteria del vizio, l'avvenentezza del peccato, che è l'antica magagna francese; all'opposto, l'immoralità si presenta aggressiva, con una insolenza inauditamente sfacciata. L'orgoglio patriottico degli spettatori era inoltre soddisfatto da un fracasso di spettacoli guerreschi, che mettevano in mostra lo _chic exquis_ degli zuavi e dei turcos in una gaia vicenda di felici avventure; e il punto culminante era segnato dal sole elettrico di Austerlitz e da una congruente volatina delle rime _français succès, laurier guerrier, gloire victoire_. Le predilette _féeries_ scesero affatto, fino alla fantocciaggine da burattinai; rape scollate e carote in maglione facevano pirolette; ogni senso estetico si spense in un tafferuglio di cattiva musica e di quadri spettacolosi. L'antico dominio delle salde regole accademiche aveva ceduto alla disordinata incertezza del gusto: l'uomo di mondo _blasé_ e il piccolo borghese ingenuo erano concordi nel bearsi della volgarità oscena. A mio avviso, cotesto lento inaridimento dell'anima popolare si tradisce nel modo più spiacevole proprio nei libri, che si propongono uno scopo morale. Nella sua opera _L'amour_ Michelet intese di sovvenire di nuovo alla nazione la santità del matrimonio: eppure qual uomo, che abbia goduto la proba felicità di un matrimonio tedesco, può leggere senza compassione quelle arrembate frasi sentimentali? L'enigma così meraviglioso e pure così semplice del cuore femminile, il filosofo in conclusione non sa spiegarselo, se non con lo spacciare tutte le donne per fisiologicamente malate! Chi non conosce _Monsieur, Madame et Bebé_ di Gustavo Droz, il bizzarro libro che, diffuso in più di trenta edizioni, rappresenta con precisione fotografica la media delle esperienze della vita coniugale francese? Certo, c'è anima in queste pagine, c'è affetto, anzi anche qualcosa come religione: ma anche quanto triviale solletico dei sensi, quanta vuota eleganza! Quando il pover'uomo descrive le gioie del suo amore, niente lo rapisce tanto, come il profumo penetrante dei capelli dell'amata; e il lettore chiude involontariamente il libro per vedere se questa meravigliosa _pommade philocome_ bisogna acquistarla da _Pinaud et Co_, dalla _Société higyènique_, oppure da qualche altro _ami de la tête_. Leggendo questi scritti morali dei moderni francesi, non ho mai potuto tenermi dal pensare: o disgraziata nazione, che non sa più distinguere tra le cianciafruscole false dei negozi di mode parigini e i beni eterni della vita! Non ostante la sua freddezza prosaica, ma con l'istinto dell'uomo di stato, Napoleone III capì quale pericolo per la società si annidava in un'arte tanto abbrutita. Assegnò premi ai drammi morali che offrivano al popolo esempi virtuosi e «idee sane», protesse la commedia casalinga di Ponsard «la Borsa» che gridava al mondo la geniale verità: l'argent est un bonheur, mais ce n'est pas un titre. Avrebbe dovuto apprendere però, che l'estro dell'arte è un figlio del tempo: quanto poco sarebbe potuto sorgere un Sofocle sotto Alessandro, tanto meno poteva attecchire il dramma morale nell'aria impura della nuova Parigi. Alcune fini commedie di Augier, alcune opere di Ponsard, principalmente _Le lion amoureux_ che è, di questo poeta, il canto del cigno compenetrato da un nobile e forte spirito patriottico, sono i soli frutti sbocciati sopra l'universale imbecillità della recentissima poesia. E anche nelle arti figurative, quale caduta in pochi decenni, da quando Paolo Delaroche aveva dipinto il magnifico emiciclo della _École des beaux arts_! Il parigino partecipava ancora con ardore, come nei giorni più favoriti, all'esposizione del _Salon_, ancora il talento tecnico della colorazione virtuosa non era perduto nella pittura, ancora qualche artista, come Gerôme nel suo quadro dei gladiatori, sapeva dare a un soggetto brutto un'esecuzione che incantava. Ma il valore spirituale dell'arte si andava inaridendo, e l'osservatore della recentissima pittura storica era continuamente premuto dalla domanda, se effettivamente donne nude e calzoni rossi di soldati rappresentassero tutto il senso profondo della vita umana. Lo schietto fervore artistico soccombeva quasi sotto l'invasione dei dilettanti, che avevano un compagno e un protettore naturale nel direttore dei musei imperiali, il conte Nieuwekerke. Chi considera tali segni non dubbi della decadenza artistica, generalmente si lascia subito andare all'affermazione, che sotto il nipote il bonapartismo abbia soffocato il talento come sotto lo zio. Se non che anche in questo campo si manifesta al giudizio posato l'ampio divario che corre tra il secondo impero e il primo. L'arte nel nostro secolo prosaico non costituisce più la misura infallibile della vita spirituale. Per contro, l'Italia di Cavour e di Manin ben a ragione protesta, che si valuti alle opere di Verdi la sua potenza geniale; e anche noi tedeschi, quanti poeti drammatici, che potrebbero collocarsi accanto a Ponsard e ad Augier, non abbiamo avuto in quei cinquant'anni tanto fecondi pel nostro sviluppo? Per lo meno può oggi considerarsi l'arte drammatica come lo specchio fedele dell'educazione del popolo. Il tesoro accumulato dei più antichi drammi libera la scena dal dominio illimitato della poesia recentissima: mentre la poesia drammatica contemporanea decadeva, il _Théâtre français_, che è sempre il primo teatro del mondo, riproduceva alla ribalta in esecuzioni magistrali i personaggi di Corneille e di Molière. La scienza offre un più valido appoggio al pregio della cultura moderna, e se noi guardiamo addentro, non solamente il confronto del secondo impero con la desolazione spirituale del primo ci appare ridicolo, ma ci si presenta la questione, se la valentia modesta della recente scienza francese non abbia donato al mondo più frutti sani e durevoli, che non dianzi la letteratura presuntuosamente rumorosa della monarchia di luglio. Seguì al 2 dicembre un tempo sconsolato di temulenza, in cui, stando al ragguaglio di Tocqueville, l'arte di leggere e di scrivere parve quasi perduta. Presto, però, l'insolenza stessa dell'ostentazione del peccato spinse gli spiriti seri a rientrare in sé. E sorse nelle scienze politiche e sociali una nuova letteratura, povera di opere di prim'ordine, ma altrettanto ricca d'indagine positiva e di grave senso morale. L'inestetico uomo di affari Napoleone III era troppo guasto e difforme al gusto e al costume medicei. Non gli mancava affatto, però, l'intelligenza del valore rigidamente scientifico. Gli archivi furono mantenuti come sotto Luigi Filippo, con una intelligenza e una libertà che fanno arrossire noi tedeschi. Molte notevoli opere scientifiche nacquero per suggerimento dell'imperatore, come il bel catalogo della biblioteca storica di Parigi, la raccolta delle lettere e commentari napoleonici, la storia del Congresso di Vienna del conte Angerberg; molti dotti furono sussidiati dallo stato nei loro lavori, come per esempio Baschet nella sua raccolta per la storia della diplomazia veneta. Missioni scientifiche dispendiose e con splendidi risultati furono intraprese in Egitto, in Siria, nell'Asia Minore, in Mesopotamia. Anche le scienze naturali ebbero a lodare le mani bucate di Napoleone; fecero progressi sempre assai notevoli, sebbene il detto dell'alsaziano Würtz _la chimie est une science toute française_ sia a ogni modo da tenersi soltanto come una spacconata _chauviniste_. Quanto più grave pesava l'oppressione del dispotismo sulla stampa quotidiana e più rari erano gl'ingegni notevoli che si dedicavano al giornalismo, tanto più si preferiva alla corte di leggere opere serie sui problemi sociali e politici, e tanto più il dotto era costretto a svolgere metodicamente le proprie idee e non già a sparpagliarle in articoli e appendici. A principiare dalla scuola dei pubblicisti liberali ricca di buoni ingegni, la quale seguiva le orme di Tocqueville e aveva in Laboulaye la penna più geniale, fino alle opere estremamente conservatrici e piene di pensiero del Le Play sulla riforma sociale, non più che una sola tinta tra i partiti politici rimase fuori, non rappresentata nella nuova scienza dello stato. La questione italiana ispirò lavori pubblicistici, come, per esempio, gli eccellenti scritti sull'Italia di R. Rey, la cui profonda accuratezza non trova affatto l'eguale nella letteratura politica della monarchia di luglio. Anche nella maggior parte di queste opere dominava, come è giusto, uno spirito di opposizione, non però affatto di opposizione sistematica: quasi tutte domandavano solo il perfezionamento delle istituzioni vigenti e l'impiego del potere statale all'ingentilimento delle moltitudini. Siffatta rassegnazione maschia supera, moralmente e politicamente, di molto il puntiglio lunatico che i quaranta immortali dell'Accademia mostravano contro l'impero. L'imperatore, dopo un pazzo tentativo d'infrangere l'indipendenza dell'Accademia, si abituò a lasciarli stagionare, quei vecchi signori, nelle loro giubbe ricamate di palme. Accogliessero pure nel loro seno gli eroi dell'opposizione bianca e della rossa: le parate accademiche e gli spiritualissimi articoli di rivista non erano proprio fatti per rovesciare il trono imperiale, e il lamento di Guizot: «noi stiamo sotto sonanti rovine», significava non più che il profondo sospiro di un vecchio, che vede la fine del mondo perché vede finire il suo mondo. Da un decennio la scienza tedesca era profondamente penetrata, per la prima volta, nella vita francese. Dollfus e Taine, Renan e Laboulaye si fecero avanti come apostoli dello spirito germanico. Per molto tempo l'Alsazia rappresentò felicemente la parte della mediatrice tra i due grandi popoli; il che vuol dire, che i suoi dotti portavano ai francesi i risultati della scienza tedesca senza punto offrirci un corrispettivo di pari grado. Cotesto ravvicinamento, che ebbe un organo nella _Revue germanique_, si fondava pur troppo sulla tacita presupposizione, che i tedeschi si sarebbero contentati, ora e sempre, del regno dell'idea: onde sarebbe corsa lì per lì a dare nelle secche, non appena noi avessimo uno stato con volere e potere indipendente. La _Revue germanique_ passò, e la _Revue contemporaine_, in cui il signor di Calonne rappresentava le idee tedesche, ebbe un così meschino incontro in mezzo al risvegliarsi dell'odio nazionale, che quasi non fu nemmeno più considerata come un giornale francese. Comunque, le battaglie boeme avevano scosso alquanto l'antica burbanza dei nostri vicini. Fin dal 1864 Jules Simon aveva suscitato le generali risa di scherno del corpo legislativo, citando le scuole prussiane: «noi non abbiamo da imparare niente, proprio niente, dai prussiani», si gridò da tutte le parti. Negli anni seguenti ebbero il debito riconoscimento le prove condotte dall'imperatore e dall'eccellente ministro Duruy di elevare l'educazione popolare sull'esempio tedesco. Appunto in questo campo Napoleone III ha compiuto tra gravi lotte un gran bene; in questo campo il principe ha attenuto ciò che il presidente aveva promesso. In questi problemi, come in quelli economici, egli sovrastava di gran lunga all'opinione media della nazione: voleva la scuola obbligatoria come in Prussia, ma fra tutti i suoi uomini di stato solo Duruy osò appoggiare una siffatta idea ereticale. Dalla coscrizione del 1857 risultò che un buon terzo dei coscritti non sapevano leggere: solo in 11 dipartimenti, appartenenti la più parte alle provincie orientali mezzo tedesche, il numero dei cresciuti completamente senza scuola scendeva tra il 2 e il 6 per cento: in quasi tutti gli altri saliva di gran lunga più alto, e in alcune plaghe dell'interno e della Bretagna arrivava fino al 58 e al 65 per cento. Risultamenti di tal fatta indussero lo stato a far sorgere scuole da per ogni dove nel paese, o per mezzo di premi o per assunzione diretta; e già nell'inverno del 1865-66 30.000 maestri impartivano l'istruzione a 600.000 adulti. Le _conférences_ o libere letture scientifiche, già proibite a Parigi per la concorrenza all'università, ora negli ultimi anni dell'impero goderono del favore ufficiale e di un folto concorso; inoltre i professori dei _collèges_ erano comandati a tenere lezioni nelle vicine città di provincia. Furono fondate in seguito scuole tecniche, che dovevano fare per le scienze esatte ciò che i licei per la cultura classica. Sorsero così quelle biblioteche popolari che i comuni alsaziani curarono con benemerita sollecitudine. Ferveva dovunque un'attività supremamente meritoria che, spronata dall'energia francese, condusse già nelle ultime coscrizioni a risultati soddisfacenti, e accennava a promesse di frutti più copiosi per l'avvenire. La debolezza di questo movimento era solo in ciò, che il dispotismo era completamente destituito di quello zelo morale, che solo rende feconda l'educazione. Per giunta, in questo regime non poteva tollerarsi né ammettersi l'efficacia della scienza sullo stato. Mentre l'una mano porgeva al lavoratore gli elementi della cultura, l'altra uccideva in lui ogni virtù di espansione morale con la scelleratezza oscena di quella stampa clandestina semiufficiale, in cui la _haute bicherie_ spampanava la sua vita infame. Da una parte l'istruzione; dall'altra il signor Trimm col suo _Petit Journal_, le turpitudini dei giornali umoristici parigini e la stupidità atroce della stampa di provincia, che da Arles a Metz, dal _Forum_ al _Courier de la Moselle_ mostrava per ogni dove la medesima nullaggine: in verità, il contrasto sarebbe ameno, se non fosse tanto triste! E principalmente in questo si rivelò l'intima falsità di un sistema, che continuamente doveva distruggere la propria opera. Non cadeva dubbio, che Napoleone bramasse sinceramente l'elevazione della cultura popolare; eppure il suo governo minò le basi di ogni incivilimento. La profonda quiete dei primi anni imperiali diede ansa a tutti i partiti battuti di tirare la somma del loro operato. Duvergier de Hauranne principiò la storia dell'età parlamentare, Guizot scrisse le sue memorie, Garnier-Pagès, Luigi Blanc ed altri offrirono contributi alla storia della rivoluzione di febbraio. Sebbene queste opere non dissimulino l'unilateralità partigiana, pure noi tedeschi ne apprezzeremo di molto il valore, se le raffrontiamo con l'indifferenza che il popolo nostro mostra per la sua storia recente: fino a oggi non è ancora apparsa presso di noi una forte opera, ispirata da un partito, sulla rivoluzione tedesca. Quando il mondo ufficiale si prostrò nella polvere davanti all'idolo del bonapartismo, quando il grande Imperatore riapparve nel manto imperiale, come gli aveva bramato, sulla colonna Vendôme, allora il liberalismo abiurò come un sol uomo la fede napoleonica, e lo stesso Thiers negli ultimi volumi della sua opera cominciò a parlare in sordina. Le ghirlande di Béranger appassirono. Da quando l'impero aveva seppellito sotto gli onori ufficiali il poeta nazionale, le sue poesie erano scomparse dalla buona società. Una rigida critica storica si volse sull'età napoleonica, e sovente diede in tale eccesso, da porre talvolta noi tedeschi nella strana condizione di dover difendere il nostro grande nemico contro i Charras, i Barni, i Chauffour-Kestner. Poi, verso la fine dei giorni neonapoleonici, Lanfrey principiò la sua storia di Napoleone I, che è un libro d'importanza storica modesta, ma di altissima veridicità. Più vasta efficacia di questi gravi scritti ebbero i «romanzi nazionali» dell'alsaziano Erckmann e del lorenese Chatrian; frutti di un meticciamento poetico sullo stile delle opere di Mühlbach, ma composti con assai maggior talento e qua e là con schietta potenza poetica, sebbene niente affatto immuni da pregiudizi; che, per esempio, cinque prussiani bastano appena a tenere in rispetto un francese; compenetrati però dal senso umano di una cultura salubre, offrono una dipintura potente dei mali e dei misfatti delle guerre ingiuste e un'esortazione alla pace di alto valore pei popoli zelatori di guerra. Perfino la grande Rivoluzione deificata fu, in questa età di ritorno degli spiriti in sé stessi, raggiunta dalla fredda critica. Il libro di Edgardo Quinet sulla Rivoluzione rimane a gran distanza dalla splendida opera di Tocqueville sull'antico regime; ma quale progresso scientifico e, anche più, dell'educazione morale rispetto alla storia della Gironda di Lamartine! La situazione, dunque, non era tanto penosa, come l'ammetteva il malinconico Renan; se s'intendeva di costringerla alla mediocrità, la nazione però non era diventata addirittura nulla e triviale. Quelle opere modeste, piene di un senso reale di verità, iniziarono in silenzio col loro animoso odio a qualunque dispotismo, anche al giacobino, quel gravoso lavoro di raccoglimento e di esame di coscienza, che a un popolo non libero riesce più salutare di una letteratura classica. Certo, il consolidamento di questa cultura più nobile esigeva decenni per gittare frutti, e, intanto, la classe politica del bonapartismo fu appena tocca dalla rigenerazione della scienza. Lo stesso Napoleone III senza volerlo promosse il risveglio della critica storica con la sua vita di Cesare. Su questo strano libro, a cui è dovuto l'appunto, che mai con maggior dispendio si ottennero più scarsi risultati scientifici, oggi che la curiosità è dileguata da un pezzo, vale ancora la pena di spendere una parola? Se è sorprendente, come mai l'imperatore abbia trovato la forza e l'agio per una tale attività, pure è anche più enigmatico, che non abbia saputo resistere alla tentazione di ricalcare quell'ardente terreno della storia, che già al pretendente era stato poco amico. Solo un pedante si meraviglierà dell'indagine difettosa del dilettante imperiale; accanto ad accurate ricerche di compagni anonimi sulla situazione di Bibracte, accanto a diligenti comunicazioni prese dai lavori della scienza tedesca, e perfino dalla metrologia del nostro solerte Hultsch, procede una critica innocente, che con perfetta ingenuità si giova come fonti storiche dei discorsi di Cesare e di Memmio poetati da Sallustio. L'impressione diventa supremamente comica, quando l'autore si avventura nei più difficili compiti dello storico, e cerca di abbracciare in un quadro riassuntivo tutto un modo di civiltà: qui si tratta di sapere molto, per dire assai poco; e qui anche il lettore più devoto non sa contenere i sereni ricordi dei giorni d'oro del ginnasio, quando si sente raccontare, che Atene era una molto bella città, con un porto chiamato Pireo e con una statua di Pallade di oro e di avorio. E più stupefattivo ancora di tali inevitabili deficienze del dilettantismo, si rivela l'ineffabile banalità del giudizio storico e politico, si rivela quel crogiolarsi nel vuoto dei luoghi comuni. Da per tutto un superficiale prammatismo, una maniera arbitraria di costruire i fatti, che col fraseggiare al futuro della lingua francese, con quegli eterni _ainsi tomberont, les Romains tourneront_, assume anche l'affettazione solenne dell'oracolo. Quel fatalismo, che nella vita disponeva l'imperatore ai supremi rischi, non appare nella scienza né chiaro né profondo; si risolve, in fondo, in niente altro, che in una sottomissione cieca al successo: il valore di una istituzione si tiene dimostrato dalla sua durata. E l'uomo, che sa bene egli stesso l'arte del dominatore, si prostra abbagliato davanti al suo eroe, non più che come un tremebondo erudito da scartabelli al cospetto di un guerriero digrignante. Tutto è ammirato in Cesare, tutto, anche i versi: è un goffo partito preso di apologia, per cui la nostra parlata onesta usa il vocabolo _weissbrennen_ (ardere a fiamma incandescente, col senso di discolpare). Soltanto pochi lettori misurano interamente l'ampio tratto che corre tra il dire e il fare; e perciò un'opera così aberrante doveva necessariamente confondere il giudizio del mondo sulle forze intellettuali dell'autore. Quando l'eroe del 2 dicembre desidera i rimedi eroici e il salvatore alla società romana malata, quando esalta lo spirito di fiducia che fondò il pieno potere dell'imperio, e lancia sguardi biechi allo spirito di sfiducia proprio delle nostre abitudini costituzionali, ebbene, allora il colpo di stato non appare più semplicemente come un fatto, ma come un principio, il principio della violazione del diritto. L'opposizione di tutti i cervelli liberi, che non fu certo messa a tacere dai discorsi cesarei del fido Troplong, fu ora violentemente disfidata, e tanto più, perché gl'impiegati ligi e compiacenti introdussero nelle scuole il parto storico imperiale. L'opposizione colse con ardore la comoda opportunità di sfogare in impertinenze contro Cesare e Augusto il corruccio contro il bonapartismo. I risultamenti scientifici di cotesta _opposition d'allusion_ furono tapini: la santa gravità della storia castiga spietatamente ogni abuso tendenzioso. Comunque, parve un progresso il fatto, che ora finalmente per la prima volta dopo tanto tempo fosse mandato in pezzi l'idolo dell'eroismo personificante la nazione, e fosse descritta con passionata eloquenza la profonda immoralità del dominio violento e la necessità di prefinire saldi limiti legali a ogni potere dello stato. Certo, a chi osserva da vicino i francesi non può sfuggire, che solamente una cerchia ristretta era tocca sul serio e a fondo da coteste nuove idee. Nello stesso torno di tempo in cui la critica storica condannava senza discrezione l'imperatore soldato, dilagava pel paese il grido di guerra, sempre rifacendosi a nuovo, sempre ingrossando più gagliardo. Per una legge storica in perpetuo ricorrente, la boria nazionale cresceva in tanto più dismisura, in quanto che i francesi dovevano non a sé stessi la loro magnifica posizione di grande potenza, bensì alla fortuna e al tatto del loro dominatore. Durante i primi giorni di emozione della guerra franco-germanica, W. Wehrenpfennig qualificò per la prima volta, che io sappia, cotesta oltracotanza come un delirio di grandezza, una megalomania. L'espressione fece rapidamente il giro dei giornali tedeschi, perché egli aveva fitto il chiodo a segno. Ed effettivamente era una malattia epidemica degli spiriti. Mentre gli storici notomizzavano e confutavano la leggenda napoleonica, un'altra fola con mirabile rapidità si annidava nei cervelli: il mito bismarchiano. Nessun giudizio, nessuna cultura fece argine alla potenza irrompente di questa menzogna, finché in fine la nazione non fu più capace di distinguere tra l'apparenza e la verità. Il risveglio graduale della vita scientifica incontrò, per giunta, un nemico formidabile nel partito ultramontano. Napoleone III seguiva la teoria della solidarietà degl'interessi conservatori, onde vedeva nella Chiesa un puntello della tirannide e l'unica potenza ideale che potesse preservare le moltitudini ignoranti dalla turpezza della bramosia materialistica. «Il mio governo», disse nel settembre del 1852, alla posa della prima pietra della cattedrale di Marsiglia, «il mio governo, lo dichiaro con orgoglio, è forse il solo, che abbia favorito la religione per sé stessa; giacché l'ha sostenuta non già quale strumento politico, non già per piacere a un partito, bensì soltanto per convinzione». Il giorno di Capodanno dopo il colpo di stato fu cantato solennemente il Tedeum in ringraziamento della salvezza della società, il Pantheon fu restituito al culto di Santa Genoveffa, e accordata su semplice ordine governativo la formazione di nuovi ordini femminili. Nei primi anni dell'impero fu stretta anche più salda la lega tra il dispotismo temporale e lo spirituale. Il clero rendeva ossequio «all'inviato del Signore, all'eletto della sua Grazia, allo strumento del divino Consiglio» in discorsi adulatorii, rugiadosi di servilità, come appena sotto il primo imperatore. L'affinità elettiva tra la Chiesa militante e il gloriosissimo esercito, questi due grandi corpi animati dallo spirito dell'ordine e dell'ubbidienza, fu il tema preferito della ossequente predicazione dal pergamo. Tutto lo sdegno dell'uomo e del cristiano per una tale profanazione delle cose più sacre fu espresso in una bella lettera, che in quel torno di tempo Tocqueville diresse a uno di quei vescovi ligi. Quando principiarono le complicazioni orientali, e i popi fanatici infiammavano i russi ortodossi alla guerra contro la Mezzaluna, i preti francesi celebrarono la lotta della Chiesa cattolica contro gli scismatici moscoviti, e un reggimento di corazzieri sfilò per Lione e salì al santuario montano di _Notre Dame de Fourvières_ per portare nella guerra santa la benedizione della Chiesa. Anche la disposizione delle classi abbienti, come il favore del governo, offrì il terreno propizio alla potenza della Chiesa. L'indifferenza religiosa dei francesi fece il dominio degli ultramontani. Quella serietà della coscienza protestante, che conquista e rivive le verità della fede con gravi prove e con tragedie dell'anima, trovò ben di rado dimora in cotesta educazione mondana. Pei più la religione valeva soltanto come un fattore nel calcolo politico, e un cambiamento di religione per ragion di coscienza era riguardato come una pazzia. La nobiltà incredula dei Borboni era stata ricondotta unicamente dalle esperienze politiche della Rivoluzione nel seno della Chiesa unica beatificatrice. La borghesia dalle angosce dei giorni di febbraio e dal furibondo odio antireligioso dei radicali attinse la persuasione politica, che la Chiesa fosse indispensabile alla pace sociale. Singole anime più profonde poterono realmente restituirsi in quei giorni di turbine alla fede antica; ma la gran maggioranza dei borghesi colti entro la cerchia fidata non faceva mistero, che si rispettasse la Chiesa per le mogli e i figli, e principalmente per le moltitudini e per la pace sociale. Mentre la stampa liberale parlava sprezzantemente del papato, come di una potenza finita, l'uomo medio liberale, per desiderio della moglie guidata dal confessore, mandava alle scuole clericali i figliuoli, che crescendo avrebbero percorso la stessa parabola del padre. In una parola, motteggiavano e si sobbarcavano, né più né meno come gl'italiani del Rinascimento. Si può seguire a passo a passo cotesto persistente abbassamento del coraggio morale: al tempo della rivoluzione di luglio tutto quanto il liberalismo unanime chiedeva il ripristinamento della libertà del divorzio; poi lo zelo si moderò, e oggi di tale questione si parla appena. In una società appoggiata sulle moltitudini ciecamente credenti, una tale religiosità venuta fuori dalla paura economica e dall'ignavia del pensiero deve infallibilmente fare il gioco del partito, che cerca la sostanza della Chiesa nel suo dominio. Abbiamo visto sopra, che la legge ultramontana del 1850 sull'istruzione fu un parto degli spericoloni volteriani in bella lega coi clericali: da allora la potenza della Chiesa seguitò a crescere irresistibilmente. Il numero degli ecclesiastici secolari, che sotto la Restaurazione e il regno di luglio non procedeva di pari passo col lento accrescersi della popolazione, salì in 14 anni, dal 1847 al 1861, da 37.000 a 44.000, e la dotazione pagata loro dallo stato da 36 a 45 milioni, senza includervi altri 2 milioni per fabbriche religiose. La ricchezza della manomorta non crebbe meno rapidamente: sorgevano da per tutto nuove chiese, monasteri, scuole ecclesiastiche. La Chiesa era sulla buona strada per riacquistare in pochi decenni tutta la massa dei beni, che un tempo aveva accumulato con l'opera di tanti secoli. Questa potente restaurazione si effettuò in tutti i paesi di lingua francese: già da un pezzo Ginevra, la Roma calvinistica, era una città prevalentemente cattolica, e il Belgio era la terra celebrata della preteria. Però lo stato dominante della gerarchia ristabilita era tenuto dal monacato: lo spirito della nuova Roma era custodito nel modo più fedele nel chiuso dei chiostri. Sotto l'impero rimisero salde radici innumerevoli ordini antichi e novelli, e non soltanto i valenti e dotti padri dell'Oratorio, ma anche altri di dubbio valore morale. Lo stato andò loro incontro premurosamente, e solo di rado ricadde nelle vecchie abitudini della diffidenza burocratica, come, per esempio, nel 1867, quando soppresse il Consiglio generale delle Conferenze di San Vincenzo di Paola. Lo stesso duca di Persigny notò con sorpresa, come la Curia romana desse la preferenza agli ordini regolari e perfino nelle encicliche li preponesse ai secolari; e Lacordaire gli assicurò di essersi fatto monaco, per godere di maggior libertà e influenza che da semplice prete. Dallo stesso spirito procedeva il rinnovellato zelo pel servizio delle immagini e delle reliquie, per tutti i dommi e le cerimonie che più aspramente contrastavano col protestantismo. Il culto di Maria nella Francia imperiale fu curato con una sentimentalità lattimosa, che sovente suscitò un vero e coraggioso disdegno tra gli ultramontani tedeschi. Tutta la valle del Rodano, antica patria benedetta del clero francese, è ora consacrata alla Madonna. La serie è aperta da _Notre Dame de Fourvières_ sopra Lione e chiusa da _Notre Dame de la Garde_ sul porto di Marsiglia: quasi in ogni città del Rodano, a Vienne, Avignone, Viviers si eleva sulla cima che domina la valle una grandiosa statua di Maria; e furono tutte innalzate sotto il secondo impero. Anche più orgogliosa giganteggia la Madonna colossale, sull'erto dirupo a piombo sulla vallata di Le Puy. Una sola volta mi sono abbattuto in una somigliante ostentazione del cattolicismo in terra tedesca: sulle rocce rosse della Mosella, dirimpetto al santo Treveri. Il potere assoluto del papato parve siffattamente assicurato nella Chiesa moderna e l'accentramento condotto con tale acume, che nelle prossime generazioni una scissura della Chiesa offriva qualche probabilità di riuscita tutt'al più nel caso di un conclave molto contrastato. Il clero ubbidisce ai vescovi incondizionatamente, come i soldati agli ufficiali: parole testuali, con cui il cardinale Bonnechose ritrasse in senato lo spirito mutato della religione dell'amore. La sostanza romana trionfava dovunque, anche negli accidenti formalistici: il Breviarium Romanum, le pianete romane soppiantavano gli antichi usi delle chiese locali. Con la bolla _Ineffabilis Deus_ il papa creò di arbitrio il nuovo domma dell'Immacolata Concezione, e questo tratto di autorità, inaudito nella più antica storia della Chiesa, fu accolto dal mondo cattolico senza notevole opposizione, e con gioia dalla maggioranza del clero francese. L'inalienabilità dello Stato della Chiesa fu con santo zelo difeso come un domma da tutti i pulpiti: perfino il volteriano Thiers dichiarò idea fondamentale del cattolicismo la sovranità temporale del papa in Roma. Le idee gallicane del sistema episcopale incontrarono difensori coraggiosi soltanto in pochi fogli, laddove gli ultramontani possedevano un giornale quasi in tutte le maggiori città di provincia. L'ambiziosa crudezza degli scritti di Veuillot non sarebbe stata possibile nemmeno sotto la Restaurazione. _Les Études réligieuses_, organo dei gesuiti francesi, rappresentavano in verità un indirizzo più blando che non la _Civiltà cattolica_ o le voci di Santa Maria di Laach; ma come mai avrebbero potuto combattere durevolmente il domma dell'infallibilità papale? Quando alla fine si radunò il concilio e quel domma sacrilego fu effettivamente annunziato, la gran maggioranza dei prelati francesi stette col papa infallibile. Lo zelo ultramontano si mostrò tanto più esoso, quanto più vivamente si sentiva, che la nuova potenza della Chiesa non era menomamente fondata su un ringagliardimento della fede. Donde l'affannamento a rapire alle biblioteche le opere di Voltaire e di Rousseau, donde il pauroso effetto di quel libro di Renan, che con tutte le sue deficienze scientifiche pure era sorto da uno spirito profondamente religioso. Nel senato del primo impero sederono Laplace e Volney, Cabanis, Tracy e Sieyès: nel nuovo senato il solo Sainte-Beuve osò difendere il diritto della libera indagine. Con quale furore i Maupas, i Canrobert, i Ségur si gettarono sul difensore di Renan, e con quale ingenuità il conte Chapuis-Montlaville confessò le ragioni mondane di questo zelo di fede: «qui non è permesso di difendere questi uomini, che alzano il tizzone contro la società!». È difficile stabilire in che misura il dirizzone ultramontano penetrasse nel basso clero. Ma nell'episcopato dominava assoluto lo spirito dei Dupanloup e dei Bonnechose; e questo bastava. Infatti, una volta che i 18 arcivescovi e i 67 vescovi nominavano i parroci e li trasferivano a loro piacimento nell'interno delle diocesi, si comprende, che non poteva certo manifestarsi apertamente lo spirito nazionale che avvelenava la fede a molti curati. Inoltre, le pretensioni del nuovo papato trovavano potenti appoggi alla corte. Una volta, parlando della moglie, l'imperatore disse al cardinale Bonnechose: «è il fortunato privilegio della donna, questo, di tenersi estranea alla ragion di stato e ai freddi calcoli della politica, e di abbandonarsi esclusivamente alle magnanime ispirazioni del cuore». Col fatto, dalla sua Eugenia avrebbe dovuto apprendere, che quelle magnanime ispirazioni del cuore muliebre possono intrudersi anche nei freddi calcoli della politica. Tendenze spagnole, altezzose e imperiose, idee, che da Caterina dei Medici in poi non si erano potute più sostenere sul trono francese, dominavano _l'entourage_ dell'imperatrice; e un'amicizia da sorelle collegava le Tuileries a quella grettissima tra le corti, che circondava la regina Isabella e la monaca Patrocinio. Il fiuto fino del partito spagnuolo subodorò, che il carattere della moderna cultura popolare è determinato in sostanza dalle scuole superiori. I licei imperiali non erano tenuti pericolosi, fintanto che la Chiesa se ne divideva con lo stato la soprintendenza, e fintanto che lo stesso spirito di uniformità pretesco-militare vi dominava così allegramente, che alla medesima ora i medesimi problemi erano proposti a Perpignano e a Lilla. Più scabrosa era l'istruzione elementare obbligatoria, propugnata dall'infaticabile ministro Duruy. Godendo nuovamente la Chiesa dei suoi antichi beni, non avrebbe trovato nulla a ridire, se lo stato anche per l'avvenire avesse speso 450 milioni per l'esercito e da 23 a 29 per l'istruzione. Del resto, anche la scuola obbligatoria era comportabile, una volta che il parroco invigilava accuratamente sulla scuola popolare. Ma la cultura accademica fuori affatto delle mani della Chiesa ha effetti semplicemente rovinosi. Non basta, che accanto a ogni facoltà teologica dello stato sia un seminario ecclesiastico; giacché i nemici nati della fede miracolosa, gli storici e i naturalisti, esercitano senza disturbo alcuno nelle altre facoltà la loro opera di perturbazione. L'assegnazione delle cattedre per concorso aggrava certamente il male dell'assunzione degli eretici dichiarati; talché con un nuovo sbalzo della scienza mondana incombe il malaugurato pericolo, che le conferenze della Sorbona abbiano un successo clamoroso ed impressionante come ai tempi di Cousin e di Guizot, e i magnifici codici della biblioteca imperiale siano esplorati non più quasi soltanto da dotti forestieri, ma anche dai francesi. Onde, a un ordine di Roma, sorse di botto da ogni parte del campo clericale la richiesta che anche l'istruzione superiore fosse sottoposta alla Chiesa: in fondo, si accarezzava la speranza di una così detta libera università cattolica, come quella di Lovanio. Se non che, questo stato burocratico e accentrato non si trovava, come la provincia neutrale del Belgio, in grado di sopportare la lotta incessante di due partiti egualmente forti sui principii della vita sociale: la sua scienza mondana non è e non può essere realmente libera, fintanto che dura l'accentramento burocratico. Una università cattolica a Tolosa non incontrerebbe quindi nessuna controforza viva; e i sogni dei clericali allora potrebbero tradursi in realtà di vita, quando lo stato e la Chiesa si sottoponessero alla cultura. Qualora la Chiesa fosse vissuta modestamente nella missione della cura delle anime, avrebbe potuto, in questa età del culto di Mammona e del godimento sensuale, diventare una sorgente di salvezza per migliaia di anime oppresse; ed in effetto, in molti dipartimenti abbandonati essa si serbava tuttora l'unica custode dell'idealismo, possedeva tuttora alcuni eccellenti seminar! ecclesiastici, come, per esempio, la scuola di San Sulpizio, i quali pel loro zelo scientifico e la rigidezza morale sapevano riaffermare la loro antica fama. Ma i loro poteri direttivi sono scaduti nel gesuitismo, ed essi, ad onta di tutta l'ascesi in moda, si sono secolarizzati nel senso peggiore, e combattono a morte ogni libera moralità, ogni idea fondamentale della vita moderna. Noi non ci annoveriamo tra quei pusillanimi che, spaventati dall'onda che sale delle potenze ultramontane, dubitano dell'avvenire della libera educazione umana. Sappiamo bene, che la Chiesa dell'autorità non sarà abbattuta solamente con le armi dello spirito. Noi perciò non fondiamo troppo solidamente sull'esperienza, che questa Chiesa non ha proprio alcun merito nelle gesta liberatrici della civiltà moderna, principalmente nella emancipazione delle classi umili, e che domina sopra forze spirituali sempre incomparabilmente inferiori a quelle dello stato e della scienza. Ma sta in fatto, che anche la potenza materiale del protestantismo è in condizione pari con la Chiesa romana. Il mondo moderno appartiene alla fede evangelica. Dovunque una spedizione porta l'ascia e la carabina nella foresta vergine, in nove casi su dieci è il protestante quello che dischiude all'incivilimento la selva. E davanti all'avvenire maestoso che si apre in Occidente al protestantismo, si rattarpano, Dio sia lodato! tutti i trionfi europei della vecchia Chiesa. In Francia stesso la vittoria del partito ispano-romano era ancora tutt'altro che assicurata. Noi annettiamo scarso valore all'incontro che in ampia cerchia ebbero Renan e altri liberi pensatori; giacché siffatte voci di opposizione, che nella buona società francese non mancarono mai, non menano affatto all'affrancamento degli spiriti. Anche il protestantismo sul suolo francese non contrabbilancia punto in modo sufficiente le forze ultramontane. Un protestante può solamente considerare con sincera allegrezza, che questa gloriosa Chiesa di martiri della fede evangelica si è negli ultimi decenni risvegliata a nuova vita. Istituì sotto la compressione stessa della Restaurazione le sue società bibliche, e ha da allora partecipato con vigoroso zelo a tutte le lotte della teologia tedesca: gli sforzi crittocattolici di una ortodossia insulsa, rappresentati con la consueta infallibilità dal vecchio Guizot, incontrarono pochi seguaci. Non era però assicurata la posizione legale delle comunità evangeliche: l'indegno decreto del 25 marzo 1852 sottopose le adunanze alle comminazioni del _Code pénal_, di modo che il frequentare le chiese da parte delle donne e dei fanciulli dipendeva puramente dall'arbitrio delle autorità. La Chiesa perseverò bravamente, e questa potente vita religiosa evangelica adempì in Alsazia l'ufficio di estrema difesa della lingua e dei costumi tedeschi. Solo che, siccome il protestantismo in Francia era alimentato sostanzialmente dalla fonte tedesca, appunto per questo poteva sempre serbarsi solamente come una manifestazione provinciale, e appunto per questo i protestanti alsaziani, stando al giudizio di un calvinista dichiarato come il generale Ducrot, non erano considerati come veri francesi. La speranza di alcuni rabbini, che riescirà col tempo di _évangéliser la France_, a ogni uomo posato si rivela un sogno, ed è poi divenuta pienamente caduca da quando l'Alsazia è ritornata alla patria. Ragioni politiche avevano cagionato la reviviscenza del clero ultramontano, e congiunture politiche altresì formarono finora i limiti del suo dominio. Anche la popolazione credente delle campagne fu trattenuta da ricordi politici dall'assoggettarsi internamente alla Chiesa. Il contadino seguiva il prete, ma non aveva punto dimenticato i mali giorni delle decime ecclesiastiche e dei pesi feudali: per poco che l'ambizione pretesca avesse prevaricato dai confini della prudenza, poteva riavvampare di botto l'antico odio mortale ai preti e ai gentiluomini. Inoltre, la paura dei rossi nemici della fede era presso le classi colte largamente compensata dalla potenza delle tradizioni rivoluzionarie. L'orgoglio patriottico, il sentimento energico dello stato nei francesi pensanti non ha finora comportato mai un assoggettamento dello stato alla Chiesa. La cultura mondana del secolo si aombra davanti a ogni avviamento religioso estremo, come davanti a ogni soluzione recisa dei problemi religiosi. La maggioranza dei francesi non voleva che il papa perdesse il dominio di Roma, ma tanto meno voleva che acquistasse il dominio della Francia. Qui, in questa mezza disposizione, in questa disposizione incerta della nazione, nella sua inettezza a giudicare le questioni religiose sotto aspetti religiosi, qui è da cercarsi la chiave della tentennante politica ecclesiastica dell'impero. Napoleone III colmò di favore la Chiesa come nessun altro monarca francese, ma dové pure riconoscere presto i pericoli di una rotta, i cui scogli furono fin dal 1852 avvisati da lontano dall'occhio acuto di Cavour. L'imperatore sentì, che al disopra del suo capo cresceva la dominazione ultramontana, e ammonì soventi volte i prelati: che dal tempo di San Luigi lo stato non aveva mai rinunziato al suo diritto di sovranità. Ma alla fine la guerra d'Italia fece manifesto il dissidio tra gl'interessi ultramontani e i nazionali. Si avverò di nuovo l'antica esperienza, che nei guai la Chiesa è più formidabile che mai. I vescovi, con una arditezza che somigliava molto all'aperta ribellione, levarono la voce pel dominio temporale del papa; e ciò, sia al ritorno dei prelati dalla canonizzazione dei martiri giapponesi, che, di nuovo, dopo la convenzione di settembre. Sovvenne loro di bel nuovo, che un napoleonide non sarebbe giammai un figlio fido della Chiesa. La corte da allora titubò indecisa tra le sue tradizioni rivoluzionarie e le nuove tendenze spagnoleggianti, né più né meno come il Pantheon, il quale, restituito al culto divino, pure continuò a portare in fronte l'iscrizione mondana: _aux grands hommes la patrie reconnaissante_. Negli ultimi anni, mentre l'impero invecchiava, il partito spagnuolo alla corte guadagnò la mano. Poteva Napoleone, ed egli solo in Europa, impedire il domma dell'infallibilità; ma all'uomo ormai stanco venne meno la forza di cimentare faccia a faccia la moglie. Mentre si teneva il concilio vaticano, le sue truppe proteggevano Roma: la stessa battaglia che lo rovesciò dal trono donò agl'italiani la Città eterna. La politica ecclesiastica del nuovo bonapartismo è stata un misfatto indelebile contro l'educazione nazionale, che pure l'imperatore intendeva di promovere; aggiunse alla tremenda corruttela del paese anche il vizio dell'ipocrisia e della superbia pretesca e, ciò non ostante, non raggiunse lo scopo di fare del clero un saldo sostegno alla Casa dei napoleonidi. Piuttosto, i gesuiti aiutarono a scavare la fossa al trono imperiale. Essi avevano bisogno di una complicazione europea per fare scivolare in porto il loro nuovo domma mezzo inavvertito dalle grandi potenze; perciò le aizzarono e incalzarono alla guerra onde Napoleone fu sfracellato. E così anche il secondo impero, come già da tempo gli spagnuoli e i polacchi, ebbe a sperimentare, che corre infallibilmente alla rovina ogni regno che si appoggia alla Compagnia di Gesù. VI. Per l'esecuzione dei disegni prescelti di politica estera, che ognuno attribuiva fiduciosamente al napoleonide, il nuovo sovrano disponeva di uno strumento eccellente, che era il miglior lascito dell'eredità della monarchia di luglio. Le vittorie africane erano per l'esercito una scuola insieme e uno sprone alla brama di gloria. Tutta l'organizzazione dell'esercito era preordinata alla guerra offensiva. In questi reggimenti senza patria, raccozzati da tutte le provincie, guidati da ufficiali scapoli, e cambianti continuamente di guarnigione, non poteva mai spegnersi lo spirito di lanzichenecco di chi vuol battersi unicamente per vedere quale è il più forte. In nessun altro esercito un generale avrebbe potuto rivolgere al comandante supremo le parole, che il maresciallo Castellane gridò all'imperatore: «Sire, l'armata si annoia: se vogliamo batterci, bisogna essere in due: su chi dobbiamo avventarci?». L'imperatore curava premurosamente questa colonna del suo dominio, e, come lo zio, vedeva nell'armata, «la vera nobiltà del nostro popolo», e nella sua storia la propria storia. Ognuno sa quanto si operò di notevole nei primi anni dell'impero per elevare l'efficienza bellica dell'esercito, quanto romore suscitarono sui campi di Lombardia i nuovi cannoni rigati, quanto a lungo il campo di Mourmelon fu ammirato come l'alta scuola della tattica, e come l'imperatore intendesse di risollevare anche la figliastra di questa armata, la cavalleria, con l'introduzione dei piccoli e focosi cavalli algerini. Ai reggimenti rinforzati degli zuavi furono annesse le nuove truppe barbare dei turcos, e le incerte idee dell'oggi sul diritto delle genti permisero all'imperatore di adoperare questi selvaggi contro i soldati europei. Anche la flotta, dopo sforzi enormi, eguagliò finalmente l'inglese in numero di navi e in artiglierie, sebbene non potesse mai divenire come in Inghilterra un'arma nazionale capace di un continuo ringagliardimento. L'asserzione tanto motteggiata di Napoleone III: _l'empire c'est la paix_, non era affatto una mera bugia, ma semplicemente un'altra di quelle mezze verità, in cui si palesava l'intima contraddizione del bonapartismo. Tutti i provvedimenti del socialismo monarchico, della felicitazione dispotica delle moltitudini, potevano prosperare unicamente in tempo di pace. Il nipote non era un uomo di guerra, un capitano: i disegni della sua politica europea non erano ispirati dalla cruda frenesia della percossa. Eppure egli aveva bisogno della devozione festosa dei suoi soldati, eppure l'impero doveva l'esistenza al culto della gloria guerresca. In tutti i tempi scabrosi i giornali ufficiosi non avevano che a sollevare la questione del Reno, per occupare le teste irrequiete del popolo e dell'esercito: avvenne così immediatamente dopo il colpo di stato, così dopo la battaglia di Königgrätz. Il signor Lavallée insegnò nella scuola militare di Saint-Cyr la teoria dei confini naturali con una goffaggine stupefacente; e il cattivo libro che scrisse sull'argomento fu coronato dall'Accademia. Perfino il sostenitore del rischiaramento pacifico, Duruy, nella sua introduzione alla storia francese ribatte con passionata indignazione su «quell'enorme lacuna nei nostri confini», che si stende da Lauterburg a Dunkerque. Per lui la lingua tedesca in Alsazia è semplicemente un rozzo dialetto illegittimo; e gli alsaziani devono unicamente alla personale equanimità dell'imperatore, se la loro parlata non è sparita interamente dalle scuole. Le spettacolose parate militari dell'impero erano eseguite con una teatralità vanagloriosa, con una crudezza di sentimento, che ricordava l'antica Roma. Quando le truppe di ritorno da Sebastopoli sfilarono davanti alla colonna Vendôme, ogni reggimento era preceduto dalle suore di carità e dalle figure squallide dei feriti; e i soldati erano tutti nella divisa da campo sporca e in brandelli, affinché ai cittadini _blasés_ della capitale apparisse bene avvistata la selvaggia maestà della guerra, la gloria di fare il soldato. Anche il vestito da funambolo degli zuavi e dei turcos era diretto più a eccitare la curiosità dei parigini che a incutere spavento ai nemici. L'impero fu sollecito del sentimento dinastico nell'esercito con miglior successo che non la monarchia di luglio. I pochi ufficiali liberali, che un tempo si aggruppavano intorno ai generali africani, furono prestamente rimossi o convertiti. Una guardia del corpo di 50.000 uomini, ben addestrati e meglio pagati, portava l'uniforme dell'antica Guardia imperiale, e viveva e sfolgorava dei ricordi napoleonici: il principe imperiale faceva gli esercizi tra le fila dei figli della Guardia. Gli ufficiali di merito arrivavano a una posizione splendida: la paga dei generali richiedeva l'enorme somma annuale di 21 milioni. La croce della Legion d'onore era conseguibile anche dai semplici soldati, e le nuove medaglie militari premiavano i meriti più modesti. Fu istituita una medaglia commemorativa per ogni campagna; perfino la passeggiata militare a Pechino fu ricordata dalla medaglia col dragone. Urgeva soprattutto di formare una razza di vecchi soldati di professione, la cui bandiera fosse la casa e la patria. Fu fondata la cassa di esenzione che con le alte entrate e pensioni attirava gli usciti di ferma a continuare nel servizio come capitolanti; anche il soldato semplice aveva la certezza di ricevere dopo venticinque anni di servizio 500 lire all'anno, e anche più se era decorato. In tal modo si formò rapidamente un corpo scelto di 170.000 soldati di professione. Che il peso delle pensioni militari aumentasse in 10 anni di circa 20 milioni, non era cosa di cui si desse pensiero la finanza imperiale. Anche la zotichezza lanzichenecca dei vecchi soldati, e il bagordare dei _vieux grognards_ straripante in molti eccessi taciuti dalla stampa, non scandalizzava un gran che: comunque, il sentimento napoleonico dei pretoriani era assicurato. La guerra d'Italia scoprì per la prima volta la rifioritura dei punti neri di un siffatto procedimento. Quanto più gagliardamente allignava il ceppo dei soldati di mestiere, tanto meno rendevano le leve di milizie giovani, fino a scendere a circa 23.000 uomini all'anno; e tanto più scarso era per conseguenza il numero delle truppe di riserva istruite. Si cercò di sopperire, dando alla meglio a una parte dei coscritti una istruzione accelerata. Capitò allora la guerra del Messico, che impose gravi sacrifizi imprevisti: nel paese la forza effettiva delle truppe era molto ridotta, e negletti i magazzini e gli armamenti; e quando in mezzo a un siffatto scompiglio rimbombò l'eco formidabile di Königgrätz e tutti gli occhi si volsero all'esercito, allora il governo dové pure capire l'assurdità della sua politica militare. Subito si buttò sulla via opposta, e arrischiò la proposta del servizio generale obbligatorio. Perché mai in un paese in cui l'eguaglianza è deificata e domina il quarto stato, cotesta idea si abbatté in una opposizione furente? Mutare la costituzione dell'esercito vuol dire trasformare la costituzione dello stato. Il servizio militare generale obbligatorio è impossibile in una società burocratica; basta la sua rigogliosa esistenza a provare quanto siano radicati in Prussia i pubblici costumi dell'autonomia amministrativa. Non soltanto il ricco aborriva in Francia la prestazione personale del servizio militare allo stato; i lavoratori altresì, i leali contadini diventarono riottosi e ribelli, quando corse per le terre il grido: _il n'y aura plus de bons numéros!_ Nessuno voleva rinunziare alla speranza, che la fortuna del sorteggio lo dispensasse dal suo dovere civile. Il servizio generale obbligatorio è inattuabile senza corpi di armata provinciali: diventa di una durezza intollerabile, quando costringe le persone colte a servire, anche in tempo di pace, lontano dal proprio paese, in reggimenti nomadi. Siccome il bonapartismo aveva sempre in mano il mezzo di creare una così detta opinione pubblica e di suscitare l'apparenza di un generale entusiasmo guerresco, il sistema di Scharnhorst non poteva spiegare in Francia la felice azione pacifica che ha avuto presso di noi. Lì, invece, il servizio obbligatorio sarebbe stato uno strumento di servitù, avrebbe assoggettato tutta la gioventù alla disciplina militare, impegnato tutte le forze della nazione in una politica estera lunatica. Perciò, quasi soltanto nella bellicosa Lorena i primi disegni del maresciallo Niel furono accolti con giubilo, da per tutto con terrore. Il superficiale dilettantismo dell'opposizione si confermò ancora una volta nella discussione del corpo legislativo sulla legge militare. I medesimi retori, che avevano rimproverato l'imperatore di arrendevolezza alla Prussia, celebrarono con perorazioni grandiloque l'ideale immorale e impossibile della pace universale, levarono al cielo il sistema militare svizzero, pel quale in Francia il terreno di consistenza mancava affatto, asseverarono, che solamente la libertà renda invincibile l'esercito. Il compromesso, a cui venne alla fine il governo con l'egoismo dei possidenti, non mutò nulla alle basi dell'antico ordinamento militare napoleonico. Solo che fu rafforzata la leva annuale, fu formata sulla carta una gagliarda armata di riserva, fu migliorato l'armamento. Ma il cambio rimase, sebbene scorciato a dieci anni, rimase la lunga ferma, rimase lo sparpagliamento dell'esercito in reggimenti isolati, senza patria; in una parola, l'organizzazione militare per l'aggressione. Lo spirito delle truppe, dopo come prima, era determinato dai soldati di mestiere, di cui espresse il sentimento il generale Changarnier nei suoi giudizi sprezzanti sulle milizie prussiane. Dopo come prima, il coscritto francese entrava con terrore e con sgomento nella caserma, per poi conformarsi rapidamente sotto le bandiere all'irrequieta iattanza militare dei veterani. In questo esercito e in questo spirito della nazione, unicamente qui si annidava la minaccia alla pace universale tanto melodrammaticamente lamentata dagli apostoli pacifisti francesi. Il dispotismo, anche nelle riforme militari, si rivelò inetto ad apprezzare degnamente le forze morali della vita dei popoli. Quando era pretendente, Luigi Napoleone aveva scritto parole di ammirazione per l'ordinamento militare prussiano; adesso riceveva sull'esercito prussiano informazioni intelligenti e imparziali dal colonnello Stossel. Ma le lettere rimasero inosservate, nemmeno lette. La camarilla militare non voleva vedere, che ogni riservista tedesco e ogni uomo della Landwehr aveva percorso nell'esercito permanente la scuola della disciplina e dell'esercitazione tecnica, e che proprio in ciò consisteva la forza incomparabile dell'esercito tedesco; nutriva unicamente l'idea di superare il rivale con l'enorme superiorità del numero. Perciò fu messa su la massa senza istruzione e senza valore della Guardia mobile, e si persisté con cieca muffosità nell'illusione, che la Landwehr prussiana non fosse buona a nulla, laddove sarebbe bastato uno sguardo fugace sulle leggi militari della Germania settentrionale a mostrare il contrario. Si smargiassava sulle nuove armi, chassepots e mitragliatrici, e intanto si era legati per tira avanti di stupida _routine_ a una tattica già vecchia decrepita, si maneggiavano le truppe secondo un regolamento del 1791, e si mandavano fuor dei piedi gli ammonitori con la frase baldanzosa: «il nostro esercito possiede la tradizione della vittoria!». Il despota non poteva desiderare, che un generale si cattivasse un partito compatto tra le sue truppe; perciò distribuì il paese in grandi _Commandos_, a cui tra rapidi trasferimenti erano assegnati i singoli reggimenti; e non rifletté, che un tale sbrancamento dell'esercito nuoceva allo spirito di camerati delle truppe, e che allo scoppio di una guerra avrebbe costretto a una nuova formazione dell'armata e avrebbe così menomata la prontezza dell'efficienza offensiva dello stato. Anche nell'esercito la carie morale della vita di questo popolo divorava ogni cosa intorno a sé. Già durante la guerra d'Italia un diplomatico inglese, acuto osservatore, che aveva conosciuto da vicino i vincitori di Solferino, scrisse alla sua corte: «questo esercito sarà irreparabilmente perduto, non appena gli sarà contrapposta un'armata di salda disciplina». E da allora le truppe si depravarono anche peggio nelle spedizioni di sacco al Messico e in Cina. Un nepotismo spudorato, maneggiato dalle dame della corte, allentava affatto il nodo compagnevole, del resto già sciolto, tra gli ufficiali; la disciplina non rispettava i condottieri, i quali passavano la più parte del tempo tra vuote millanterie, modicissimo lavoro e lautissimo far niente. Frattanto la Francia credeva al suo invincibile esercito, e siccome Luigi Napoleone, per lo meno nei primi anni di regno, partecipava a cotesta fede, è dunque innegabile, che egli per lungo tempo fece uso moderato della potente arma offensiva, che opinava di avere sotto mano. Dal tempo di Enrico IV egli era il primo sovrano di Francia, che si occupasse delle questioni europee con intelligente sollecitudine pel bene dell'intero continente, e non già coi soli preconcetti dell'ambizione francese o dell'ambizione personale. Nei suoi anni migliori sostituì alla politica orleanista dell'invidia rilevanti vedute europee. Le medesime corti, che avevano salutato con gioia il colpo di stato, dopo vista l'orientazione assunta dal trono imperiale, guardarono con comprensibile diffidenza alla politica europea del nuovo sovrano. Per un sovrano francese il nome imperiale non poteva mai risolversi in una troppo innocente decorazione, come il titolo d'_imperial crown_ per la corona della Gran Bretagna. Il nome di Napoleone III sonava come un'evizione degli antichi confini dell'impero mondiale, a cui lo zio non aveva formalmente rinunziato mai. In verità, il nipote fece assicurazioni soddisfacenti; ma il sospetto delle corti continuò. Un protocollo segreto, firmato a Londra il 2 dicembre 1852 dagli ambasciatori delle quattro grandi potenze, ammise il principio del non intervento, assumendo che la fondazione dell'impero fosse un puro mutamento del regime interno della Francia. La Prussia, come la minacciata più da vicino, essendo la sola grande potenza confinante con la Francia, prese puramente atto dell'accaduto, con la dichiarazione formale, che con ciò non s'intendeva né di esprimere un'opinione, né di riconoscere le eventuali conseguenze. Lo czar Nicola rifiutò al nuovo venuto il titolo di «caro fratello». La faccendoneria che traspariva irrequieta nelle Tuileries, il disegno, portato in giro per le corti, di una grande unione doganale dei popoli latini, i maneggi odiosi che la Francia iniziò col Belgio e la Svizzera, erano cose che non potevano scemare la diffidenza delle corone. Il napoleonide era il nemico nato dei trattati del 1815, che, sia pure lacerati qua e là, determinavano sempre, però, la conformazione della carta dell'Europa di mezzo. Non poteva certo lasciare l'impero nella posizione modesta, che gli era stata fatta fin dal Congresso di Vienna. L'istituzione della medaglia di Sant' Elena, che fu una vera provocazione sfacciata, dimostrava che il nipote non aveva punto dimenticato le tradizioni militari della sua Casa. Né sulla fiducia personale poteva contare il furbo, che aveva conquistato il trono con un gioco di bindolerie. «Napoleone mente sempre, e quando tace congiura», ecco come lord Cowley fissò più tardi l'avviso allora predominante nelle corti. In effetto, il gusto delle cabale e delle vie traverse durante una vita avventurosa, era diventato nell'imperatore una seconda natura. Gli piaceva di lasciarsi continuamente per lo meno due porte aperte: si atteneva fedelmente al principio, che la politica francese non aveva mai rinnegato da tre secoli, vale a dire all'adagio: _promettre ça n'engage à rien_. Anche i disegni che non avevano nulla a temere dalla luce del sole, egli curava di prepararli in profonda segretezza, come un cospiratore, lanciandoli poi di colpo fuori delle tenebre. Due tentazioni opposte si contendevano il napoleonide. Seguendo la prima, avrebbe potuto presentarsi come l'erede dello zio e intraprendere contro l'Inghilterra la guerra di vendetta, domandata mille volte da saccenti fanfaroni. Stante la elaborazione ingegnosa del credito inglese, le cui fila si raccoglievano tutte alla capitale, non pareva affatto inconcepibile, che una breve dominazione di truppe straniere a Londra avrebbe potuto scompigliare l'intero regno, e indurre a una pace umiliante quel popolo mercantile e poco bellicoso, còlto alla sprovvista. Oppure, seguendo la seconda tentazione, avrebbe potuto dedicarsi ai disegni del bonapartismo rosso, alle idee pazzesche, che il principe Napoleone fece sostenere dall'_Opinion nationale_ e che poi egli medesimo espresse nel maggio del 1865 nel suo famigerato discorso ad Aiaccio. Il principe venne fuori con la botta demagogica del prigioniero di Sant'Elena: «il mio nome sarà sempre pei popoli la stella polare del loro diritto». E pretese una tendenziosa politica di radicalismo, che, secondo il presagio dello zio, avrebbe collocato il sostenitore a capo dell'Europa; chiese il ripristinamento della Polonia, la lotta contro l'Austria reazionaria, e via di seguito. È un merito incontestabile dell'imperatore l'essersi ben di rado lasciato traviare nella freddezza del proprio giudizio da propositi frivoli di tal natura, e l'avere respinto continuamente l'odio e la vendetta come «sentimenti che non si confanno più al nostro tempo». Si rifece all'antica politica nazionale della grande età borbonica. Volle risollevare la Francia a potenza direttiva della terraferma, e puntellare coi popoli latini tale preponderanza. Ma bisognava raggiungere il vecchio fine con mezzi moderni. Come Persigny e Cavour, Napoleone III ravvisò la garanzia della civiltà europea nella salda unione delle due potenze occidentali. In verità, questa antica idea di Palmerston, che offendeva anche l'orgoglio tedesco, scapitava ogni giorno un poco della sua plausibilità, sebbene non fosse ancora interamente infondata in quegli anni, in cui l'influenza della Russia pesava tuttora sulla nostra patria. Una volta che il nipote credeva o dava a credere di credere, che il conquistatore del mondo aveva sparso da per tutto «i semi di nuove nazionalità», tant'è, egli stesso sanciva l'importanza, dominante pel nostro secolo, delle idee nazionali. Egli previde, che i trattati di Vienna avrebbero trovato il nemico più formidabile nel sentimento nazionale, quando si fosse ridesto, dei popoli arbitrariamente divisi, e volle promuovere quanto fosse necessario allo scopo. Apprezzò l'influenza dell'opinione pubblica, riconobbe che oggi è determinata dal liberalismo, la celebrò sovente come la sesta grande potenza che sola oggigiorno consenta successi durevoli, e decise di non por mano a nessuna grande impresa senza l'assistenza delle idee liberali. Queste vedute sapienti e moderne erano il fondamento della politica estera nei primi anni dell'impero. Il merito di cotesta politica è tanto più altamente stimabile, in quanto si contrapponeva ad antiche tradizioni e pregiudizi dello stato e del popolo francese. L'opinione media dei francesi era racchiusa nell'aforismo di Thiers: _rien n'est plus déplorable que les nationalités_; che in tedesco vuoi dire: solamente la Francia ha il diritto di formare un forte stato nazionale. Senza dubbio, anche nella politica europea di Napoleone apparve lo sconciamento di questo cervello, che in tanti anni di esistenza profuga, in eterni almanaccamenti e sognamenti, aveva affatto disimparato di stare al sodo, e di mantenere immutato un disegno con profonda serietà volitiva. In un'ora di sdegno, dopo la pace di Villafranca, Cavour opinò, che Napoleone portasse nella mente molte idee politiche, ma nessuna matura e pronta, e che per questo era corrivo a lasciare in asso l'opera sul bel principio. Nei giorni tranquilli il grande italiano ha espresso un giudizio più mite; ma noi che oggi abbracciamo con lo sguardo tutta la politica del bonapartismo fino al suo suicidio, possiamo tener buona la parola irata di Cavour. Il napoleonide sedeva sulla carta d'Europa ruminando, limandosi continuamente il cervello se gli convenisse spostare una frontiera al settentrione oppure al mezzogiorno: una fucina di disegni senza mai posa: e con tutto ciò era ben altro che una natura elastica, ma un flemmatico lento, che più cambiava posizione e meno si trovava a posto. E finiva sempre col soggiacere all'intima falsità del dispotismo democratico. Le idee nazionali del secolo dovevano effettuarsi, ma solo con un sistema ingegnoso di alleanze, solo con l'aiuto della Francia, e la nazione felicitatrice di popoli, la nazione dirigente doveva esserne ripagata in terre e genti. Il _révendiquer_, il ridomandare l'antico territorio napoleonico parve altrettanto irremissibile a tale politica, come la costituzione degli stati nazionali: solo che l'una idea escludeva l'altra. Il favore della fortuna iniziava l'imperatore in una êra rigogliosa, in cui le condizioni dell'Europa erano mature alle grandi risoluzioni: ed egli, da cervello sistematico qual era, si dava ad approfondire con accorgimento la «questione» emergente, ed era ben in diritto di dire: _étudier une question n'est pas la créer_. Per molto tempo aveva trattato di politica come giornalista; sovrano, conservò l'antica abitudine. Non un solo atto della politica neonapoleonica fu posto in iscena senza programmi solenni, senza il buscherio delle frasi patetiche. Verrebbe il tempo, che un uomo ben più grande avrebbe svelato, a confusione e scorno, la meschinità di mezzi siffatti. Il conte Bismarck ha dimostrato al mondo, che una vera politica moderna raggiunge magnifici successi solo con l'opera di popoli emancipati, fidanti esclusivamente in sé stessi; e dimostrò, inoltre, che la politica più geniale e inventiva si svolge continuamente nelle forme più semplici degli affari. Il restare a mezzo, il mancato successo di molte intraprese dell'imperatore si spiega meramente con la situazione contraddittoria di un uomo, che era nello stesso tempo un despota e un erede della Rivoluzione, nello stesso tempo uno statista di idee europee e il dominatore della nazione più vanagloriosa. Il nuovo sovrano non potè resistere a prima giunta alla debolezza del _parvenu_: cercò di entrare nella sfera di parentado delle corti legittime. Come l'aspirazione gli fu respinta, conchiuse alla lesta un matrimonio impari, e dichiarò pateticamente: «io porto con orgoglio il glorioso titolo di risalito». Gli si sarebbe presto offerta l'opportunità di rendere la pariglia alla più burbanzosa delle dinastie legittime. Noi oggigiorno dobbiamo tenere come indubbio, che lo czar Nicola non intendeva disporre del dominio turco da conquistatore, ma aspirava al protettorato sulla intera Chiesa ortodossa o, con l'espressione caratteristica del suo gabinetto, sul culto greco-russo. Il che voleva dire fondare la sovranità della Russia sui rajahs, decidere la questione orientale a favore della Russia. Anche chi non s'inchina alle idee di Davide Urquhart, deve però oggigiorno gratamente riconoscere con quale acume e sicurezza Napoleone III seppe penetrare, prima dell'Inghilterra, la versuzia dei disegni russi. La corte di Parigi in principio era ben lontana da un tracotante vezzo di guerra; e durante la lotta l'imperatore serbò una misura, che costrinse al riconoscimento perfino un Guizot. Nella contesa pei Luoghi Santi, egli prima, per lusingare gli ultramontani, si fece innanzi in modo abbastanza provocante, poi d'un tratto svoltò, subodorando, che lo stato turco infermo avrebbe potuto a stento tollerare ancora un'altra scossa guerresca. E quando lo czar, con l'abituale alterigia verso l'opinione pubblica, smascherò senza ritegno le mire della sua ambizione, allora finalmente si capì alle Tuileries, che era venuto il tempo non solo di tenere in piedi la Turchia, ma di fiaccare la prepotenza della Russia. I documenti pubblicati dal gabinetto di Parigi diedero per la prima volta al mondo la coscienza della gravità della situazione. Poi, nel corso della guerra, nella mente dell'avventuriero affaccendato sorsero idee lungiopranti di ogni specie. Al generale piemontese Partonneaux confessò: «la Polonia ripristinata, la Finlandia alla Svezia, la Crimea alla Turchia, e poi una rivoluzione in Italia; ecco la soluzione più felice!». Ma imparò a sobbarcarsi, quando il volo vittorioso delle sue aquile andò molto a rilento. Il momento della decisione parve molto felicemente scelto per la Russia. Lo czar per lo spazio di una generazione aveva portato con successo la maschera del grand'uomo, e di contro alle malferme corti occidentali si ergeva imponente, con quella irremovibile sicurezza che in un Gustavo Adolfo o in un Federico è un privilegio del genio, e in lui era nulla più che un segno di terra terra di pensiero, e di limitatezza. Non vi era principe in Europa, che non gli si fosse umiliato. Le corti tedesche e italiane adulavano il nemico della Rivoluzione, l'Austria gli pareva per sempre obbligata per l'assoggettamento dell'Ungheria. Le due potenze occidentali si erano alienate per via dei discorsi senza freno degli _chauvinistes_ e della contesa pei profughi. Nel parlamento inglese risonò così alta e minacciosa la parola dell'odio alla Francia, che nel marzo del 1853 millecinquecento londinesi stimarono necessario firmare una protesta di devozione all'imperatore. La gara commerciale e industriale in Occidente teneva siffattamente gli spiriti, che a stento pareva ancora possibile una guerra popolare. La nazione francese andò alla guerra in Oriente con la stessa malavoglia che un tempo gl'inglesi nelle lotte napoleoniche: solo durante i fatti d'arme l'ambizione militare riprese il sopravvento sull'amor di pace di un'età industriale. In conclusione, lo czar poté sperare di ottenere nella pace il dominio sui cristiani di Oriente. Napoleone III fu il primo a intravvedere la debolezza della potenza russa e la nullaggine della grandezza personale dello czar. E conchiuse l'alleanza vantaggiosa con l'Inghilterra. Feste di fratellanza e visite a corte sigillarono il nuovo sincero accordo, e per la prima volta nella storia la flotta inglese accolse a bordo soldati francesi. Le due potenze occidentali si celebrarono reciprocamente con fracassosa millantatura come le custodi della civiltà. L'imperatore ebbe a rilevare, che erano «anche più forti per le idee che rappresentavano, che per la potenza dei loro vascelli e dei loro battaglioni». Drouyn de Lhuys e Moustier col tono arrogante da maestri di scuola verso la Germania provocarono un fiero rimbecco dal signor di Bismarck. Lo stesso Napoleone III nel discorso del trono del 1854 si era concesso l'impudente osservazione: «La Germania, che forse ha dato troppe prove di sottomessa compiacenza (_déférence_) alla Russia, riacquista l'indipendenza della sua condotta». Oggi nessun tedesco può ripensare senza vergogna alla pacatezza con cui la stampa della Germania esacerbata contro la Russia sopportò una tale iattanza dell'Occidente. Anche i rimproveri astiosi, che il mondo liberale mosse allora alla politica di neutralità della Prussia, hanno da un pezzo ceduto a un giudizio più posato. Non conveniva alla Prussia rendere alle potenze occidentali servigi, che in conclusione avrebbero potuto profittare esclusivamente all'Austria; ed è a lamentare solamente il fatto, che a Berlino non si ebbe animo destro a cavar partito dal garbuglio orientale per la liberazione dello Schleswig-Holstein. Eppure la partigianeria passionata del mondo liberale per le potenze occidentali veniva da un istinto sano. Era il tempo che il partito reazionario in Prussia magnificava il bianco czar come il secondo padre del nostro stato. Questa autorità sovrana dell'impero semi-asiatico gravava così oppressiva sulla vita tedesca, contraddiceva siffattamente all'essenza della civiltà nostra, che qualunque cambiamento di rapporti tra le potenze europee doveva sembrare un progresso. L'imperatore ravvisò nell'antico dominio del Ponto il solo punto vulnerabile dell'impero russo, giacché un'irruzione in Bessarabia non era possibile senza l'aiuto dell'Austria; ma già da ora, nei giorni di maggior potenza, mostrò, come poi sovente in appresso, una tentennonaggine di esito imprevedibile tra le vedute proprie e le suggestioni altrui. In principio egli voleva tagliare ogni comunicazione tra la Crimea e la terraferma; poi ristette, e permise lo straordinario assedio di una fortezza, che si riforniva continuamente di nuove forze dal territorio alle spalle. Il despota ebbe la soddisfazione, che il suo esercito desse eccellente prova, mentre nell'armata inglese si manifestavano tutti gl'inconvenienti dell'amministrazione militare parlamentare. Quando le truppe vittoriose rimpatriarono, egli poté bene lodarle di avere riconquistato al proprio paese il debito posto in Europa; e Troplong gridò giubilando, che l'Europa riconosceva novellamente il nome della grande nazione. La Francia apparve in pace come in guerra la potenza dirigente dell'Europa. L'imperatore, alla maniera del primo console, trasse subito alla grande alleanza gli stati intermedi del Mezzogiorno e del Settentrione, calcò a bella posta sul carattere liberale della sua politica estera, e ancora nel novembre 1855 esortò l'opinione pubblica a far pressione sui gabinetti. Certo, la soluzione della questione di Oriente annunziata dalle penne del bonapartismo fu tutt'altro che raggiunta con la pace di Parigi. Cacciata dalle foci del Danubio, la Russia frattanto compì l'assoggettamento del Caucaso e l'abbracciata del Mar Nero: enormi conquiste nell'Asia interna prepararono nuove catastrofi al Bosforo, e appena quindici anni dopo la pace di Parigi la Russia si dichiarò formalmente sciolta dal patto innaturale, che aveva convenuto la neutralità delle acque del Ponto. Le stesse potenze occidentali doverono confessare, che la pace era solamente un armistizio; e anche dopo la pace garantirono per mezzo di un trattato con l'Austria l'indipendenza della Turchia. Ma di garanzie, la Turchia con la guerra di Crimea ne acquistò soltanto una: un rinsaldamento di fiducia nel suo valoroso esercito. La riforma dello stato, che esordì sotto la protezione della Francia, è andata in fumo. Solo i ragazzi possono ammirare l'editto di tolleranza turco, lo Hat-Humayun, splendido cimelio della civiltà napoleonico-ottomana. Un impero orientale non può guarire in virtù dei concetti giuridici occidentali. Secondo il diritto pubblico dell'Islam, il credente può bene concedere tolleranza, ma non mai l'infedele esigere tolleranza. Se in effetto un ringiovanimento dello stato è tuttora possibile, avverrà solamente nel caso che ogni nazione e ogni Chiesa della penisola balcanica sia organizzata in corpo autonomo con amministrazione propria; ma dell'intelligenza di coteste idee di Leopoldo von Ranke e di Lamarche la nuova Turchia napoleonica è priva affatto. Comunque, era già un fatto notevole, che fosse rotto alla fine l'affatturamento d'indolenza, che aveva paralizzato per tanto tempo le potenze occidentali. La Turchia fu accolta nella società degli stati europei, la Russia ebbe ad apprendere che il continente non tollererebbe una soluzione unilaterale della questione orientale. Frattanto furono ripresi in senso umano i disegni egiziani dello zio, e fu condotta a termine la grandiosa opera del canale di Suez. Le conseguenze della guerra di Crimea furono risentite dall'Europa in modo di gran lunga più profondo, che non dall'Oriente. Napoleone III si valse della potenza recentemente acquistata per effettuare un'idea preferita del suo antenato. Anche egli si sentiva protettore della libertà del mare e delle marine minori; e si adoperò a che il Congresso di Parigi enunciasse i principii di un diritto marittimo più umano: umane teorie giuridiche, che certamente il bonapartismo si sarebbe col plauso della nazione cacciate sotto i piedi, non appena avessero attraversato l'interesse della Francia. La potenza della Francia si levò gagliarda davanti all'astro dell'Inghilterra che impallidiva. Il napoleonide riuscì ad estirpare interamente l'odio mortale alla perfida Albione, che per quarant'anni aveva dominato l'anima dei francesi. Ora si guardava al Canale con amicizia di buoni vicini, perché non si aveva nulla più da invidiare all'Inghilterra. Lo stato isolano sonnecchiava a tutt'agio sui guanciali della dottrina di Manchester, e se talvolta sobbalzava spasmodicamente per rafforzare la squadra di corazzate o per aumentare il numero dei suoi disutili reggimenti di volontari, allora il mondo sentiva quanto fosse avvizzito l'orgoglio dell'Inghilterra. Siccome all'alleanza con questo stato non era più da dare troppo peso, Napoleone si volse ad avviare la buona intesa con la Russia. Al Congresso di Parigi trattò con riguardo l'ambasciatore dello czar, favorì le mire russe nelle provincie danubiane, porse aiuto alla fondazione della grande Rumania, e mandò perfino una flotta a incrociare nell'Adriatico per soccorrere, all'occorrenza, i montenegrini. La Francia era di nuovo in grado, per la prima volta dal tempo del Congresso di Vienna, di procedere a disegni positivi nella formazione della novella Europa, e la guerra d'Italia comprovò, che una volontà prudente guidava il potentissimo stato. A chi si volta a guardarli, i grandi rivolgimenti compiuti appaiono semplici e spiegabilissimi, e futili rispetto alle speranze del domani i loro risultati duraturi. La gente ingiusta, che oggi rivà al potente anno 1859 con le idee del 1871, non vuole ponderare sul serio con quanta gratitudine i più saggi e competenti patrioti d'Italia, i Cavour e i D'Azeglio, apprezzarono le benemerenze di Napoleone III verso la loro patria. L'imperatore si vantava: «se vi sono uomini che non intendono i propri tempi, io non appartengo a costoro»; ed ebbe il raro coraggio di por mano a disegni europei, che la più parte dei suoi contemporanei e quasi tutti i gabinetti tenevano per utopistici. All'opinione pubblica la saldezza incrollabile del regime della sciabola austriaco pareva tanto indubitata, quanto la incapacità politica degl'italiani. La grande maggioranza della nazione, che amava chiamarsi _la nation initiatrice_, era abbarbicata alle antiche idee dell'invidia politica. Non erano i soli ultramontani quelli che temevano il risorgimento dell'Italia come un pericolo pel papato, e che vedevano con soddisfazione, che il partito reazionario nella Penisola, dopo la conquista di Roma, riguardava la Francia come un saldo sostegno. Anche i rossi radicali credevano tuttora fermamente all'antichissimo principio fondamentale della politica italiana dei francesi: nella Penisola non è ammissibile nessuna potenza indipendente, né straniera, né italiana. Solo di malavoglia gli alti ceti si confecero all'idea, che la Francia sguainasse la spada pel re delle marmotte. Perfino tra i sommi consiglieri dell'imperatore si annoveravano molti proseliti del partito delle dame spagnuole: al tempo del Congresso di Parigi l'ambasciatore napoletano Carini qualificò il conte Walewski come il migliore «tra la canaglia che circonda l'imperatore». Ma nello scambio d'idee con Cavour, Napoleone III venne alla decisione di riprendere e sostenere con spirito energico il principio del non intervento, che tra le deboli mani di Luigi Filippo si era volto in una frottola: come aveva tentato di distruggere la supremazia russa in Oriente, così ora intendeva di spezzare la dominazione dell'Austria nel Mezzogiorno, e accordare mano libera agl'italiani nella determinazione del proprio destino; ben inteso, sotto la guida della Francia e dietro ampia indennizzazione. Indaghino pure i furbi, se il carbonaro non fosse legato a un grave giuramento; le idee direttive della politica napoleonica bisogna spiegarle con motivi più semplici. Il condottiero di bande della Romagna aveva affinati, non già dimenticati, gl'ideali della sua giovinezza: lo dimostrò la sua lettera a Edgardo Ney. Gli antichi legami della sua dinastia coi patrioti italiani erano continuati: i Pepoli erano imparentati coi Murat, il conte Arese era stretto in amicizia col monarca piemontese, come col francese. Il fanatico del papato liberale, il padre Ventura, viveva alle Tuileries come confessore, Farini durante l'esilio aveva frequentato la casa di Gerolamo. Anche più efficace riuscì la segreta attività del triumviro romano esiliato Livio Mariani, il quale per anni e anni non ristette mai dal ricordare all'imperatore i sogni di gioventù. Il nipote, condotto sempre a rifarsi alle idee dello zio, vedeva nel Piemonte l'erede naturale del napoleonico Regno d'Italia; in questo stato doveva aver centro il riordinamento della Penisola e anche l'influenza della Francia. A più riprese il despota si permise d'immischiarsi con pedagogheria nella situazione interna del piccolo ma libero stato, e per un pezzo appoggiò perfino i clericali torinesi contro il gabinetto liberale; pure, egli non rinunziò mai a sperare un'alleanza gallo-sarda, vagheggiata fin da dopo la battaglia di Novara. «Sono nubi passeggere», disse confortante all'italiano Collegno poco dopo la fondazione del trono imperiale; «verrà il giorno che i nostri eserciti lotteranno insieme per la nobile causa dell'Italia». Conosceva l'Italia: l'acuta osservazione e la notizia sicura delle cose lo condussero all'opinione, che nel proclama di guerra compendiò nelle parole: «le cose sono state spinte dall'Austria a tal segno, che o l'Austria deve dominare fino alle Alpi Marittime, o l'Italia esser libera fino all'Adria». Conosceva la stretta affinità dei due popoli, sapeva che gli uomini di stato del Piemonte erano affatto imbevuti di cultura francese, e che perfino Cesare Balbo, il patriota idealista, soleva affermare: «io sono prima italiano e dopo francese». E previde che le popolazioni di Francia, sempre sensibili ai moti magnanimi, avrebbero accolto con gioia la guerra di liberazione del paese consanguineo. Già prima del Congresso di Parigi era andato a lui Cavour, che era il patrocinatore del suo popolo oppresso e, insieme, era l'ideale dello «spirito positivo», compenetrato di quel sicuro istinto del possibile, che il pretendente aveva di continuo esaltato come il più alto dono dell'uomo di stato. Davanti all'Europa riunita l'italiano doveva esprimere sotto il consenso tacito dell'imperatore i lamenti d'Italia: l'Austria, abbandonata da tutte le potenze, mieteva ora i frutti della sua superbia e di quella politica delle cose a metà, che offendeva a morte la Russia senza appagare le potenze occidentali. Cavour tornò in patria con la ferma fiducia, che l'imperatore voleva la guerra; e da allora si comportò con una arditezza provocante, che spaventò gli stessi diplomatici dell'imperatore, che non erano addentro. Mentre negli anni seguenti le potenze occidentali guarivano delle ferite riportate nella guerra di Crimea, le sommosse e le cospirazioni a Genova e a Livorno, a Napoli e in Sicilia dimostravano con quanta giustezza Cavour avesse descritto le condizioni precarie della patria; e sopravvenne l'attentato di Orsini come un formidabile richiamo al debito insoddisfatto. L'imperatore si teneva sempre al suo cauto metodo delle due porte aperte. Si abboccò con lo czar a Stoccarda e, nello stesso tempo, diede affidamenti tranquillanti alla corte di Vienna. Mentre a Plombières stringeva la grande congiura con Cavour, i suoi giornali di corte parlavano con freddezza glaciale delle speranze d'Italia. Napoleone III fu sorpreso egli stesso dell'effetto del suo amaro saluto di Capodanno all'ambasciatore austriaco. Alcune settimane dopo fu conchiuso il matrimonio del principe Napoleone: la sollecitudine dinastica del risalito non si smentì neppure in quei giorni pieni di fecondi disegni. Nel febbraio il discorso del trono annunziò «che l'interesse della Francia si trova dovunque occorra porgere la mano a una causa di giustizia e di civiltà». Allora stesso uscì l'opuscolo di Laguerronière che dichiarava: «governare vuoi dire prevedere»: anche sul trono il sistematico curava tuttora di presentare all'opinione pubblica le tesi della lotta politica. Seguì il gioco magistrale della diplomazia gallo-sarda, per via del quale l'avversario fu posto dalla parte del torto e l'aggredito dipinto come aggressore. Accecata dalla superbia, l'Austria andava barcolloni alla guerra, e i più pazzi sogni della politica della Restaurazione ripullulavano alla corte di Vienna, quando Napoleone III, salutato per la seconda volta dal plauso dei liberali di occidente, intraprese la lotta e gittò sulla causa italiana la posta della durata della sua dinastia. Questa campagna, che presentò non più che una magnifica manovra ben riuscita, cioè la contromarcia nascosta dell'armata francese in Lomellina, non è certo comparabile con la gloria delle giornate di Lodi e di Arcole. Napoleone non dettò punto al nemico la legge della guerra; ché, anzi, si appiccarono due grandi battaglie contro l'aspettativa dell'una e dell'altra parte. A Magenta decise la risoluta energia di Mac-Mahon, a Solferino l'inettitudine del Comando austriaco. Ma tanto più alta fu l'importanza politica della lotta. Furono davvero giorni gloriosi, quelli in cui Napoleone gridò agli italiani: «siate oggi soldati, se volete essere domani cittadini liberi e indipendenti!» e quando nell'ingresso a Milano liberata il popolo ebbro di entusiasmo premeva sulla criniera del cavallo imperiale. L'impresa d'Italia aprì una novella età: l'imperatore pose inconsapevolmente la prima pietra dell'unità d'Italia e della Germania. La pace di Villafranca dissipò l'ebbrezza della gratitudine, l'immagine di Orsini coprì l'immagine di Napoleone. «Con la prosecuzione della guerra io avrei osato ciò che un principe deve osare solamente per l'indipendenza del proprio paese!»; in questo modo l'imperatore giustificò davanti al senato francese la conclusione della pace, e il giudizio della posterità non saprà un giorno aggiungere nulla a questa parola recisa. La decisione della pace non mosse dall'orribile vista del campo di battaglia di Solferino, né dal timore della malaria della «terra ferma», né dalle pressioni del circolo imperiale pel ritorno, ma dal contegno minaccioso della Prussia, la quale, trasportata dal cieco furor di guerra della Germania meridionale e fatta inquieta dalla crescente potenza della Francia, era proprio sul punto di incorrere in un enorme errore politico. In un rapido dialogo l'imperatore con la forza della sua superiorità personale seppe tirare a una pace precipitosa l'avversario sconcertato. Ma quando il convegno di Villafranca levò in alto nel mondo diplomatico la riputazione di Napoleone III e corroborò la fama della sua scaltrezza impenetrabile, quel giorno fu finita per la Francia la parte di condottiera. Erano scatenate le naturali potenze della passione nazionale, diaboliche potenze, superiori a ogni arte diplomatica. L'imperatore intendeva di strappare l'Italia alla dominazione dell'Austria, non di fondare lo stato unitario: al principio della guerra nemmeno la grande mente di Cavour vedeva davanti a sé l'unità statale come un fine fisso, indefettibile. Napoleone desiderava un saldo stato intermedio in Toscana, da far contrappeso al Piemonte; e, ad onta delle denegazioni sia degl'italiani che dei francesi, oggi è fuori di dubbio, che in segreto meditava su una corona reale di Etruria pel principe rosso. Appoggiò alquanto più apertamente le mene dei Murat a Napoli; ché da schietto Bonaparte credeva all'incurabile miseria del sangue borbonico. Perciò a Plombières si era accennato appena alla sfuggita alla Toscana e a Napoli: Cavour penetrava l'occulto intendimento dell'alleato e sperava di attraversarlo. L'imperatore era fermo nell'idea, già espressa chiaramente nell'opuscolo di Laguerronière, di una confederazione italiana, che fosse diretta, sotto la tutela della Francia, da un forte regno subalpino. Ogni volta che il lupo austriaco fosse lanciato sull'ovile italiano, il Piemonte si vedrebbe alla mercé della grazia della Francia. Il disegno era fino, non effettuabile. Chi aveva sfrenato le passioni nazionali, non poteva comprendere la semplice verità, che soltanto la piena indipendenza dell'intera Penisola avrebbe avuto virtù di appagare il sentimento del popolo. Con tutta la sua conoscenza dell'Italia, il despota non aveva alcun sentore della forza dell'orgoglio italiano, dell'implacabilità dell'odio alle antiche dinastie; cresciuto tra le grette tradizioni della sua corona, il dominatore della Francia non poteva elevarsi all'idea, che era per sorgere sul Mediterraneo uno stato nazionale del tutto indipendente. E gli parve serio, nell'ottobre, esortare Vittorio Emmanuele a smettere le illusioni e a riconoscere la confederazione italiana, per la quale la Francia si era impegnata. Cavour non ha forse compiuto mai nulla di così importante, come in quel mese autunnale in cui movendo la mano dalla sua tranquilla Leri stornò i disegni federalisti della diplomazia imperiale. Ma anche Napoleone III riprese subito il senso netto dell'uomo di stato; e comprese, che nessuna potenza al mondo era in grado di contenere il movimento unitario nell'Italia centrale, tanto meno egli stesso, che aveva testé sguainato la spada pel principio del non intervento. La piega decisiva corse in senso affatto contrario al punto di partenza del 1859. Thouvenel, l'amico magnanimo dell'Italia, assunse il ministero degli esteri, e il trattato di commercio con l'Inghilterra corroborò alla corte delle Tuileries la vittoria delle idee liberali. Il 31 dicembre 1859 l'imperatore scrisse al papa la famosa lettera: «i fatti hanno una logica inesorabile»; la rinunzia alle Legazioni fu tenuta una necessità, e, contemporaneamente, apparve l'opuscolo _il Papa e il Congresso_. Era questo il secondo grande servigio che Napoleone rendeva agli italiani, e, conforme al giudizio di Cavour, altrettanto importante quanto la battaglia di Solferino. La lettera toccava il problema più grave della questione italiana, il punto in cui si concatenavano insieme la politica interna e la politica estera dell'impero. Tre anni avanti Pio IX avea tenuto a battesimo il figlio della Francia, e il primogenito della Chiesa non aveva affatto intenzione di guastare il buon accordo col papa. Tutte le lettere e i proclami dell'imperatore annunziavano il proposito di conciliare la libertà con la religione, di liberare dall'oppressione straniera il Santo Padre, di non sacrificare né gl'italiani al papa né il papa agl'italiani. I fatti insegnavano quanto volentieri il Vaticano soffriva quell'oppressione straniera. La Curia riprovò la pace di Villafranca, vantaggiosa per lei, con tutto il rodimento del fanatismo pontificio. Il vincitore di Solferino fu accolto in patria da una tempesta d'indignazione ultramontana, tanto che si vide costretto a dichiarare conciliativamente al clero di Bordeaux: «verrà il tempo che tutto il mondo parteciperà alla mia persuasione, che il potere temporale del papa non è incompatibile con la libertà e l'indipendenza d'Italia». Onde si accinse in un opuscolo «a studiare da sincero cattolico la questione romana». Si può debitamente motteggiare sull'immagine idillica, che l'imperiale _pamphlétaire_ abbozza dello Stato della Chiesa dell'avvenire; su cotesto popolo sotto un pio Padre, paziente popolo che vivrà unicamente alle parrocchie e alle loro grandi memorie, alla contemplazione e alle arti, al culto e alla preghiera. Quell'opuscolo, in verità, non era un monumento d'ipocrisia, come lo qualificò il papa adirato: indubitabilmente annunziava l'idea direttiva della recentissima politica imperiale, l'intendimento, cioè, di mantenere in un dominio ristretto il potere temporale. Napoleone non poteva desiderare l'annientamento dello Stato pontificio, se non voleva accendere in Francia un pericoloso movimento ultramontano, né, insieme, rinunziare all'idea dell'egemonia sui popoli latini. Giacché la Spagna, il Messico, l'America del Sud parteggiavano unanimi pel papa re. Il consiglio dato al papa di rinunziare alle Legazioni, era il massimo che l'imperatore evidentemente potesse fare per l'Italia. Quello scritto rinfocolò il movimento italiano in ristagno, compì l'unità dell'Italia centrale. Le conseguenze dell'azione dell'uomo di stato furono bilanciate da uno sgarrone massiccio: l'imperatore domandò la Savoia, stata già stabilita a Plombières in corrispettivo della libertà dell'Adria, come compenso alle annessioni dell'Italia centrale, e, inoltre, anche Nizza. A ogni modo, tutto questo non era un furto arbitrario di territori. La potenza del partito ultramontano infrancesato del tutto in Savoia, come pure il rapido progresso della lingua e dei costumi francesi nel nizzardo già italiano a metà, dimostravano che in quelle regioni non veniva ad essere sostanzialmente offeso il principio della nazionalità. Pareva quasi irrecusabile per un Bonaparte l'occasione di riprendere per lo meno le frontiere del 1814. La nazione, che dal generoso entusiasmo dell'estate del 1859 era da un pezzo ricaduta nel vecchio egoismo, pretendeva la ricompensa dei sacrifizi della guerra. Ma in questa circostanza l'imperatore doveva sperimentare egli stesso la verità della parola da lui espressa un tempo a Milano quando vi apparve da trionfatore: «oggigiorno si è più forti con l'influenza morale che con le conquiste sterili». I suoi rapporti coi patrioti d'Italia furono irremediabilmente spacciati da questa politica ignobile, come Cavour col suo sguardo limpido aveva previsto da un pezzo; e nello stesso tempo Napoleone, come Cavour aveva parimente presentito, apparve agli occhi delle grandi potenze come il complice di tutti i futuri avanzamenti della rivoluzione italiana. Il plebiscito nelle nuove provincie diede al mondo ancora un'altra prova dell'orribile depravazione morale dell'impero. La goffa falsità dell'asserzione, che la Francia abbisognasse del versante delle Alpi per la difesa dei suoi confini, l'oltracotanza soperchiatrice, che si palesò con l'incorporazione anche delle parti neutrali della Savoia, il bugiardo tiro alla Confederazione elvetica, che di botto fu perfidamente defraudata di Chablais e di Faucigny dianzi promessele formalmente; tutti cotesti tratti dell'antica politica napoleonica di sopraffazione misero in moto il mondo diplomatico. Il tentativo della Prussia di formare una coalizione contro la Francia andò a vuoto propriamente per la debolezza dell'Inghilterra, ma sulla corte imperiale pesò di nuovo la diffidenza di tutto il mondo. Non era dunque inconfutabile la savia osservazione fatta nell'ira da Peel e da Roebuck: «se oggi la Francia esige Nizza per ragioni geografiche, domani per le stesse ragioni può pretendere il Reno»? L'onda della rivoluzione italiana aveva buttato in disparte l'imperatore, che le aveva disserrato le chiuse; ed egli cadde affatto nell'ombra, quando Garibaldi pigliò l'ardimentosa impresa nel Mezzogiorno. Dai rapporti di ambasciata del napoletano De Martino noi ora sappiamo con quanta pena e ripugnanza l'imperatore seguisse i progressi dell'unità d'Italia. Come mai avrebbe egli potuto comprendere un Garibaldi? il despota comprendere il condottiero delle libere falangi, l'imperatore dei francesi il patriota di Nizza? L'inimicizia e l'affinità del destino dei due uomini vanno tra i fenomeni più meravigliosi di questa età opulenta di grandezze. L'uno e l'altro avevano cominciato nello stesso tempo la loro carriera con un puerile tentativo di sollevazione, l'uno e l'altro avevano trovato asilo di là dall'Oceano, l'uno e l'altro toccarono quasi la stessa ora la dittatura framezzo al turbine della rivoluzione. Ed ora per la quinta volta si scontravano in una lotta irreconciliabile la sublime anima di fanciullo del demagogo e la fredda mente calcolatrice del politico pratico. L'imperatore bramava di salvare le Marche alla Santa Sede, ma l'accecamento della Curia respinse la sua mano. Accorrere in aiuto dei Borboni era impossibile: Napoleone III non aveva le mani legate solamente per via dei suoi affari e delle ansie per i capitali francesi, che egli stesso aveva attirato in Italia; sapeva, per giunta, che gl'italiani lo stimavano legato: _et voilà ma faiblesse!_ Donde il riguardo all'Inghilterra, che Cavour aveva cattivata interamente all'unità italiana. Temporeggiando, tra nuovi indugi e vecchie ricadute, lasciò finalmente che l'ineluttabile corresse per la sua china. Fintanto che visse Cavour, Napoleone non riuscì mai ad alienarsi completamente dalla causa italiana. Il potente intelletto sapeva sempre rabbonire il despota; e nella primavera del 1861 si era già in procinto d'intendersi pacificamente sull'avvenire di Roma. Proprio allora il grande statista morì; e subito il dispetto compresso di Napoleone si manifestò bruscamente. Il regno d'Italia fu riconosciuto dalla Francia non prima del gennaio 1862. Non prima della lettera del 20 maggio 1862 l'imperatore principiò a riavvicinarsi alla nuova potenza: espresse la fiducia, che il papa avrebbe accordato ai suoi sudditi le libertà municipali, e che l'Italia avrebbe riconosciuto i confini dello Stato della Chiesa. L'infame sottomissione del gabinetto italiano e la catastrofe di Aspromonte condussero in fine all'accordo. Chi teneva dietro alla stampa liberale del tempo, dal _Journal des débats_ al _Siècle_, poteva facilmente incorrere nell'illusione, che la nazione bramasse l'annientamento dello Stato della Chiesa. L'imperatore era interprete migliore dell'animo del suo popolo. Laddove l'unità d'Italia incontrava ora caldi partigiani presso le nazioni dianzi ostili, per contro nella Francia alleata le sorgevano giorno per giorno nuovi avversari: la maggioranza dei francesi chiedeva la continuazione del potere temporale del papa, alcuni per gelosia verso l'Italia, altri pei loro sentimenti clericali. Frattanto anche in Italia si principiò a ricredersi delle esaltazioni speranzose e a comprendere l'immensa arduità della questione romana. Una lettera di Massimo d'Azeglio sottopose all'imperatore l'idea di sistemare in Italia la situazione per mezzo di un trattato, secondo che già aveva tentato Cavour. I negoziati con Menabrea a Vichy conclusero alla Convenzione di settembre, la quale impegnava all'evacuazione di Roma e affidava agl'italiani la protezione dello Stato pontificio. Questo accomodamento consentiva agl'italiani per lo meno un termine, per menare a compimento nel nuovo stato l'unità della legislazione e dell'amministrazione. Davanti a un problema storico mondiale il sovrano di Francia non poteva apertamente star soddisfatto né dell'asserzione dei politicastri sbrodoloni nazionalisti, che il papato sopravvivesse a sé stesso, né del rintronante pitaffio del rosso principe Napoleone, che l'ultima fortezza del medio evo doveva cadere. Gli toccava di usare riguardo all'opinione del suo popolo e al sentimento della cristianità cattolica, la quale era tuttora ben poco preparata all'abolizione del potere temporale del papa. Tale era anche l'opinione dei più grandi italiani. Lo stesso Cavour aveva trattato con le Tuileries in questo senso. Certo, anche qui saltava fuori un'altra volta e sempre più l'incurabile contraddizione intima della politica napoleonica. Era palmare, che una nazione risorta testé a nuova vita non poteva rinunziare per sempre alla più gloriosa delle sue città, al focolare sacro della sua gloria antichissima. Un vero grande statista, che comprendesse la potenza della passione nazionale, e, insieme, volesse far ragione ai sentimenti del mondo cattolico, doveva movere dalla persuasione, che in un prossimo avvenire il potere temporale del papa sarebbe tramontato e Roma sarebbe toccata agl'italiani; e doveva solamente cercare d'impedire, che Roma divenisse la capitale d'Italia. Questo infelice disegno fantastico, che non poteva far di meglio che danneggiare il giovine stato, fu allora combattuto vivamente da d'Azeglio e altri leali patrioti, e forse lo avrebbe mandato a vuoto anche una politica francese saggia e generosa. Ma Napoleone, incapace d'intendere interamente le forze spirituali di questa rivoluzione, sperava sul serio, che il movimento unitario si sarebbe fermo e raccolto in venerazione davanti al potere temporale del papa. E costrinse quindi il governo di Vittorio Emmanuele a trasferire la capitale a Firenze, abbassandone in questo modo l'autorità agli occhi degli italiani, laddove solamente un governo forte avrebbe potuto osservare la Convenzione di settembre. Il trattato era un puro espediente, giacché i due contraenti si riserbarono la mano libera pel caso di una insurrezione dei romani; contava però sul fatto, che durasse e che fosse rispettato. Perciò fu accolto con collera e indignazione in alta Italia; ché questa parte politicamente la più esperta degl'italiani sentì, che col trasferimento della capitale lo stato rinunziava per sempre o per lungo tempo a Roma. Solo la fantasia, poco abituata alla chiarezza, del Mezzogiorno menò gran giubilo: immaginò, che il trattato non fosse pensato seriamente. Quando poi il radicalismo imprese contro Roma un'immatura spedizione di conquista e il gabinetto di Firenze venne meno al dovere del patto, allora alla corte delle Tuileries il partito spagnuolo rialzò il capo, e il sommo sacerdote della religione dell'amore fece fucilare in massa la sua greggia dagli chassepots. A un tale spettacolo ribollì fieramente ogni cuore protestante e di nuovo si persuase dell'indicibile viltà di ogni teocrazia. Ma la colpa di quella atrocità non toccava solamente all'imperatore. Se pel vincitore di Solferino era funesto combattere gl'italiani, pure era impossibile all'imperatore dei francesi tollerare in silenzio l'infrazione aperta di un trattato conchiuso con la Francia. La ragione estrema di questa posizione insostenibile era riposta nelle condizioni interne dell'impero: nella lega con gli ultramontani, che una volta annodata non si poteva più sciogliere, e, altrettanto più, nell'invidioso puntiglio di predominio del popolo francese. I francesi salutarono la giornata di Mentana con una gioia schernitrice, che torna a loro ignominia. L'infame giubilo: _les chassepots ont fait merveille_, ripercoteva del resto sui tedeschi anche più che sugl'italiani. Giacché l'odio alla Germania attutiva ormai ogni altro sentimento: la Francia gongolava che la sua nuova arme fatata superasse il fucile ad ago dei tedeschi. Così la politica italiana del bonapartismo, splendidamente incominciata, periva miserabilmente. Il liberatore della Lombardia era riguardato come il nemico mortale degl'italiani, e questa volta ben a ragione; perché la sua guarnigione a Roma era il cuneo di ferro che spaccava in due il giovine regno. Napoleone desiderava sempre la liberazione di Venezia; ma solamente l'imbastardita consorteria successa a Cavour gli prestava l'antico ossequio. In Italia saliva in considerazione il partito di azione, che un tempo la mano sovrana di Cavour teneva a segno; e predicava, che la questione romana non era più a risolvere coi mezzi morali, ma con la guerra alla Francia. I tentativi d'ingerenza di Napoleone durante la guerra boema incontrarono un freddo rifiuto presso la maggior parte degl'italiani: l'Italia non dalla sua mano voleva ricevere il Quadrilatero. La Santa Sede fu da allora il suo solo alleato; e gli rimase unicamente l'enimmatica speranza, che fosse forse per riuscire nell'incerto futuro un papa Bonaparte, che riconciliasse la Curia col suo tempo e col suo popolo. Il vincitore di Solferino era adesso il protettore del papa: l'imperatore cadde, e trascinò seco il papa re. Nelle complicazioni d'Italia e d'Oriente Napoleone III aveva apportate alcune idee notevoli; e così pure le imprese oltremarine di quel tempo s'ispirano evidentemente a un pensiero serio. Non movevano puramente dal proposito di procurare all'esercito trionfi comodi e a buon mercato, di mostrare ancora una volta al mondo i britanni come i caudatari della Francia, di consentire all'impero di elevare a sé stesso il panegirico che le sue armate avevano vinto in quattro parti del mondo: ma anche di aprire nuovi sbocchi al commercio. I porti della China si schiudevano ai vascelli dei barbari dai capelli rossi, gli ambasciatori del Siam e del Giappone giravano per le corti di Occidente. Davanti a tali benefici l'Europa indulgente dimenticava volentieri, che i saccheggiatori unnici del gran tempio dei cinesi avevano aggiunto una nuova fronda a quella corona d'alloro, le cui foglie portavano scritti i nomi di Speyer, di Friburgo, di Worms e di _Heidelberga deleta_. L'imperatore, a quanto pare, era convertito all'opinione di Persigny: «la parte guerriera della Francia in Europa è terminata»: sperava di assicurare l'avvenire della sua Casa mercé i benefizi della pacifica espansione dei commerci. Ma la potente età lanciò nuovi movimenti, che non ubbidivano alla direzione del bonapartismo. Prima di tutto l'insurrezione della Polonia. L'insinuazione saccente, se il dittatore Langievicz non stesse forse al servizio di Napoleone III, già da un pezzo oggi è soggiaciuta al riso meritato. «Dovrei», disse l'imperatore stesso, «riguardare la causa della Polonia come assai popolare in Francia, se arrischiassi per sua ragione la buona intesa con la Russia». Col fatto, questa amicizia con l'impero degli czar, rafforzata al Congresso di Parigi, garantiva allo stato napoleonico l'unico e solo appoggio straniero. Nondimeno, una volta posta la questione, e ridesto il fantastico entusiasmo della nazione per gli antichi alleati di Bonaparte, il napoleonide non poteva esimersi da una fastidiosa ingerenza. Così gli toccò di provare una insolente ripulsa e di assistere all'annientamento della Polonia. Cercò di medicare lo smacco invitando il 4 novembre 1863 i principi di Europa a congresso sulla Senna. «Due vie», esclamò, «stanno aperte: l'una con la riconciliazione e la pace mena al progresso, l'altra mena inevitabilmente alla guerra per la caparbietà di mantenere in vita un passato sommerso». Noi non crediamo che il cervello di un uomo di stato potesse sperare seriamente di levar di mezzo con una riunione diplomatica le formidabili questioni insolute della politica europea. Uno spettacolone, splendido riscontro al Congresso di Vienna, avrebbe dovuto rinsaldare novellamente la riputazione scossa dell'impero, ecco tutto. Ma solo una valutazione smodata della potenza della Francia poteva spingere Napoleone all'illusione, che i grandi potentati avrebbero preso parte ubbidiente alla gherminella. La ricusa dell'invito fu un'altra diffalta del bonapartismo. Mentre l'imperatore lanciava in tal modo superbiose parole nel vuoto, aveva già posto mano all'impresa inesplicabile della sua vita, la spedizione del Messico. Uno scritto dilettantesco del pretendente già aveva trattato del grande avvenire dell'America centrale; e adesso l'indole appiccaticcia dell'uomo si lasciò ricondurre ai sogni della giovinezza dalle bugie dei profughi messicani e dalle suggestioni del partito spagnuolo alla corte. Non si sarebbe potuto dimostrare in modo più tagliente, che la Francia imperiale era uno stato incostituzionale. Laddove in quasi tutte le sue imprese guerresche l'imperatore si era prima assicurato l'appoggio del liberalismo, questa volta invece l'intrapresa scaturiva dalla volontà personale del despota. La nazione in principio tenne un contegno freddo, poi espresse unanimemente la sua riprovazione. La stessa armata non voleva saperne di trionfi nel paese della febbre; si è preteso perfino di aver sentito di tanto in tanto il grido di «viva la repubblica!» tra le truppe imbarcate pel Messico. Al dispotismo, più agevolmente che al parlamento, era dato riconoscere ed emendare l'errore intrapreso; ma in questo mal tratto l'autocrata mostrò un incapamento incorreggibile. Anche dopo che l'onore delle armi francesi nel maggio del 1863 era stato ristabilito, la disperata faccenda fu trascinata per altri sei anni fino alla rotta completa. In Germania l'opinione pubblica, che spesso a quel tempo s'ingannava tondo sulle faccende estere, si era collocata dal principio in faccia alla guerra americana col giudizio manifesto: «il nostro idealismo non crederà mai alla vitalità degli stati schiavi inciviliti». Andava altrimenti in Francia e in Inghilterra: lì si ricordavano ancora delle tirate della stampa inglese contro «il tiranno sanguinario Lincoln, che non è stato mai un _gentleman_», e del grido di angoscia innalzato dal corpo legislativo dell'impero per la caduta di Richmond. Era destino dell'imperatore, cotesto, di partecipare questa volta all'opinione corrente, egli proprio che tanto spesso si era elevato sul suo popolo con la sua più libera concezione della grande politica. Il despota non poteva apprezzare di nuovo le forze morali nell'enorme campo di lotta. Credeva allo sfacelo dell'Unione, offendeva l'antico alleato della Francia senza sostenere efficacemente l'avversario. Lo zio un tempo aveva conchiuso con Monroe il trattato sulla Luigiana: alla corte del nipote l'orgogliosa dottrina «l'America agli americani» era tenuta una frase. Il predominio sulle nazioni latine, già mezzo giocato nelle lotte italiane, bisognava riconquistarlo nel nuovo Mondo. Ma l'Unione anche durante la guerra sosteneva con braccio gagliardo la dottrina di Monroe. Si sarebbe dovuto fondare un impero ereditario con la ben nota gerarchia dei consiglieri di stato, prefetti e sottoprefetti proprio in mezzo a quella vita di economia peonica del tropico, per cui l'unica forma possibile di stato è una gioconda alternazione di anarchia e di dittatura. Sciocchezze politiche inconcepibili, e rincarate, per giunta, dalla fondamentale immoralità dell'impresa. La tragedia raccapricciante, principiata tra i cedri del parco imperiale di Chatapultepec e terminata nei bastioni di Queretaro, rammemora quei giorni di Baiona, in cui lo zio svelò la nequizia diabolica della sua perfida natura. Così, pel ruzzo di un despota, colarono le forze preziose dell'esercito e delle finanze. Principiò allora l'elevazione della Germania, e colpì al cuore le idee predilette dei francesi. Il regno borbonico aveva fondato il suo predominio esclusivamente sui frantumi della potenza tedesca, e la preponderanza innaturale della periferia poteva continuare esclusivamente finché durasse lo squarcio al centro del continente. Perciò tutti i partiti, compresi Persigny e gl'intimi dell'imperatore, erano concordi nell'avviso, che il nostro genio fosse nemico dell'unità e che il frastagliamento, _la belle variété_, della federazione degli stati tedeschi fosse la garanzia della pace del mondo. Il giudizio universale seguito sulla Germania si era formato nell'ultimo trentennio e fermato così: la Prussia rappresenta lo stato militare dispotico, gli stati della Confederazione del Reno rappresentano la patria della libertà tedesca. Lo sviluppo delle lotte di partito dei tempi successivi poteva appena intenderlo lo straniero, e meno di tutti il liberale francese; giacché questo si proponeva di limitare la eccessiva potenza del governo, noi, al contrario, guarire la debolezza della nostra vita pubblica per mezzo di un forte potere centrale. Di qua come di là, sopravviveva in talune particolari nature ghiribizzose l'umore acre dei vecchi tempi; e come a noi tedeschi toccò di udire dalla bocca di un esteta pieno d'ingegno l'affermazione, che la Francia non possiede una vera e propria lingua, e altre somiglianti assurdità di gusto teutonico vetusto, così anche la Francia vantava i suoi mangialemanni, cioè i Desbarolles e compagni. Ma tra i francesi colti continuava a predominare un'amicizia indulgente verso la Germania; né alcuno profondeva più elogi agrodolci alla nostra impenetrabile astuzia e alla recentemente scoperta _prévoyance usuelle de l'Allemagne_. Nel magnifico quadro del Congresso di Parigi di Dubufe i signori von Manteuffel e von Hatzfeldt sono meritamente meschini e cacciati nello sfondo. Era quello il posto che, secondo l'opinione dei francesi, competeva ai tedeschi nella grande politica europea. La condotta di Napoleone fin dal principio del suo dominio corrispose a siffatte predisposizioni della nazione. Il nipote si era preparato alla politica sia italiana che tedesca con alcune idee dello zio. Arrotondare la Prussia tra il Settentrione e l'Oriente, non consentire a nessuno dei due maggiori stati della Confederazione una posizione dominante, assoggettare gli staterelli all'influenza della Francia, ridomandare quanto più era possibile della Germania occidentale per l'impero napoleonide: a cotesto, press'a poco, erano dirette le segrete speranze del nipote di Napoleone. Perciò, fin da presidente, si era affannato con vigile zelo a sventare lo sperato reame di settanta milioni di uomini del principe di Schwarzenberg; solerzia, la quale per l'appunto dimostrava quanto poco pizzicasse di cose tedesche: e perciò i suoi ambasciatori in tutte le piccole corti tedesche dovevano stimolare incessantemente la gelosia contro le due potenze direttrici della Confederazione. La storia delle segrete relazioni tra la Prussia e la Francia è tuttora al buio; ma dalle schiaccianti rivelazioni fatte al mondo dalla Prussia nel luglio del 1870 è lecito ravvisare con sicurezza, che la condotta di Napoleone verso di noi fu di gran lunga più sleale, di gran lunga più indegna di quanto tutti non credessero al tempo della guerra dello Schleswig-Holstein. Come lo zio, il nipote cercò prematuramente d'intendersi con la Prussia. Non più che un'occhiata alla carta germanica insegna, che la distribuzione territoriale del Congresso di Vienna non poteva durare, e che infallibilmente sarebbe stato tentato ancora una volta il fridericiano _corriger la figure de la Prusse_; e la Francia, quindi, avrebbe forse tratto vantaggio per sé dall'ambizione, alla quale per la sua situazione stessa lo stato prussiano era sforzato ad uniformarsi. Ma a tali disegni non diedero appicco la lealtà di Federico Guglielmo IV e l'indolenza del ministero Manteuffel. Se ci è lecito prestar fede al carteggio di quel Tommaso Duncombe, che era sempre ai lati dell'imperatore, Napoleone già fin dal tempo delle complicazioni del Neuenburg si destreggiò per caso mai gli venisse fatto di ottenere di favore dai desiderii del re una striscia di territorio renano. La Prussia resistè alla tentazione, e l'imperatore decise la faccenda in nostro pregiudizio. Né la situazione, quando apparve a Parigi il nuovo ambasciatore von Bismarck, divenne più amichevole. La franchezza ardita e acutamente calcolata della grande Prussia era ritenuta dalla sempre strascicata e succhiellata politica napoleonica come una sventatezza studentesca; e alle Tuileries, dove non si aveva il minimo sentore della potenza sonnecchiante della Prussia, sorridevano dell'inflessibile orgoglio nazionale tedesco come di un vuoto sbraciamento. Cotesto vilipendio della Prussia era partecipato anche dagl'ingegni notabili della nazione. Io mi ricordo ancora volentieri delle conversazioni di quegli anni con un francese di elevata mente. Egli conosceva e amava la Germania, e c'intendevamo facilmente su tutte le questioni della vita intellettuale tedesca; ma come il discorso cadeva sopra «un certo grande stato dal quale voi, _mon ami_, vi aspettate tanto», allora il _français né malin_ saltava fuori di botto in cattive spiritosità. Quale indignazione, dunque, quando principiò un'altra volta il movimento dello Schleswig-Holstein! Il sentimento di pietà nutrito da quindici anni pel vecchio alleato di Napoleone, _le pauvre petit roi de Danemarc_, risorse a nuovo: parve una scelleraggine inaudita che la Germania non volesse tollerare oltre la dileggiante arroganza di un nemico imbelle. I vecchi partiti incorreggibili non seppero spiegarsi altrimenti la riserva dell'imperatore se non con la torpidità della vecchiaia placida o con la bizza vendicativa contro quell'Inghilterra, che aveva rifiutato negli affari polacchi ogni seria cooperazione al napoleonide, e adesso, con un brutale urlo di guerra, dava fondo alla sua riputazione politica. L'andamento intricato della lotta, l'insania dell'odio alla Prussia nello stesso campo liberale tedesco era tutt'altro che appropriata a dar lume ai vicini prevenuti. Il ministro prussiano, di cui l'imperatore aveva visto malvolentieri l'assunzione al ministero degli esteri, confermò immantinente la sua maestria diplomatica nella situazione forse la più ardua che gli fosse stata creata. Egli si piantò saldamente sul terreno dei trattati europei, e così costrinse l'Austria a seguirlo e le altre potenze a restarsene inoperose, laddove, in realtà, l'intera Europa era concorde contro la Prussia. Ma Napoleone aspettò la sua ora: previde, che i vincitori verrebbero presto alle brusche sul prezzo della vittoria, e sperava allora di ottenere senza gravi sacrifizi l'agognata rivendicazione. Arrivò l'ora e si adempì la sua speranza. Scoppiò in Germania la lotta pel dominio. Napoleone non era esente di cordiale predilezione pel paese della sua fanciullezza, _ma bonne vieille Allemagne_; pregiava la bravura e la lealtà tedesca e stimava imparzialmente la nostra scienza più che la francese. Ma del nostro talento politico opinava assai meschinamente. Vedeva quanto fosse poca e poco efficace la passione popolare che si nascondeva dietro le rumorose risoluzioni e dichiarazioni di nullità e annullazioni delle nostre assemblee. Né conosceva abbastanza la Germania, per presentire ciò che allora perfino da noi appena pochissimi avvertivano: che, cioè, il nostro sminuzzolamento di staterelli marcito fino alle midolle delle ossa sarebbe andato in rovina al primo urto anche senza una vampata di passioni popolari. Il nemico del parlamentarismo non ha, certamente, professato mai l'opinione liberale, che per la sua contesa lotta costituzionale la Prussia fosse incurabilmente malata. Ma un'idea chiara della reale potenza della Prussia egli non la possedeva. La Landwehr, celebrata così sovente da lui stesso, ora, dopo le descrizioni fattene dai suoi strateghi di corte, gli pareva un ammasso di cattive milizie, e affatto indubitabile la superiorità dell'Austria. Con quanto ossequio l'ambasciatore della superba Hofburg civettava dintorno al favore della Francia! con quanta confidenza il principe di Metternich parlava della vittoria dell'Austria! Napoleone fantasticava, che davanti a una lotta così impari la Prussia sarebbe stata disposta a pagare qualunque prezzo pel soccorso della Francia. E più volte offrì a Berlino un patto di alleanza: coi 300.000 uomini, che allora teneva a stento sotto le bandiere, si sarebbe avventato sull'Austria, contro, però, un forte compenso nel Belgio e nei paesi renani. Quando poi tutti cotesti immondi tastamenti s'infransero contro il senso regale del sovrano di Prussia, allora soltanto le Tuileries cangiarono. D'allora in poi contarono sulla disfatta della Prussia. Napoleone desiderava, agognava lo scoppio della guerra. Se voleva serbare Roma al papa, era costretto a procurare almeno Venezia all'Italia. Perciò spingeva il temporeggiante Lamarmora a conchiudere l'alleanza guerresca con la Prussia. Ma la lega italo-prussiana doveva servire solamente come una leva per rovesciare nella guerra la corte prussiana, considerata sempre a Torino e a Parigi come una traccheggiante tuttora irresoluta. Raggiunto lo scopo, la Prussia non avrebbe più potuto tirarsi indietro, e allora l'Italia avrebbe dovuto ritrarsi immantinente dall'alleanza. Napoleone fu a parte del segreto quando l'Austria, poco prima che la guerra rompesse, cercò di spezzare la lega degli avversari con l'offerta della cessione di Venezia. Solo che egli voleva differire l'effettuazione di questo disegno a dopo l'inizio della guerra. Perciò la corte di Torino fin da principio scese in campo senza seria convinzione; giacché, quali si fossero gli eventi, si era sicuri di tenere il premio della vittoria. Dopo le prime avvisaglie in Italia, calcolava Napoleone, l'Austria avrebbe ceduto Venezia, e così avrebbe disimpegnata la sua armata meridionale pel conflitto con la Prussia. Rimasta la Prussia a terra, allora si sarebbe fatta avanti la Francia, sia come salvatrice, sia per aggiustarle il colpo di grazia, in qualunque caso con l'aspettativa di un bottino lauto e facile. Tali erano in sostanza le speranze di Napoleone. E ciò che stupisce di un tal disegno non è la perfidia, è la pietosa imbecillità. Il despota era invecchiato, viziato dalla fortuna, viziato dalla sommissione dell'Inghilterra e dell'Italia. Si pensava di padroneggiare in lungo e in largo la rozza Prussia. Non sospettava nemmeno, che i premi splendidi, quali egli sognava, li raggiunge solamente l'energia alacre, la fusione di tutte quante le forze dello stato. Pensava di mietere comodamente dove non aveva seminato. Napoleone principiò col dare al proprio paese desideroso di pace una prova della sua mansuetudine: convocò a Parigi una conferenza: al cui successo era impossibile che credesse. Il giorno 11 di giugno, a guerra già decisa, una lettera al ministro degli esteri annunzio le speranze dell'imperatore nell'avvenire della Germania. Diceva di desiderare un ampliamento di territorio solamente nel caso che la carta di Europa si fosse alterata a esclusivo vantaggio di una potenza. Il napoleonide proclamava e affermava il diritto della Francia di esaminare i disegni della riforma federale tedesca: diritto, che il principe di Metternich aveva accordato allo straniero per l'appunto in quei trattati di Vienna tanto esecrati da tutti i Bonaparte e discendenti! Ma egli lascia stare in pace il diritto, e si contenta di desiderare, per gli stati centrali, una federazione più stretta, un'organizzazione più salda e una parte più importante; per la Prussia, una maggiore omogeneità e potenza nel Settentrione; per l'Austria, la conservazione della sua posizione cospicua in Germania. Questa lettera era una traforeria? La troppo ammaliziata e furba sgarbatezza di annusare la bugia dietro ogni parola dei potenti, e per l'appunto poi rispetto al terzo Napoleone, sovente è andata a vuoto. Falsità senza scopo, facili ed usuali all'essenza diabolica dello zio, non s'incontrano nella vita del nipote. E quale escogitabile scopo poteva indurlo a dare pubblicità a opinioni che non nutriva, e proprio in un momento, in cui ogni giorno che veniva rischiava di scoprirne la futilità? L'intento di calmare il corpo legislativo sarebbe stato manifestamente agevole raggiungerlo con espedienti meno pericolosi. No: la lettera dell'11 giugno diceva la verità. L'autore esprimeva seccamente di essere nemico della Prussia. Desiderava, insomma, la triade, vale a dire la Confederazione renana in forma più moderna e la Prussia risospinta verso Oriente. Né voleva rotta la colleganza dell'Austria con la Germania, ma, ciò non ostante, non permesso all'impero danubiano il dominio sugli stati centrali. Come mai il francese non subodorava proprio nulla dell'enorme significato di una tale contesa, che poteva aver fine solamente, o con la ributtata dell'Austria, o con l'assoggettamento della nazione tedesca ai croati e ai gesuiti! La Prussia poteva ampliare il suo territorio al settentrione e all'oriente e guadagnare in «omogeneità»: notoriamente, in Francia, la terra renana non è considerata come un elemento «omogeneo» del nostro stato. Non era fattibile, dunque, palesare in un modo più ingenuo, che il sovrano di Francia, il quale nella questione italiana aveva date tante prove di pensare indipendente, nella politica tedesca, poi, non si elevava sulle miserabili ombrosità dell'invidia orleanista e sui pregiudizi tracotanti della media dei francesi. Quale prospetto! la Germania castrata al Reno, gli stati centrali dominati dalla Francia e, per soprammercato, rimbastiti in una federazione di lustra con la Prussia e l'Austria! Come dovevano sentirsi sicuri alle Tuileries, quando erano cordialmente affidati da orecchio a orecchio tutti cotesti segreti del cuore! Frattanto il segreto frugacchiare e ribruscolare della diplomazia francese, e l'ombrosa furbizia delle Tuileries avevano incontrato la maestra nell'energia della Prussia. Il conte Bismarck aveva saputo con le sue impareggiabili «trattative dilatorie», traccheggiare la corte napoleonica fino all'inizio della guerra. Il nostro stato maggiore era a giorno delle conseguenze dell'impresa messicana: a Berlino era noto il trasandamento dei magazzini militari francesi. Si sapeva, che la Francia non era punto al caso, come domandava lo squarciavento Girardin, di pronunziare davanti alla guerra un _il faut en finir_, e che in ogni modo non poteva scendere in campo prima di varie settimane di armamenti. Ciò bastava, giacché il gabinetto prussiano contava su un successo rapido, travolgente; senza pensiero sulla sicurezza del territorio renano, sarebbe intrapresa la marcia ardita su Vienna. Subito dopo la battaglia di Königgrätz la Francia si fece avanti con un tentativo di mediazione a cui, di botto, in modo abbastanza sconveniente, fu data pubblicità. Parigi andò in gongolo, quando la casa disperata di Lorena cedé a Napoleone III i suoi dominii italiani: il popolo francese ritornava a rappresentare la sua parte di _pacificateur naturel de l'Europe_. Frattanto la Prussia spingeva innanzi la vittoria. Il 13 luglio, quando la capitale nemica si presentava già come sicura preda al nostro esercito, la Francia consegnò le sue proposte pei preliminari della pace: l'Austria si staccava dalla Confederazione, Venezia era abbandonata agl'italiani, la Prussia otteneva il supremo comando militare in una federazione germanica settentrionale e il risarcimento di una parte delle spese di guerra, oltre poi lo Schleswig-Holstein senza i distretti nordici. Tale sarebbe stato il premio di una fulgida vittoria, tale la retribuzione sopra quei nemici implacabili, che meditavano di annientare «l'improvvisazione» di Federico il Grande! Nel frattempo la Francia incitava incessantemente alla lotta gli stati meridionali; perfino nel momento che il signor von Varnbüler era in procinto di partire per Nikolsburg, poté comunicare alla camera del suo paese un dispaccio aizzante della Francia. Dopo la spedizione di Mainfeld tutte le corti meridionali, eccetto quella del Baden, implorarono l'aiuto dell'imperatore; e questo s'interpose calorosamente per le nazioni della Confederazione del Reno, e due volte per la Baviera. Alle proposte del 13 luglio la Prussia non aveva opposto un rifiuto, ma preteso, che la pace fosse trattata esclusivamente tra le parti belligeranti. Il 16 luglio Benedetti annunziò dal quartier generale, che la Prussia desiderava dall'Austria l'assicurazione di «alcuni» acquisti territoriali nel Settentrione indispensabili al complemento del suo dominio. Dagli avvenimenti successivi è agevole arguire, che o lo stesso inviato o certamente la corte delle Tuileries erano all'oscuro sulla dimensione di questo ampliamento territoriale. Vedevano, comunque, salva la Sassonia, antica federata del Reno; avevano accordato abbastanza alla predilezione nazionale per la povera piccola Danimarca; notoriamente speravano, che la Prussia si sarebbe contentata di una striscia di terreno tra le sue frontiere sassoni e le westfalesi. Quando in luogo di tali congetture seguì l'incorporazione degli stati centrali nordici, Drouin de Lhuys spedì a Berlino un disegno di convenzione, che stipulava la cessione di Magonza. Il prezzo della complicità, che la Prussia non aveva voluto pagare alla Francia offerentesi di darle mano, avevano ora la faccia di pretenderlo dal superbo vincitore, il quale doveva il trionfo unicamente a sé stesso! La risposta fu semplicissima: l'invio immediato dell'artiglieria pesante sul Reno. Ora finalmente Napoleone comprese quali enormi errori aveva commessi. Era perduto, se gli eserciti prussiani si precipitavano sul paese disarmato. Drouin de Lhuys fu dimesso. Il 12 agosto Napoleone scrisse a Lavalette di lamentare che quel disegno non fosse rimasto segreto, che si fossero sparse in piazza voci esagerate di compensi «ai quali noi potremmo aver diritto»; di essere stato informato da Benedetti del rifiuto di ogni cessione da parte della Germania, e di volere da ora in poi aiutare con disinteresse il riordinamento del nostro stato. Dopo un breve indugio la logica dei fatti esercitò anche questa volta la sua malia sul freddo senso dell'uomo di stato. Egli vide il nuovo stato tedesco aggrandirsi orgoglioso e sicuro, e il 16 settembre fece pubblicare la famosa circolare di Lavalette. Era ivi aperto un quadro grandioso dell'avvenire, benefico pel mondo, se fosse durato: la Francia riconosceva la necessità di potenti stati nazionali, che un giorno dovrebbero far fronte ai corpi giganti della Russia e dell'Unione. Solo che la nazione aveva sentito l'innalzamento della Germania come uno schiaffo in piena faccia. Né si era rassicurata, quando la Lorena aveva durante la guerra celebrato il suo giubileo, e patetici discorsi ufficiali avevano raffrontato la felicità della redenta provincia francese con le intricate condizioni della Germania. D'altronde anche molte sdrucite ragioni di tranquillamento del memorabile scritto rimasero senza effetto. Nessuno credeva, che l'antica Confederazione germanica coi suoi pretesi 80 milioni di tedeschi era stata più potente della novella Germania; nessuno, che proprio adesso la coalizione delle potenze nordiche fosse andata all'aria. Era più plausibile il cenno consolante alle nuove potenze marittime di secondo ordine sorte in Germania e in Italia; e un grave ammaestramento alla iattanza nazionale era riserbato nelle parole: «l'imperatore non crede che la grandezza di un popolo dipenda dalla debolezza dei suoi vicini; il vero equilibrio europeo egli lo vede solo nell'appagamento dei desiderii dei popoli». Luigi Napoleone dové sentire abbastanza amaramente gli affronti fattigli in pieno viso dalla Prussia; eppure è affatto fuor di dubbio, che dopo la pace di Praga pensò sul serio talvolta a lasciar tranquillo lo stato tedesco. Aveva sperato di vincere in facili cimenti un nemico mezzo trituzzato; ed ora gli stava a fronte la nuova Germania, rigida in catafratta. Ora una guerra contro la Prussia era una lotta per l'essere o il non essere; e l'uomo ormai attempato non si sentiva più la forza a un tale sbaraglio. Né erano i suoi amici quelli che più sonoramente alzavano il grido di guerra. Sui piani di Lombardia aveva compreso, che gli erano negate le doti del condottiero; e d'altra parte le stesse forze fisiche difficilmente gli sarebbero bastate a un'altra campagna. E un maresciallo francese che dal Reno fosse ritornato in patria col lauro della vittoria, sarebbe stato per la Casa Bonaparte appena meno pericoloso di un generale tedesco, che per la terza volta fosse entrato a Parigi. Se non che, si era frattanto venuta a formare nel popolo francese una generale disposizione di animo, profonda, piena di conseguenze, che noi tedeschi non consideravamo abbastanza nella sua schiettezza. Quella medesima venefica passione dell'invidia, che noi così spesso abbiamo rilevata nell'odio di classe della più antica storia francese e nel fanatismo di eguaglianza della nuova, esercitava anche adesso e sempre la sua azione nella politica estera dei francesi. Questo popolo aveva sempre il bisogno di odiare comunque un altro popolo dal profondo del cuore; e, se vogliamo prestar fede agli storici francesi, una nazione che si consacra a cotesta passione soave, è torturata perennemente dal rovello di un'ambizione sterminata. L'odio antico contro l'Inghilterra, che il secondo impero aveva smorzato, si rovesciò ora con selvaggia impetuosità celtica contro la nostra patria. Cadde come una folgore sul mondo parigino la nuova terribile: la più fulgida vittoria del secolo non era stata riportata dai francesi! Quella stessa Austria, che noi con fatica e con stento appena vincemmo, ora è soggiaciuta, fiaccata al capo dalla Prussia, in una guerra di cinque giorni! Era un tegolo sulla testa dei parigini. Si misero allora a ricordarsi, che la Prussia era stata la più colpevole tra i vincitori del primo Napoleone: non appena le trombe della fanteria di Bülow squillarono dietro le siepi di Planchenois, la giornata della Belle-Alliance fu decisa. L'antico motto «vendichiamo Waterloo!» cedé al nuovo grido di battaglia «vendichiamo Sadowa!». Ogni vergogna, ogni senso del diritto andò sommerso nella vertigine universale. Un uomo rispettabile come Prévost-Paradol scrisse sul tema «Fummo noi battuti a Sadowa?», e non notò quale ironia fosse già nel titolo stesso del suo lavoro. Chi ha viaggiato in Francia i primi mesi del 1867, sa con quanta veemenza si oltraggiava in ogni vettura, in ogni caffè _l'insolence prussienne_, e che in ogni fiera si dava spettacolo per pochi soldi del _fusil à aiguille en action_. Solamente i prodigi del fucile ad ago potevano spiegare il prodigio della vittoria prussiana. E come era grossolana e, insieme, puerile la gioia dei francesi, quando l'arme prussiana appariva superata dallo chassepot! Accanto a un tale risveglio di tutte le cattive passioni si rivelarono vuote parole le verità pacifiche della nuova scienza storico-politica: l'influenza del lavoro intellettuale tedesco incagliò quasi di botto. Chi avrebbe potuto biasimare troppo rigidamente il corruccio e la vergogna dell'orgogliosa nazione, nel vedersi oscurare dalla vittoria dei suoi nemici antichi la sua propria gloria guerresca? Ma chi poteva scusare per questo l'urlo senza esempio impudente e incosciente, che tutti i partiti levavano contro la Germania e contro l'imperatore? _La France de nouveau bismarquée!_ strillavano e querelavano, ogni volta che la federazione nordica tedesca faceva un passo avanti. Toccava a Napoleone sentire dai suoi intimi amici e parenti il ruvido raffaccio di aver annichililo il _préstige_ della Francia: la lettera della regina di Olanda rinvenuta alle Tuileries non lascia certamente null'altro a desiderare in chiarezza di linguaggio. L'opposizione colpì con zelo la favorevole opportunità di manifestare le sue patriottiche ambasce. Il vecchio Thiers era inconsolabile della giornata di Königgrätz; Giulio Favre si sciolse in lacrime di commozione pel re dei guelfi; Prévost-Paradol dichiarò che, se l'unità germanica si effettuava, una sola via rimaneva aperta alla Francia: perire nella lotta contro cotesta unità! E tutti questi reazionari, che combattevano le giovani forze del secolo con le idee chiuse di una politica di gabinetto decrepita, tronfiavano col minaccioso frasario di libertà corrente nel paese. Non cade dubbio, che anche nei suoi ultimi anni, e i più malfermi, Napoleone III era sempre più saggio, più moderato dell'enorme maggioranza dei suoi compatrioti: il suo ministro Rouher in mezzo ai retori belligeri del corpo legislativo parve sovente il solo uomo pensante in un branco di forsennati. L'imperatore sentiva già vacillarsi il terreno sotto i piedi; gli toccava di appagare comunque la gelosia irritata della nazione. Prese opportunità dagl'imbarazzi finanziari della corte olandese per vedere di conquistare alla Francia il Lussemburgo. La scelta non era infelice, perché la guarnigione prussiana in cima al vecchio dirupo non poteva più appellarsi a un titolo indubbio di diritto. Se i francesi, con l'acquiescenza del re granduca, vi si fossero inerpicati all'improvviso, non sarebbe stato poi facile alla Prussia oppugnare il fatto compiuto. Ma la crescente ritrosia di azione dell'imperatore lo ritenne, lo attenne a intavolare quelle negoziazioni diplomatiche, che poi gli giocarono il disegno. E con quale cinismo l'affare fu trattato! Che cosa è più stupefacente, il lordo negozio con la degenerata casa bancaria degli stessi Orange, oppure il perfido dispaccio francese del 28 febbraio 1867, il quale innocentemente opinava, che certamente la Prussia avrebbe trasferito più volentieri alla Francia la fortezza di Lussemburgo, anziché all'Olanda? Non ostante la partigianeria dimostrata dalle grandi potenze all'albagia francese, i maneggi terminarono con un altro smacco dell'imperatore, che nemmeno questa volta si trovò l'animo bastante alla riscossa. La Prussia rinunziò, è vero, al suo diritto di presidio del Lussemburgo, ma Napoleone vi rimise insieme la sperata rappresaglia di Königgrätz e la sua riputazione di uomo di stato. Dopo sedici anni di lavoro enorme egli era approdato a questo, che, tanto di qua, quanto di là dalle frontiere, il suo regime incontrava un'altra volta la stessa diffidenza universale, come nei primi tempi susseguenti al 2 dicembre. La morbosità dello stato francese aveva procurato all'intero continente il malessere di una tensione angosciosa, che non era degna del nostro secolo altamente incivilito. Napoleone, come del resto il noto scritto del marchese di Gricourt riconosce apertamente, era in sommo grado sorpreso e conturbato dalla opposizione della Prussia. Si era lusingato di conservare, con una conquista la più possibilmente modesta, la pace tra i due popoli vicini; e adesso anche questo proposito andava a monte per l'orgoglio della Prussia! Anche i francesi più miti e assennati parteciparono a cotesto avviso; come apprendiamo dalla lettera di Renan a Davide Strauss. In senato Persigny domandò con espressioni di somma ira, se il Lussemburgo non appartenesse per avventura al re di Prussia. «Questo evento», conchiuse, «solleva il velo di un futuro, dal quale non ci è lecito oltre distogliere i nostri sguardi!». Per conseguenza, nei circoli militari francesi la guerra fu tenuta inevitabile. Il colonnello Stoffel compendiava la gravità della situazione nella proposizione seguente: la Prussia vuole estendere il suo dominio sulla Germania meridionale; la forma è indifferente; la Francia vuole impedirlo; dunque bisogna venire alla guerra. In effetto, la Prussia non aveva accolto subito gli stati meridionali nella federazione nordica, per non privarli del respiro necessario al raccoglimento e alla preparazione. All'opposto, i francesi stimavano la linea del Meno come un confine inviolabile; la _nation wurtembergeoise_ e gli altri rampolli del ghiribizzo del primo Napoleone dovevano serbarsi alla loro libertà. Per loro, la nazione germanica era tuttora una chimera di tattamellanti professori, un'artificiosa trovata della cupidigia territoriale prussiana. Al napoleonide, dopo quanto era accaduto, erano ancora aperte due vie per appagare l'ambizione del suo popolo. O sobillare la Prussia ad avanzare prematuramente verso il Mezzogiorno; giacché, dato l'umore titubante e di tanto in tanto affatto abbindolato del popolo meridionale, dato il sentimento non patriottico delle corti di Stuttgart e di Darmstadt, non pareva affatto inconcepibile, che la Francia, alleata con la Germania meridionale, distruggesse la federazione nordica. Oppure Napoleone doveva ammettere, che non era più possibile contrastare l'unificazione di tutta quanta la Germania, e rifare il proprio stato incorporandosi il Belgio. Su cotesto acquisto i suoi cupidi sogni avevano almanaccato indefatigabilmente. Agli occhi di ogni francese il Belgio era nient'altro che una provincia naturale della Francia, e la vivacità dei valloni e l'indolenza dei fiamminghi non facevano di meglio che preparare a fondo il terreno della conquista. Solo che il disegno sarebbe potuto riuscire di sorpresa, con la più energica risolutezza. Se Napoleone avesse inondato il Belgio coi suoi eserciti, e poi dichiarato: noi ci poniamo sul terreno del diritto di nazionalità; vi riconosciamo l'unità della Germania e domandiamo per noi questa terra francese; allora la Prussia si sarebbe trovata in una posizione difficile, tanto più che forse non vi era da aspettarsi alcuna opposizione da parte della pacifica Inghilterra. Se non che, una volta manifestato precedentemente, il disegno era già bello e rotto. Come mai si poteva sperare di conseguire il consenso della Prussia? Che cosa la Francia aveva da offrire alla Prussia? Nient'altro che l'assentimento all'impero germanico, che, presto o tardi, era destinato a risorgere, e che si sarebbe potuto impedire soltanto nel caso, che la Prussia in ignobili negoziazioni con la Francia avesse demeritato la fiducia del popolo tedesco. Napoleone continuava a non avvertire nulla delle forze morali del movimento unitario germanico, nulla dei doveri che questo imponeva alla corona di Prussia. Secondo la sua vecchia esausta maniera, scelse di nuovo la via diplomatica, e subito dopo l'affare del Lussemburgo fece presentare a Berlino il suo antico disegno belga. Nessun diplomatico ha negoziato mai più frivolamente e, insieme, più acciarpatamente di quel pietoso Benedetti, che per poco non fece raggirare la Prussia, e che dal giorno di Olmütz non aveva mai sentito niente. Lo statista tedesco baloccò la bramosia francese, ascoltò pacatamente tutti gl'insensati apprezzamenti sulla Svizzera francese, sul Piemonte, pullulanti in vicenda turbinosa, e ritenne in propria mano la prova inestimabile della cupidigia gallica. Da allora ogni mese ci arrecò un attestato del sentimento di amichevole vicinanza. La cabala della diplomazia francese si sgrufolava senza tregua nelle nostre piccole corti. Seguì il convegno di Salisburgo, di cui i tedeschi fiutarono lì per lì l'odore ostile. I due imperatori, secondo che risulta da una lettera di Rouher rinvenuta alle Tuileries, s'incontrarono nella risoluzione di non tollerare l'unità della Germania: tuttavia l'impero e l'esercito d'Austria non ispiravano alcuna fiducia ai francesi. Susseguirono le trattative per la legione guelfa, i meticolosi tentativi di sottomettere all'influenza della Francia le ferrovie belghe, le geremiadi frenetiche del corpo legislativo sulla ferrovia del Gottardo, che minacciava di porre in mano alla Prussia l'asse del commercio mondiale. Talora Napoleone sperava novellamente di placare la nazione corrucciata, e una volta per mezzo di carte geografiche nitidamente colorite cercò di dimostrare ai ragazzuomini, che l'equilibrio delle grandi potenze non si era spostato in disfavore della Francia. Frattanto l'egemonia sui popoli latini aveva sofferto una nuova scossa dalla rivoluzione spagnuola; e l'urlo di rabbia rintronante per tutta la Francia contro il conte Bismarck accusato di essere il macchinatore dell'insurrezione, provò di nuovo, che i francesi non pensavano tuttora ad altro che alla guerra alemanna, e ciò appunto perché non erano capaci di condurre con pacata e grave perseveranza a compimento l'opera della loro riforma interna. Calmo e saldo lo stato germanico seguitava intanto il suo grande cammino. Finalmente Napoleone si risolvé di conquistare il suo Belgio contro la volontá della Prussia. La contesa per le ferrovie belghe lo aveva indotto ormai nella persuasione, che non avrebbe potuto acquistare un sol pollice di terreno col consenso della Prussia. Il maresciallo Leboeuf, pieno d'indubitata fiducia, gli dimostrò la superiorità della potenza militare francese. Il malcontento dell'esercito, le pressioni dei vecchi bonapartisti in ansia per le loro prebende, le esortazioni dei clericali, il caos scatenato dei partiti, l'insostenibile assurdità della tirannide parlamentare, tutto ciò condusse a una risoluzione disperata. Fu afferrato con brutalità inaudita un frivolo pretesto di guerra, giacché soltanto la sorpresa poteva menare allo scopo; e l'imperatore fu con piena verità in grado di dire: «tutta intera la nazione col suo _élan_ irresistibile dettò la nostra decisione». Questo popolo non era mai sceso in guerra con maggior tripudio; da Perpignano a Parigi, da Marsiglia a Nancy un delirio di gioia corse il paese; e la menzogna con quella. La guerra era preparata da un pezzo, le formazioni per l'attacco predisposte in antecedenza, pronte le nuove armi, ammassate grandi requisizioni di cavalli e provviste di grano: le truppe anelanti di battersi e talmente prodi, che nella prima metà della guerra i vincitori avevano sofferto maggiori perdite dei vinti: la Francia dal 1812 non era mai stata più forte. Ma da un momento all'altro scoppiò nell'esercito, nell'amministrazione, in ogni branca della Vita dello stato un orrendo scompiglio, e infedeltà e indisciplina, che facevano testimonianza non già degli errori di un sistema, ma della generale decadenza morale del popolo. Come mai lo stesso bonapartismo avrebbe potuto prefiggersi di assegnare sulle forze morali? In effetto, esso anche questa volta poteva contare sull'assistenza delle così dette idee liberali; né cadeva dubbio che il mondo neutrale, preoccupato come era a favore di quelle, avrebbe celebrato la vittoria della Francia come una vittoria del liberalismo. Ma il bonapartismo non sapeva proprio niente dello spirito eroico di un popolo in armi. Quante e quante volte durante la lunga pace i francesi avevano cantato strepitando e minacciando: _et du Nord au Midi la trompette guerrière a sonné l'heure du combat?_ Fino a quando il gagliardo inno ammoscì in una frase sdrucita. Dovevano provarlo adesso, ciò che è una guerra di popolo. Sorse la Germania, risoluta come un solo gagliardo, unanime dalle Alpi al Belt, e seguì esultante le aquile di Rossbach e della Belle-Alliance. Quando la boria del più superbioso dei popoli fu castigata con una ignominia senza esempio, il giudizio cadde allora anche sull'eletto del popolo. Levato in alto dalle moltitudini, dal capriccio dell'animo popolare, soggiacque per l'insensatezza delle stesse moltitudini. La perplessità dello sdegno di Parigi lo ritenne dal compiere quella marcia da Châlons alla capitale, che forse poteva ancora salvarlo, e lo spinse sulla via di Sédan, giù, alla perdizione. Ed è singolare, come nella loro ultima impresa campale rassomiglino tra loro il primo e il terzo Napoleone, salvo che il nipote apparve infinitamente più meschino dello zio; come ambedue prima della guerra siano stati ancora una volta levati sugli scudi dalle moltitudini, ambedue strapazzati di corpo e di animo, ombre ormai di sé stessi, ambedue sull'ultimo campo di battaglia impediti dall'innata volgarità del sangue dal cercare una nobile morte, ambedue, infine, condotti ad assaggiare la sconfinata infedeltà del loro popolo. VII. Sopravvenne una nuova rivoluzione, la più miserevole insieme e la più risibile della storia francese, a spazzare adunque gli ultimi rottami del secondo impero: sotto i nostri occhi si è terribilmente adempiuta la parola ammonitrice, che francesi di alto animo avevano da anni rivolta ai propri compatrioti: la Francia non può più tollerare rivoluzioni, non una più! La menzogna tessé sempre più fitto il suo velo intorno al capo dello sventurato popolo, sempre più vuoto e sfrenato crebbe il fragore della frase, sempre più lenti divennero i legami che incatenano la bestia nell'intimo dell'uomo, e in mezzo al mostruoso scompigliamento una sola cosa stava salda: che la Francia aveva bisogno della tirannide. Al despota eletto Napoleone, che aveva cercato di frenare la passione della nazione, seguì il despota Gambetta, che si elesse da sé e che scatenò tutti gli istinti selvaggi delle anime, fino a che non la propria forza dei francesi ma la spada germanica venne a detronizzare il tiranno. Vedemmo appresso con raccapriccio, come i vinti si sbranassero in una orrenda carneficina sotto gli occhi del vincitore, e come il partito trionfante usasse del suo ufficio di carnefice con una fredda crudeltà, appetto alla quale i misfatti del 2 dicembre parvero un innocente trastullo. E mentre la nazione si gloriava di essersi disimpegnata per sempre del bonapartismo, levò sul suo trono repubblicano il gran bugiardo Thiers, il padre della leggenda napoleonica! Prima della guerra germanica una mente politica doveva desiderare la durata della dinastia napoleonica, e in verità non certo pei Bonaparte, ma per la libertà. Se la Casa regnante si fosse consolidata, sarebbe stato sempre concepibile un progresso verso forme statali più libere. Ma ora, che era riprincipiato novellamente l'antico sciagurato circolo corrente dall'anarchia alla tirannide, noi eravamo delusi anche nei nostri desiderii. Governasse pure un quarto Napoleone, un nipote di Filippo Égalité, un Gambetta o un qualsiasi altro despota repubblicano, nessuno avrebbe steso lealmente a noi tedeschi la mano della riconciliazione. Comunque possa chiamarsi la sua forma di stato, è palmare che la Francia rimane il paese della polizia, dell'amministrazione dispotica, della soldatesca degradata in servizi di birri, dei tribunali partigiani, del protezionismo, della frase parlamentare, dell'abbrutimento popolare, del fanatismo cattolico; in una parola, il focolare della reazione europea. È questo, in succinto, il costrutto di dieci rivoluzioni! Percorriamo in ispirito la città profanata, che fu un tempo la più ospitale della terra e che oggi nessun tedesco dignitoso può visitare più. Sconcertati dalle impressioni contraddittorie che a ogni pie sospinto assalgono il passeggiero, cerchiamo un rifugio tranquillo dove ci sia dato respirare e riprendere animo sull'avvenire di questa nazione. Noi camminiamo attraverso lo strepito dei boulevards, dove oggi si pavoneggia l'impudenza, non più il fasto del vizio. Traversiamo la piazza Vendôme: era qui la superba colonna, che tanto spesso contemplò dall'alto i battaglioni pronti a partire per la guerra. Il _vive l'empereur!_ che è qui risonato, ci richiama tristemente il saluto di schiavi dei gladiatori morenti; ma più atrocemente ci passa il cuore l'ululo furibondo dei giovinastri, che rovinarono il monumento della gloria nazionale. Andiamo avanti, al giardino delle Tuileries, davanti a quella statua di Spartaco, che suscitò un tempo l'ammirazione di Börne. Noi non vediamo l'immagine del libero cittadino nello schiavo che spezza le catene, come dicono le nere rovine del castello imperiale che spuntano laggiù dietro gli alberi; né questo crudo contrasto di libertà e di servitù esaurisce in noi il senso profondo della vita dello stato. Tiriamo oltre, sulla piazza della Concordia: mostra ivi l'obelisco di Luxor le sue forme puerilmente senili; monumento eloquente per un popolo, che lì davanti deve procurare di scordarsi di sé stesso. Ma troppo sono orride le ombre che salgono su da questo suolo, sul quale un tempo la ghigliottina eseguiva la sua opera sanguinosa; e solo una scultura che ricordasse il Nulla potrebbe adornare questo luogo. Noi arriviamo in fine al palazzo Borbone, dove l'assemblea nazionale della repubblica non si è ancora arrischiata di riporre il piede, e c'indugiamo volentieri nel bel vestibolo, dove sono raccolti i grandi della Francia parlamentare. È qui il generale Foy, il patriota senza macchia, che nei tempi dileguati della giovinezza e della fidanza sapeva movere ad entusiasmo i suoi ascoltatori con un sol motto: _la France_. È qui Casimiro Périer, lo spregiatore altero del favore delle folle. Qui si avanza potente dalla parete gialla il più grande dei tribuni, e col braccio alzato scaglia la folgore del suo dire sull'assemblea ammutolita. Era dunque un sogno di folli, il sogno che animò questi uomini? Noi sappiamo il perché naufragarono e dovevano naufragare le speranze di Mirabeau; ma non crediamo che egli sia vissuto invano. Noi, i vincitori, prescelti ad eseguire sulla Francia moderna il giudizio della storia, abbiamo innanzi tutto l'obbligo di riconoscere ciò che la nostra opera politica deve alle azioni, alle idee, agli errori stessi dei francesi. Soltanto che la vera forza dei popoli non consiste già dell'inventare, ma nel formare, ritenere e perfezionare le idee proprie del tempo. Era un francese l'uomo il cui spinto creatore gittò la traccia più ardita e sicura del protestantismo; e francesi i sereni eroi della fede, i quali combatterono le prime ardue lotte dell'idea calvinistica. Eppure la sementa di Calvino, che germogliò opulenta sul suolo straniero, appassì sul terreno patrio e si perde; e la Francia non prese parte alcuna dei benefizi della Riforma. Si ripeterà nella vita politica la dolorosa esperienza? Le idee del sistema rappresentativo non sono state superate dal bonapartismo; e vale anche per la Francia la legge storica, che spinge alle forme rappresentative tutti i popoli del continente. La nazione ha semplicemente la scelta, o di trasformare lo stato in modo che possa comportare una rappresentanza popolare, oppure di appassire e irrigidirsi come la Spagna, dominatrice, un tempo, del mondo. L'Europa non può fare a meno del genio della Francia. Sarebbe una sventura ineffabile per la civiltà del mondo, se il popolo di Molière e di Mirabeau avesse sperperata per sempre la sua potenza creatrice. Noi non rinunziamo punto alla speranza, che la meravigliosa freschezza di vita dei francesi sia un giorno per risorgere dalla decadenza profonda, ma la presente generazione non vedrà affatto la fine di queste contese. FINE DEL SECONDO VOLUME E DELL'OPERA. INDICE DEL VOLUME SECONDO PARTE IV. La Repubblica e il Colpo di Stato. I. Sgretolamento della Società p. 3 II. La Costituzione repubblicana » 27 III. L'elezione presidenziale » 35 IV. Le lotte parlamentari » 46 V. Il Colpo di Stato » 64 PARTE V. Il secondo Impero. I. Prospetto » 79 II. La Costituzione. Dominazione del Quarto stato » 91 III. L'Amministrazione » 130 IV. La situazione economica » 141 V. Corruttela dei costumi e Cultura » 177 VI. Politica europea » 205 VII. Conclusione » 259 NOTA DEL TRASCRITTORE Sono stati corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo originale): Napoleone ebbe poco da aggiungere alle leggi eccezionali [ecceziozionali] nobili elementi latini e germanici siano stati interamente [interaramente] la luce del giorno! La guerra dello Schleswig [Schlewig]-Holstein, dell'impero ereditario esclude per sé stesso la responsabilità [responsabilitá] du grand nombre_; e quando in una massima [massina] sovente dei _cadres de non-activité_ facilitò l'allontanamento [allontamento], senza del 24 novembre 1860, _le décret [decret] sauveur_, come addirittura intollerabili, da quando alla dipendenza [dipenpenza] per esempio, nel mantenimento [mantentimento] dei palazzi delle prefetture difesa fattane dal _Temps_ e dal _Journal des débats [debats]_, presuntuosamente [prosuntuosamente] rumorosa della monarchia di End of the Project Gutenberg EBook of La Francia dal primo impero al 1871, by Heinrich von Treitschke *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LA FRANCIA DAL PRIMO IMPERO *** ***** This file should be named 28317-0.txt or 28317-0.zip ***** This and all associated files of various formats will be found in: http://www.gutenberg.org/2/8/3/1/28317/ Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni, and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net. 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