The Project Gutenberg EBook of Vita di Francesco Burlamacchi, by Francesco Domenico Guerrazzi This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org/license Title: Vita di Francesco Burlamacchi Author: Francesco Domenico Guerrazzi Release Date: February 15, 2015 [EBook #48267] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK VITA DI FRANCESCO BURLAMACCHI *** Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) VITA DI FRANCESCO BURLAMACCHI DI F. D. GUERRAZZI VOLUME PRIMO MILANO CASA EDITRICE ITALIANA DI M. GUIGONI 1868 _Proprietà letteraria_. Tip. Guigoni. A LIVORNO IN TESTIMONIO CHE GRADITO O REIETTO M'INDUSTRIAI SEMPRE REVERIRE E ONORARE LE DEDICO QUESTA VITA DI UN GRANDE E SVENTURATO ITALIANO F. D. GUERRAZZI. PROEMIO. Decadenza dei popoli graduata: difficilmente risorgono: e se risorgono, sentono per lungo tempo il sepolcro. — Viltà nostra di che danni operatrice nel secolo decimosesto; diversità che passa tra dominatore che ti regge in casa e dominatore che ti regge di fuori. — I papi prima dominatori, poi soci, all'ultimo aguzzini dei re. — I mutamenti religiosi o sovvertono le condizioni dei popoli o le confermano e perchè: Quello che dapprima Leone X pensasse della riforma. — Cristianesimo in onta alle apparenze di subiezione è ribelle, protestantesimo nonostante la sembianza di ribelle è servile. — Per quali cause gl'Italiani si mostrassero parziali alla riforma religiosa. — Condizioni della virtù militare in Italia durante il secolo decimosesto; molta e a suo danno. — La Italia non può morire, e lo ha dimostrato: circolo delle umane cose se vero; umanità sempre in moto verso il meglio. — Sardanapalo ed Anassarco, e parallelo fra loro. — Immondezzaio moderato che ha avvilito la Italia dal 1859 in poi. — Non avendo né potendo avere credito da per sè, i moderati sfruttano l'altrui, ma per poco; finchè non si fanno forti su le manette. — Dove, come e perchè il Burlamacchi si avesse la statua, per virtù dei moderati. — Orazione del professore Pacini ed iscrizione bugiarda: fatti che lo provano: verun tiranno si mostrò astioso quanto i moderati in Toscana. — Della setta moderata vuolsi disperso il seme, se intendiamo che la buona morale risorga, senza la quale restaurare la vita del popolo è niente. Come nel corpo umano non percuote subita ed improvvisa per ordinario la morte, ma sì con lungo alternare di miglioramenti e di peggioramenti, e non senza supremi sforzi per fuggire la distruzione che lo minaccia, così gli stati anch'essi mano a mano declinano, e prima di quotarsi nello avvilimento mandano i tratti. Caduti poi non si rilevano: affermano risorgesse dal sepolcro l'uomo Dio tutto intorno irradiato di luce celeste; eccetto lui, chi si alza dallo avello porta seco gran parte del sepolcro; e i vermi, per buona pezza almeno, gli formicolano addosso: che ciò sia vero, miralo, se ti talenta nel moto che adesso chiamano risorgimento italiano. Colpa di noi stirpe tralignata, la quale da molto secolo alla tirannide, quantunque fruttuosa, non si accomoda, come la efficace libertà nè sa adoperare, nè ama, divenimmo tali nel secolo decimosesto, che la nostra contrada o tutta, o parte ebbe a cadere in mano di signori stranieri con questa ragione, che costoro i quali prima ci vennero e posero stanza forse a lungo andare avrebbero fatto tutto un popolo non senza profitto della nostra abiezione, però che per virtù loro potesse rinnovarsi il sangue, e con la ferocia della barbarie, se non correggere, almeno le infamie della bugiarda civiltà castigare. Da ora innanzi i signori veri d'Italia la comandano di fuori, e cotesto governo si rassomiglia a un paio di tanaglie, che ti straccino le carni: a sollievo dei miseri oggimai nulla più giova, nè grida, nè lamenti, nè maledizioni, nè preci. Dio sta in alto, e, il re lontano, rispondono i vicerè; e il dì in cui non hanno fatto piangere dicono: Ho perduto un giorno. I papi che da prima stettero contro i re per dominarli, e più tardi si accontarono con essi per bilanciarli, da ora innanzi si tramutano in ministri di principi, anche in lancie spezzate, anzi in sicari, oltre il volere della tirannide, suoi partigiani svisceratissimi; in questo mondo le prestano i tormenti della Inquisizione, nell'altro i terrori dello inferno. Ribelli ed eretici diventano tutta una cosa; il re accatasta sotto di loro le legna per arderli; il prete, convertita la religione in mantice, ci soffia dentro per suscitarne le fiamme. Al papa ridotto ad operare da schiavo per libidine di dominazione basta avere per trono anco il teschio dell'ultimo dei viventi sopra la terra. I perturbamenti religiosi o capovolgono le condizioni dei popoli, o le confermano; le capovolgono dove mirino a mutare di pianta la religione, le confermano se invece di schiantarla la riformano; imperciocchè sia chiaro che, le riforme togliendo via dagl'istituti nostri le parti più insopportabili e più odiate, si venga in certo modo ad allungare loro la vita: difatti Leone X argutissimo intelletto pei primi moti religiosi della Germania si spaventò forte e volle esserne minutamente ragguagliato; quando poi seppe che la guerra era mossa contro gli abusi della Chiesa, non già contro al domma cattolico, ebbe soddisfatto ad esclamare: «Si tratta di fronde; a primavera ributteranno.» Gesù Cristo predicava la obbedienza alle autorità costituite e non rifiniva insegnare: «Date a Cesare quello ch'è di Cesare»; tuttavia appuntellava la nuova religione per dare di leva alle signorie del mondo. Lutero all'opposto, con parole e co' fatti non rifinando di protestarsi ossequente ai principi germanici, metteva la sua dottrina ai servizi della loro potestà: però essi si posero nelle mascelle il protestantismo come dente per masticare, al modo stesso che Carlo V ci incastrò il cattolicesimo; così l'uno non vinse l'altro, e terminarono, comechè trattandosi da suocera e da nuora, a vivere insieme sotto il medesimo tetto ed a sedersi intorno alla medesima mensa; laddove oggi sorgesse un terzo a sturbarne l'accordo, si legherebbero insieme per dargli addosso: quanti preti sono al mondo vivono di credenze, non di verità. Ma ai tempi di cui teniamo discorso taluno andava convinto che la verità si trovasse nella eresia, tal altro che la riforma fosse arnese idoneo a combattere la chiesa romana, nè i secondi erravano. Difficilmente i filosofi e i politici innanzi ai successi presagiscono le cause che li provocano e gli effetti che partoriscono; difficilmente li conoscono anco dopo, almeno nel complesso loro; e quando pure essi valessero a prognosticarli, di politici e di filosofi veri va scarso il mondo, nè fin qui vedemmo politico o filosofo che, renunziata la passione, si governi in tutto e per tutto con la ragione. Insomma, o per ragione lusingata da passione, o per solo impeto di questa, gl'Italiani, crucciosi della perduta libertà, si attaccavano alla riforma come i cadenti alle tamerici cresciute nelle crepature del precipizio. E argomento di molto dolore lo somministra eziandio il pensiero che la virtù militare non mancava; all'opposto l'Italia non n'ebbe mai come adesso dovizia, ma mentre pochi generosi combattono per la sua libertà e muoiono, molti a danno di lei le proprie spade con le spade dello straniero congiungono. Tuttavia l'Italia sparisce come il sole al fine di un giorno di autunno tramonta nel mare: non si può presagire quanto rimarrà sotto, ma si sente che tornerà a levarsi da capo; esalano le anime grandi Francesco Ferrucci e Francesco Burlamacchi, ma tu confidi che qualcheduno le raccoglierà; di su la faccia della terra la memoria di loro si dilegua, ma penetra nel grembo della terra come il seme del grano durante il verno per germogliare in messe a primavera. Esempi magnanimi, martirio di uomini per amore di patria divini, pianto di popoli o furore e vendetta a che pro? La tirannide muore, ma la servitù rimane; la quale senza tirannide non potendo stare, la rifabbrica con le ossa e con la fama dei morti per la libertà quello che è, sarà, e nulla vi ha di nuovo sotto il sole; gli Egiziani col geroglifico del serpe che si morde la coda vollero significare come le cose tornino perpetuamente ai loro principii, sentenza che pure intende dimostrare il Machiavello; e non è così: i rivolgimenti umani, comechè si rassomiglino, non offrono mai le medesime qualità; essi si aggirano sopra sè stessi più sempre progredendo a spira: ora se misuriamo la miglioranza alla stregua della vita dell'uomo, poco andiamo innanzi, e talora sembra che retrocediamo; i popoli la vita dei quali si prolunga nei secoli conseguono il bene ottenuto a gocce: da ciò, i procaccianti, rubato il pane dallo zaino del soldato della libertà, desiderando rosicchiarlo a comodo, cavano motivo di raccomandare i passi prudenti. «La salute stà nel camminare con riguardo», essi dicono; «chi va piano va sano.» Ma in queste faccende la procede diversamente, e la verità sta nel fatto, che qui col travaglio continuo acquistiamo poco. Tu hai a figurarti che il cuore e il cervello della più parte degli uomini (e ad immaginarti così non ti ci vorrà fatica) sieno duri quanto il granito e più, e tu gli abbia a trapanare; certamente, per molto volgere che tu faccia il ferro, t'inoltri poco, ma se allenterai l'opera, in che ti avvantaggerai di più o farai più sicuro lavorio? Niente senza grande travaglio di vita concedesi ai mortali, questo è vero; pure del pari è falso che l'umanità non proceda al meglio, e che chi rallenta il passo arrivi o più presto o più sicuro. Come altresì vuolsi giudicare, non che falso, stolto e crudele l'avviso di coloro i quali col predicatore screditano vanità di vanità tutto quello che non si converta a presente godimento materiale: la materia ci è, e pur troppo forma la più cosa degli uomini, ma ci hanno eziandio fra questi chi il bene della materia appetisce meno di quello dello spirito ed anco punto. Ora qui non preme definire spirito che sia, o se duri immortale, o se così durando ricordi gli affetti del suo connubio con la materia; certo si deve reputare che quelli i quali di questi piaceri furono creati capaci sentono o immaginano la immortalità, la lode futura nei posteri, il premio fra i celicoli. La sventura coglie tanto Sardanapalo quanto Anassarco. Diodoro siculo ci racconta come Sardanapalo re di Assiria si componesse da sè medesimo il proprio epitafio, il quale diceva: «Sardanapalo figlio di Anacindadarasse fondò in un giorno Anchialo e Tarso. Mangia, bevi ed ama; il resto non vale un fico annebbiato.» Ed a ragione osserva Aristotile che, eccetto la fabbrica delle due città, per tutto il resto l'epitafio quadrava a pennello anco a un porco. Forse cotesta epigrafe egli dettò fra un bacio di donna ed un bicchiere di vino; non immaginando dalle mille miglia che un giorno, per sottrarsi agli scherni e forse agli strazi del vincitore, egli avrebbe dovuto ardersi con la sua reggia e i suoi tesori. Anassarco di Abdera segue Alessandro in Persia, dove, con libera favella temperando la tumidezza dello eroe, opera sì che tra i Persi appaia libertà la tirannide greca: caduto in potestà di Nicocreonte, a cui in faccia osò dire tiranno, non si sgomentò al supplizio di sentirsi pesto dentro un mortaio, e così sfida il malnato: «Tu pilla la scorza di Anassarco, chè sopra la sua anima nulla puoi.» E poichè Nicocreonte lo minacciava fargli strappare la lingua, egli rispose: «nè anco questo sta in poter tuo»; e tagliatasela co' denti, gliela sputa in faccia. Entrambi per tanto con morte affannosa precipitarono nel sepolcro, ma non vi ha dubbio che ella con paura ed agonia maggiori deve avere percosso Sardanapalo, rotto ad ogni lascivia, che Anassarco, educato nella rigida scuola degli stoici: nè questo solo; nello estremo momento, nel quale si somma la vita trascorrendo con un baleno di pensiero gli andati giorni, il re avrà sentito di certo o che moriva tutto (e questo era il meglio per lui) o che sarebbe trapassato ai posteri memoria di vituperio: all'opposto il filosofo esultò nella idea, che, finchè storia durasse al mondo, quando si volesse portare uno esempio di virtù invitta che per atrocità di tormenti non vacilla, il nome di Anassarco sarebbe ricorso spontaneo sopra le labbra degli uomini. Che amabile sia la gloria ai magnanimi, bene sta, e confesserò vero del pari che di questi in ogni tempo fu scarso il numero: tuttavolta, per grazia di Dio, vedova affatto di anime gentili non andò mai la Italia, nè manco adesso in cui ella passa la più rea stagione che l'abbia da remotissimo tempo assiderata, in grazia del mondezzaio dal 1859 in poi venuto a galla; al quale non s'invidia la infamia fortunata a patto che non tocchi la fama che nasce dalla virtù infelice. Tutto non può pretendersi da tutti; chi pone diletto nei beni della materia non può raccogliere anco gli altri dello spirito. Onde io mi cruccio più che non convenga quando vedo un codardo porre la mano sul retaggio dei virtuosi, parmi un furto di cose sacre: ma dove tu consideri sottilmente il caso, nè ingiusto forse troverai nè soverchio che quelli i quali hanno facoltà d'infuturare la vita, finchè durano in terra, o non godano od anco soffrano; però tanto più importa che veruno usurpi loro il guiderdone che la provvidenza gli concesse. In questa nostra Toscana giusto nell'anno testè ricordato sorse una luce balorda che con clamore grande salutarono alba di giorno di libertà, e non fu nè manco barlume di aurora boreale: nè poteva succedere diversamente, essendochè cotesto moto fosse partorito non da virtù di popolo, bensì da viltà di principe, e se ne presentassero pronubi signori impazienti non già di servaggio, ma di non essere messi a parte della tirannide; uomini sviscerati, secondo il costume dei gatti, non già del padrone, bensì della dispensa del padrone; patrizi proseguiti dalla caterva di minori affamati in agonia di fare roba o di rifarla con la pecunia pubblica, turpe gara di titoli, di ladronaie e di servitù. Per abbindolare la gente, era pure forza comparire in sembianza diversa; nelle leggende fratesche s'impara come il diavolo per tentare santo Antonio pigliasse addirittura la faccia di angiolo; così i nostri scroccatori della rivoluzione si diedero attorno a raccogliere desideri gentili, concetti magnanimi, antiche voglie non appagate mai per pararsene e comparire orrevoli; ordinaronsi statue in onoranza dei grandi infelici e pitture e incisioni; le biblioteche vollero si rifrustassero per rinvenirvi carte dei sapienti, le quali poi rese di pubblica ragione avrieno cresciuto il tesoro della italica gloria. Se le cose non pativano indugio, si videro fatte; ed anco compironsi le altre per le quali l'artefice svelto, ricordando essere nato in casa di Nicolò Grosso[1], volle la _caparra_; per le rimanenti, fatta la festa, levato l'alloro: a questo modo dopo raccolte con sommo studio le carte dagli archivi e dalle biblioteche pubbliche, le quali unite con parecchie altre rinvenute nella Palatina ci potevano dare la edizione completa delle opere del Machiavelli, rimasero in mano dei collettori egregi senza costrutto, chè la spesa per la stampa non fu mai stanziata: i nostri ciurmatori saliti in arcione non avevano più bisogno che il Segretario fiorentino reggesse loro la staffa. A Francesco Burlamacchi toccò per bazza la statua decretata nel 1859; gliela rizzarono in Lucca nella piazza di S. Michele nel settembre del 1863, ed in cotesto giorno fece la orazione un professor Pacini, il quale, a sentirlo, pare che cammini fra l'uova, pauroso di pestarle, e ne aveva ben donde, però che la fama del Burlamacchi in quella solennità si adoperasse a mo' d'incenso repubblicano da ardersi per gloria della monarchia. Ed è poi falso quello che si affermò nella epigrafe stampata in fondo a cotesta orazione, cioè: _che la paurosa tirannide apponesse lungamente a delitto perfino la ricordanza dei generosi morti per la libertà della patria_; dacchè la tirannide dei Medici non solo consentisse che i generosi si ricordassero, ma ella ne mantenesse viva la memoria, e questo dimostrai nella vita di Francesco Ferruccio, raccontando come, nello apparecchio condotto a Porta a Prato nella occasione delle nozze di Francesco dei Medici con la regina Giovanna d'Austria, insieme coi simulacri dei fiorentini famosi in armi, anzi accanto a quello di Giovanni delle Bande-nere padre di Cosimo, facessero dipingere la immagine del Ferruccio; onde il Vasari, comechè fosse prelibatissimo piaggiatore di corte, non dubitò salutarlo _sfortunato, ma valoroso capitano_: più tardi, ornando le volte della Galleria degli Uffizi, questi stessi principi ordinarono che fra le figure degli illustri guerrieri fiorentini quella del pro' Ferruccio comparisse. Quanto alla tirannide lorenese, allorchè in una delle nicchie vuote degli Uffizi il Batelli stampatore collocò la statua dell'eroe morto per la libertà della patria, ella lasciò fare e non disse verbo. Cause vere per le quali il Burlamacchi ebbe la statua nel 1859 furono queste due, che ai patrizi servili parve bello sfruttare in loro vantaggio la rinomanza dello infelice repubblicano, e che a quei giorni, avendo essi l'erario nelle mani, poterono farlo co' quattrini del pubblico. A me per tanto corre obbligo di dettare come posso la vita di questo grande infelice, perchè l'anima sua riceva il giusto premio di lode ed esulti. Se volere fosse potere, da ora in poi il Burlamacchi non invidierebbe, come Alessandro fece, Omero ad Achille, o forse (dirò senza rispetto quello che sento) io non ho mai desiderato ed invocato valore di lettere come adesso, conciossiachè si tratti vendicare l'eroe lucchese non solo dalle ingiurie della fortuna, ma da quelle smisuratamente peggiori della turpe genìa di barattieri patrizi e plebei camuffati da uomini liberi: per me che mi trovo capace di sopportare ogni più fiero guaio, la lode da costoro non sopporterei, e credo fermamente che, se taluno di essi si avvisasse toccare il mio sepolcro quando sarò morto, io resusciterò di punto in bianco per agguantare la lapide e scaraventargliela nella testa. I flagelli della umanità non si medicano, si distruggono; e finchè le zecche e le marmeggie del 1859 non sieno disperse, non pensate nè manco alla libertà confermata, alla rettitudine restituita, alla virtù rimessa in fiore: giudicate l'albero dal frutto che ei dà. Come Catone finiva ogni suo discorso col motto _Chartago delenda est_, così ogni uomo dabbene dovrebbe conchiudere le sue orazioni esclamando: «Dei patrizi e dei plebei i quali si chiamarono moderati e furono schiavi e ladri vuolsi spento il seme.» CAPITOLO I. Dicono Francesco Burlamacchi nato di piccola gente, e non è vero. — Il Dalli canonico ce lo dà per fallito, e perchè; così pure lo Ammirato e lo Adriani per piaggeria al principe; non diversamente il Botta, ma per pecoraggine: giudizio sopra questo scrittore, severo ma meritato. — Antichità della famiglia Burlamacca: donde il suo soprannome per opinione dei cronisti: quale fosse prima. — Questa famiglia, come degli ottimati, e guelfa è cacciata dal popolo; torna in patria, dove si distingue per uomini insigni e tiene sempre luogo onorato fra i maggiorenti. — Sue case e torri, patronati, sepolcri ed armi gentilizie; sostanza dei Burlamacchi, per quali cause scemata. — Francesco mercadante di seta; per ciò lo spregiano l'Ammirato e lo Adriani. — Fiorentini mercadanti tutti, così i Capponi, e così i Medici, i quali esercitavano la mercatura anco dopo fattisi principi. — Giovanni Bicci presta danaro sul pegno della tiara papale a papa Martino. — Dei genitori di Francesco, dei suoi fratelli e delle loro fortune. — Quali i suoi studi; allora fra semplici artefici s'incontravano con frequenza in Toscana dicitori in prosa ed in rima; stato presente di letteratura deplorabile in Toscana, in Firenze deplorabilissimo. — Fra Pacifico, zio di Francesco Burlamacchi e veneratore di fra Girolamo Savonarola, ne detta la vita; lo difende altresì nel dialogo chiamato _Didimo e Sofia_; insegna il modo di mettere in cervello l'enormezze romane, educa la gioventù e muore in odore di santo; educatore della gioventù lucchese e di Francesco. — Sue qualità fisiche e morali: chi fosse la sua moglie. — In che età entrasse Francesco nella magistratura; ed indi in poi tenne sempre il maestrato: non cerca mai uffizio, uno sì, e perchè. — Buoni ordinamenti della repubblica lucchese per difendersi dalle insidie dei potentati vicini. — Divisione della città per l'amministrazione e per la difesa, terzieri, gonfaloni e pennoni. — I Burlamacchi del terziere della Sirena adoprano questa immagine per cimiero. — Come ordinate le milizie; quante le armi e quanti gli armati così in città come in campagna; segnali diurni e notturni per convocare le milizie. — Francesco col favore di Giambattista Borrella viene eletto commissario delle armi. Quali i compagni di Francesco in cotesto maestrato, e quali i luoghi alla custodia loro commessi; larghezze del Burlamacchi per attirarsi la benevolenza dei soldati: a quanto sommassero le battaglie di campagna. — Si parla delle imprese felici e delle sventurate, e per quali cause le seconde possano acquistare lode pari alle prime. — Di Focione e del suo giudizio intorno alla guerra lamiaca. Se Francesco Burlamacchi fosse nato di piccola gente presso la più parte degli uomini, ai tempi che corrono, io giudico gli tornerebbe a merito maggiore; tuttavia non vuolsi nè anco in questa parte darla vinta agli scrittori, i quali s'immaginano vituperarlo affermandolo artefice e plebeo. Si comprende ottimamente che un Dalli in certa sua cronaca manoscritta[2] ce lo dia per fallito e mosso a pescare nel torbido per tôrsi dalla fame; costui canonico era ed aveva un dente contro Francesco, che i preti e le pretesche cose amava quanto il fumo agli occhi: e, per preti e per femmine, morte non placa l'odio immortale. Quanto a Scipione Ammirato, il quale dichiara il Burlamacco ignobile, ma nel numero degli artefici che governavano Lucca[3], ed a Giovambattista Adriani, che a sua posta lo ciurma artefice, come per ordinario i Lucchesi sono[4], si capisce la ragia: entrambi aggreppiati alla medicea mangiatoia, entrambi nudriti di principesca profenda, dettavano quello che secondo il giudizio loro doveva piacere ai padroni; ma non si capisce come Carlo Botta dopo tre secoli ribadisca il chiodo quasi a sollazzo replicando ora che artefice era di suo stato, ma secondo la usanza della repubblica capace di sedere ai governi, ora che sebbene nato in basso loco, pure aveva sortito da natura ingegno idoneo alle imprese eccellenti, in ultimo che, comunque in opere manuali di continuo si occupasse, pure ritraesse maraviglioso diletto dalle antiche storie.[5] Forse il Botta, a cui le rivoluzioni mettevano i brividi addosso, non volle divulgare lo scandolo, che in cosiffatte enormezze si contaminassero i patrizi, i quali, a quanto pare, formavano argomento di ogni sua sollecitudine, sebbene talora anco questi pigli a morsi. Certo spositore di fatti assai commendevole hassi a stimare il Botta, della favella nostro cultore felice, ma brontolone senza concetto; onde alla fine la lettura de' suoi scritti genera fastidio, imperciocchè le storie si dettino per testimonio dei tempi e per l'ammaestramento degli uomini, non già per isfogare le proprie smanie, siccome costumano quelli che sono côlti del mal di colica. Or ecco ricercando quello che apparisce essere vero. Antichissima e nobilissima la famiglia di Francesco Burlamacchi; a suo tempo parlerò della discendenza di lui, la quale fu non meno dell'ascendenza preclara. Comechè di questa famiglia non appaia memoria scritta prima del 1224, e non occorra documento spettante proprio a lei innanzi del 1262 (del quale anno ci avanza una pergamena di Trasmondino di Baldirotto Burlamacchi, dove fra le altre disposizioni testamentarie ordina lo seppellissero nella chiesa di San Romano), tuttavia non è dubbio che da più remota antichità ella derivasse; imperciocchè si ricordi come del 1218 ardesse l'archivio di San Salvatore, in cui gli atti dei notari si custodivano, per la quale cosa chi non fu cauto di provvederne copia per gli archivi della famiglia ne patì danni nel credito e nella roba. Pertanto lo stipite primo della casa Burlamacchi ebbe nome Buglione; il soprannome poi non fu in antico Burlamacchi, sibbene Ansenesi; e donde e perchè cotesto mutamento avvenisse ce lo conta un antico cronista.[6] Nel tempo che i Pisani tiranneggiavano Lucca (dacchè le repubbliche dei tempi medii fossero più e peggio dei tiranni oppressore ed oppresse) uno di questi Ansenesi si finse pazzo, sicchè per tale comunemente stimandolo, potè sicuro senza sospetto aggirarsi per la città portando a cintola un coltellaccio di legno ed in mano una zampogna con la quale parlava negli orecchi di quanti incontrava, e se non se ne fidava diceva follie, se all'opposto se ne fidava, gli eccitava a buttarsi giù dal collo il giogo del servaggio, ammonendoli a tenere certe pratiche che poste in opera con arguzia avrebbero loro data vinta la impresa, come di fatto seguì, ed egli allora, mutato il coltellaccio di legno in una buona spada di acciaio, alla testa dei sollevati recatosi in palagio dove stanziava il console di Pisa, senza tante storie lo trucidò. Da indi in poi nol conobbero con altro nome, eccetto quello di _Burlamatto_, il quale alquanto alterato conservarono i suoi posteri in memoria del caso, dismesso in tutto l'antico cognome degli Ansenesi. Quando il popolo prevalso al governo dei signori nel 1308 cacciò prima di palazzo, poi di città le casate dei nobili, i Potenti e i Casatici, chè a questo modo si designavano i signori di Castelli, fu mandata in esiglio anco la famiglia dei Burlamacchi principalissima guelfa; sicchè tu vedi quanto si apponga al vero Carlo Botta nelle sue storie quando pretende di riffa Francesco plebeo. Tornata in patria la famiglia Burlamacchi, occorre sempre ammessa al governo della Repubblica ed insignita di uffici e di onori non solo prima di Francesco, ma anco molto tempo dopo, come ricavo da certo albero genealogico che ho per mano, il quale mi mostra un Paolino morto nel 1824, e tengo per certo che ogni fiato di lei non sia anco spento. Il Penintesi nelle Memorie[7] intorno alle principali famiglie di Lucca ci afferma che ai suoi tempi quella dei Burlamacchi annoverava non meno di quaranta gonfalonieri e centottanta anziani, fino d'allora la rendevano preclara parecchi oratori spediti alle più cospicue corti di Europa, non pochi cavalieri di Malta, col solito corredo di ecclesiastici, i quali (come si sa) furono tutti matricolati per pietà e per dottrina preclari, almanco a detta di chi scrisse di loro. In antico ebbero stanza i Burlamacchi in certa torre fabbricata dentro l'Augusta, fortezza posta da Castruccio Castracani in difensione di Lucca, la quale fu demolita nel 1392 insieme con altre per cavarne i materiali occorrenti a restaurare le mura della città, essendosi molto tempo prima ridotta la famiglia Burlamacca a vivere in altra casa prossima alla chiesa dei santi Paolino e Donato. La contrada di San Paolino compariva in cotesti tempi capitalissima della città, sicchè nel 1459 vi si contavano bene dugento torri, delle quali quattro spettavano ai Burlamacchi, la prima a Filippo Burlamacchi, di fronte a quella la seconda a Frediano che lungamente dimorò in Fiandra, la terza sorgeva di contro alla chiesa di san Paolino, e la quarta poco quinci discosto dal lato di tramontana: chiamasi il luogo quadrivio dei Burlamacchi; le quattro torri l'una all'altra prossime poste in assetto di guerra formavano fortezza inespugnabile secondo gli ordinamenti militari di codesti tempi. Insieme co' Poggi essi esercitarono il patronato della chiesa di Santa Maria di Filicorti, soli quello di Santa Maria della Rotonda; i sepolcri della famiglia furono fuori della chiesa di san Romano: fecero per impresa e fanno Croce azzurra in campo di oro e per cimiero una Sirena. Varie nei vari tempi le sostanze loro: nel 1530 i Burlamacchi si facevano ricchi di centoventimila fiorini e più, senza contare la casa nè l'opificio della seta: Michele, che morì nel 1529, lasciò di sua parte sessantacinque mila fiorini d'oro, oltre il fondaco avviato, a Francesco e agli altri suoi figliuoli, i quali per testimonianza del Penintesi avevano di già molto cresciuto il capitale e lo andavano ogni giorno viepiù aumentando, se non fossero loro cascati addosso due malanni, di cui il primo fu la rappresaglia commessa a loro scapito dalla Repubblica fiorentina sopra le navi dei grani che di Sicilia essi avevano tratto, e il caso più tardi avvenuto a Francesco, per la carcerazione e morte del quale i negozi parte cessarono e parte trapassarono in altri, non tenuto conto della moneta spesa per salvarlo. Francesco, come i suoi maggiori, esercitò l'arte della seta, la quale con quella della lana fu dai Fiorentini rassegnata meritamente tra le arti maggiori: onde ci appare il rinfaccio che l'Ammirato e Adriano fanno a Francesco della sua condizione di artefice non pure strano, ma temerario; imperciocchè gli ordinamenti politici della Repubblica di Firenze appunto sopra le arti maggiori e minori si fondassero, nè alcuno il quale a queste arti non fosse ascritto potesse avere stato. I Capponi a Firenze non erano registrati alla matricola dell'arte della seta, ovvero di Por San Maria? Le storie poi ricordano come Nicolò Capponi, che fu lo antipenultimo gonfaloniere della Repubblica, accudisse al traffico della seta, e tanto in lui poteva l'amore dell'arte, o piuttosto del guadagno, che, contro il divieto della legge, eletto gonfaloniere, usciva di palazzo alla chetichella per vigilare se le donne gli avessero incannato la seta e le altre cose dell'opificio andassero a dovere. Gli Strozzi per converso più che alla seta attesero alla lana, ovvero all'arte di Calimala, e ne tennero fondaco allora e prima e dopo di allora insieme al banco dei danari in Lione, a Venezia ed in altre città capitali della Europa: anzi le case Strozzi e Burlamacchi conservarono corrispondenza di affari lungamente fra di loro. I Medici mercanti sempre furono e le ricchezze loro cavarono dal prestare a usura; sembra altresì che facessero a fidarsi poco, imperciocchè fra le altre cose si narra che se papa Martino V volle danaro da Giovanni dei Medici soprannominato il Bicci, gli ebbe a dare in pegno la tiara pontificale (chè allora la superbia papesca non aveva per anco inventato il triregno); nè smisero i commerci anco quando tennero il supremo dominio della Toscana, allora, comechè principi fossero, parte ne assunsero in proprio, parte in società e furono di gioie, di metalli, di grani e di altre siffatte mercanzie; del pepe fecero monopolio, onde se essi mostrarono ed operarono che le persone a loro aderenti mostrassero uggia pei commerci, certo e' fu nel concetto medesimo del ghiottone, che sputa su la pietanza perchè, gli altri commensali pigliandola a schifo, egli possa mangiarla tutta per sè. Da Michele e da Caterina Balbani nacque primogenito Francesco Burlamacchi il 18 settembre 1498 e fu battezzato nella chiesa di San Giovanni; dopo lui da cotesto matrimonio uscirono altri cinque figliuoli. Stefano, che molto dimorò per causa di negozi in Francia, tornato in patria, tolse per donna Antonia dei Nobili, con la quale procreò una figliuola per nome Chiara; i ricordi dei tempi ce lo attestano uomo di cuore e valoroso: Agostino recatosi in Francia si fermò a Lione, e se lasciasse discendenza non è noto: Nicolao da Lucrezia dei Nobili ebbe un figliuolo solo, il quale presa a tedio la patria seguì a Lione lo zio Agostino, di cui niente altro sappiamo, eccettochè, inteso tutto intero alla caccia, si acquistò fama di robusto cacciatore pari a quella di Nembrod; secondochè avviene agli uomini dediti ai diletti della materia, non patì mancamento di prole così maschile come femminile, per via diritta come per via storta. Paolo schivò le nozze, per diversi paesi tentò fortuna e sempre invano, chiuse i suoi giorni, se non misero al tutto assai prossimo alla miseria, a Ferrara. Degli studi di Francesco Burlamacchi poco sappiamo: certo, se argomentiamo dai libri che egli aveva in delizia, possiamo accertare che molti e profondi dovevano essere, conciossiachè ci affermino quanti di lui scrissero ch'egli si dilettava maravigliosamente di storie e della lettura continua delle opere di Plutarco: ora le midolle del lione si confanno solo ad Achille e lo nudriscono. Rarissimo nel secolo decimosesto il giovane nato da genitori onesti che fosse alieno dalle discipline gentili, e tu incontravi sovente fra gli stessi artefici in Toscana bei dicitori in prosa o in rima e scrittori forbiti, e male mi conduco a credere che anco nel popolo minuto fossero allora ignoranti di lettere come adesso sono. Se io ricordassi che le ricerche, le quali si chiamano statistiche, ci abbia chiarito come fra le provincie italiane la Toscana sia la più infelice di tutte, e fra le città toscane Firenze, solo allo scopo di palesare un fatto irremediabile, senz'altro meriterei la taccia di maligno, ma io mi vi induco perchè la Toscana e Firenze si vergognino, e, non considerata logora ormai la fama che ci veniva dagli avi, attendiamo a procacciarcene un'altra con la virtù e con le lodevoli fatiche nostre. Per ultimo sappiamo come ponesse amore nel giovinetto Francesco lo zio fra' Pacifico domenicano e lui con diligente cura ammaestrasse. Ora è da sapersi che questo fra' Pacifico al secolo fu Filippo e fratello a Michele Burlamacchi, il quale dimorando a Firenze pigliò usanza con fra' Girolamo Savonarola, e tanto di esso e delle sue dottrine si accese che da lui in fuori non volle avere altro confidente e maestro, per guisa che, vinto da sdegno per le mondane cose a cagione della lacrimabile morte del frate, rifuggissi a Lucca, dove al tutto disposto di dedicarsi a Dio vestì l'abito di san Domenico nel convento di San Romano col nome di fra' Pacifico. In questo fidato asilo meditando continuo da un lato sopra la bontà di frate Girolamo e sopra i concetti di lui, che gli parevano santi, dall'altro su la perversità degli uomini, i quali, come di ordinario succede, non contenti di spegnere la vita di un uomo, pare che non possano vivere se ad un punto non ne spengano la fama, concepì l'ardito disegno di dettarne la vita e la condusse a termine. Quest'opera, più volte stampata ed anco ai giorni nostri letta, fu la prima che comparisse intorno al frate: la si trova scritta in buono stile ed ha fornito agli altri se non tutte, certo la massima parte delle notizie dello infelice riformatore: e come se questo fosse poco, il nostro animoso fra' Pacifico prese senza sospetto nè rispetto alle ire di Roma a difendere la reputazione del Savonarola, al quale fine compose un dialogo fra _Didimo e Sofia_ diviso in più giornate, che si conserva manoscritto nella libreria dei frati di San Marco di Firenze, il quale io confesso di non avere mai letto. La tradizione ci attesta, ed è di leggieri credibile, che fra' Pacifico per costumi severi e carità di opere lasciasse rinomanza di santo: rassegnato ed umile, come colui che, pigliando a combattere una potenza immane, presentiva la lunga contesa e i danni delle battaglie; avventato poi ed acceso, come quegli che presente del pari il futuro trionfo della sua fede. Gli uomini, massime giovani, vaghi di sapere le vicende del mondo assai volentieri frequentavano il convento di San Romano dove fra' Pacifico, dopo avere appagato la curiosità loro, li metteva sopra la strada di ragionare su le romane enormezze e detestarle, non anco eretici, ma ormai non più cattolici. Francesco dal dire e più dal fare dello zio frate pigliava norma a pensare ed esempio per sostenere con costanza i propri propositi; gli ebbe riverenza come a maestro, affetto di figliuolo, e quando fra Pacifico nel 1519 chiuse gli occhi alla vita, egli se ne stette lungamente come cosa balorda nè pareva se ne potesse consolare. Quanti scrissero la vita di Francesco, e sono parecchi, comechè la più parte giacciano manoscritte nelle biblioteche di Lucca, si accordano a descriverlo di bella persona, ottimo parlatore, vivace, nel motteggiare arguto, pieno di sentenze, _d'indole repubblicante_, donatore del suo, studioso a non offendere, diligente a farsi perdonare la offesa, per natura e per arte dispostissimo a guadagnarsi la benevolenza altrui, lento a meditare i disegni, nel proseguirli tenace, nello adempirli fulmine: della fama oltre il dovere (se questo può dirsi) innamorato, perchè nè cura di sè e dei suoi nè di sostanza nè di nulla lo potesse reggere tanto che non si avventasse precipitoso a conquistarla. Di ventisette anni tolse in moglie Caterina figlia di Federigo Trenta già morto; nobili entrambi, anzi la Caterina dal lato della madre, che fu Caterina Calandrini, procedeva nientemeno che dal papa Nicolò V; nè si sa che ricevesse dote, almeno dal contratto di nozze non comparisce,[8] procrearono insieme dodici figliuoli, sette maschi e cinque femmine, di cui a suo tempo riferiremo le fortune e la vita. Quasi giovanetto Francesco prese ad esercitarsi nelle magistrature, sicchè appena trentenne fu anziano; nel 1529 lo elessero deputato insieme con Girolamo da Portico al principe Oranges al campo sotto Firenze perchè le sue milizie osservassero i confini della Repubblica e dovendo pure traversare la campagna si astenessero da fare danno; nel 1530 poi andò ambasciatore insieme a Gherardo Macarini a Carlo V per congratularsi della vittoria del suo esercito contro la Repubblica di Firenze, e con qual cuore adempisse cotesto carico ognuno sel pensi; nel 1533 lo promossero a gonfaloniere pei mesi di gennaio e di febbraio; nè mai da quel tempo in poi si rimase senza essere adoperato. Gli onori e gli oneri pubblici non cercò, quelli che gli vennero compartiti accolse[9]; uno solo si diede con infinita diligenza a sollecitare e l'ottenne, come quello che si attagliava ai suoi occulti disegni, e fu il commissariato delle milizie della montagna; intorno al quale ufficio importa sapere come la Repubblica di Lucca in mezzo a tre repubbliche, Pisa, Genova e Firenze, tutte più potenti di lei e tutte cupide di allargarsi a danno della meno forte, stava a buona guardia, e se consideri la piccolezza sua stupendamente apparecchiata su le armi. Sei cittadini tenevano lo ufficio della munizione, di cui era perpetua cura che nei magazzini pubblici si conservassero tanti grani e altre biade che ai casi ordinari non solo, bensì anco agli straordinari sopperissero; ed altri sei andavano preposti allo uffizio delle armi, i quali attendevano alla provvista della munizione da guerra, alle artiglierie ed alle altre armi così da fuoco come da taglio, e per attestato del Baroni si ha che nell'armeria se ne custodissero sempre in copia bastevole per trentamila soldati. La città tanto pei fini della difesa quanto per gli altri che ai giorni nostri si chiamano amministrativi e politici andava divisa in terrieri, e ognuno di questi in quattro gonfaloni o stendardi, i quali a loro posta avevano sotto di sè quattro pennoni o caporali, e così in tutto quarantotto pennoni e dodici gonfaloni. La bandiera usavano comune, bianca e rossa, di seta, se non che ciascheduna portava per arroto in mezzo certo segno proprio del suo gonfalone; San Paolino, ch'era il terziero dei Burlamacchi, nel primo gonfalone faceva il segno della Sirena, e però anco i Burlamacchi (e fu avvertito) usavano di questa immagine per cimiero su l'elmo, come si può osservare in molte armi antiche di cotesta famiglia; i quattro pennoni che sotto il gonfalone della Sirena si riunivano avevano nome San Masseo, Santa Maria Cortelandinghi, San Giorgio e San Tomeo. Ad ogni gonfalone era assegnata una parte dei baluardi perchè la vigilasse e la difendesse, e su i cantoni di ogni strada occorrevano segnati i nomi sia del baluardo, sia del gonfalone preposto a difenderlo, per guisa che al rintocco della campana che sonava _accorruomo_ seimila uomini potevano trovarsi in assetto di difendere la muraglia. Nè meno solleciti accadevano l'avviso alle milizie del contado e lo assembrarsi di lei alla custodia delle torri sparse qua e là per la campagna, chè dalla gran torre del palazzo di giorno si facevano le fumate, e durante la notte il segno si dava con le fiammate: le milizie di tutto lo stato sommavano a meglio di ventimila uomini ottimamente ordinati da uffiziali di buon nome, i quali tiravano il soldo dalla Repubblica. Trovandosi pertanto comandante generale di tutte le milizie lucchesi Giovambattista Boccella, personaggio di molta autorità in casa sua, propose al consiglio della Repubblica che, avendosi a nominare i tre commissari delle battaglie del contado, uno fisso e gli altri due a tempo, per commessario fisso si eleggesse Francesco Burlamacchi, e di leggieri fu vinto; molto a cagione del concetto di uomo capace e zelatore del bene pubblico in cui lo teneva l'universale, e molto eziandio per la ressa grande che Francesco ne fece tanto presso il Boccella quanto presso i singoli cittadini componenti il consiglio; però non è consentaneo al vero quello che occorre in parecchi scrittori, voglio dire che Francesco si lesse a procacciarsi a tutt'uomo questo ufficio in prossimità del tempo in cui sinistrò la sua impresa, imperciocchè egli l'occupasse fino dal 1535 insieme con Gherardo Penitesi, al quale fu confidato il presidio del passo al Ponte di San Pietro, mentre il Burlamacchi prese a difendere la frontiera dalla parte di Nozzano; del terzo commissario ignorasi il nome, solo si conosce che le altre ordinanze stanziavano ai ponti di Moriano, dei Colli e di Camaiore; e nè manco sembra vero che tutte queste battaglie sommassero a duemila fanti; il Dalli, che lo poteva sapere, ci avverte che arrivavano fino a sei mila, tutta buona e cappata gente.[10] Di certo il Burlamacchi per la molta sufficienza sua si acquistò il primato sopra non solo i compagni, ma altresì sopra il suo superiore comandante generale, per modo che a lui deferivano: di vero egli non ometteva veruna di quelle cose che fanno il capitano amato e temuto, grazioso con tutti, vigile custode della disciplina, giusto ad un punto e severo, più con lo esempio che col comando ordinatore ai soldati, facile a rendere servizio, pronto a sovvenire del proprio, onde in casa i suoi lo riprendevano spesso di questa soverchia liberalità, e non è dubbio alcuno che in ciò spendesse con detrimento delle proprie sostanze.[11] Questo è quanto sottilmente ricercando abbiamo potuto rintracciare intorno alla vita di lui fino al 1545; potevamo aggrupparci non pochi particolari, se non veri nel senso che si trovino attestati da pubbliche o da private scritture, certo verosimili, ma gli abbiamo omessi con deliberato consiglio desiderando che quanto verremo raccontando si tenga, diremo così, in concetto di religioso e di santo. Ora poi, a fine di conoscere lo ingegno dell'uomo, vuolsi indagare quale fosse lo stato della Europa e più specialmente della Italia nostra; che cosa si sperasse e si temesse, quali gli umori sia per ciò che tocca le faccende politiche, sia le religiose: dacchè giudicammo (e da questo giudizio punto ci rimoviamo) che per lodare ovvero per riprendere l'uomo che sé ed i suoi avventura ad una impresa zarosa bisogni, senza attendere l'esito, esaminare se la era a conseguirsi probabile e se proporzionata all'intelletto e alla potenza dello agente, se utile allo stato, se onesta e se giusta; imperciocchè se tutte queste cose si appuntino nella impresa, allora riuscendo a bene ne avrai lode e vantaggi, e quando venga a sinistrare, non fie per mancarti in ogni caso la lode che sempre accompagna la virtù infelice. La fortuna senza consiglio appo i sapienti nulla vale; pel volgo sì, ma di un tratto ella muta, e allora non basta nè manco all'ufficio dei panni, i quali, secondo il dettato popolesco, rifanno le stanghe; caduta la fortuna della mal pensata e disonesta impresa, null'altro ti avanza eccetto il vituperio e il pregiudizio: a questo modo Focione ateniese avendo dissuasa la guerra lamiaca, punto si commosse allo annunzio dei prosperi gesti di Leostene capitano preposto alla impresa, ed a coloro che per istraziarlo gli domandavano se avesse egli desiderato di compire coteste strepitose azioni rispondeva: «Certo sì, ma tornerei pur sempre a consigliare come feci.» E i lieti inizi si convertirono poi in tristi lutti, perchè all'ultimo la guerra andò perduta, e Leostene rimase spento; ma ciò non rileva: lo esito buono o misero nè cresce lode nè la toglie, semprechè prima di recarti addosso un gesto, tu avverta a tutte quelle cose di cui abbiamo tenuto proposito qui sopra. CAPITOLO II. Se una legge fissa governi le cose morali e politiche come le fisiche: difficoltà di rinvenirla. — Scienza politica fallacissima e perchè. — Quante volte nei suoi presagi politici sbagliasse il Machiavello; esempio solenne di giudizio errato accaduto ieri. — Burbanza e vanità delle cicalate che appellano _Filosofia della storia_; sistemi a vicenda divoransi. — Secolo XVI secolo _caposaldo_; comincia epoca nuova non anco compita: a qual patto i popoli cesserano le guerre. — Ciclo perpetuo dei medesimi eventi presagito dal Machiavello non è fatale: nuovi semi partorirono e partoriranno sempre nuovi frutti. — Speranza e pazienza veraci angioli custodi della vita. — Stato di Europa nel punto della storia nostra: conquiste normanne in Inghilterra; Inglesi conquistano la Francia. — A Carlo VII succede Luigi XI che compone il reame di Francia in arnese di guerra. Prosunzione dei giudici moderni; con quali norme hassi a giudicare dei tempi e degli uomini passati. — Come la religione diventi flagello del consorzio civile: colpe del cattolicesimo pervertitore di morale e impedimento al migliorare della stirpe umana. — Luigi XI morendo non si pente, anzi crede di aver ben meritato della monarchia e di Dio. — Se Ludovico il Moro e le donne di Savoia e di Monferrato fossero unicamente cause che i Francesi calassero in Italia, e sembra di no. — Stato d'Italia per colpa dei suoi principi dispostissima ad essere invasa. — I Francesi l'avrebbero conquistata e tenuta se non era la Spagna; la quale in breve per virtù e per fortuna si costituisce in potente reame. — I reali di Spagna; consentono a starsi in mezzo neutrali perchè Carlo VIII spogli gli Aragonesi di Napoli, poi sotto pretesto di soccorerli vanno a spogliarli essi. — Dura sentenza del Prescott contro la Italia e non giusta. — Tra il re di Francia e il re di Spagna cresce l'odio per la contesa dello impero: prevale la fortuna di Carlo, ch'è assunto imperatore; Francesco I è condannato nelle spese e perde la causa. — Larghezza di stato non fa grandezza. — Lo imperatore non arriva mai a soggiogare la Francia; se ne assegnano le cause diverse interne come esterne. — Carlo V come politico sommette ogni considerazione all'interesse, pure pende per natura al beghino. La libertà di coscienza in Germania si desiderava davvero, pure serviva a colorire il fine della libertà politica. — Pace inopinata di Crespy; in apparenza la Francia ne ha il meglio; vantaggi grandi che ne cava Carlo V. — Opinioni contrarie sopra cotesta pace: anche nelle famiglie dei contraenti genera dissidi. — Misero stato d'Italia. — La Francia procura tregua, non potendo pace, fra lo imperatore e il Turco. — Carlo scarrucola Francesco, e questi non se ne vuole accorgere. — Carlo si volta intero alle cose di Germania: convoca la dieta a Vormazia per istabilire il concilio, il quale abbia a definire le questioni religiose. — _Interim_ che fosse, e quando, ed a quali fini si concedesse. — I Tedeschi cresciuti di forze repugnano a mettere in compromesso il presente loro stato: e poi non hanno sicurezza recandosi a Vormazia: salvocondotto imperiale da non se ne fidare: quando salva e quando no; perse Hus e Girolamo da Praga; difese Lutero ma perchè: parole animose di Lutero recandosi a Vormazia. — Ferdinando re dei Romani sotto apparenze sante nasconde fine scellerato pel quale convoca la dieta a Vormazia. Altri fatti donde i protestanti desumono prova di animo ostile dello imperatore contro di loro; e segnatamente dal caso dello arcivescovo di Colonia. — Si apre il concilio di Trento; con quali intenti di Carlo. — Morte di Lutero; allegrezza dei cattolici e sbigottimento dei luterani; a torto entrambi; le cose apparecchiate, protratte per necessità di tempi poco si offendono per la morte di un uomo. — Paolo papa mette le mani nel negozio dell'arcivescovo di Colonia per arruffare la matassa allo imperatore. — Lo imperatore apre la dieta a Ratisbona; i protestanti vi si presentano per via di mandatari. — Se meriti lode di astuto il contegno tenuto da Carlo in cotesta congiuntura. — Trattato dello imperatore col papa, e patti della lega: girandole di Carlo e stizza del papa che si vede rubare il mestiere. — La Germania va in fiamme: apprestansi armi a combattere. — I Veneziani dissuadono il papa di porgere aiuto allo Imperatore, e buone ragioni che ne danno, ma invano. — Tradimento di Maurizio di Sassonia a carico del suocero e del cognato. — Conchiudonsi nozze, come sempre, favorevoli a casa di Austria. — Iattanze del langravio: numero stupendo di milizie raccolte. — Dannose dimore e peggio che inutili proposte dei luterani a Carlo; il quale, montato in furore, senza consultare la dieta, gli mette al bando dello impero. — I principi mandano l'araldo a intimare la guerra contro lo imperatore ed a protestare contro il bando. — Così le armi dello impero ingaggiate in guerra piena di pericolo, ottima la occasione per tentare novità in Italia, il Burlamacchi poi uomo da volere e sapere cogliere la occasione. Forse una legge governa con ordine eternamente fisso così le fisiche come le politiche e le mortali cose; ma se riesce arduo a scoprirla nelle prime, disperato è poi nelle seconde e nelle terze; nulla fu senza grande di vita travaglio concesso ai mortali; anco la natura materiale s'inviluppa per entro veli impenetrabili, che a stento ella si lascia strappare da dosso o per grande amore che porti, o per grande violenza che altri le faccia. E lasciando la morale da parte, per toccare della politica, ti si fa manifesta la difficoltà di rintracciarne la legge da questo, che nonostante la molta scienza dei passati eventi e la molta pratica delle faccende quotidiane, male puoi presagire lo esito dei negozi prossimamente futuri, peggio i lontani, ossia perchè ti avvenga di scambiare per causa quello che insomma altro non è che effetto ossia che la sequela di ragione indotta dal giudizio vada esposta a trovarsi scompigliata da altre cause nè prevedibili nè prevedute; di questo somministrano esempi in copia le antiche e le moderne storie; il nostro Giuseppe Ferrari ci chiarisce come e quante volte s'ingannasse l'arguto ingegno di Nicolò Machiavello sia giudicando la potenza dei Medici, o le sequele della riforma, o il pericolo d'invasioni svizzere e turche in Italia, e via discorrendo: di tanti recenti ne basti uno solo a noi e d'ieri; per le superbe tumidezze francesi e per le procaccianti burbanze prussiane l'universale bandiva prossima la guerra; l'acqua è in terra, dicevano da per tutto, e pure i nugoli si sono tirati in su, ed abbiamo veduto succedere alla temuta procella una quiete torbida che salutano pace in mancanza di meglio. Ma ciò che sembra più strano a concepirsi si è, che nè manco degli eventi ormai compiti ed antichi ci riesca addurre ragione certa. Di vero s'impadronì delle storie una maniera di argomentatori, e chi tirandole da un lato, e chi dall'altro, chi sbattendole con ala che a taluno pare di aquila e ad altri di pipistrello, se ne serve di materia alle fantasie proprie o agli errori: di qui i sistemi filosofici, i quali nati appena, come i guerrieri dai denti del dragone di Cadmo, si combattono a vicenda e si uccidono: onde il secolo, che inclina al positivo, comincia a mettere passione nelle scienze fisiche da vantaggio che nelle filosofiche, nè a torto; imperciocchè nelle prime quantunque poco avanzo egli ci faccia alla giornata, pure questo poco mette da parte nel salvadanaio; così mano a mano crescendo di capitale, noi lo vediamo adesso possessore di quello stupendo patrimonio che tanti maravigliosi portati ha partorito, pure promettendone altri più mirabili ancora. Dalle metafisicherie si diparte; non già, che le odii, dacchè, agitando le braccia, se l'uomo non vola, ei fa esercizio utile all'agilità dei nervi, ma sì per questo, che al chiudere delle tende gli pare a modo del dio Odino avere perseguitato sopra le nuvole un cervo di nebbia sopra un cavallo di nebbia. Infiniti scrittori parlarono dei tempi intorno ai quali io pure mi affatico, e mirifiche cose ci escogitarono sopra: certo cotesto fu secolo caposaldo dei secoli; per lui incominciò nuovo ordine di cose, che a mio senno non è anco compito, dacchè io creda che innanzi tutto, cessate le conquiste e le sequele di quelle, bisogni che ogni popolo si costituisca gagliardo di propria potenza: allora la forza genererà il diritto, come il terrore ribadì tra tempia e tempia nell'uomo la idea di Dio; dove tu attenda giustizia dallo amore, aspetta prima mirare in branco pecore e lupi a pascere erba; e l'uomo ancora tiene del lupo più che non credi, e il civilissimo due cotanti sopra quello che i diari nostri costumano per vezzo appellare barbaro; non però di lupo, sibbene di volpe, ma bestia sempre. Quando per tanto gli universi popoli si troveranno armati di becco e di ugne, e tra sgraffio e sgraffio non ci correrà divario o poco, fatti e rifatti i conti, conosceranno come sia meglio per essi lasciarsi stare, barattarsi i frutti delle terre e le opere delle mani loro: si ameranno forse (e se senza forse, magari!) ma si rispetteranno di certo, e questo è quello che importa. Per ora non siamo a mezza via; bisogna che molte nazioni si compiano, altre che comincino a farsi: compite, si accorderanno prima per istinto, poi per ragione, all'ultimo per via di trattati, i quali niente altro faranno che ridurre in carta male ciò che avrà creato ottimamente la necessità, e i barbassori di allora, in tutto pari a quelli di ora, per avere scritto la fatale corrispondenza del genere umano reputeranno davvero di averla fatta essi. Così tenendosi per mano i popoli con più o meno celere, ma sicuro ed irrevocabile passo potranno camminare sopra la via del miglioramento umano: dacchè la storia somministri questo insegnamento solenne, che potenza ed intelletto pari creano reverenza ed emulazione, mentre sbilancio o dell'una qualità o dall'altra in un popolo a danno di un altro popolo lo spinge alla dominazione, alla ingiustizia, alla barbarie e con assidua vicenda ad essere preda del predatore: siffatto circolo fin qui agitò il mondo, e sembra che il Machiavello lo giudicasse inesorabilmente eterno: adagio, a giudicare il futuro che sta chiuso nel pugno di Dio; il Machiavello non potè immaginare quali e quanti missionari sieno dell'accordo dei popoli il telegrafo e il vapore; chi sa quante altre scintille sprizzeranno dalla pietra percossa dal ferro: noi che giovani spregiammo la Pazienza, e la Speranza, adesso vecchi propiniamo loro ogni dì nel sacrario della famiglia, votiamo loro i capi a noi dilettissimi e le salutiamo veraci angioli custodi della vita. Di Francia uscì il ferro normanno che conquistò la Inghilterra: Normanni contro Sassoni, Danesi ed Angli (dopo tante invasioni gli aborigeni _Zimry_ senza dubbio i meno) furono vipere contro vipere; dopo molte offese si persuasero che sarebbe stato più spediente per loro unirsi a danno altrui e si unirono rivoltandosi contro il nido che le aveva allevate; di qui la guerra inglese, le fiere battaglie onde stette battuta la Francia, un re inglese consacrato re di Francia a Parigi, un re di Francia prigioniero a Londra; ora poichè venga da natura che la reazione sottentri immediata all'azione, al regno di Carlo VII memorabile per codardia di re e per virtù di popolo succedeva il regno di Luigi XI; del quale fu scopo ridurre la Francia in forte e bello arnese prima per difendersi e poi per guadagnare: allora la Francia appariva un cumulo di feudi, di cui i principi spesso pari e talvolta superiori al re; fra loro o contro la monarchia senza requie combattenti; causa perpetua di subbuglio in mezzo a lei, impedimento a costituirsi gagliarda. Questo re adoprò le arti imitate dal Valentino più tardi ma con esito felice: grande lo scopo, la fortuna propizia, le vie praticate, trucissime talvolta, inique sempre: in Francia veruno lo loda, e tutti si avvantaggiano della opera di cotesto re; ipocrisia in contrasto o piuttosto d'accordo con la comodità. A parere nostro vanno errati coloro i quali credono che i casi e gli uomini dei secoli passati abbiansi a giudicare con le norme di giustizia che professiamo adesso noi; arduo del pari è stabilire se la nostra giustizia di oggi sarà giustizia domani; e comunque si pensi, chi ragiona considera i successi in corrispondenza dei tempi e con le qualità di sapere e di sentire degli uomini in mezzo ai quali cotesti eventi compironsi. Non unico Luigi diede mano ai veleni, alle mortali insidie, ai tradimenti; solo fu più avventurato degli altri; continuo allora il gioco col quale invece di una moneta si buttava all'aria una corona esclamando: _o morte, o vita_: quello che Luigi fece agli altri o emuli o parenti o fratelli, se non lo avesse fatto egli, lo facevano a lui: complice poi e instigatrice di delitti la religione: se, posti da un lato tutti i beni e dall'altro tutti i mali di cui è madre la religione fra i popoli, noi dobbiamo desiderare o no ch'ella cessi, mi asterrò decidere, ma veramente voglionsi addirittura bandire al mondo flagelli di Dio, quelle che come la cattolica nostra insegnano ad aprire un conto corrente con la coscienza dove una partita di bene compensi una partita di male, e bene si reputi la prodigalità ad alimentare l'errore e gli apostoli suoi. Nè ciò che noi da maggiore lume assistiti conosciamo assurdo ed anco sacrilegio, tale appariva a Luigi XI, il quale, pervertito lo intelletto, credeva davvero che la Madonna di Embrun ignorasse i suoi delitti, noti solo alla Madonna di Parigi; così presso a morire, narrano gli storici egli non mostrasse verun rimorso per le tante crudeltà commesse protestando averle stimate necessarie pel vantaggio della monarchia, vale a dire di sè medesimo; solo, mostrando qualche scrupolo per la morte del duca di Nemours, parve un cotal poco pentirsi di aver fatto perire questo amico della sua giovinezza. Per questa guisa convertito il reame in arnese di guerra per forza di cose era mestieri adoperarlo; i re vincere l'un l'altro con le opere della pace non sanno; figli della prepotenza, da questa in fuori non pongono fede in altro, nè la occasione a cui la cerca e può valersene manca mai, anzi ella viene da sè: affermano gli storici che le Alpi furono aperte alla Francia dalla chiamata di Ludovico Sforza e dalla insania delle due donne, che Dio faccia triste, di Savoia e del Monferrato, ed è vero; però giustizia vuole che si aggiunga che, dove si fossero opposti anco tutti gli Italiani, mal vietate le Alpi sarieno state sempre: di vero prima di voltarsi alla Italia la Francia tastò la Spagna, ma per ben due volte se ne tornò indietro da Perpignano con la testa rotta; onde, volendo fare esperimento delle proprie armi, egli era naturale, che colà le adoperasse dove ne presagiva la impressione più agevole. Il paese più atto a ciò compariva certamente la Italia. Qui unico vincolo di unione fra gli stati nuocere altrui: se taluno accennava levare il capo sopra gli altri, tutti addosso: a cotesti tempi Dio ci voleva male davvero; lo ingegno si adoperava dagli stati a ordire sottili insidie in detrimento scambievole, le forze per affliggersi a vicenda; uno prevalendo su l'altro, non seppe comporre una forte monarchia, ovvero, deposto ogni concetto di primato, costituire una lega capace di opporsi con profitto ad ogni invasione straniera: ci volea poco a prognosticare che questo mosaico di frammenti non legati insieme, anzi discordi, ad ogni più leggiero urto sariasi scomposto; nè questo ignoravano i Francesi, i quali però, chiamati o no, io credo che sarebbero calati dall'Alpi; il consiglio perverso dello Sforza accelerò forse e agevolò la impresa, ma la sua origine hassi a derivare dalla necessità delle cose: e la Francia di certo avrebbe vinto, nonostante il precipitoso retrogradare di Carlo VIII, il quale non ha paragone che con la ruina del suo spingersi innanzi, se frattanto non sorgeva una potenza la quale non pure valse a tenerla in cervello, ma più volte la ridusse a un pelo di andare sbrizzata come tazza di porcellana caduta per terra. Questa potenza è la Spagna; divisa in più regni, lacerata dalle fazioni, re in guerra fra loro, baroni in guerra contro i re e contro il popolo; popolo combattente contro tutti; Saracini in casa ormai radicati; occupanti le più belle provincie che essi felicitavano con le arti, co' commerci, con la cultura ed anco co' costumi ad un punto eroici e gentili: pareva non solo strano, ma impossibile che in simili condizioni la Spagna mai si conducesse a formarsi in istato grande: e tuttavia fortuna e senno operarono siffatto portento nel giro di pochi anni. Col matrimonio di Ferdinando e d'Isabella i due regni sparirono; la guerra contro i Mori, oltre ad affrancare lo stato dalla presenza dello straniero, il quale quanto più vuoi industre e cortese, tuttavia straniero era e causa perpetua di umiliazione e di debolezza, giovò a ricondurre i baroni al guinzaglio e, rinforzati gli ordini del governo, a scemare l'anarchia dei comuni: quindi si accese la febbre delle scoperte, onde l'ardimento degli uomini toccò il sopranaturale, e le ricchezze rapite somministrarono abilità di ammannire armi e di soldare milizie; per ultimo le nozze di Giovanna con Filippo il Bello di Austria recarono sul capo del figlio Carlo il retaggio di Austria, della massima parte della duchea di Borgogna e la speranza della corona imperiale. Ormai la Francia e la Spagna sono salite in grado che, possedendo entrambi orgoglio sterminato e modo di appagarlo, forza è che fra loro contendano: signoria non pate compagnia; per venire in cozzo la casa regnante di Napoli sbattacchiata dalla bufera francese era spagnuola e congiunta dei reali di Spagna; adesso nè manco a fabbricarselo da sè poteva occorrere più santo o più giusto pretesto per pigliare parte a coteste guerre e spogliare i parenti dei loro stati, quanto quello di accorrere a difenderli per impedire che altri ne li spogliasse: vero è bene che Ferdinando e Isabella col trattato di Barcellona aveva pattuito con Carlo VIII, che, mediante la restituzione della Cerdagna e del Rossiglione già ipotecati a Luigi XI, di lasciare in balìa di lui amici e parenti, ma simili contradizioni le sono rifioriture nella politica degli stati e poi ormai la Cerdagna e il Rossiglione erano stati restituiti, e l'appetito viene mangiando. Una sentenza dura occorre nella storia di Ferdinando e d'Isabella dello americano Prescott a carico della Italia, ma come dura non del pari giusta; di fatto egli afferma: la Italia in cotesti tempi scuola magna della infame politica così astuta come vile, fraudolenta ad un punto e sfrontata, onde gli uomini del tempo si mostrano turpi di macchie che per età non si lavano; ma nè Ferdinando di Aragona nè Luigi XI avevano mestieri imparare in Italia, essi erano abbastanza matricolati da loro, e lice a noi dubitare se con altre norme si governino adesso gli stati in sostanza, quantunque il linguaggio sia del tutto mutato e ci si faccia un grande consumo anzi scialacquo di umanità. La fortuna delle armi non arrise ai Francesi, per cui ogni dì si fece più aspra emulazione fra la Spagna e la Francia, la quale giunse al culmine quando comparvero sopra la scena del mondo Carlo V e Francesco I a contendere dello impero: giovani entrambi, entrambi cupidissimi, eredi delle tradizioni dei loro antenati, forse spinti dalla necessità, la quale sebbene composta di argomenti artifiziati urge tuttavia come natura: l'uno e l'altro smanioso della monarchia universale di Carlo Magno, che quegli pretendeva francese, e questi tedesco. Anco nella contesa dello impero prevalse la fortuna di Carlo e fu salutato imperatore. Francesco ci spese attorno una grossa moneta, ma gli elettori si tennero gli scudi, non diedero i voti, e Francesco rimase condannato nelle spese. Senza timore di sentirci smentiti affermiamo la vita di questi due potenti essere stata un perpetuo duello per la dominazione del mondo, e a Carlo parve prossimo il tempo di porre la mano sul dominio del mondo, poichè alla Spagna, al regno di Napoli, al ducato di Milano, alla Borgogna, ai Paesi Bassi, all'Austria, all'Africa in parte e all'America ora si aggiunse l'essere capo dello impero, e collegati con lui da un lato i principi germanici, dall'altro i diversi stati italiani. Ma larghezza non fa grandezza; chi troppo abbraccia meno stringe, un po' perchè la forza manca, e un po' perchè la materia discorde e fra sè pugnace non si lascia agguantare: molte le vittorie riportate da Carlo ed anco dal figliuolo Filippo contro la Francia, e nondimanco riuscì loro impossibile soggiogarla, talvolta invasero le provincie francesi o vuoi dalla parte d'Italia o vuoi dalla parte di Borgogna, ma quindi ebbero sempre a sostare, e ad accordarsi; e ciò perchè quanto più s'inoltravano e più occorrevano in duri intoppi, quali sono la guerra popolesca, la diffalta dei viveri, la desolazione, lo incendio: i danari mancavano, però il bisbiglio sommesso poi il ribellarsi riottoso della milizia condotta al soldo, le malattie ed altri che non si narrano guai: a non ritrarsene correvano il rischio del tarlo che si ammanisce il sepolcro nel buco che scava. Aggiungi due flagelli che minacciavano del continuo lo impero, i Turchi e i luterani. Formidabili i primi, di tratto in tratto con danno pari allo spavento invadevano la Ungheria e minacciavano Vienna, sicchè sul più bello bisognava lasciare in asso le imprese e correre a rintuzzarli se non si voleva che il Turco allagasse in Europa; questo per di fuori, dentro limava l'autorità imperiale la setta luterana; e se si affermasse che a Carlo poco calessero le faccende della religione, non si direbbe il vero; devotissimo cattolico egli era, di ogni pratica osservante; non passava giorno che non assistesse ad una messa, qualche volta a due; si comunicava tutte le feste capitali dell'anno; almanco un'ora il giorno meditava sopra i misteri della fede: può darsi che il diavolo sovente lo tentasse intorbidando le pure linfe della sua devozione con qualche immagine di futuro acquisto, ma la buona volontà ci era; e tutto ciò senza pregiudizio di tenere in carcere papa Clemente VII, di chiudere un'occhio perchè ammazzassero il figliuolo di Paolo II, di minacciare il cardinale di San Marcello, che poi fu papa Marcello I, di farlo buttare nell'Adige se non si rimaneva da sobillare i padri del concilio perchè piantassero Trento, con altre cosiffatte dolcezze. Oltre pertanto quest'odio feroce di beghino, lui moveva con ispinta se non più veemente almeno pari la paura che i luterani sotto pretesto di libertà religiosa gli scalzassero il trono: nè oggimai questo punto rimaneva dubbio, nonostante le proteste e le dichiarazioni in contrario di Lutero e de' suoi, le quali in simili congiunture sempre si fanno, non si credono mai, e tuttavia sempre si rifanno; onde, l'eresie ogni giorno più impigliandosi in Germania, crescea per Carlo la necessità della guerra germanica, se pure non volesse sopportare con pazienza che l'autorità imperiale illanguidisse, e con essa mancasse la suggezione delle provincie dell'Austria: e tuttavia Carlo si trovava travolto nella più acerba guerra che avesse mai assunto con la Francia; nè le lusinghe per continuare mancavano; facile come sempre la prima impressione in cotesto paese, arduo inoltrarsi. San Desiderio ei prese, ma per inganno non per virtù: la stagione iemale gli stava addosso; l'annona scarsa, l'erario vuoto, l'esercito in procinto di ammotinarsi; male da questo lato, peggio dall'altro tanto che Francesco scorato esclamava: «O mio Dio come mi fai pagare cara questa corona che sperava tu mi avessi conceduta senza spine!» e ormai ai voleri del destino si rassegnava; però ognuno dei combattenti, secondochè succede, sapeva in qual punto lo affliggesse la scarpa; onde di un tratto ne surse la più strana pace, quella di Crepy, che mai si fosse vista: per essa la Francia ottenne vinta quello che appena le sarebbe stato lecito sperare vittoriosa; le conquiste fatte da entrambe le parti si restituissero; Carlo accordasse per moglie al duca di Orléans o la figlia propria o quella di Ferdinando suo germano; se la figlia, portasse in dote i Paesi Bassi, se la nipote, il ducato di Milano; con altri più patti che al nostro assunto non preme ricordare; però lo imperatore, astutissimo uomo, in virtù di cotesta pace ottenne in prima la sicurezza che non lo avrebbe il re di Francia molestato pel reame di Napoli nè per le Fiandre; non soccorso il re di Navarra, quantunque congiunto, per lo appunto come aveva costumato Ferdinando il Cattolico dirimpetto al re di Napoli; e' sono tutti di razza; per ultimo o per via di pace o di tregua Francesco tolse il carico di assettarlo col Turco; dall'altro lato Carlo lasciava Francesco ad accapigliarsi con Enrico re d'Inghilterra per causa di Bologna, sicurtà di fatti assai più efficace che di parole anco giurate: nè qui finirono i vantaggi; chè in virtù di patto segreto tra loro convennero instare affinchè il concilio si radunasse, e le mutue forze mettessero insieme per isradicare la eresia, minaccia della tirannide così in Francia come in Germania. Poichè agli uomini dispiacciono o piacciono le cose secondochè loro apportarono o presumono riportarne utile o danno, così questa pace fu giusta simile stregua o celebrata o ripresa; nè fra gli strani solo, sibbene anco nelle famiglie delle parti contraenti; al delfino seppe mal di morte, onde, venuto in iscrezio col fratello D'Orléans, se ne temevano guai: sicchè quando più tardi di un tratto cotesto principe scomparve i cortigiani l'ebbero per provvidenza, volendo essi servire sì, ma servire tranquillamente. Gli stati d'Italia seguaci delle sorti di Carlo vivevano di pessima voglia presentendo scemata la propria autorità e il giorno di non lontana ruina: all'opposto i parziali di Francia aprivano la mente a superbe speranze o almeno quali era dato concepire allora alla degenerata razza latina: opprimere di seconda mano brani di popolo strappato di bocca al maggiore padrone straniero. Di fatti la Francia tanto s'innamorò di cotesta pace che si mise coll'arco del dosso a negoziare l'accordo fra lo imperatore e il Turco, nè questo potendo ottenere, strappò una tregua, di un'anno prima, poi di cinque. Chiunque non avesse perduto il bene dello intelletto avrebbe conosciuto espresso che Carlo scarrucolava Francesco: tuttavia questi non se ne voleva accorgere; quello che gli talentava doveva essere, e i cortigiani tacevano: non si ha a sturbare il sire, nè pure coll'annunziargli la necessità suprema della morte imminente; però quasi sempre gli casca addosso come il nibbio che abbia chiuse le ale. Al nostro assunto non preme riferire il diuturno inganno; basti solo che la Francia alle ingiurie austriache quando potè non seppe o non volle apportare riparo, quando poi o volle o seppe ella non potè. — Carlo, assettatesi a questo modo le cose dintorno, prese ad attendere alle faccende di Germania come uomo che vuole venirne al chiaro; e davvero n'era tempo, perchè lo indugio pigliava vizio, e di che tinta! Cesare aveva convocato la dieta a Vormazia con questo intendimento, che quivi si deliberasse la necessità di un concilio dove si avessero a definire le quistioni religiose, e poi al giudicato si stesse; che insomma era lo adempimento di quello che due anni prima fu stabilito alla dieta di Spira: ma da ora a quel tempo gran tratto ci correva; imperciocchè allora facendo mestieri a cesare tenere quieta la Germania, anzi cavarne sussidi per la guerra contro la Francia, con editto imperiale aveva conceduto che fra tanto e finchè il concilio si convocasse i protestanti senza molestia la religione loro liberamente professassero; la quale concessione appellarono _Interim_, che appunto nello idioma latino suona _frattanto_. Ai protestanti, che allora non si sentivano abbastanza gagliardi, non parve vero quel po' di respiro, e non istettero a guardarla tanto pel sottile: adesso poi, sentendosi forti da sostenere l'assunto repugnavano mettere ogni cosa in compromesso, considerando come Carlo non avesse più bisogno di piaggiarli, all'opposto mirasse a finirli, e come nonostante i passati e i recenti rancori ei si fosse accontato col papa ai danni loro, nè si sapesse se il concilio da Trento in qualche città germanica si trasportasse, e pareva che no, dacchè dopo il primo scalpore mosso da cesare per siffatta decisione del papa, ei se n'era rimasto cheto, onde a molti era entrato in sospetto che cotesti formicoloni di sorbo facessero le forche. In fine convocato il concilio l'_Interim_ veniva a cessare: per le quali cose tutte dal concilio rifuggivano come il can dalla mazza; e avevano ragione da vendere, imperciocchè a Giovanni Hus il salvocondotto imperiale tanto non gli fece scudo che i padri del concilio di Costanza non lo pigliassero e ardessero; bene il medesimo salvocondotto salvò Lutero quando si commise alla dieta di Vormazia, ma, oltrechè il salvocondotto di Lutero fosse garantito da tutti i principi germanici i nuovi convocati non si sentivano dell'umore di lui, il quale dissuaso dall'andare coll'esempio di Giovanni Hus e di Girolamo da Praga rispose incollerito: «Levatemivi dinanzi, che io ci vo compire ad ogni modo, quando anco ci avessi a trovare tanti diavoli quante sono le tegole sopra le case.» E poi in conchiusione, quando pure volessero correre rischio del salvocondotto imperiale ora tutela, ed ora insidia, Ferdinando fratello di cesare che faceva per lui, di dare sicurezza non voleva saperne, onde si rendeva manifesto, ch'essi andavano a mettersi addirittura in bocca al lupo. Ferdinando secondo l'usanza vecchia e rinnovata sempre da cotesti messeri, e quello che maraviglia di più, creduta sempre dagli uomini, i quali nonostante perfidiano a volere essere chiamati animali ragionevoli, dava apparenza onesta, anzi santa, a fini fraudolenti, e diceva: il Turco stare sul collo alla Germania, sbrigatosi della guerra persica tornerebbe più terribile che mai ai danni dei cristiani: durante la brevissima tregua aversi a provvedere arme ed armati per dare buon recapito a questo flagello di Dio: alla necessaria concordia per conseguire tanto fine fare ostacolo le dissidenze religiose, difficili a comprendersi, impossibili a definirsi, cagione di guai interminabili a disputarsi: qui più che altrove essere mestieri che un consesso augusto quanto autorevole dichiarasse le norme a cui i cristiani tutti avessero a stare, ed a quelle si stesse; però finchè i Turchi non fossero dispersi, ciò si mettesse da parte; ne parleremo a causa vinta. — I papisti che sapevano o indovinavano la ragia esclamavano; «perfettamente;» ma i protestanti di contrasto: «No davvero, prima andiamo d'accordo, e poi saremo con voi: patti chiari amicizia lunga:» alla meno trista si stabilisca subito una dieta, e finchè non vi si decidano gli screzi sia prolungato l'_Interim_; bene inteso però, che la si dovesse tenere in qualche città dello impero, nè il papa la convocasse, molto meno la presiedesse egli, giudice e parte. — Da un lato l'imperatore puntò i piedi, i protestanti dall'altro i piedi e le corna; la ragione più da questa parte che da quella; la pertinacia pari in entrambe; si sciupò tempo; parole a fusone, e, come di ordinario accade, non conchiusero nulla. Egli è da credersi che i protestanti avrebbono lasciato passare tre pani per coppia se lo imperatore col mutare dei tempi non avesse mutato animo dandolo a divedere troppo apertamente, ma ora premendo a costui lusingare il papa contro i Protestanti schizzava veleno: più di ogni altro valse a metterli in sospetto il caso dell'arcivescovo di Colonia: questi, insigne per pietà e per dottrina illustre, prese a tedio i romani errori, si piacque propagare nella sua diocesi le credenze dei protestanti giovandolo in questo zelantissimi coadiutori Melantone e Bucero, i quali trovarono non che atto il terreno, disposto; nemici solo ed infesti i canonici della cattedrale, nè già per amore di dogmi, bensì per moltissimo amore delle dignità e delle comodità loro, i quali, subodorato il vento e conosciutolo favorevole, si appellarono al papa come superiore chiesastico, allo imperatore come superiore civile; questi senza dare tempo al tempo, timoroso che il papa non gli preoccupasse il sentiero, tosto da Vormazia, dove allora si tratteneva, mandò un decreto ai canonici perchè vigilassero la fede della chiesa di Colonia e bandissero ribelle chiunque le contraffacesse, allo arcivescovo perchè dentro trenta giorni si presentasse a Brusselle per iscolparsi delle accuse messegli addosso. Oltre questo esempio, spaventavano i novatori la persecuzione dei loro correligionari nei Paesi Bassi, il divieto di salire sul pulpito ai predicatori protestanti a Vormazia, la balìa ai cattolici di tirare a palle rosse dalle bigonce e dagli altari contro i luterani. Intanto si apriva il concilio di Trento; e lo imperatore, da quello svelto ch'egli era, voleva menare il cane per l'aia per pigliare tempo a compire gli armamenti e al punto stesso tranquillare i protestanti per coglierli alla sprovvista, e quando pure si avessero a mettere subito le mani in pasta, si cominciasse dalla riforma dei costumi e degli abusi della Chiesa: ai dogmi si penserebbe più tardi: accetta ai protestanti la riforma dei costumi, era agevole prevedere che nella trattativa dei dogmi sarebbesi incontrato l'osso. Il papa dal canto suo strologava per cavare il concilio da Trento, o se questo non poteva conseguirsi indilatamente, si definissero gli articoli della fede. Nonostante però quel fare alle braccia fra imperatore e papa, o per cacciarsi sotto l'emulo o non esservi cacciato, insieme poi ordivano fitto contro il comune nemico; in questa moriva Lutero, i cattolici ne menano gazzarra, i luterani si accosciano, e a torto entrambi: le necessità dei tempi si creano mano a mano come l'orologiaro fa l'orologio; compito ch'ei sia, rimarrà eternamente fermo se taluno non dia impulso al pendolo; all'orologio del tempo chi dia lo impulso non manca, imperciocchè per uno dei moventi che caschi ne subentrano dieci; e non lo trattiene scapito espresso anzi neppure la morte: quindi erra chi pensa che creasse il moto colui che si trovò a imprimergli l'ultima spinta; antichissima la materia del luteranesimo, Arnaldo, Savonarola, Giovanni Hus, Girolamo da Praga ed altri parecchi lo avevano ammannito, ma non ne vennero a capo, e per poco la fiamma che arse i corpi loro non ne abbruciò la memoria; a Lutero arrise la fortuna, però da lui si noma la riforma: da tutto questo se ne inferisce che la cosa messa su lo sdrucciolo per via va senza mestiere che uomo la spinga dietro; quindi la riforma procedè senza Lutero, come Lutero, caso mai avesse mutato partito, non avrebbe potuto farla stornare un'oncia: chi desta lo incendio non può spegnerlo poi. Tuttavia il moto sarebbesi rallentato, o per indole della gente alemanna naturalmente gingillona, o per le bindolerie dello imperatore, maestro insigne di queste, se la troppa garosità della corte non fosse venuta a sbraciare il fuoco e ciò accadde perchè, deferita a Roma la causa dello arcivescovo di Colonia, al papa non parve vero di cogliere il destro per ostentare autorità, e quindi di punto in bianco, postergati i consigli, tenuti in non cale gli avvertimenti, ecco emana una bolla che lo spoglia delle dignità ecclesiastiche e, previa la consueta scomunica, scioglie i sudditi dal giuramento di obbedienza a cui erano tenuti. I protestanti s'inalberarono: temendo ognuno per sè, si rinforzò la concordia; tanto più veementi adesso quanto prima avevano ciondolato; al timore del danno si arroge la stizza di vedersi giuntati. Con tali auspicii si apriva la dieta dello impero a Ratisbona: ci convennero i principi alemanni parziali a cesare, i protestanti se ne tennero lontani mandandovi in vece loro procuratori a rappresentarli: pretesto per non andare le soverchie spese a cui non potevano sopperire stante le angustie dei tempi, causa vera la paura di essere presi pel collo. Dicono che lo imperatore alla dieta di Ratisbona dimostrasse arguzia straordinaria, conciossiachè, invece di scuoprire i propri concetti, li tenesse con bell'arte celati, invitando i principi raccolti a palesare quello che sentissero e volessero, lui chiamarsi parato ad eseguire quello che a loro fosse piaciuto deliberare; a me sembra che questi sieno ganci diritti, dacchè ogni uomo si accorse che la proposta dello imperatore ai principi cattolici rassomigliava alla domanda dell'ospite all'oste: se ha buono il vino; pertanto ad una voce sentenziarono a quanto sarebbe per giudicare il concilio di Trento sacrosanto si avesse a piegare il capo sotto pena di sentirselo tagliare. Molto meno poi si comprende questa astuzia a che cosa approdasse quando ei subito dopo spedì per le poste il cardinale di Trento a Roma per sollecitare gli aiuti del papa, chiamò milizie dai Paesi Bassi, concesse a Giovanni e ad Alberto di Brandeburgo di levarsi in armi per cavare, se loro riusciva, Enrico di Brunswich dal carcere del langravio di Assia tenuto in conto di capo della lega di Smalcalda: sovente si annaspa per non perdere il vezzo di annaspare, e tale loda un atto nello imperatore che nel plebeo flagellerebbe a sangue. I rappresentanti si fecero a trovare Carlo per essere chiariti sopra gl'intendimenti suoi, ed essi domandando erano più che persuasi non ne avrebbero spillato niente che valesse; lo imperatore, rispondendo, fermo ad agguindolarli, se poteva: tempo perso e che tuttavia si perde: forse perchè l'uomo, non potendo esercitarsi nella lealtà, si trastulla volentieri con le apparenze di quella. Stretti col papa i patti della lega, depositati i danari pei sussidi su banchi di Venezia, convenuto il numero e la qualità dello esercito ausiliario, accordati i capitani, distribuite indulgenze, messe in pronto le scomuniche, promesso che per sei mesi non si facesse pace, e dopo i sei mesi in verun modo senza il consenso del papa si conchiudesse; bene fra loro detto e ridetto e replicato poi scopi della guerra essere due o, per dire meglio, uno distinto in due atti cioè il primo estinguere il veleno dell'eresia, il secondo spartirsi le spoglie degli eretici; uno non si era mai fidato meno dell'altro, però lo imperatore, bugiardo più di due re, bandiva essere trascinato alla guerra pei capelli, non già per causa religiosa, Dio guardi! sacre le coscienze, credesse ognuno come meglio gli talentasse, solo volere richiamare all'osservanza dell'autorità imperiale alcuni tracotanti che se la mettevano sotto i piedi; ciò essere non pure suo diritto, ma obbligo espresso; diversamente, cessato o rilassato il vincolo della confederazione, anarchia dentro, debolezza fuori. Queste cose dava ad intendere Carlo come il pescatore gitta le reti: se chiappano, chiappano; e pel fine di riuscire, potendo, a mettere le male biette fra i protestanti, ed anco secondo le contingenze piantare il papa ed accomodarsi con loro. Il papa stizzito perchè Carlo la trinciasse da furbo _in capite_, mentre questo posto pretendeva egli (e a diritto, imperciocchè dove lo imperatore volesse per sè il primato delle armi e delle frodi, o che restava al papa?) spiffera tutto l'accordo della lega facendo toccare con mano come lo imperatore mentisse, e scopo principale della lega consistesse nella persecuzione a morte degli eretici: tuttavia chi pensasse che a questo modo il papa procedesse per pura stizza si apporrebbe male, forse la collera non era se non colore per coprire il concetto di rompere il ponte tra i protestanti e lo imperatore, talchè ogni via di accordo fra loro rimanesse almeno per certo tempo irrevocabilmente chiusa. Questi tiri papeschi fruttarono da un lato la presagita rottura, ma dall'altro eziandio augumento di forze ai nemici, imperciocchè svegliatisi proprio su l'orlo del precipizio si assembrassero ad Ulma per provvedere alla necessità della guerra: presto andava la Germania in fiamme: le chiese, le cattedre, i fori, e le campagne echeggiavano del grido popolesco (il quale se durasse quanto è potente, non continuerebbe a strascinare la sua catena il mondo) _Patria_ e _Libertà_; si arrolano soldati, si muniscono terre, si mandano oratori agli Svizzeri ed ai Veneziani per averli confederati, alla peggio amici coperti o neutrali. I Veneziani scaltriti ricevono gli oratori a braccia quadre, e subito si mettono a zelare gl'interessi dei protestanti con inestimabile ardore: cotesti buoni Alemanni maravigliavansi possedere nei veneziani senatori così sviscerati fratelli; il fatto era che i Veneziani, aborrendo cotesta guerra come pericolosa alla Repubblica e alla Italia, ragionavano così: se cesare vince, mangia il papa e noi; se perde, questi bestioni di luterani inondano la Italia per vendicarsi del papa, e a tutti i principi italiani tocca a pagare i cocci. Per queste cose non mancarono di farne ufficio col papa per parole e per lettere, ma senza pro, essendo ormai tratti i dadi. I pelaghi di Carlo nella massima parte scorbacchiati qualche cosa fruttarono sempre; se gli si smagliò in parte la rete, fu merito del papa, e se la legò al dito: i principi brandeburghesi di Bareit e di Aaspak pertanto lasciaronsi pigliare; Maurizio di Sassonia per non parere pattuì con Ferdinando re dei Romani che si sarebbe mantenuto neutrale di mezzo finchè l'elettore Giovanfederigo non dichiarasse la guerra allo imperatore; in questa riuniranno le armi, ed assalito e vinto lo elettore, terranno lo stato ai suoi aderenti ed a lui, poi di santo accordo se lo divideranno: consiglio iniquo che partorì pessimi frutti a Maurizio, però che chi comincia il conto con la cupidità ordinariamente lo salda col danno. Cesare si valse eziandio delle nozze, profittevoli sempre alla casa di Austria; di due sue nepoti una allogò in casa di Baviera, l'altra in quella del duca di Cleves; vero è che questa era stata promessa al principe di Navarra, ma l'interesse scioglie bene altri nodi che questi non sono. Di giorno in giorno crescono le offese. Il langravio Filippo, foggia di Aiace germanico di forma gigante, armato da capo a piedi di piastra e di maglia, andava iattando bastargli l'animo dentro tre mesi rincacciare lo imperatore fuori dei confini germanici; insieme uniti i principi collegati mandano intorno un bando: veruno si attenti pigliare soldo sotto principe che il proprio naturale non sia; la sentenza di cesare contro l'arcivescovo di Colonia (della bolla papale non si parla nè manco) dichiarano irrita, nulla e come non avvenuta; straziano di scede la corte romana e il vescovo di Augusta e, meglio di tutto questo, fanno massa di gente in Augusta e in Ulma: maravigliosi il numero delle milizie accorse e le cause tanto diverse che le mossero ad assembrarsi sotto le bandiere dei protestanti; il vincolo dei vassalli ai baroni tuttavia gagliardo in Germania, l'esercizio lungo nelle armi avendo da quasi mezzo secolo combattuto ora dalla parte di Francia ed ora di Austria secondochè la passione agitava o l'interesse persuadeva, la pace di Francia con l'Inghilterra conchiusa in cotesti giorni, per la quale di parecchi soldati, i quali dal menare le mani in fuori altro non sanno fare, stavano disperati a qual santo votarsi; ci era poi dove più dove meno la rabbia religiosa, che ubbriaca più trista del vino assai: per ultimo il naturale istinto dell'uomo, che lo spinge a ribellarsi contro la forza, finchè non arrivi il tempo, e arriverà tardi, dove da un lato l'amore, dall'altro la conoscenza compartiranno alla persuasione l'autorità che adesso usurpa la forza congiunta con la frode, o no: insomma corre fama che nel giro di pochi giorni si radunassero 70000 fanti, 15000 cavalli, centoventi pezzi di artiglierie, ottocento cariaggi di munizioni, ottomila somieri, seimila guastatori: il più bello e fiorito esercito che fosse stato riunito fin lì, e bada che lo avevano posto insieme i soli principi di Sassonia, Assia, Vurtemberga, Analto e le città imperiali Augusta Ulma e Strasburgo. Se i collegati, rotti gl'indugi, avessero di subito assalito lo imperatore rinchiuso in Ratisbona città luterana, epperò tentennante, con soli attorno tremila Spagnuoli e cinquecento Tedeschi, non ha dubbio che lo avrebbero facilmente oppresso; e tuttavia nol fecero o perchè tardi per natura, o perchè sentissero una tal quale esitanza a percotere prima una istituzione così venerata come il sacro romano impero, o per qualunque altra causa a noi ignota. — Gingillaronsi i protestanti a scrivere certa lettera a Carlo, la quale non sarebbe stata accolta quando mai avesse contenuto proposte discrete; figurarsi se piena di enormezze come cotesta era! Chiedevano la pace generale della Germania, un concilio nazionale, e sia pure a Trento a patto che a loro sia libero andarvi o no, e si componga di padri o teologhi per metà cattolici, per metà luterani; siedano giudici lo imperatore con gli altri principi laici di Germania, ed altre più cose assai. Ghignò di rabbia Carlo al ricevimento di cotesto messaggio, conciossiachè, sebbene con parole onorate, egli insomma contenesse la proposta di renunzia alla corona, atto che per allora egli non si sentiva voglia di fare; onde contro suo solito, ordinariamente circospetto, non curando il pericolo dentro cui si versava, postergato ogni obbligo di consultare la dieta, di propria autorità metteva al bando dello impero l'elettore di Sassonia, il langravio di Assia e chiunque si accontasse con loro, i vassalli sciolti dal giuramento, chiunque avesse loro corso addosso per ammazzarli ed usurparne i beni, invece di pena, avria conseguito grazia e favori. Di rimando i protestanti spedirono al campo imperiale un araldo il quale con tutte le solennità che ordinavano i tempi gli dichiarava i principi collegati non riconoscerlo più per imperatore, e chiamare a decidere cui di loro avesse torto giudice Dio: protestare contro il bando perchè a quel modo decretato era atto tirannico e sovversivo delle libertà del corpo germanico. — Carlo accommiatò l'araldo incombenzandolo dire ai suoi signori: «simile protesta prima della battaglia non valere un bagattino, e dopo anco meno, perchè la forza legittima ogni cosa.» Pertanto la guerra era dichiarata: secondo i giudizi umani lo imperatore si credeva l'avesse dovuta perdere; in ogni caso sarebbe andata per le lunghe, ed entrambe le parti ne sarebbero rimaste offese sì che quando anche ne fosse riuscito vittorioso Carlo, per parecchio tempo non gli sarebbe rimasta balìa da levare un dito. La occasione offeriva il ciuffo a chi volesse afferrarlo: il Burlamacchi voleva e sapeva. CAPITOLO III. Condizioni d'Italia. — Paolo III e suoi concetti per ingrandire il figliuolo Pierluigi: quali i costumi di questo scellerato, nè la storia li dichiara tutti; quanti stati il padre gli procurasse e su quanti mettesse gli occhi; Milano e Napoli desiderati invano: Siena insidiata. — Con quali arti i Sacerdoti abbiano messo assieme la roba: perchè i cardinali assumessero vesti di colore vermiglio. — Andrea Doria avverso a Farnesi; se avesse cause private s'ignora, pubbliche ne aveva e quali; si espongono gli argomenti per credere che Andrea non si sarebbe opposto ad un moto inteso a liberare la Italia dagli stranieri. — Venezia fino da cotesti tempi a quale stato ridotta; politica conservatrice sa dell'etico e perchè; ragione delle repubbliche aristocratiche; durare non è vivere, e mal s'intende di che cosa sappia la lode data da Vittorio Alfieri a Venezia; anch'ella non avrebbe impedito la cacciata degl'imperiali d'Italia; solo non avrebbe mosso un dito per affrettarla. — Di Savoia non importa parlare; piccolo stato egli era e ad ogni moto ostile. — Firenze sola a sostenere la causa della democrazia; da tutti abbandonata e tradita, massime dai Francesi; poi dal Doria, da Siena e da Lucca: condizione degli animi dei Fiorentini spenta la Repubblica. — Lorenzino dei Medici a cui parve Bruto, che cosa paia a noi. — Perchè Cosimo I abbindolasse il Guicciardino. — Quale ragionevolmente lo scopo di Cosimo I dei Medici. — Pure in Firenze, Lucca e Siena bollivano umori vogliosi di novità. — Cose di Siena per mostrare come potesse favorire il moto del Burlamacchi. — Fabio Petrucci cacciato; mutazione del reggimento verso il principato per opera di Alessandro Bichi, che viene ucciso; i suoi aderenti. — Contese tra il popolo e i noveschi. — Noveschi che fossero e quanto arieggino coi moderati moderni. — Governo popolesco che pensi e che faccia. — Noveschi tentano pigliar Siena, sono ributtati. — Il Trecerchi alla porta di _Santoviene_, e donde questo nome. — Il popolo si vendica. — Caso del Bellarmati o di suprema virtù o di avarizia suprema. — I Sanesi procacciando i propri vantaggi mentre il papa e lo imperatore si versano in angustie si stimano astuti: necessità grande che avevano per andare cauti; pure screzio tra nobili e popoli circa al doversi sovvenire Firenze, e il popolo vuole. — Carlo vinta la guerra si scopre favorevole ai noveschi: invia a Siena Lopez perchè agguindoli con le frodi; non riuscendo, manda Ferrante Gonzaga onde adoperi la forza; l'adopera. I noveschi tornano a prevalere; si armano; tumulto dove il popolo si conduce in parte da esserci oppresso: questo consiglia il capitano Borghese, ma non gli danno retta, ond'ei se ne va con Dio. — Nuovo tumulto, dove i noveschi vengono abbattuti; ne arrovella il Gonzaga, minacce e pretensioni: — Ardire di Mario Bandino e di Achille Salvi. — I Sanesi attendono risoluti a difenderli. — Lo imperatore richiama il Gonzaga e il Lopez, e viene a patti. I noveschi rimangono abbassati. — Il duca Alfonso Piccolomini di Amalfi surrogato al Lopez si mangia le paghe di 300 fanti. — Noveschi più volte si adoperano ai danni del popolo, il quale avutone odore, combatte i noveschi, e non li perde a patto che, inquisita la cosa, si puniscano i rei. — Alfonso di Pietro paga per tutti. — Sorge la tirannide dei Salvi venuta su per favore di popolo, poi avversa al popolo ed a tutti. — Miseria universale. — Comparisce l'Occhino; qualità di lui. — Congiura con i Salvi; questi pigliano il dinanzi mettendo mano alle armi. — Il duca Alfonso seda il tumulto. I Salvi perdono riputazione; ricercati a seguitare le parti di Francia per danari e promesse, si lasciano corrompere: gl'imperiali scoprono il trattato; Giulio Salvi prima fa scappare il negoziatore francese, poi lo arresta e lo consegna a Cosimo duca di Toscana. — Nuovi sospetti per parte degl'Imperiali. — Il duca di Amalfi è rimosso da Siena. — Monsignore Granvela preposto alla riforma di Siena manda innanzi lo Sfondrato a scoprire marina. — Riforma del Granvela in che consistesse ed a qual fine preordinata. — I noveschi tornano a galla: cominciansi le persecuzioni contro i Salvi e i popolari, che vengono interrotte per la notizia del naufragio della flotta imperiale ad Algeri. — La balía entra in carica; sue provvisioni in parte ottime e in parte strane: se la piglia con le donne, mentre tutto il male viene dagli uomini. — Giulio Salvi scade di credito, chiamato in Fiandra è messo prigione, più tardi lo liberano: della sua prigionia come della sua libertà non se ne danno per intesi i Sanesi. — Lo Sfondrato finchè promuove i noveschi lasciasi fare; più tardi, scoperto ch'egli favorisce il papa, è licenziato. — Gli subentra don Giovanni De Luna, che pure parteggia pei noveschi. — I Farnesi molestano Siena, per interposizione dello imperatore lascianla stare. — don Giovanni con la opera dei noveschi trama insignorirsi di Siena: tracotanza dei noveschi; il Tondi novesco ammazza il Bianchino plebeo e ne sorge tumulto. — Eccitamenti a romperla; capestri appiccati agli usci delle botteghe del popolo. — Apparecchi di nozze della figlia di don Giovanni sono argomento di sospetto. — I noveschi confidano fare eleggere capitano del popolo uno di loro, ed invece esce un popolesco; lacci tesi al popolo perchè concorra alle feste, e quivi a mano salva opprimerlo; avvisato ei gli evita. — I noveschi primi a rompere la guerra; battaglia cittadina descritta; vari casi di quella. — Cosimo duca di Firenze accosta le sue bande ai confini. — Milizie del contado in città; don Giovanni fa che le bande del duca si ritirino. — I popoleschi mandano oratore al marchese del Vasto perchè tenga bene edificato lo imperatore. — Consulta popolesca intorno il da farsi: diversi pareri; prevale quello di Antonio dei Vecchi. — Noveschi cacciati dal reggimento. Don Giovanni lascia Siena e cita a comparire in corte imperiale parecchi cittadini. — Guardia spagnuola cassata. — Città ripartita in tre soli ordini. — Luna manda oratori a congratularsi in Siena. — Baldanza dei popoleschi fondata sopra gl'imbarazzi di Carlo e su la protezione del marchese del Vasto, il quale mentre sta in Vigevano su le mosse per Siena di un tratto muore; dicesi per veleno propinatogli da Cosimo dei Medici. — Per la costui morte mutano di cima in fondo le condizioni di Siena; da capo torna la pratica in mano al Granvela nemico a vita tagliata del popolo. — I noveschi di nuovo a galla. — I cittadini citati da don Giovanni a corte inesorabilmente confinati parte in Lucca e parte in Milano; il Savini confinato comunque capitano di popolo per cordoglio ne muore; i cittadini gli surrogano nell'ufficio Enea suo figliuolo venticinquenne. — La città restaurata al governo dei Quattro Monti. — Guardia spagnuola prima di 400 Spagnuoli, poi a cagione del rammarichio dei cittadini cresciuta fino a 500. — Si mulina la fabbrica di un castello. — Sanesi frementi della novella tirannide e smaniosi di gittarsela giù dal collo. Fin qui di Europa; adesso più peculiarmente d'Italia; innanzi tutti del papa. Dopo il concilio di Trento con menzogna onesta i figli dei preti appellaronsi nepoti, prima addirittura figliuoli; nè questo era il peggio, chè il maggior danno consisteva nello sbranare un lembo di stato per gittarlo sopra le spalle ignude di costoro; ai quali lembo, invece di attutire la fame, cacciava addosso la smania di arraffarne un altro; per uno, avuto in dono ne rubavano quattro; l'appetito viene mangiando; e tuttavia nè anco questo si considerava il pessimo, e pessimo veramente appariva quel buttarsi che facevano i papi in abbandono dei figliuoli quanto più rei ed infami: e tale apparve Pier Luigi Farnese figlio di Paolo III; di lui narra la storia nequissimi fatti non meno che turpi, i quali negare è vano quanto indecente ripetere, e pure sembra che qualcheduno dei più tristi ella ne taccia, imperciocchè nelle storie di Benedetto Varchi occorra scritto come il marchese Del Vasto lo cassasse con ignominia dalla milizia, nè per quanto io mi sia dato cercare, mi venne fatto scoprirne la causa. A costui pertanto, scerpandolo dal patrimonio della Chiesa, il papa diede Castro; poi instò con focosa ressa perchè lo imperatore gli concedesse il marchesato di Novara, e lo ebbe, piccolo sorso a tanta sete! Allora il papa torna a schiantare il retaggio di san Pietro, che povero e pescatore dalle reti e dalla barca in fuori altra sostanza non ebbe nel mondo, e scissene Parma e Piacenza, ne compone un ducato in prò del suo diletto Pierluigi. È noto come a questo sperpero della sostanza chiesastica si opponesse tenace il cardinale Caraffa, che, assunto papa, fece peggio di lui: ma il papa toccare questi beni in sollievo della comunità cristiana non può, può toccarli e sprofondarli in vantaggio degl'indegni congiunti: si conosce eziandio che tali donazioni non avvengono senza fingerle permute utili, ed anco si dà ad intendere che le siano proprio vendite: a turpe causa non fece mai difetto pretesto degno, massime nella curia romana; ma fin qui non nacquero le mani per contare il prezzo pagato dai figliuoli dei papi per la terra acquistata dalla Chiesa. E sempre intento Paolo ad ingrandire la famiglia, fantastica conquistare Napoli contro allo impero, poi sollecita importuno e irrequieto lo imperatore affinchè investa Pierluigi del ducato di Milano, insidia Siena; a tal fine elegge il cardinale Farnese abbate dell'abbazia delle Tre fontane su quel di Siena, meno per crescergli il censo che per mettergli in mano il filo a ingarbugliare le cose. Cotesto tramestío dei Farnesi aborrito dai principi italiani o per astio o per istudio di concorrenza o per paura: contrastavano loro Siena Cosimo e forse il marchese del Vasto, Milano Ferrante Gonzaga e Andrea Doria, donde le mortali nimicizie contro di lui, le mutue ingiurie, come esposi nella vita di Andrea, e per ultimo la parte presa dal papa nell'omicidio di Giannettino e la parte di Andrea nella strage di Pierluigi. In casa, il papa odiato perchè a sè tutto ed ai suoi a scapito dello stato; a Roma forse meno che altrove, anzi da parecchi riverito come quello che a molta gravità, alla pratica lunga dei negozi ed al sapere accoppiava la grandezza romana; nelle provincie secondo il solito esecrato, chè Bologna, Perugia, Ancona ed altre città non poche membravano nel loro segreto le violenze e i tradimenti onde tolte dal vivere o libero o autonomo erano state poste sotto al romano giogo, che solo i preti chiamano soave. Lo dissi altrove e lo ripeto qui, tentando pure che replicato venti volte gl'Italiani l'abbiano ad intendere una: narrano che i Lacedemoni costumassero in guerra paludamento vermiglio, perchè pugnando o non vedessero o si accorgessero meno del sangue e non isbigottissero; se vero, è incerto: certissimo poi che i preti elessero la porpora perchè altri non li mirasse imbrodolati del sangue dei popoli e non li maledisse. Pertanto negli stati del papa molte e vecchie e nuove le cause per desiderare novità, oltre la eterna e distinta da tutte della naturale irrequietudine dell'uomo che lo sospinge a non contentarsi mai dello stato presente; provvidenza o fato, donde la inanità dei farabulloni, i quali di tratto in tratto bandiscono chiusa l'era delle rivoluzioni: anco la morte è inizio di nuova rivoluzione. Genova o piuttosto il Doria si governava col volgare precetto, chi stà bene non si muova. Se egli avesse motivo privato di odio contro i Farnesi prima dello spoglio del retaggio del cardinale Doria che i Farnesi operarono in Roma e della complicità loro nella congiura dei Fieschi adesso non ci è dato conoscere; ma per avversarli a lui bastava che e' volessero ingrandirsi, dacchè ben'egli si adattava a servire per suo interesse un signore potente e lontano, vicino e meno potente ei lo avrebbe combattuto; non pativa emuli, molto meno superiori ricchi di superbia, non già di pecunia: ancora, Andrea Doria, mutata parte, di francese si era fatto imperiale, e Pierluigi si sapeva parzialissimo alla Francia, ossia che colà per naturale inclinazione propendesse, ossia che con essa giudicasse dare miglior ricapito ai suoi disegni, onde Andrea presentiva che di qui, se non provvedeva, gli sarebbe caduto sulle spalle qualche grosso stroppio. Non già che ad Andrea mancasse anima per maggiori concetti, ma ormai, non gli parendo possibile di meglio, si teneva contento ad essere principalissimo vassallo dello impero, padrone e guidatore delle sue armate; in patria in apparenza uguale ai maggiorenti, in sostanza capo, e ciò perchè la sembianza del principato genera invidia, e massime su i primordi ti tocca logorare le forze e vivere in pericolo, mentre, chiamando i tuoi cittadini a parte dei tuoi guadagni, ti ameranno, e, a patto che tu non porti corona, a loro parrà non essere servi e ti obbediranno di cuore. Però Andrea nemico di novità era, e ne aveva ben donde, ma distingui quelle cui poteva dare impulso un principe italiano per ingrandirsi alquanto dalle altre che prorotte da impeto di popolo avessero per fine la restaurazione d'Italia a potentissimo stato: queste egli giudicava inani a tentarsi, impossibili a compiersi; tuttavia è lecito credere, che s'ei le avesse vedute niente niente attecchire, egli ci si sarebbe gettato dentro anima e corpo per condurle a buon fine: almeno in coscienza a me sembra avere a giudicare così. Venezia fin da cotesto tempo si trovava ridotta alla parte di colui che ripara con la mano il lume per tema glielo spenga il vento; sicuro, il lume allora era di torcia, ma gli speculatori calcolavano di mano in mano si sarebbe ridotto a moccolo: sapienza suprema di regno mantenersi fermi; il moto in certe contingenze nuoce anco per acquistare: la storia della repubblica va illustre per nuovi gesti che aumentano il retaggio di gloria e stremano le forze dello stato: chi solo conserva perde, perchè da per tutto il tempo va dintorno con la forbice, e se non apponi ogni dì, ogni giorno scemi. Questo, a giudicare così all'ingrosso, sembra il fato delle repubbliche aristocratiche: finchè non possiedano tanto che basti tu le vedi adoprare conati stupendi per procurarselo; ma acquistato ch'ei sia, pongono industria e tenacità pari a difenderlo; donde avviene che durano molto. Però durare non significa vivere come a popolo conviene, sicchè non si sa che lode fosse quella che tributava l'Alfieri alla Repubblica veneziana quando scriveva che, o decrepita o inferma o spenta, in fatti ell'era la figliuola più longeva del senno umano, e voleva la Grecia ci si adattasse: anco Titone ottenne durare immortale, ma essendosi dimenticato di chiedere altresì eterna la giovinezza, all'ultimo ebbe di catti che gli dei mossi a compassione lo convertissero in cicala. I Veneziani però non si sarebbero opposti ad un moto inteso ad abbattere il predominio imperiale sopra l'Italia; solo non lo avrebbero aiutato, a cavallo al fosso aspettando gli eventi per regolarsi a norma della piega ch'essi pigliavano. — Della casa di Savoia non è da parlarsi nè manco; il duca riparava in corte allo imperatore assai male in arnese, privo del paterno retaggio, eccetto Nizza, che sempre gli si mantenne fedele e ne fu rimeritata allorchè recisa dalla patria italiana la buttarono in gola alla Francia, a mo' che i poeti finsero chiunque intendeva trapassare a Dite dovesse gittare l'offa a Cerbero. Emmanuele Filiberto per intercessione della Spagna rientrava in possesso dello avito ducato dopo la battaglia di San Quintino, e subito s'imparentava co' reali di Francia mostrando il viso dell'arme alla Spagna: sicuramente, fra i tanti pregi che illustrano la stirpe sabauda non ismaglia la riconoscenza, ma forse questo è vizio piuttosto del principato che del principe: a giudicarne dagli istinti, un moto di popolo dai duchi di Savoia non poteva aspettarsi altro eccetto odio e, se fosse stato in potestà loro, persecuzione. La repubblica di Firenze certo non andò immune da errori e nè da colpe, ma fu sola a sostenere la causa della democrazia: nella mirabile impresa contro lo impero e il papato, doppia ancora gittata nello inferno, onde la tirannide mantiensi a galla sopra la terra, veruno la sovvenne, molti le nocquero, e primi fra tutti i Francesi, i quali dopo averla tradita la irrisero: allora, come sempre, tirati dallo interesse presente, non calse loro nè di onore nè di fede, anzi neppure del proprio interesse di prossimo avvenire: rinfacciati, inferocirono nella ingiustizia fino ad impedire che i mercanti fiorentini di Lione le inviassero soccorsi di pecunia; potè sguizzare fuori di Francia con qualche scudo italiano Luigi Alamanni, ed indarno, perchè quello che non seppero fare i Francesi, Andrea Borialo seppe, fermando Luigi su quel di Genova, togliendogli di ire più oltre. Siena si professava imperiale, e Lucca altresì, onde esse in sè atrocemente chiudevansi non dubitando neppure che, prevalsi in Italia lo impero o il regno di Spagna, imperatore o re sariensi scosso dal manto coteste repubbliche come due insetti schifosi sofferti per cessata mondizie. Firenze giacque non tanto per virtù di forza nemica quanto per iscoramento della sua solitudine; molto sangue ella sparse su i campi di battaglia, e molto ne andò sperperando nello esilio, ma il peggiore guaio le venne dal rappigliarsi che fece quello che rimase in patria: la più parte dei cittadini si accartocciò sprofondandosi nelle cure di famiglia e nelle industrie private; in taluno l'amore di libertà, pigliata indole religiosa, diventò di operoso contemplativo, scapitando di limpidità intellettuale quanto acquistava di cupezza fanatica. Il popolo sopportò il bastardo di Clemente VII senza rancore perchè, spento un tiranno, ne temè un altro più tristo, come accadde pur troppo; ed anco perchè lo vedeva infierire di preferenza su quelli che lo avevano aiutato a ridurre la patria in servitù; e non il popolo lo trucidava, bensì uno de' suoi, non per amore di libertà e non per odio della tirannide, sibbene del tiranno, e per talento di succedergli; costui chiamò il popolo a libertà, ma al popolo giungeva ignota cotesta voce, e così doveva essere, però che il popolo libero non conosca chi non avendo nè anco il coraggio della strage si unisce per consumarla un volgare scherano, e del suo fatto trema, e lungamente dura lenone per riuscire traditore. A Filippo Strozzi, uomo corrotto fino al midollo, poteva parere Lorenzino dei Medici un Bruto; a noi no: ammazzatore a mezzo, non altro; ed anco a lui procede sviscerato Vittorio Alfieri, il quale su cotesta strage compose una maniera di poema che tuttavia stampano ma non leggono; tratto più da passione che da ragione, scambiando la smania di opporsi coll'amore della libertà, avveniva che il dabben conte pigliasse delle cantonate e di molte. Cosimo successe diciottenne ad Alessandro, ma il tiranno non cresce per età, quale lo trasse dalla pietra natura, tale muore Cosimino; gabbò il Guicciardino, e gli fu agevole, perchè, innanzi ch'ei lo gabbasse, per lo interesse, che assai poteva su cotesto uomo, egli gabbava sè; e di ciò rimangono avvertiti i pusilli incoronati ch'eglino mai arriveranno ad abbindolare un grande intelletto dove questi mosso da passione non faccia prima géttito del suo ingegno. Più tardi quando gli Strozzi, i Valori con altri fuorusciti vennero ai danni di Cosimo, il popolo, levato appena il capo, disse: «La rabbia è tra i cani»; e lo riabbassò. La tirannide vendicava la libertà; dopo avere fabbricato il tiranno, cotesti cervelli balzani repugnavano servire; non vollero dirsi soddisfatti della mercede loro elargita dal principe; parecchi pretesero essere chiamati a parte della dominazione: ma poichè amore e signoria non patono compagnia, il principato, non bastando a quietarli l'oro che loro mise in mano, li saldò con la scure sul collo; e fece bene. Che Cosimo aspirasse al dominio della Italia può darsi, ma fine di regno non se lo poteva proporre; non si prestava la materia; quando l'aquila austriaca spiegava poderose l'ale, a lui era dato appena fare da falco; agguattato a Firenze, quinci rotava intorno a Piombino, a Siena e a Lucca. Piombino acquistò e Siena, ma con tanto consumo di mente e di forze che la carne non valse il giunco. Lucca non ebbe mai; lei salvarono la forma oligarchica, lo spendere a tempo e la devozione sconfinata allo impero; dissi salvarono, se può chiamarsi salute il palpitare del passero fra gli artigli dell'aquila: tuttavia Siena, Lucca Firenze raccoglievano in sè copia di umori per desiderare novità e provocarle. Parliamo di Siena. A Pandolfo Petrucci succede Fabio figliuolo, il quale non sapendo governarsi nè con la benevolenza nè col terrore, cade in discredito ed è cacciato; dopo il suo bando accadde grandissima mutazione nel reggimento, chè dove prima si governava mediante tre monti, ovvero ordini di cittadini cioè Nove, Popolo e Gentiluomini, di un tratto, soppressi gli altri, ne rimase in piedi uno solo che pigliò nome di Nobili e Reggenti; di tutto questo tramestio anima Alessandro Bichi figliuolo di Iacopo, che nello assedio di Firenze operò tanti e generosi gesti, il quale si andava destreggiando per soverchiare altrui; nè gli fallì il disegno ponendo a fondamento di sua grandezza l'aiuto di Francia: arduo a giudicarsi se la Francia prospera lo avrebbe soccorso, ma percossa dalla fortuna a Pavia, lo lasciò andare, ond'ei vi perse la sostanza e la vita. Restituisconsi i tre ceti dei nove, del popolo e dei gentiluomini; parecchi dei principali fautori del governo abolito si bandiscono, i quali mandano a soqquadro il contado: una volta con Lucio Aringhieri ed un altra con Giovambattista Palmieri essi congiurano per rientrare in Siena con forza e con inganno, e ad altro non approdano che a far perdere il capo ad ambedue. Data all'esercito di papa Clemente una stupenda rotta, rapite ai Fiorentini e ai Perugini le artiglierie, quietarono i Sanesi ogni apprensione di fuori, ma tornarono a infierire le discordie dentro; perchè i partiti, se un poter forte li soprasti, possono reggere per via di emulazione civile, ma se nulla li tenga al canapo, irrompono in aperte contese; che se tu vedi i signori smaniosi di comando, trovi eziandio il popolo intollerante di qualunque freno; allora la plebe diede di fuora e corse addosso ai noveschi, che troppo bene lo meritavano, imperciocchè questi, componendo una consorteria soverchiatrice e ladra, avessero asciugato quanto danaro avevano reperito nello erario, onde fu mestieri sopperire col rame ai metalli preziosi portati via; e peggio ancora a patto di arraffare e di opprimere congiuravano ad asservire la patria a Clemente VII, il quale, purchè venisse roba, non guardava più alla via diritta che alla storta; anzi un po' di sangue fa fare miglior presa alla calcina con la quale si murano le tirannidi nuove; e Ancona informi; però in questo tumulto la plebe vi pose le mani, ma non pochi nobili e borghesi ci soffiavano dentro per emulazione dei nove. Gli storici gentileschi deplorano la città cascata in mano ai ciompi, e tuttavia miriamo questa gente grossiera e meccanica governarsi ottimamente; munisce la città di mura e di torrioni, provvede alla diffalta della pecunia pubblica, tiene ferma la città in devozione allo impero, la difende dal principe di Oranges e da Pirro Colonna che la insidiavano. I noveschi fuorusciti si mordevano le mani: un pezzo aspettarono che il governo dei ciompi si sperperasse sotto i colpi delle loro scede, ma poichè videro che costoro non se ne davano per intesi, ricorsero ai fatti e, raccolto buon polso di armati, notte tempo avviaronsi a sorprendere Siena: se non che trovarono i cittadini in punto di riceverli secondo i meriti; gli storici affermano che della mossa dei noveschi furono avvisati da Fabio Petrucci venuto a screzio col congiunto Francesco uomo soperchievole e contumelioso. In questa occasione si narra come un giovane dei Trecerchi, non curando pericolo di essere morto dagli archibugi e dai sassi e nè anco di cadere prigione, trascorresse fino alla porta Eugenia o _Santoviene_[12] e quella percotendo con la mazza ferrata con gran voce sclamasse: «E noi tante volte tenteremo che una basterà per tutte.» La balía popolesca di Siena, vinto il pericolo, pensò vendicarsi, e gli riuscì, pigliando Monte Benichi alla sprovvista, dove assai dei noveschi come in fidata stanza si riparavano; avutili in mano, a varie pene li condannò. Fra gli altri merita ricordanza questo caso: a Ippolito Bellarmati mettono addosso la taglia di mille scudi con questo patto che, dove dentro tal tempo non li paghi, gli verrà mozzo il capo; ed egli antepose perdere la testa che i ducati: dicono che il facesse per amore della famiglia (imperciocchè, sentendosi vecchio e di salute malescio, considerasse che non valeva il pregio mantenersi in vita con la ruina della famiglia), e sarà; ad ogni modo non mancano esempi nella storia che altri a pari fato si conducesse per aspra avarizia, e mi riesce disagevole persuadermi che per mille ducati potesse cascare in tanta miseria la famiglia dei Bellarmati. Nella guerra di Firenze per la libertà i Fiorentini mandarono oratori a Siena per istringersi in lega. Siena tentenna e si destreggia, parendole essere arguta; approfittando della occasione, cava di sotto a Clemente papa ottimi patti; nè questi stava su lo spilluzzico, chè, premendolo il bisogno non istava a guardare il nodo nel giunco: agevole co' principi farsi promettere in bosco, farsi poi mantenere in città gli è un altro paio di maniche: anco romperla coll'impero tuttochè impegnato in guerre zarose per Siena la era faccenda da pensarci due volte; molto più, che i noveschi in corte non rifinivano di tafanare Carlo V perchè mettesse con le spalle al muro cotesta plebe turbolenta; non desse retta alle sue lustre di devozione, così costretta di fare perchè non poteva mordere; ella per istinto nemica ad ogni potestà, mentre essi per diverso istinto erano alla potestà naturale puntello, e dicevano il vero, ma predicavano al predicatore che Carlo sapeva meglio di loro che col popolo non si può fare a mezzo, perchè nelle repubbliche democratiche il popolo governa ed è governato, mentre nelle oligarchie gli è come proprio istituto dei signori, prepotenti ad un punto e servili, abiettarsi da un lato per superbire dall'altro. Nondimanco vuolsi rammemorare che un oratore fiorentino durante l'assedio presso i Sanesi sempre stette, e narrano di più che ci spendesse un tesoro per tirarli a legarsi con Fiorenza; e sarà, eccetto il tesoro, chè, sendone strema in casa, mal si comprende com'ella lo potesse sbraciare di fuori; fatto sta che il popolo, il quale si governa con la passione, voleva ad ogni costo sovvenire i Fiorentini, mentre gli altri, usi a procedere col compasso in mano, con ostinazione punto minore contrastavano, donde nacque tumulto, e per poco stette che il Fantozzo plebeo non ammazzasse Gianfrancesco Severini. Posto fine alla guerra di Firenze, lo imperatore comincia ad allungare gli ugnoli contro la democrazia sanese, mandando a Siena col modesto titolo di agente Lopez di Soria perchè così alla sordina e di scancío procurasse ricondurci i nove; costui trovati sordi al suono di cotesta campana i Sanesi, Carlo ci inviò don Ferrante Gonzaga, che era in fama di piacergli le cose spiccie, e perchè le ruote girassero meglio, i nove ci versarono dentro un quindicimila scudi; allora il Gonzaga sorprende Lucignano e lo piglia, poi prosegue in Pienza e quivi minaccioso stanzia; dei Sanesi chi teme, chi va su i mazzi, ma i primi sono i più e prevalgono i partiti peritosi, sempre esiziali: insomma il Gonzaga rimette i nove in Siena, li restituisce nelle sostanze e negli onori; la città non in tre ma sì in quattro Monti si divide, Popolo, Gentiluomini, Riformatori e Noveschi; il Lopez ai soldati nostrani surroga spagnuoli, da prima pochi, poi mano a mano gli augumenta fino a 400: all'ultimo tanto si armeggia per parte dei noveschi che è data licenza ad Alfonso Piccolomini duca di Amalfi, capitano del popolo e reputato zelatore della parte popolesca. I noveschi, sentendosi il vento in filo di ruota, ambiscono a cose maggiori; chiedono le armi, e il maestrato, invece di tôrle a tutti gli ordini dei cittadini, le concede anco a loro; il capitano Giambattista Borghese, che vedemmo nella vita del Ferruccio combattere infelicemente in Volterra contro l'eroe fiorentino, ne fa incetta a Firenze e le manda ai noveschi, poi tiene loro dietro: il popolo inasprito da quotidiane ingiurie si rovescia per le vie provocando i noveschi, i quali bene in arnese si stanno a riparo dei propri palagi, per lo che imbaldanzito il popolo si caccia in parte dove dinanzi e dietro ha nemici; preso come dentro alla morsa, poteva di leggieri opprimersi, e questo voleva, questo ad alta voce domandava il capitano Borghesi, ma anco qui prevalsero i consigli, i quali vergognando di mostrarsi vili pigliano sembianza di prudenti, ond'egli incollerito esclamando: «Poichè voi non volete vincere, gli è chiaro come l'acqua che volete perdere, e questo non voglio io», se ne andò via senza pure chiudersi l'uscio dietro. E così fu, perchè indi a breve, incamminandosi don Ferrante fuori del dominio sanese, e stando l'animo dei popoli sollevato, accadde che un vento impetuosissimo, diverte certe impannate, le sbatacchiasse sopra la tettoia di talune botteghe del Chiasso largo; dal quale strepito il popolo commosso saltò su a dare la caccia agli aborriti noveschi, di cui taluno ammazzò, molti manomise, nè si rimase finchè non gli ebbe del tutto spogliati dell'arme con tanta pertinacia volute e con tanta baldanza ostentate: intendeva altresì mandarne a sacco le case, ma, abbonito da personaggi autorevoli, ne depose il pensiero, non intieramente così che qualche cosa a taluno non rimanesse appiccicata alle mani. Don Ferrante, uso a volere le sue parole e più i suoi fatti, appena udito il caso, tenendosi scornato, rifece i passi macchinando vendetta; se non che, avvertito dal Lopez che si giocava di grosso a partita mal sicura, si fermò a Cuna; quivi di un tratto furono a trovarlo i noveschi con querimonie infinite; anco il Lopez lo metteva su, e non ce n'era di bisogno; ond'ei fece intendere che se la città non si fosse rimessa in lui interamente, guai! E quello che egli pretendeva era la intera alterazione degli ordini della città, e poichè conferendo assieme con gli oratori di Siena sovente scappava fuori in improperi contro parecchi orrevoli cittadini sanesi, Mario Bandini e Achille Salvi, sentendosi fra i vituperati, presero il morso ai denti e recaronsi a don Ferrante dicendogli le proprie ragioni con maggiore avventatezza che forse non conveniva. Don Ferrante rispose cacciando entrambi in prigione, e ciò non solo per ira quanto perchè gli accertava il Lopez che, levati di mezzo cotesti due potentissimi non meno che turbulentissimi, il popolo aría dato le mani vinte. Pigliare il popolo a contrappelo gli è come giocare ad asso o a sei: qui don Ferrante fece asso; i Sanesi montarono in furore e con senno e celerità mirabili strinsero il comando in mano a pochi, chiamarono le milizie del contado, ne condussero nuove, eglino stessi con le armi assunsero disciplina di soldato e dalle vigilate mura fecero prova che contro al mare del popolo che vuole misera cosa è sempre un esercito regio, rigagnolo di plebe o compra o cappata a forza alla quale si pretende dare ad intendere che sia gloria per quattro quattrini al giorno ed un pane di cenere apprendere l'arte di ammazzare gli uomini senza saperne come senza curarne il perchè. Intanto il Bandini, rotta la inferriata del carcere, fatta fune dei lenzuoli, calandosi giù se la svignava; al Salvi indi a poco il Gonzaga per meno tristo consiglio rendeva la libertà, scapitando e non poco di reputazione anco per questa parte, dacchè all'autorità dello imperio male si provvede con la ingiustizia, ma se chiarisci poi che come hai l'animo di commetterla ti mancano le forze per sostenerla, allora di odiabile diventi contennendo, e il disprezzo del popolo è l'agonia del potere. Carlo, e con Carlo tutti i principi, non sapendo come uscire d'impaccio, richiamato il Gonzaga, gli sostituiva il marchese del Vasto; al Lopez il duca di Amalfi, accetto al popolo: ad ogni differenza fu messo buono assetto; solo lo imperatore tentò far passare che la balía si eleggesse dal suo rappresentante, e non l'ottenne; allora avvisò un altro tiro, e fu, che la città votata di milizie nostrane la presidiassero 500 Spagnuoli, e l'ottenne, se non che il senato invece di 500 ne ammise 400, riputando follemente col tosare la moneta avergliela barattata; però quello che non fece il senno operò l'avarizia, dacchè, essendo stati stanziati al duca di Amalfi scudi 6000 all'anno per sostentamento dei 400 pedoni, egli ne teneva su soltanto 100 e degli altri 300 sgallinava le paghe: antico male la flussione delle unghie, e a rari non si attacca. Quando lo imperatore nel 1532, affrancatosi della guerra del Turco, venne a Bologna per passare in Ispagna, non mancarono i noveschi di fargli calca dintorno mostrando voglie prontissime a servirlo di coppa e di coltello in ogni suo desiderio, solo alquanto gli sovvenisse a riaversi in casa, dove si trovavano ad essere trattati poco men peggio di schiavi alla catena; ma il marchese Del Vasto e il cardinale Piccolomini, attestando la loro malignità ed il considerarsi servi se non insolentivano oppressori, resero innocui i lamenti, ed anco la cura di negozi gravissimi e la prescia di Carlo di portarsi in Ispagna fecero sì che per allora riuscissero inani. Dopo avvennero vicende grandi così in casa come fuori che non importa narrare per lo scopo nostro, basti saperne tanto che, lo imperatore essendo tornato in Siena, i noveschi inviperiti più che mai anfanarono a mettere male biette perchè calpestati gli altri ceti di cittadini desse loro braccio per comportarsi da tiranni; ma l'imperatore aveva altro a pensare in quel torno, chè il Turco entratogli in Ungheria minacciava Vienna; però appena uscito, le fazioni dei popolani e dei riformatori deliberarono vendicarsi colle armi, le quali consentirono a posare solo col patto che un magistrato eletto a posta ricercasse sottilmente la cosa e venutone in chiaro i colpevoli multasse nel capo; e così come vollero fecero; quattro deputati segreti, messe la mani addosso ad un Alfonso di Pietro, torturaronlo e dopo la confessione del reato imputatogli gli fecero mozzare il capo: uno pagò per tutti, imperciocchè le fazioni sboglientite aprissero l'animo a senso di misericordia, consentendo non si andasse più oltre nel sangue. Le fazioni o vogliam dire i monti di Siena congiunti per domare la insolenza dei noveschi dopo la vittoria, come sempre avviene, partironsi, e ciò perchè la prosperità paia proceder nemica alla modestia; e nè anco fu colpa di fazione, bensì di persona, la quale si chiamava Giulio Salvi, che s'ingrandì con la plebe; costui, potente di numerosa famiglia (i suoi fratelli sommavano ad otto, tutti prestanti nelle armi), forte di aderenze, cupido, povero, magnifico, di persona piacente, alle femmine grazioso, prese a comporre intorno a sè una nuova consorteria di soperchiatori (tiranno non si fece, perchè gli mancò lo ingegno o la potenza); sicchè in breve non poterono sopportare i soprusi loro non dirò gli avversi, ma gli stessi parziali; offese nei cittadini, violenze in femmine, furti in città, latrocinii in campagna, omicidii da per tutto, e tanto era diventata infame la contrada che il papa e il duca Cosimo provvidero i procacci per a Roma, tralasciata la via attraverso il dominio sanese, per altra passassero; oltre a ciò infestavano i Turchi, la carestia angustiava, insomma un subbisso. I reggitori, sfidati di ogni terreno aiuto, correvano al cielo; processioni, giubilei, indulgenze e la Madonna avvocata dei Sanesi in giro; i frati di ogni risma in ballo, neri, bigi, bianchi e colore marrone; cantilene a iosa: ma intanto che si consumavano torchietti non si trovava grano; per arroto nella notte uscivano fuori i battuti che si davano di sconce battiture sopra le spalle ignude, e ciò importava consumo di cerotti, non già acquisto di pane. In questa occasione compariva in Siena sua patria Bernardino Ochino rigidissimo frate e per dottrina teologica preclaro: fu prima minore osservante, poi della riforma dei cappuccini, ch'egli con sommo ardore promosse; poi con pari zelo, anzi maggiore, si voltò contro Roma e di fiere battiture la percosse. Roma lo scomunicava eretico, e se gli avesse potuto mettere le mani addosso, lo avrebbe illuminato acconciandolo dentro una catasta di legna, ma egli non si lasciò cogliere nè illuminare; e noi non lo potendo salutare filosofo, lo celebriamo come uno dei più poderosi demolitori della oggimai sazievole menzogna della religione cattolica romana. Poichè la gente si accôrse che il cielo badava ai fatti suoi, ella avvisò cercare rimedio in terra. Parecchi cittadini dei principali convennero a Crevole coll'arcivescovo per pigliare partito, i quali dopo molto discutere, non ci trovarono altra via che abbassare la superbia del Salvi con le armi, e a tale effetto recaronsi in varie parti del contado per raccogliere gente ed avviarle a Siena; ma la cosa non potè tanto tenersi celata che non la spillasse il Salvi, il quale, a sua posta riuniti gli aderenti, si capacitò che di côlta sono buone le sassate, epperò chi prima assalta ha un punto di vantaggio su lo assalito; quindi subito mano alle armi, e così come dissero fecero; gli emuli, côlti alla sprovvista, resisterono con ardimento supremo, ma si vedeva chiaro che all'ultimo ne avrebbero tocche, se non che di un tratto ecco versarsi per le strade il duca di Amalfi col presidio spagnuolo per iscompartirli, e vi riuscì adoperandoci amorose parole e picchi da orbi; se questi vincessero in virtù quelle, e se quelle questi, non ci è noto; basti sapere che entrambi valsero per allora a sedare il tumulto. Lo imperatore di queste discordie cittadine non si pigliava pensiero o poco, e forse anco che così fosse gli giovava; ma quando avvenivano cose che toccassero i propri interessi, egli ed i suoi mostravano i denti. Ora accadde che la fazione dei Salvi andasse di dì in dì declinando, non già per solerzia altrui, bensì per vizio proprio; chiunque intenda prevalere, se venuto a contesa non vince, perde; impattarla non giova, gli è come persa. I Salvi si sentivano mancare il terreno sotto e non si rendevano capaci delle cause; questo però si faceva loro sempre più chiaro, che senza aiuto non potevano tirare innanzi, e da parte dello imperatore se non erano anco inimicati alla scoperta con lui, tuttavia di là miravano addensarsi la procella. Per mala ventura loro capitò in Siena uno armeggione chiamato Ludovico delle Armi, il quale si mise a sobbillarli: non dessero tempo al tempo; scostandosi dallo imperatore si gittassero in balía della Francia, che gli avrebbe accolti a braccia aperte; sotto la protezione di cotesto potente reame si sarebbero potuti dire veramente e sicuramente primi; e poi o che volevano mettere la generosa natura del re di Francia con la crudele taccagneria di Carlo? Intanto ecco egli mandava loro danari, ed essi gli agguantarono; inoltre promesse a carra, ed essi le crederono, perocchè gradevoli fossero ed accomodate ai fatti loro. Già anco condotte tra prudenti e pochi le congiure vengono per ordinario a scoprirsi, pensiamo poi se tra giovani che si portino il cervello sopra la berretta; però l'oratore di Carlo V a Roma, ammonito partitamente della cosa, scrisse una lettera terribile al duca Alfonso addossandogli tutta la colpa di coteste rivolture. Al duca erano graditi i Salvi, ma i propri comodi troppo più dei Salvi; onde non è da dire con quanta e quale squartata mandasse sottosopra messer Giulio; che sbalordito non negò la pratica, ma l'appose al fratello Matteo e intanto diede opera che Ludovico si cansasse; se non che, per questo fatto tempestando il duca, costui con nuovo tradimento fece in modo che Ludovico fosse prima sostenuto a Montevarchi, poi consegnato al duca Cosimo, il quale avutolo nelle mani e chiusolo in castello, senza mestieri tormenti, ritrasse da lui l'ordine della congiura; gli è ben vero che Ludovico non si rimase da vituperare il Salvi per traditore doppio, ma per allora il negozio rimase sopito: però ben la segna chi la nota, e quinci a pochi mesi, essendo tornato di Francia Girolamo Luti soldato di conto negli eserciti del re, i nemici del Salvi furono agli orecchi degli agenti imperiali aizzandone il sospetto e l'acre zelo del servitore pagato: ma per quanto imprigionassero il Luti e con tormenti lo dirompessero, pure da lui innocentissimo non poterono cavare riscontro al sospetto. Messere Giulio e il duca, per ischermire il colpo, recaronsi in poste a Milano, dove era pur dianzi giunto lo imperatore, ma questi li rimandò per la udienza a Lucca; colà gli udì e con esso loro gli emuli, e concluse commettendo al Granvela il negozio della riforma del reggimento di Siena: questi, non si sentendo abbastanza informato per pigliare una risoluzione, licenziò tutti dichiarando sarebbesi egli medesimo recato a Siena per assettare le faccende; tuttavia come segno di vicino fortunale fu ordinato al duca di Amalfi che, lasciato in asso il capitanato delle armi di Siena, si riducesse nei suoi stati. Intanto giunse in Siena il senatore Sfondrato per pigliar lingua degli umori e per indagare i fini ed i costumi degli uomini: grandi anzi maravigliosi i conati delle emule fazioni per tirarlo a sè, e segnatamente dei noveschi, a cui venne fatto indurre il papa a pigliare in mano la difesa loro; ma egli, abbottonato fino al mento, non lasciava trapelare nulla delle sue intenzioni: per ultimo venne il Granvela, le accoglienze pari o forse maggiori di quelle che a cesare, imperciocchè segno di speranze e di timori immediati egli fosse: aperto disse sè essere mandato a moderare la città, ormai pel governo pessimo, per la fellonia di taluni tristi e per non represse iniquità venuta in uggia così ai prossimi come ai remoti; dal mattino poteva conoscersi il giorno, tuttavia il capitano del popolo a fargli di cappuccio e ringraziarlo di tanta degnazione; _lui_ facesse, disfacesse _lui_; fin d'ora grata ogni cosa ed accetta purchè tornasse nella massima esaltazione di S. M.; — breve, con più le altre formule di cui trovi copia nel grande dizionario della umana viltà. — Allora il Granvela squaderna il modello di riforma accompagnandolo di ragioni santissime come sempre si suole in simili occasioni: il magistrato avere ad essere copioso come quello che, pigliandovi parte molti, si contenta maggior numero di cittadini, e poi allontana il pericolo della tirannide; dunque la balía si componga di 40 cittadini, 10 per monte, n'elegga il consiglio 32, egli ne nominerà 8; duri due anni in carica; v'intervenga il capitano del popolo; quanto al criminale si riformi così; gli sia preposto un capitano di giustizia, il quale per quattro anni presenterà lo imperatore: in capo ad ogni anno l'amministrazione di lui si sottoponga a sindacato. Queste con altre cose di minor conto ordinò la riforma, che davvero non aveva bisogno di essere ponzata tanto; un fine, e, per quanto si dice, presagito dal Palmieri dell'ordine popolare, lo ebbe, e fu di abbattere la soperchianza del Salvi, ma pose capo anco ad un altro che da lui non era presagito nè voluto, perchè i noveschi ne ripigliarono gagliardia, e i popolani ne rimasero avviliti. Ciò fatto, il Granvela disegna fabbricare un castello come calcio in gola ai Sanesi; si rinforza con milizie spagnuole chiamate da Firenze; per ultimo crea la balía; quanto a sè per gli otto di sua elezione nomina altrettanti cittadini apertamente avversi ai Salvi e al duca di Amalfi. Opere prime della balía furono chiedere al consiglio che in lei la suprema autorità si trasferisse e che le provvisioni di danaro stanziate pei pretesi meriti ai cittadini si cassassero: la prima proposta come eccessiva rigettasi, la seconda no; onde i Salvi e gli altri con ripetío e querimonia infinita rimasero di un tratto privati di quelle che fruivano, e non erano poche. Difficile è dire dove sarebbe giunto il Granvela, se in questa perpetua altalena delle umane cose non fosse avvenuto un caso il quale temperò e di molto il vino fumoso di lui; e fu lo immenso disastro dello imperatore davanti Algeri. Allora, ripiegando le vele, egli appiccò all'arpione la voglia del castello, renunziò a inquisire pei reati commessi, insistè a volere confinati quattro dei Salvi, ma, per non parere, confinò di riscontro quattro noveschi. La balía entrò in carica e da prima operò bene; granata nuova spazza bene tre giorni; vietò le armi a tutti e le conventicole notturne e l'andare per la città la notte senza fanale; poi temperò lo smodato lusso delle donne, perpetua e vana cura degli uomini, onde per disperazione all'ultimo e per non dichiararsi vinti hanno bandito che il lusso è manna nel consorzio civile, e ognuno faccia quello che meglio gli aggrada; e proibì le maschere con abiti da frati e da monache, che, argomento di sceda tre secoli fa, oggi presumevasi da intelletti guasti ritornare in venerazione degl'Italiani. Intanto maturavano i frutti della nuova riforma, e si chiariva a prova come, per abbattere i Salvi, i popolani ed i riformatori si erano tirati sul collo i noveschi, i quali seguendo l'antico costume usavano ed abusavano del fresco favore della fortuna; per lo che tornarono ad agitarsi peggio di prima, sopra tutti l'arcivescovo Bandini, il quale, a quanto pare, non era farina da farne ostie. Lo imperatore teneva suo rappresentante in Siena lo Sfondrato, che ormai procedendo a carte scoperte favoriva la fazione novesca, nè in ciò era mal visto, sicchè quando di lui si lamentavano per questo i popoleschi in corte egli era come dicessero al muro, Messer Giulio Salvi senza virtù e senza credito cascò come frutto fradicio; chiamato in Fiandra e messo in prigione dallo imperatore, così poco i Sanesi attendevano a lui che la sua prigionia conobbero unicamente dalla libertà concedutagli quando Austria e Francia accordaronsi nel 1544. Poco dopo susurrarono che lo Sfondrato lavorava in pro del papa per grandi promesse che ne aveva ricevuto (e parve vero, dacchè indi a breve, ridottosi a Roma, fu promosso cardinale): allora in fretta e in furia lo imperatore diede il puleggio allo Sfondrato, sostituendogli don Giovanni di Luna castellano a Firenze della fortezza di San Giovambattista. Errore vecchio che dura sempre, senza sembianza di cessare per ora, egli è che per mutare governatore si muti governo: però don Giovanni patrizio, inzuppato di frenesie baronali, che in quei tempi reputavano vangeli, e poi per conoscenza dello umore del padrone, appartatosi dai popolani, si accostò co' noveschi; in questo pari affatto allo Sfondrato, da lui diverso in questo altro, che con don Giovanni Roma si trovò chiusa la porta in faccia; allora non potendo ella armeggiare per via obliqua, venne fuori dirittamente il cardinale Farnese ad arruffare con certe sue liti sopra le castella di Maremma; gli fu risposto che queste liti erano state composte e come all'abbazia di Santo Anastasio, di cui era abbate il Farnese, fosse stato per compenso conceduto il contado di Montresoli; ma la prova della ingiustizia delle sue ingordigie fu sempre l'argomento che valse meno in corte di Roma; lo imperatore informato invitò il papa a non molestare i Sanesi, almeno per ora, ed il papa appese la spada alla rastrelliera per tornare ad usarla a tempo ed a luogo. Accaddero intanto guerre alle quali i Sanesi talvolta presero parte e tal altra no; all'ultimo ebbero sosta per istracchezza dei contendenti più che per altro e con lo esito ordinario di tutte le guerre; sperpero di anime, sperpero di sostanza pubblica, miseria presente e disperazione futura; chi non perse, i principi adesso parchi perchè, rifatti da capo danari e soldati, potessero continuare il trastullo sanguinoso delle battaglie, gioco anch'egli per loro, dove invece di carte adoperano uomini. In questa stracchezza universale che per difetto di meglio chiamavano pace, don Giovanni venne in pensiero di farsi signore di Siena, e, sinceri o no, lo spalleggiarono i nove a patto di opprimere con lui gli altri monti; di qui la cresciuta insolenza dei nove massime giovani, cui pareva grandigia conculcare i popolani tantochè uno di loro certo Ottaviano Tondi freddò di una coltellata un plebeo vocato il Bianchino; il popolo di subito saltò in piazza urlando: _Ammazza! ammazza!_ e rincorse l'omicida, il quale con la lingua fuori ripara nella chiesa di S. Agostino e poi si nasconde in certe caverne dove non fu possibile trovarlo. I noveschi, atterriti dal nuovo pericolo, si strinsero insieme in forte ed ordinata schiera: onde i popoleschi, considerando che per allora ci era caso da andarne per le rotte, si ritirarono a casa pur mordendosi il dito. Ma i nugoloni abbuiavano il cielo, ed era facile giudicare la procella vicina; onde i noveschi si affaticavano a tutto uomo ad afforzarsi, e sottomano don Giovanni gli aiutava con ogni sua possa; poi, per parere imparziale, avvisava i popoleschi a non lasciarsi cogliere alla sprovista, ed in pubblico increpava ambedue; girandole da furbi gaglioffi per le quali i pretesi uomini di stato arieggiano Bertoldo quando si nascondeva dietro un vaglio; i popolari lo irridevano e si apparecchiavano di cuore ad ingaggiare la suprema battaglia; la plebe stava co' popoleschi inferocita dallo avere un bel mattino trovati appesi agli usci delle botteghe loro mazzi di capestri, e le fu detto in minaccia della sorte serbatole dove mai prevalessero i noveschi: certo è bene che parecchi affermavamo, e non senza verosimiglianza grandissima, cotesto tiro movere dai popoleschi; ma, considerando che il procedere in cotesta maniera si adattava meglio ai costumi ed agli interessi dei noveschi, così i noveschi senz'altro incolparono; avvertenza questa della fallacia dello argomento di sospettare colpevole del reato quello a cui giova; in siffatta disposizione di animi basta una favilla a suscitare lo incendio, e la favilla non manca mai; adesso furono le nozze, che belle e magnifiche ammaniva don Giovanni per certa sua figliuola la quale andava sposa ad un barone napoletano: ci si dovevano fare giostre e torneamenti, epperò ordinarono una spianata davanti la casa di don Giovanni; la quale opera considerando i popoleschi, presero a mulinare si stesse costruendo un bastione per impedire loro la entrata nella contrada del Pantaneto, sospetto cresciuto da vedere come i noveschi si fossero fatti forti nella casa di un Mancino dei Tommasi, quasi serrame a impedire che il popolo trascorresse per la Costarella e luogo acconcio così per soccorrere gli amici, che dal Terzo della città intendessero passare per Camollia, come per essere sovvenuti da loro: per altra parte i noveschi, avendosi a nominare in cotesti giorni il capitano del popolo, tenevano per sicuro uscirebbe uno della propria fazione, mentre all'opposto rimase eletto Giovambattista Umidi popolesco: di ciò n'ebbero maraviglia e spavento; quindi da ambe le parti non pure voglia ma necessità di venire a mezzo ferro. Intanto si celebrano le nozze della figlia di don Giovanni, canti, suoni, balli e banchetti splendidissimi; tutto questo pei signori, pel popolo si ammanirono dopo il pranzo abbattimenti condotti dagli Spagnuoli, cose stupende, non mai viste per lo addietro nè da vedersi più innanzi; ne andarono le grida attorno con accompagnatura di tamburi e di pifferi, e il popolo in onta alla smisurata sua curiosità non si mosse, fermo alla posta egli stette con la mano sopra la spada: allora ne tentarono un'altra, e fu di bandire che pel sette di febbraio si sarebbe data sulla piazza una solenne caccia di tori; e sfoggiati allestimenti si fanno i palchi mirabili per arazzi e damaschi, le livree dei giocatori di vari colori, i tori scelti fra i più feroci delle Maremme, le musiche continue, bisognava avere i piedi di piombo per tenerli in casa; e il popolo i piè di piombo ebbe; agevole poi spiegare la insolita immobilità sua solo che tu sappia come atroce disegno dei noveschi fosse cascare addosso del popolo inteso allo spettacolo e menarne strage, e della trama questo avesse pigliato odore. Don Giovanni, vista la mala parata, il dì veniente mandò pei caporali delle parti contrarie tentando raumiliarli con parole oneste affinchè alla travagliata patria dessero pace, e provò contrasto dove lo credeva meno, vo' dire dal lato dei noveschi; ai quali parendo stare bene in istaffa, non consentivano cedere, onde il giorno otto di febbraio, saltati nella strada in armi, essi presero a gridare: «_Imperio, imperio, nove, nove_.» Di subito un correr di gente a precipizio; le botteghe serransi in furia, ognuno va per armi; primo dei popoleschi a mostrare il viso un Giuli, ma gli Spagnuoli sparandogli addosso il ferirono; il Turamini investe Annibale Umidi e lo lascia in terra per morto: i popoleschi pronti accorrono alla riscossa e condotti dal Luti e da Landucci vietano ai noveschi irrompere dal Pantaneto. Giambattista Umidi capitano del popolo, come quello che, allevato in mezzo ai trambusti, quando accadevano, invece d'impaurirsene faceva pasqua, ordina sonarsi a stormo la campana grossa del palazzo, appello al popolo della patria in pericolo; di subito tu vedi versarsi un formicolaio di gente armata per le strade, la quale ottimamente condotta da prodi cittadini con irresistibile impeto si avventa contro certa bastita fabbricata dai noveschi in Camollia: in meno che non dici _amen_ la bastita è sfondata, i difensori dispersi, ma non giova loro la fuga, chè raggiunti sono messi al taglio della spada; taluno si rimpiattò, e non gli valse, rinvenuti per le stalle, quivi trovarono la morte. In altra parte sei giovani noveschi più animosi che savi, non potendo starsene addopati ai muri di casa Bonsignori, scendono su la via e si cacciano dentro ai popoleschi, i quali sopraffatti dal furiosissimo assalto cedono terreno, e gli altri incalzano, sicchè pareva ormai che avessero la vittoria in pugno, quando di un tratto una grossa banda di Fontebrandesi li percuote di fianco; per la qual cosa mandati sossopra e respinti verso la casa, ebbero per ventura trovarne la porta aperta per ripararvisi dentro: colà attendevano a difendersi alla disperata, pure aspettando che i compagni del Terzo della città corressero a soccorrerli; ma i compagni, visto il caso buio, cagliarono. In questa il capitano del popolo Giambattista Umidi chiama attorno di sè gli Spagnuoli; ma questi essendo stati i primi a menare le mani contro i popoleschi, pensarono che andare adesso a mettersi in mezzo a loro e' fosse come tornare a pigione in bocca al lupo, però ricusarono netto: ora don Giovanni comanda loro escano fuori per accompagnarlo a sedare il tumulto; ma pieni di ardimento contro il popolo inerme e poco, ora che infuria come mare in burrasca, essi ricusano anco più netto. Don Giovanni, non volendo mancare al debito suo, non avendo sotto mano di meglio, si circonda di taluni suoi parziali tra i popoleschi e i riformatori, e con esso loro si accosta alla combattuta casa pregando posassero le armi, non si facessero con le proprie mani giustizia, rispettassero l'autorità, le leggi osservassero; a lui stava multare della meritata pena i colpevoli, di cui il misfatto egli affermava, per testimonianza propria, espresso. Urla e minacce accolsero la intempestiva orazione mentre l'accompagnatura gli spulezzò dattorno: ei non si sbigottiva per questo, anzi sceso da cavallo e solo si recò fino a piè della porta della casa Bonsignori e quivi a mani giunte supplicò grazia pei rinchiusi: qualche popolesco, sendochè gli atti generosi abbiano virtù di commovere sempre fortemente il cuore del popolo, gli disse parole cortesi, ma la più parte degli altri infelloniti, con occhi strabuzzati e accese labbia, gridarongli: «Si levasse loro davanti, chè se no, ce ne sarebbe anco per lui: quanto quivi accadeva era per colpa sua; andasse via.» Don Giovanni non se lo lasciò intimare due volte; levò le ciglia in su a guardare la casa, poi, borbottando un: _consummatum est_, si ridusse in palazzo, il quale con molte guardie diligentemente assicurò. Avendo intanto il popolo raccolta copia di fascine, disegnava con esse incendiare la porta della casa e così ad un tratto espugnarla, se non che quei di dentro, o per furore di morte vendicata, o per isperanza di vita conservata, dalle finestre fioccavano archibugiate da mettere in cervello anco i più animosi; il capitano Enea Sacchini, vedendo che alla scoperta non riusciva l'assalto a bene, entrò co' compagni nelle case dirimpetto, e quinci riparati dalle finestre fecero un fuoco d'inferno; per la quale cosa gli assaliti sopraffatti cessarono il trarre, sicchè, levate le offese, potè il popolo accostarsi alla porta, arderla ed irrompere in casa. La rabbia del popolo non ha paragone che con quella degli elementi; prece o minaccia ugualmente inutili per lui; in quanti il popolo occorse, tanti scannò; qualcheduno si arrampicò su i tetti, ma quivi raggiunti presero con presentissimo pericolo a correre pei tegoli; e i popolani dietro con non minore pericolo ad agguantarli e, presili, a rischio di rotolare giù insieme avviticchiati, scaraventarli di sotto: le strade andarono lunga ora funestate per pozzanghere piene di sangue umano e per membra ed ossa lacere; nè la età novella salvò dal fato estremo il giovanetto Giulio Orlandini, il quale, per miracolo uscito fuori e passata felicemente una prima schiera di popolani, s'imbattè in una seconda che da parte a parte con le alabarde lo traferì; più avventuroso Giorgio Trecerchi, il quale, tratto a sè l'uscio di una cantina, si nascose nel vano a triangolo che l'uscio si lascia dietro quando tocca la parete parallela, ed i feroci, mentre cercavano da per tutto, lì non frugarono. Nè vi fu casa di noveschi che rimanesse illesa; causa di questo rovistare per ogni angolo la brama di trarre l'arme di mano ai nemici; ma poichè nei tempi andati la medesima causa fu pretesto a taluni di rapina, i caporali bandirono chiunque grancisse pagherebbe del capo; e non solo le case dei noveschi furono perquisite, bensì non andarono immuni quelle dei popolani, imperciocchè il popolo, informato come taluno pietoso gli avessero raccolti, volle rivilicarle, e lì pure trovatili, si difendessero o no, inermi ovvero armati, li trucidò; poi mosse contro il palazzo di don Giovanni brandendo le armi e le faci, e fu mirabile cosa che cotesto Spagnuolo, il quale fin lì aveva dato buon saggio di sè, sfinito di animo non valesse a far contrasto, al contrario ordinasse si aprissero le porte al popolo: questi entrò digrignante i denti e prima che si palesasse il nemico vibrava il coltello; tuttavia, cerca e ricerca, rovista da cima in fondo ogni ripostiglio, non rinvenne persona, conciossiachè, come il Malevolti racconta, i malcapitati noveschi (e pare impossibile!) aggrappandosi su pei pilastri si rannicchiassero sopra i cornicioni delle finestre i quali a sufficienza sporgevano in fuori, e colà stettero parecchie ore in agonia, chè, essendo ormai calata la notte, non furono veduti. A perpetuare il tumulto ecco giungere nuova che le battaglie del duca Cosimo si appressavano ai confini, già si sa, per tutela delle persone e per la quiete dello stato (che a cotesti tempi la causa della civiltà non era stata ancora inventata.) La balía, e i popolani dando nei lumi sbuffavano e non provvedeano. Giovambattista Umidi capitano del popolo allora mandò alle terre del dominio perchè tosto spedissero i loro uomini armati alla città; nella notte da Valdichiana e da Moltalcino ne vennero mille, e gli altri dietro come onde del mare; entrarono, circondarono il palazzo di don Giovanni, gli voltarono contro due cannoni e si ammanirono a farne un falò. Don Giovanni atterrito domandava al capitano: «Ed ora che novità è questa?» E il capitano a lui: «La novità è che questa gente di qui non si muove se le battaglie del duca di Firenze che voi avete chiamato ai danni della città non sieno tornate prima nei loro alloggiamenti.» Don Giovanni s'ingegnò di fare l'albanese messere, protestando di non saperne nulla e che scriverebbe ben egli di buon inchiostro al duca che badasse ai fatti suoi e non si desse pensieri del Rosso. Il duca, avvisato che non tirava buon vento, ritirò le battaglie e spedì persona apposta per ragguagliare a modo suo lo imperatore dello accaduto; non meno solerte di lui il capitano Umidi inviava in diligenza un suo fidato al marchese Del Vasto affinchè la città dalle calunnie dei malevoglienti difendesse. Dato a tutto questo recapito, popoleschi e riformatori si assembrarono nello arcivescovado per vedere un po' quali provvisioni si avessero a pigliare; il Palmieri, che passava per testa forte e dottore era e sputava tondo, disse che per opinione sua bisognava stare alla riforma del Granvela (che universalmente si credeva consigliata da lui) e di più tenersi bene edificato don Giovanni, il quale commosso della attenzione avrebbe speso di buone parole presso lo imperatore per giustificare il popolo. Messer Antonio dei Vecchi, guardatolo un cotal po' alla trista e tentennando il capo, rispose: «che rifar carte dopo aver vinta la partita la era cosa che costumavano i giocatori nelle taverne, non già gli uomini di stato nei pubblici negozi. Perpetui nemici i noveschi, perdonati più volte sempre più infesti di prima, adesso di nuovo vinti ed a stento si sradicassero così che non potessero più mettere il tallo nuovo sul vecchio: rispetto a don Giovanni sappia messer Palmieri che gli oppressori di prima o di seconda mano non perdonano mai chi abbia loro incusso paura, e se nol sa o non lo voglia sapere, dia a rimpedulare il cervello.» Parole veramente di oro in oro e accette all'universale. Però fu approvato i noveschi, come soperchiatori incorreggibili e di ogni legge intolleranti, si levassaro dal governo dello stato e, pena la vita, cessassero di portare arme così in città come in contado. Don Giovanni, rotti gl'indugi, prese il largo recandosi a Firenze e quindi a corte, dove citò a comparire parecchi dei maggiorenti cittadini, i quali non gli dettero retta. Dopo la sua partenza cassarono la guardia spagnuola, paltonieri che mangiavano il pane dei cittadini a tradimento, quando non lo intridevano nel sangue loro; a questo modo il reggimento rimase spartito in tre ordini di cittadini: popolani, gentiluomini e riformatori. — Qui le cronache e gli istorici ricordano un fatto il quale molto conferisce a chiarire la nostra storia, vo' dire che i Lucchesi inviarono a Siena due oratori, Bernardino Medici e Nicolaio Liena, i quali in pubblico assai si dolsero dei trambusti che avevano conturbato la città, in segreto poi esortavano i reggitori di mettersi tutti d'accordo insieme per mirare se ci era verso di sottrarsi all'abborrito dominio spagnuolo. Oltre la naturale garosità, due cose rendevano così arditi i Sanesi: la prima e principale le fortune difficili in cui Carlo si trovava rinvolto nella Germania, la seconda la commissione dal medesimo Carlo affidata al marchese del Vasto di assettare le cose di Siena. Il marchese poi si giudicava dai Sanesi svisceratissimo loro, ed infatti era, ma di amor di tarlo, che rode i crocifissi; sicchè correva comune opinione che se il marchese veniva in Siena, di lì a poco se ne sarebbe fatto signore, cosa a molti molesta, ed a Cosimo dei Medici fuori di misura ostica, come quello che si vedeva furare le mosse: onde, che è e che non è, il marchese, mentre a Vigevano stava in procinto di partire, in mezzo a fieri dolori di ventre periva: in cotesti tempi corse voce che Cosimo gli avesse fatto propinare certa sua acquetta la quale per mandare al Creatore era un desío; ma io, se togli che Cosimo di questi tiri era piuttosto innamorato che vago, e forte e grande lo premeva lo interesse perchè il marchese sgombrasse dal mondo, e la solenne sufficienza sua in fabbricare veleni, non ho altro riscontro per confermare cotesta voce. Dopo la morte del marchese, con vece alterna incominciò a dechinare la fortuna dei popoleschi; lo imperatore in Germania prendeva alquanto di respiro, sicchè gli fu dato di volgere un poco il pensiero all'Italia, e questo fece per riagguantare quanto si era lasciato ire di mano, e per ciò che spettava a Siena ne rimise subito la pratica al Granvela; allora i noveschi si limano a mettere su questo ministro, che non ne aveva bisogno, perchè di propria indole odiava il popolo, e gli sapeva male che avesse, composta appena, lacerata la sua riforma; di più quella licenza della guardia spagnuola molto diceva nel presente e più lasciava intendere nel futuro; don Giovanni dal canto suo non rifiniva da far fuoco nell'orcio, però meno per danneggiare altrui che per magnificare sè stesso, esoso al popolo pel danno che gli aveva arrecato, contennendo ai noveschi pel verun bene che poteva fare e loro non fece, servitore sempre ma coll'occhio aguzzo al proprio vantaggio, modello eterno dello impiegato di tutti i tempi e di tutti i luoghi il De Luna. Non ci fu più verso di venire a capo di nulla con lo imperatore; indarno, oratori sopra oratori rifrustando su e giù le strade, egli impose che i citati da don Giovanni a comparire davanti alla sua corte, rimasti contumaci, andassero in confino. Questi furono tredici in tutto, distribuiti per diversi luoghi: a Lucca mandarono tre dei principali, messere Marcello Landucci, Giovambattista Umidi e messere Antonio Del Vecchio, gli altri a Milano; ed essi obbedirono, eccetto uno Francesco Savini, il quale non si potendo dar pace di avere a lasciare patria, casa, la diletta consorte, il figlio unico e le sostanze, preso d'angoscia, dopo pochi giorni se ne morì. Quanto agramente dallo universale si sopportassero le novelle asprezze imperiali si argomentò da questo, che, tenendo il defunto le cariche di capitano del popolo, di priore dei magnifici signori e di capo dei Dieci, dopo averlo con amplissimo funerale associato al sepolcro e predicato dal pulpito, riunito il consiglio, tutte le cariche esercitate da lui conferirono al suo figliuolo Enea, comechè appena l'anno vigesimoquinto annoverasse. Dopo ciò messer Francesco Grasso, una maniera di sbirro togato di cui non fu mai inopia nel mondo, venne da Milano a Siena per dire ai Sanesi che rimettessero i noveschi a parte del reggimento al tutto come nel modello di riforma del Granvela, e si stanziassero i danari per quattrocento fanti spagnuoli che lo imperatore intendeva ci avessero a stare di presidio. I Dieci risposero cotesta essere materia da deliberarsi in consiglio, e frattanto preso tempo inviarono oratori per chiarire che la città non poteva sopportare l'aggravio della spesa di quattrocento uomini; lo imperatore scrisse che se non poteva pagarne quattrocento, ne pagasse cinquecento e si ammanisse a riceverli se pur non volevano che campassero di busca: inverecondi! però che, avendo gittati via centocinquanta mila fiorini di oro per le feste dell'Assunta, i quali molto meglio sariensi spesi pel soldo delle milizie e a murare un castello, adesso gli venissero innanzi a far marina; e poichè gli oratori umilmente gli dichiaravano in _primis_ che, avendo speso danari in onore di Maria santissima, non pareva loro averli gittati via, nè così doveva parere a lui, ch'era quella cima di cattolico che tutto il mondo sapeva; e poi tra pagare soldati stranieri e operai paesani ci correva un tratto, conciossiachè i soldati stranieri intaschino la moneta e la portino fuori, mentre gli operai nostrani la mantengono in casa con augumento delle industrie loro, le quali poi formano parte della ricchezza pubblica; onde lo imperatore, sentendosi stretto, per conchiusione ordinava gli si togliessero dinanzi e cinquecento invece di quattrocento Spagnuoli accettassero e pagassero. Allora i Sanesi, mirando che il capitano del popolo non era stato eletto, si avvisarono di esercitare il proprio diritto nominando il duca di Amalfi, sempre ben veduto da loro; e lo imperatore lo cassò di rincorsa, notificando che a questo ufficio da ora innanzi voleva provvedere egli: per ventura fu lasciato confermare l'Orsucci lucchese nella carica di capitano di giustizia. Per tutti questi umori dal Burlamacchi ottimamente conosciuti, massime se pensi alla antica amicizia tra Siena e Lucca, ai medesimi pericoli ai quali esse andavano incontro, ai vicendevoli servizi, allo scambio dei magistrati continuo fra loro, ai fuorusciti Sanesi confinati a Lucca, alla fortezza che come un freno in bocca ai Sanesi minacciavano Cosimo duca di Firenze e don Ferrante Gonzaga, comprenderai di leggeri come Francesco nostro dovesse fare assegnamento su loro per sussidio dell'altissima impresa ch'egli si era recato addosso. Ora di Lucca, e non fie grave a chiunque, levandosi dallo spettacolo delle miserie presenti, voglia riconfortarsi nella contemplazione degli ardimenti antichi: prima con poco o si vinceva o perdendo acquistavasi desiderabile gloria, ora con grandi apparecchi o si perde o si acquista infamia immortale. CAPITOLO IV. Stato di Lucca nei tempi medii pari a quello delle altre terre toscane: i servi si ribellano contro i feudatari e costituiscono il comune. — Imperatore e papa, considerati fonte di autorità nel mondo, talora facevano approvare dallo imperatore gli eletti dal popolo, talora no. — A Lucca i supremi magistrati appellavansi anziani: potestà, capitano del popolo e sindaco che fossero, che facessero, quanto durassero, donde si traessero. — Se ai consigli partecipasse il popolo intero. — I consigli erano due in Lucca e da cui presieduti. — Consiglio di credenza che fosse. — Le tasche dove s'imborsavano i cittadini eligendi quante fossero, e chi vi mettessero. — Agl'imperatori non cale la cessazione dei feudatari a patto di redarne i diritti a carico del popolo. — Lo impero sostenne fino all'ultimo feudi imperiali le repubbliche toscane. — Uguccione della Faggiuola e Castruccio Castracani vicarii imperiali a Lucca. — Motto acerbo dell'Alighieri, contro Uguccione. — Digressione intorno a Castruccio, e quante miserie nella sua prosperità apparecchia alla sua patria ed alla sua discendenza. — I Tedeschi lasciati da Ludovico il Bavaro mettono Lucca allo incanto: la compra lo Spinola mercante genovese, che la tiene poco e male; subentrano al dominio di Lucca uno dopo l'altro Giovanni di Boemia, i Rossi di Parma e gli Scaligeri, finalmente i Pisani nemici acerbissimi ai Lucchesi. — I Fiorentini si vendicano su Lucca delle ingiurie di Castruccio: in mezzo a questi tramestii le forme repubblicane non mutano: forme politiche non rilevano se manchi la sostanza della libertà. — Carlo IV vende la libertà ai Lucchesi; a quali patti ed a che prezzo. — I Lucchesi diventano fittaioli dello impero; poi con diuturna industria anco vicarii. — I nobili non vonno compagnia nel governo della repubblica, e il popolo li caccia via dai maestrati non già dalla città: rimedio unico per purgare gli stati dalle consorterie. — Legge proposta da Francesco Guinigi buona o trista secondo i tempi e gli uomini, e tuttavia necessaria. — Giovanni degli Obizzi e come rintuzza la improntitudine sua. — Statuto del 1372 nè libero nè tiranno, e seme di rancori. — Il maestrato dei conservatori della libertà prima si riforma, poi per la morte del Guinigi si cassa; gli surrogano l'ufficio dei Commissari di Palazzo, ma ad altro fine. Principia lo screzio fra i Forteguerra ed i Guinigi; moto dell'Obizzi spento nel sangue. — I Forteguerra esclusi dai maestrati. — Il senato s'industria rimediarci e come. — Bartolomeo Forteguerra viene alla prova delle armi; è vinto. — Il gonfaloniere Forteguerra da Forteguerra messo alle coltella. — Lazaro Guinigi si fa tiranno: instituisce una maniera di governo oligarchico d'interessi materiali. — Lazaro è ammazzato dal nipote di Bartolomeo Forteguerra, ma i Guinigi non cascano, anzi Paolo Guinigi si fa tiranno assoluto: sua viltà e sua avarizia; pure ha la Rosa di oro da Roma. — I Lucchesi lo combattono, lo vincono, lo condannano a morte; poi lo mandano prigione a Pavia, dove muore. — Riforma dello stato. — Pietro Cenami gonfaloniere, procedendo rigido più che non conveniva, è ammazzato: vendetta che ne pigliano i Lucchesi. — Nuove congiure. — Michele Guerrucci per non avere con che pagare le multe è decapitato. — Legge del discolato che fosse: ragione dei provvedimenti straordinari che gli stati pigliano nelle vere o credute necessità; e quando giovino, e quando no. — Condizioni della signoria di Lucca di faccia allo impero: privilegio di Carlo IV, impronta pitoccheria di Massimiliano I in contrasto con l'avara tenacità dei Lucchesi; per ultimo Massimiliano sbracia privilegi; Luigi XII anch'egli vuole quattrini per non far male. — Carlo V, e nuovo mercato per Lucca dovendo le concessioni imperiali finire con la persona che le fa. — Caso festevole avvenuto fra Massimiliano ed i Lucchesi per cagione di 1000 scudi. — Lucca reputata sempre feudo imperiale. — Nuovi tumulti provocati dai Poggi: origine prima del tumulto il benefizio di Santa Giulia; l'Orafo creatura dei Poggi malmena la famiglia del vescovo. — I Poggi ammazzano il gonfaloniere Vellutelli, feriscono Piero e Lazaro Arnolfini; vogliono imporre gonfaloniere Stefano da Poggio, gli anziani rifiutano. — Cittadini armansi a sostenere gli anziani; questi, per tôrre capi ai sediziosi, li perdonano, contro gli altri procedono; diversità tra Genova e Lucca in proposito, se e quanto meriti lode per questo. — Tumulto degli Straccioni e perchè chiamato così. — Cause del tumulto. — Oligarchia borghese e suoi scopi miserrimi; esclusione dei cittadini dalle magistrature; riforme intorno allo statuto dell'arte della seta ed angherie ai tessitori; comincia il subbuglio: gli anziani, come suole, non cedono poco in tempo per cedere troppo inopportunamente. — Adunanza popolare nel convento di S. Lucia; e quello che ci si discorse: che cosa si deliberasse di domandare. — Cenami gonfaloniere ben disposto a concedere le cose richieste. — Feroci parole di Fabbrizio dei Nobili rimettono in compromesso la pace. — Di nuovo il popolo si aduna, ma non ingiuria persona. — Anziani mandano pacieri, e sono accolti male, i tumultuanti domandano pane; pure si viene a patti, e sembra composto lo screzio. Chi soffia dentro perchè lo incendio rinfocoli. — Cagioni di querele manifestate. — Si riforma il reggimento, nuove concessioni al popolo, e non si conchiude nulla; ne sono cagione i giovani scapestrati, principalmente quelli che avevano cessato il mestiero delle armi. — Malefizi dei giovani insofferenti di ogni freno. — Partiti larghi sono vinti dal consiglio per calmare gli spiriti, che non si quietano, ormai ostinati a vivere licenziosamente. — Congiura di cittadini a Forci presso i Buonvisi per occupare la città alla sprovvista e restituirci, come oggi si direbbe, l'ordine, e non riesce. — Pericolo che corre la città: i popolani spartisconsi; chi vuole sangue, chi no: nel contrasto non si fa niente, pure bisogna piegare davanti la volontà dei popolani; provvisioni su le chiavi della città. — Guardia alle porte dei più avventati. — I cittadini abbandonano la città: bandi per impedirli; i popolani pigliano le merci e i beni che tentano scansare dalla città. — Il maestrato propone uscire di palazzo e abbandonare lo stato: pietà di siffatto partito; un popolano si oppone, e rimette il cuore in corpo agli anziani profferendosi difenderli a tutt'uomo. — Preci solenni e processione statuita per ricondurre gli animi alla concordia; singolarità della processione; i preti tirano l'acqua al loro mulino. — Dio pei preti è _trino_ in cielo e _quattrino_ in terra; gli aiuti divini o si fanno aspettare troppo o non giovano. — Signoria nuova, di cui fa parte Francesco Burlamacchi; partiti risoluti che piglia. — Festa della _Libertà_; la manda all'aria un popolano: conseguenze di cotesto scompiglio. — Nuove risoluzioni della Signoria proposte dal Burlamacchi; la plebe si ribella, che di un tratto si avventa alle case dei Buonvisi per abbatterle; parte di plebe contrasta, ne seguita una terribile zuffa: prevalgono i demolitori, che vanno per le artiglierie; i Buonvisi mostrano i denti alla bordaglia, che li lascia stare; nella notte però essi lasciano la città. — Assemblea universale per provvedere ai bisogni presenti; donde venga che gli uomini talvolta sono sapienti e animosi stando da sè soli, messi in mucchio diventano stolti e codardi: deliberazioni gravissime dell'assemblea vinte per virtù di popolani appartatisi dai licenziosi. — I partigiani dei ribelli, impediti di uscire dalle porte gittansi dalle finestre per avvisare gli amici, i quali corrono alle armi e tornano ad assediare il palazzo. — Gli assediati resistono. — Le leggi contro i sediziosi sono vinte. — Alberto da Castelnuovo vuol mandare all'aria il palazzo e non riesce per miracolo. — Gli assediati inviano a sonare a stormo perchè le compagnie delle bande cittadine traggano a liberarli; ma prima che vengano ingaggiano battaglia con quei del cortile: li finivano tutti, dove i sediziosi per tema di essere presi tra due fuochi non uscivano a guardare gli sbocchi delle strade. — I sediziosi cacciati dagli sbocchi, i difensori della Signoria si sparpagliano per la città; di ciò i sediziosi accortisi, fanno testa e tornano ad occupare il cortile: trista condizione degli anziani rimasti in palazzo; i Buonvisi fanno massa a monte San Quilico, ma gli anziani non sanno come avvisarlo; per devozione di Lunardo Pagnini sono avvertiti i Buonvisi; il difficile sta nello introdurli a Lucca. — Fede di prete Bastiano da Colle che si profferisce portare la chiave di porta San Donato affinchè sieno intromessi: avventure e disdette di prete Bastiano; finalmente trova Taddeo Pippi e si apre con lui: favore del Pippi, che si acconta col Dini, e per diverse vie si accordano di far capo a porta San Donato. — Orazione di Martino Buonvisi prima di muovere per Lucca. — Casi che ritardano e imbrogliano il cammino: il fiume con non poco travaglio è guazzato. — Consigli diversi di scalare le mura, o di ardere le porte: vanno a pigliare lingua a porta San Pietro, tornano assicurati si aprirà tantosto la porta san Donato. — Prestanza di Vincenzo da Puccio, finalmente schiusa la porta, il Buonvisi co' seguaci suoi sono intromessi. — Modestia del Buonvisi. — Descrizione dello ingresso. — Argutezze di Meuccio cuoiaio. — La sedizione vinta. — Fuga di alcuni sediziosi e morte di altri. — Acclamazioni al Buonviso; e grave riprensione del gonfaloniere, a cui egli risponde umanamente. — Crudeltà esercitate dai vincitori; condanne di morte, carceri ed esilii. — Il commissario imperiale tradisce i commessi alla sua fede. — Due preti giustiziati. — I poggeschi di nuovo perseguiti; altri preti più avventurati scappano. — Nuove vendette patrizie. Parallelo fra i rivolgimenti di Lucca e di Siena, e si adducono le ragioni per le quali compariscono diversi fra loro. — È mortale la paura che fai al potente comechè in suo benefizio. — Leggi predisposte a instituire la oligarchia lucchese. — Congiura del Fatinelli e del Baccigalupo: loro supplizio. — Stato degli animi di Lucca inchinevoli a novità, epperò a favorire il moto del Burlamacchi. Ora importa che in succinto vediamo quali le disposizioni di Lucca per opporsi, ovvero per favorire una impresa avventurata in pro della sua libertà. La sua storia ab antiquo pari a quella delle altre repubbliche toscane: colà come altrove il torrente barbarico lasciò una melma di feudatari i quali trebbiavano il servo della gleba come questi trebbiava il grano; se non che un dì avendo il servo fatto tesoro di rabbia ed avendo acquistato senso di forza, si rivoltò e vinse i suoi oppressori: di qui sorse il comune, che per necessità si ordinò da prima a reggimento popolesco, stando lontani e in altre cure involti il papa e lo imperatore, considerati come sorgenti di ogni autorità sopra la terra. Quali per lo appunto gli ordini onde si governavano noi potremmo chiarire, ma a un dipresso furono consigli presieduti da un maggiorente fra i cittadini eletti dal popolo, per più o meno durata sedenti in ufficio; questi, se lo imperatore si faceva sentire (e qualche volta lo sentivano come la mola quando macina), procuravano venissero da lui approvati, se no e con molta contentezza ne facevano a meno; i nomi mutarono, ed ora appellaronsi consoli, tale altra anziani e priori, ma in Lucca per ordinario _anziani: Ecco uno degli anziani di Santa Zita, mettetel sotto_, come scrive Dante Alighieri. Oltre gli anziani ebbero potestà preposti ai giudizi vuoi civili o vuoi criminali, e capitani di popolo, negli inizi paesani, poi li trassero di fuori, forse per causa di emulazioni procellose e forse per iniqua parzialità: anco si legge del magistrato del sindaco, di cui lo ufficio investigare l'operato di ogni ufficiale compito il termine della sua condotta, imperciocchè tutte le cariche fossero temporanee, ed esso pure si chiamasse da paesi stranieri. I parlamenti del popolo intero rari e solo per approvare, e al popolo ne avanzava, ponendo egli allora in massima parte lo studio della libertà nell'essere governato con amore e con cura del suo vantaggio; e per me credo che a molti, eziandio ai giorni nostri, basterebbe così: invece di assemblee universali, istituirono due consigli, uno maggiore e l'altro minore: in vari tempi il numero di ambedue vario, il primo presiedeva il podestà, che, non pago di eseguire la legge, la faceva, per consueto in compagnia e qualche volta anco solo; al secondo il capitano del popolo: dal luogo dove si adunavano, quello dicevano di San Michele, questo di San Pietro: eravi altresì un consiglio di credenza, non già distinto, sibbene composto di cittadini meglio saputi e prudenti dei due consigli, il quale trattava delle faccende destinate a rimanere segrete. Per un tempo il consiglio minore, scelto fra giovani, sopperiva alla mancanza dei consiglieri del primo, ma dopo ognuno ebbe attribuzioni proprie. I consiglieri traevansi a sorte da due tasche dove s'imborsavano i nomi dei cittadini che a norma degli statuti n'erano degni; più tardi si aggiunse una terza tasca, la quale da capo rimase soppressa. Agl'imperatori poco importò che i feudatari sparissero quando restava il popolo; anzi se, cessati i pastori rimaneva il gregge, guadagnavano un tanto. Bene avrieno potuto le repubbliche toscane affermare con la mano sopra la spada (chè a questo modo unicamente si afferma bene) la propria autorità, ma non vollero, intese per gara stupida a lacerarsi fra loro, o non seppero (perchè e' ci bisogna del buono e del bello per fare capire al popolo che il padrone della terra è _lui_, proprio _lui_). Però, quando gli stava per isguizzargli di mano lo imperatore, ei si volgeva al papa; o guelfo o ghibellino, gli era mestieri un attaccagnolo dove appiccare la libertà; per la quale cosa queste repubbliche di proprio diritto non si costituirono giuridicamente mai, e, per tacere di Siena, di Pisa e di Lucca, anco Firenze i giureconsulti dello impero sostennero feudo imperiale allorquando, prima di spegnersi la stirpe dei Medici, l'Austria ne dispose come di cosa sua; difatti Uguccione della Faggiuola in qualità di vicario imperiale tiranneggiò Pisa, e quando per tradimento di Castruccio sorprese Lucca, ci entrò e la tenne con titolo e potestà di vicario imperiale; nè con diverso titolo la signoreggiò poi lo stesso Castruccio, allorchè Uguccione ebbe perduto a un tratto Lucca e Pisa. Pari furono in Uguccione ed in Castruccio le voglie rapaci e la prestanza nelle armi, superiore d'assai lo ingegno nel Castruccio; e due capi dentro una corona non entrano; e poi, per antichi e per novelli esempi, tristo o no il principe ch'ei sia, non perdona al suddito il dono del regno; i doni che si fanno ai principi, se tali da potere essere rimeritati, essi qualche volta rimeritano; se poi troppo grandi, gli hanno in uggia quanto le ribellioni, di vero gli uni e le altre fanno ricompensare dall'ordinario loro elemosiniere, il carnefice; però Ranieri figliuolo di Uguccione rimasto a Lucca, come più garoso del padre, essendo giovane, smaniando fare troppo presto, fece male, perchè, messe le mani addosso al Castruccio stava per mandargli il prete e il boia; e forse era meglio, ma il popolo, che s'innamora di chiunque ha potenza di fargli male, saltò su i mazzi, minacciando romperla se subito non si liberava Castruccio; di che sbigottito Ranieri da un lato s'industria menare il can per l'aia e dall'altro spedisce al padre Uguccione celeri messi a Pisa onde venisse via: ma Uguccione, che assai compiaceva alle turpi parti del corpo, massime al ventre, standosi a mensa rispose che non cascava nel quarto, e finchè non fu pinzo e satollo non si volle quinci rimovere. Intanto a Lucca il popolo armato si versava per le strade gridando libertà, e quando ci entrò Uguccione, il meglio che gli rimanesse a fare fu di fuggire, mentre Pisa, uscito appena, gli si ribellava al grido di: _popolo, popolo, e libertà_, il quale, comechè, più spesso che non dovrebbe essere, bugiardo, tuttavolta serbò e serba sempre virtù di agghiacciare il sangue del tiranno. Castruccio fu tale uomo da scavare le occasioni di sotto terra, pensiamo se se le lasciasse fuggire di mano; gli diedero un compagno che subito gli si strusse a canto a mo' di neve, ebbe potestà quanta ne volle, gliel'assentirono tutti, popolo ed ottimati, acclamazioni di piazza e voti di consigli: usarono i Lucchesi libertà pienissima di costituirsi servi, caso che via via nel mondo si rinnuova. Se alle piccole cose è lecito paragonare le grandi, Castruccio legò al carro della sua fortuna Lucca come già Napoleone la Francia, uguali i trionfi, l'ebbrezza e i rovesci; in questo il Lucchese più avventuroso del Côrso, che quegli non vide la malignità del destino avverso, mentre Napoleone l'ebbe a provare vivo; Castruccio vinse i suoi nemici sempre o quasi, mirabile lo celebrarono, e veramente fu per moti celeri, per subiti assalti, per sagaci ritirate, espugnò terre, vinse battaglie nelle storie famose, si assoggettò Pisa, prese e riprese Pistoia, trascorse fin sotto le mura di Firenze e per istrazio ci fe' correre tre palii, uno di meretrici; qual civanzo ne trassero i Lucchesi? Ludovico il Bavaro prima spoglia della signoria paterna i figli di Castruccio e poi lascia su quel di Lucca i Tedeschi quasi belve in pastura, i quali, fastiditi del soggiorno, anelando i patrii luoghi, la mettono allo incanto, la offrono a Firenze che non la vuole, a Pisa che anch'ella la rifiuta; all'ultimo come ciarpa vecchia la comprò un mercante genovese, Spinola, che la tenne poco e male e ci rimise le spese; gli subentrarono uno dopo l'altro Giovanni di Boemia, Piero Rossi di Parma, lo Scaligero di Verona: venduta e rivenduta, che anco dopo tanto tempo è una pietà leggere, per ultimo cascò nelle mani dei Pisani acerbissimi ed eterni nemici dei Lucchesi, sicchè adesso che hanno perduto perfino la gagliardia dell'odio con mutui dileggi si trafiggono fra loro, tanto è fecondo nel cuore dell'uomo il seme del male! I Fiorentini si ricattarono altresì contro i Lucchesi, e di che tinta! e col cambio resero loro le scorrerie del paese, le uccisioni, i guasti del contado e perfino i tre palii côrsi sotto le mura di Lucca, compreso quello delle meretrici. Vuolsi notare che in mezzo a tutti questi tramestii le forme apparenti della repubblica non mutarono, stettero gli anziani, il capitano del popolo, il potestà ed i consigli; la qual cosa dimostra quanto sieno poca cosa gl'instituti dovo manchi la sostanza. A Pisa tiranna di Lucca tiranneggiava il mercante Agnello, che caduto dall'alto si ruppe ad un tratto una gamba e la tirannide; allora sopraggiunse lo imperatore Carlo IV acclamato dai Lucchesi come liberatore, ormai ridotti a tale da stimare libertà il mutamento di servaggio: lo imperatore in _primis_ volle quattrini, e quindi concesse loro le facoltà della zecca, dello studio, di conferire lauree e parecchie altre coserelle a patto che nello impero restasse fermo il diritto di superiorità in tutto e per tutto, compreso l'utile dominio. Degli scrittori lucchesi taluno afferma da Carlo IV derivare la libertà di Lucca, altri sostengono all'opposto ch'ei ribadì le catene vecchie, e mi sembra che questi abbiano ragione: per ora fittaiuoli del proprio paese diventano i Lucchesi; nè dai principi vuolsi aspettare mai libertà diversa da questa. Tanto vero così che lo imperatore avendo lasciato in Toscana un suo vicario, questi in Lucca si recò in mano la elezione del potestà, ricevè giuramenti, gli anziani non elesse ma approvò, e via discorrendo; ma i Lucchesi si misero alla usanza del ragnatelo a rifare la repubblica loro, ed ora agli anziani reputando spediente preporre un gonfaloniere, lo fecero; poi l'autorità loro stabilirono; pian piano anco di un po' di milizia si provvidero; ricomposero le tasche per la elezione degli anziani; il fitto annuo venne rinunziato; che più? ottennero il privilegio di essere padroni in casa propria, ma come vicarii imperiali o, vogliam dire, rappresentanti di un padrone straniero. Nella composizione di questo reggimento fu provvisto che vi partecipassero così nobili come popolani; ma a ciò non consentirono i nobili, i quali nella potestà non si chiamando contenti di prevalere, la presero tutta, e sta bene; vissero e vivono finchè possono vita di consorteria i patrizi; tuttavia anco in seno al popolo si formano le consorterie, e allora queste diventano non già forza, bensì cancrena di popolo. Il popolo, dacchè i patrizi rifiutano uguaglianza, li dichiara decaduti dal reggimento e si chiude un nemico nelle viscere: veramente nemici sarebbero stati essi sempre, ma, esclusi a questo modo, i patrizi per necessità dovevano agitarsi irrequieti: tutto ben ventilato, a sperdere le consorterie io non ci vedo altro modo che il bando dei consorti o permanente o temporaneo e fuori dello stato: certo grave partito questo o copioso di danno, pure altro meno nocivo non mi riesce trovare, ed è ruina espressa sopportarli chiusi dentro il corpo sociale: per la quale cosa bene conobbe gli umori di costoro il dabbene cittadino Francesco Guinigi quando per ischermirsi dalle insidie patrizie propose un magistrato di cui unico fine fosse la difesa della libertà, che fu chiamato dei _conservatori della libertà e del buono stato_; accettarono ed elessero a farne parte lui primo. I patrizi, accortisi della ragia, si diedero moto per istrozzare cotesto magistrato sul nascere e levarono tumulto, se non che il magistrato diede prova di essere nato co' denti, imperciocchè, agguantati quattro, tagliò al primo il capo e la mano destra, gli altri licenziò col solo taglio della testa. A Giovanni degli Obizzi precipio eccitatore del tumulto, trovandosi fuori di città, intimarono stesse lontano; non obbediva, audacemente rientrava, sostenuto con passione diceva: Questa la ricompensa dello esilio sofferto durante la tirannide pisana? questo il compenso della scemata sostanza? Così Lucca ristora i suoi figliuoli del sangue versato per riacquistarle libertà? A cui rispondevano: Or come per mercede della difesa libertà tu vuoi che ti soffriamo tiranno, tu per te combattevi e non per noi, dacchè Lucca in potestà altrui non poteva essere tua. — Tuttavia, oltre al confermargli il bando, da ogni altra molestia si rimasero: costui bestemmiò il popolo ingrato; a me par giusto. Nel 1372 ebbe compimento lo statuto della repubblica; le forme repubblicane sempre, ma per così dire l'aria repubblicana non vi circola dentro, dagli uffici esclude i nobili e i cavalieri di parecchie famiglie, gli Antelminelli e i consorti tutti, ma nè anche ammette il popolo in generale e non pochi dei popolani ormai per industrie proficuamente esercitate diventati cospicui. Non è da dirsi se dai desiderosi di novità fosse inviso il magistrato dei conservatori della libertà; e siccome di vero appariva eccessivo, come sono sempre quelli i quali o una grande necessità od un grande timore suggeriscono, così non fu difficile apporgli accuse; ad evitare le quali ne raddoppiarono il numero e provvidero che solo un terzo per anno tenesse lo ufficio: e a questo modo un tempo durò sostenuto dalla bontà grande di Francesco Guinigi, ma egli cesse al fato comune nel 1384; allora tornarono i mestatori a lacerare più perfidiosi che mai il magistrato dei conservatori della libertà, e tanto pontarono che all'ultimo ottennero si abolisse; ai conservatori surrogarono i commissari di palazzo, ma erano altra cosa, imperciocchè lo ufficio di questi stesse unicamente nel vigilare le fortezze e le faccende della guerra: di qui incominciò uno screzio tra i Guinigi e i Forteguerra, cui piaceva l'acqua torba per pescarci dentro, del quale tentò approfittarsi Giovanni Obizzi fuoruscito mandando lettere ai suoi partigiani col mezzo di due frati; il reggimento, che stava a orecchi tesi, n'ebbe odore, e in un bacchio baleno acciuffa, tormenta e fa confessare i delinquenti, dei quali i laici decapita, i chiesastici manda a Roma. Giovanni degli Obizzi si era male apposto; i Lucchesi allora aborrivano moversi non perchè stessero bene, ma perchè temevano trovarsi peggio, sicchè con decreto amplissimo bandirono che le leggi veglianti sopra i consigli e le imborsazioni rimanessero inviolabili nè alcuno si attentasse arringare per riformarle: ma ecco mentre si guardano dalla pioggia sopraggiunge loro addosso la gragnuola. I Guinigi, massime Lazaro figliuolo di Francesco, reputandosi offesi dai Forteguerra, tra cui primeggiava Bartolomeo dottore in leggi ed estimato uomo d'assai, nella occasione che si aveva a rinnovare la tasca per la imborsazione dei collegi si dimenarono in guisa che poterono escluderne la più parte dei Forteguerra, e Bartolomeo più volte gonfaloniere e anziano fecero noverare fra gli arroti o, vogliam dire, supplenti, i quali costumavasi trarre dai giovani che non avevano mai tenuto maestrato. Buonagiunta Schiezza fece la spia o per levità o per tristizia; Bartolomeo meritamente ne mosse strepito infinito, e seco quanti queste soperchierie detestavano; i quali umori desiderando sopire sul nascere, il senato propose aggiungere una tasca di ducento dieci cittadini dove gli esclusi sarebbero stati imborsati, con avvertenza però che non avessero ad essere tratti se la prima non fosse vuotata: pretesto di simile novità fu che, molti cittadini stando fuori a cagione della morìa o per negozi, importava provvedere affinchè gli uffici non rimanessero scoperti, ma Bartolomeo, invece di quetare, s'incollerì due cotanti, e parendogli che quello non fosse riparo bastevole alla ingiuria, lacerava la turpe pusillanimità del senato; voleva al tutto cassa la imborsazione, i truffatori puniti; sotto sembianza di giustizia la vendetta compita: tentaronsi diversi modi di composizione, e taluni parvero tali da contentare chi ormai non avesse fermo il chiodo di romperla; e questo per lo appunto era l'animo di Bartolomeo, il quale, valendosi della congiuntura di Forteguerra entrato gonfaloniere, ruppe in aperta contesa; gli mandò la virtù, e la fortuna; prevalse il Guinigi, che, espugnato il palazzo, mentre il gonfaloniere repugna a lasciarglielo sgombro, cade iniquamente spento dai seguaci satelliti. In questo tumulto si nota un caso che male s'intende, se pure non si spiega così, che il Guinigi, tutto inteso a vincere, fece di ogni erba fascio per procurarsi satelliti, i quali poi inferocirono per proprio conto, chè la mala compagnia grava sempre non solo le spalle, ma bensì anco l'anima e la fama: parecchi vinti al furiare della plebe ebbero asilo nelle case del Guinigi e furono salvi; i fratelli Serangeli, lo stesso Bartolomeo Forteguerra rimasero spenti a ghiado; dopo passato il Rubicone che avanza a Cesare? Diventare imperatore o morire trafitto; a Lazaro occorsero ambedue i fati: fu principe assentendolo unanimi gli sbigottiti cittadini; pochi emuli bandì, fra questi Gherardo Burlamacchi antenato di Francesco, agli altri concesse perdono. A dire il vero, ei si mostrò mite tiranno, ma delle arti tiranniche si valse con inestimabile studio, condusse armi straniere, poche e fidatissime le paesane, profuse grazie ai complici meno per gratitudine che per allettamento a mantenerseli fedeli, si circondò di guardie, anzi diede loro stanza nel suo proprio palazzo. Non diverso dai prudenti tiranni, le forme del reggimento lasciò illese, e tuttavia giunse ad alterarne la sostanza, conciossiachè ridusse lo stato nelle mani dei borghesi, istituendo, per così dire, una oligarchia d'interessi, da cui escluse i dottori di leggi, i medici, i lettori di studio, insomma chiunque per dignità di dottrina o per eccellenza d'ingegno presentisse dovergli un giorno procedere avverso; nè può negarsi che secondo l'ordinario andamento delle cose umane ei si apponesse. In odio agli emuli Lazaro tutto quello che da loro emanava distrusse; perfino lo statuto penale stesso nella massima parte da Bartolomeo Forteguerra in codesti tempi lodato, cui fece vie più desiderare il nuovo sostituito e che all'ultimo venne richiamato in vigore con plauso di quelli che lo composero: infine, perchè cotesta antica soperchieria in tutto e per tutto alle nuove e alle nuovissime rassomigliasse, con solenni apparecchi si resero grazie a Dio, quasi per renderlo complice del reato. Dio pur troppo alle miserie nostre non attende o non le cura; chè, se così non fosse, e dove meglio potrebbe adoperare i suoi fulmini quanto a incenerire colui che, tradendo la fede del popolo, se ne fa con violenza tiranno? Il vendicatore fu Antonio Sbarra nipote ai Forteguerra: costui per condurre a fine il disegno si fece famigliare di Lazaro, gli entrò in grazia, ne sposò la sorella, e covata la vendetta sette anni, certa sera mentre Lazaro si stava senza sospetto di lui a suono di pugnalate lo ammazzò. Nè a lui nè alla patria giovò la Nemesi, ch'egli n'ebbe mozzo il capo, e quella non ricuperò la libertà; i cittadini bollirono un cotal po', ma non diedero di fuori; della quale ventura e della pestilenza che allora infieriva approfittandosi, i Guinigi riserrarono gli ordini oligarchici riducendo il reggimento in dodici del consiglio con balía suprema sopra tutte le cose, da durare finchè non cessava il contagio. Il contagio cessò, ma costoro non ismisero la balía: allora i cittadini ripigliarono a brontolare e accennavano a peggio; li prevenne Paolo Guinigi, che sostenuto dai soldati mercenari si costituisce tiranno; cupido e avaro lo dice la storia e a tutta prova codardo; eccetto questi meriti, altri non gliene sappiamo, ma l'avere accolto Gregorio XII con gentilezza ed undici cardinali gli fruttò la _rosa d'oro_, dono solenne dei sommi pontefici largito ai sostegni della Chiesa: di viltà in viltà, dopo avere patteggiato co' ladroni del suo paese, giunse allo estremo di tutto, che fu negoziare la vendita di Lucca ai Fiorentini; e poichè tanta infamia non seppero tollerare, i Lucchesi, accontandosi insieme, gli fanno impeto addosso e presolo lo giudicano: dichiarava lo statuto che il magistrato reo di avere manomessa la libertà della patria pagasse del capo; gli risparmiarono pietosi troppo il patibolo, sì bene lo consegnarono al conte Francesco Sforza, che lo mandò a Milano, donde trasportato a Pavia, quivi miseramente morì prigione. Dev'essere la libertà gaudio divino, dacchè una sembianza di lei o un grido che la chiami bastino a empire di dolcezza un popolo intero. Le campane sonavano a gloria, sulle torri, dai balconi sventolavano le bandiere, le pareti comparivano ornate di drappi stupendi per oro contesto e per seta; di liete voci intorno echeggiava l'aere, i cittadini frequenti per le vie abbracciavansi e piangevano e tutto questo perchè s'invocava il nome della libertà. Si adunarono cento padri di fediglia, i quali, dopo avere dichiarato che repubblicani volevano morire siccome erano nati, elessero dodici cittadini cui diedero balía di riformare lo stato, fra questi Pietro Cenami, della ruina del Guinigi massima parte, che poi crearono gonfaloniere: ma rei tempi soprastavano a Lucca, la quale non valse a districarsi da guerre infelici e dalla più desolata carestia: bene accolse dentro le sue mura vincitore Nicolò Piccinino e mostrò rallegrarsene come si può per vittoria la quale non ti porta benefizio ed è vinta con armi non nostre; ella abbattè le mura della cittadella Augusta, arnese di tirannide, stimando che distrutto il covo fosse spenta la bestia; i beni dei Guinigi confiscò, scarso compenso dei danni patiti; ai suoi discendenti interdisse la terra, dove sarebbero tornati non figli ma lupi; e poichè tristi cittadini, o per lo effetto dei loro mali pensieri ovvero ad istigazione altrui, non posavano di macchinare in iscapito della repubblica, si restituiva il magistrato per la custodia della libertà ed in danno dello sciagurato Cenami, imperciocchè, detestando gli scapestrati il rigido gonfaloniere, notte tempo entratigli in quattro nella stanza dove ei dormiva dietro la scorta di due anziani colleghi di Pietro che li guidarono, di mille punte lui inerme ferirono e misero a morte. Il defunto con esequie spontanee onorarono; i principali operatori della strage di lui decapitarono; e la storia con dolore registra complice del misfatto un Giovanni Burlamacchi, anch'egli dei maggiori di Francesco, e però condannato a carcere perpetuo. Da ora in poi solertissima la vigilanza dei custodi della libertà: onde il doppio tentativo di Ladislao Guinigi figlio di Paolo per sorprendere Lucca riuscito a vuoto; del pari scopersero la congiura di Michele Guerrucci, il quale, comunque anziano si fosse, rifuggì legarsi con uomini di piccolo affare per sovvertire lo stato in mezzo alla solennità di santa Croce; condannato nel capo, ottenne grazia per intercessione del duca di Milano a patto che si riscattasse con diecimila fiorini d'oro da pagarsi in due rate; arrivata la scadenza della prima, non pagata la moneta, pagò col capo: di ciò sendosi dolto il duca di Milano, come quello a cui parve non si avesse avuto debito riguardo, i Lucchesi mandarono oratori per iscusarsi; se ne sarebbero astenuti un'altra volta, per cotesta ormai non ci era più rimedio. Per ischermirsi da tante e siffatte insidie, a questi tempi venne fuori la legge detta del discolato, da taluni come ottima difesa, da altri come pessima lacerata: su la quale è da avvertirsi che necessità non ha legge e che per insulso culto della libertà non si devono lasciare le mani libere, e peggio poi armarle, ai nemici di lei perchè la trucidino: la questione sta nell'adoperare i partiti straordinari lealmente in pro' del vivere libero, e tanto si ottiene quando lo stato si governa davvero a libertà; in caso diverso tu somministri i flagelli per isferzare i buoni a vantaggio de' rei: a questo modo avvenne nel nostro regno d'Italia due volte, perchè nè retti nè reggitori amano, sanno o vogliono la libertà: di libertà a noi le veci e il sembiante, ai figli nostri la sostanza. Ora ecco la legge del discolato che fosse: di tratto in tratto i consiglieri erano chiamati a segnare una nota di cittadini reputati perniciosi alla repubblica; tutti quelli che nello squittinio occorrevano scritti in due terzi delle note si mettevano da parte e si sottoponevano da capo alla votazione del consiglio se avessero a bandirsi; dove si trovasse che in tre quarti dei voti erano per bandirsi, durante tre anni cacciavansi fuori di stato. Con simile argomento si otteneva che nei casi supremi, dove l'attimo perduto a superare il pericolo genera esizio, l'animoso rettore non venisse distratto da far presto e bene dalle invidie, dalle malignità e peggio dalle più frequenti saccenterie d'inani mestatori. Il guaio fu che a Lucca, remosso il pericolo, l'arnese piacque e si mantenne non già in pro' dello stato, al contrario nello interesse dell'aristocrazia in danno dei popoleschi perchè non fiatassero, molto meno operassero; e conchiudo col dire che colui il quale crede che si possa governare sempre in un modo mettilo a mazzo del pilota che vorrebbe navigare a tutti i venti con una vela sola. Prima di ripigliare il filo dei casi interni, a fine di chiarire quale e quanta parte dei cittadini appetisse novità e perciò fosse disposta a sostenere la impresa del Burlamacchi onde conseguire riforme nel reggimento, con pochi cenni mi sbrigherò ad esporre come e perchè i cittadini tutti avessero a desiderare di emanciparsi dalla subiezione imperiale. Già dissi del diploma di Carlo IV; adesso aggiungo come Massimiliano I imperatore, senza giudizio e senza danari, venuto in fantasia di pigliare la corona a Roma e forse anche il papato, di repente per suoi oratori domanda alla Repubblica imperiale di Lucca gli mantenga attorno a sè cento fanti per un anno, gli paghi venticinquemila ducati e per ultimo il deposito per le crociate e i giubilei. A Lucca parve essere pecora nella siepe; e poichè pecora non uscì mai dal pruneto se qualche briciolo di lana non ci lasciasse, così invia oratori a tirarsi i capelli co' ministri imperiali; e' la batteva tra il rotto e lo stracciato; assottiglia, assottiglia, più di cinquemila ducati non vollero da una parte dare nè dall'altra poterono prendere; e poi non isborsarono nè anco questi, chè allo imperatore saltò il ticchio di non andare più a Roma, e i Lucchesi procederono come costuma il marinaro, che, passato il pericolo, gabba il santo. Ma lo imperatore più tardi torna a spillare quattrini dai Lucchesi, non sapendo, per farne, a qual santo votarsi; le antiche ragioni non si potevano addurre, ne propose nuove: gli pagassero subito dodici mila scudi, ed egli avrebbe confermato loro i privilegi antichi. Piacque l'offerta, non il prezzo, e qui da capo il mercato giudaico; si convenne per novemila, ed egli da Padova con diploma ampissimo conferma l'antica libertà di Lucca, le concede facoltà legislative ed amministrative, autorità giudiziaria, il mero e misto impero; rinnuova le largizioni fatte a Castruccio, i privilegi di Carlo IV, renunzia all'annuo canone, il quale del resto non si pagava più fino dai tempi del vicario imperiale Guidone, e per ultimo enumera tutte le terre e castella che dovevano formare parte del dominio di Lucca senza darsi per inteso se per violenza o per trattato si trovassero in potestà altrui; e conchiude promettendo protezione e difesa con tutte le forze dello impero. Ma la protezione dello impero proteggeva poco; imperciocchè i Lucchesi, minacciati da Luigi XII, come quelli che procedevano parziali a Massimiliano, e quindi a lui ostili, ebbero di catti di comprare la protezione della Francia per trentaseimila tornesi, e loro non parvero troppi. A Massimiliano successe Carlo V, che di bene altri ugnoli si mostrò armato dell'avo suo; i Lucchesi gli spediscono subito oratori per tenerselo bene edificato e chiedere la conferma del diploma di Massimiliano. Il cancelliere Gattinara faceva cascare la cosa dall'alto: negozio grave questo; molta ma molta somma richiedersi all'uopo per ispianare le difficoltà. I Lucchesi sentivano venirsi addosso i sudori freddi e guaivano miseria; ma il Gattinara spietato gl'intronava sponendo come nella dieta di Vormazia, quando si fermò la lega col papa, persone intendenti avessero dichiarato che Lucca senza incomodarsi poteva contribuire per sua quota di spese fino a 40000 ducati; e poi a lui essere noto di certa scienza che a Luigi XII in più volte ne avessero pagati due tanti: ora volevano mettere Luigi a petto di Carlo? Costui non pastore, non padre, non re, bensì mercenario: e quanto a fede Carlo, prima di tradire la promessa, avrebbe fatto falò di tutte le provincia dello impero senza lasciarne pure una. I Lucchesi stretti alla gola lasciarono scappare la offerta di novemila scudi; il Gattinara, compreso da orrore per lo avaro sussidio, lungi da sè sdegnosamente lo rigettava; intanto correvano o piuttosto si facevano correre voci sinistre: due baroni, uno tedesco e l'altro spagnuolo, chiedevano Lucca in feudo e quattrini subito; lo imperatore risoluto a romperla con la ingrata città, di voce imperiale, coi fatti francese: allora i Lucchesi con le lagrime agli occhi offersero quindicimila scudi in tre rate di cinquemila l'una, che poi i mercanti lucchesi sottomano scontarono raspandovi su quattromiladugento scudi. I re tirarono e tirano sempre via; il popolo paga. In ghetto non si saria potuto negoziare meglio nè peggio di quello che lo imperatore e i Lucchesi si facessero. Nè si creda già che narrando io queste cose carichi le tinte; perchè trovi nelle storie che il povero Massimiliano ridotto al verde supplicava i Lucchesi di un migliaio di scudi per carità, ed i Lucchesi pur compiangendolo gli si buttarono in ginocchio davanti a mani giunte esortando che per amore di Dio non li ruinasse: quasi ruggine della natura lucchese in ogni tempo la spilorceria, sicchè fra essi corre un proverbio strano ed è «che per pigliare darieno il core.» Checchè sia del diploma di Carlo V confermatorio quello di Massimiliano, e sebbene gli imperatori che di mano in mano si successero non esigessero censo veruno per rinnovare le fatte concessioni, tuttavia Lucca fu considerata sempre feudo imperiale, di cui i privilegi potevano da ogni novello imperatore revocarsi, essendo _de iure_ feudale le concessioni temporanee e però obbligatorie solo durante la vita dello imperatore che le largiva o le confermava, e pure, avendo e cuore e fronte di affermarsi repubblica, questa catena al piede si portò Lucca fino al 1799. In Lucca, come avvertimmo, essendo prevalsa al reggimento l'oligarchia borghese, bene si accontavano con essa taluni nobili: ma pochi fiori non fanno ghirlanda; i più restavano esclusi, fra questi i Poggi casata copiosa di uomini e di ricchezze; costoro, lontani dai maestrati per volontà altrui, dai traffici per superbia propria, si davano ad ogni ragione diletti ed anco capestrerie; ozio e potenza furono sempre mai supreme spinte a mal fare: a nuovi scompigli per causa loro andò soggetta la patria, e la cagione questa. Un Arnolfino protonotario apostolico standosene a Roma per tirare acqua al suo molino, ottenne dal papa il benefizio di S. Giulia giudicato dei buoni: i patroni del benefizio se ne arrecarono, e meritamente, e da per sè soli non bastando a far contrasto, ricorsero per protezione ai Poggi e l'ebbero; sicchè il rappresentante dell'Arnolfino quantunque, come prete, tenace a tenere i denti stretti, per timore di averne le ossa rotte, scappò; se il protonotario pestasse i piedi tu il pensa, e poichè ne mosse fiero lamento agli anziani, e' fu mestieri che questi ci pigliassero parte. Frattanto un Pietro dell'Orafo creatura dei Poggi, per favorire un materassaio, insolentiva contro la famiglia del vescovo: puniti entrambi, il materassaio obbedisce, l'Orafo no e se ne richiama ai Poggi, i quali infelloniti investono il palazzo della signoria e a coltellate ammazzano il gonfaloniere Vellutelli; altri di loro, fatto impeto contro la casa di Lorenzo Arnolfino, e lui e il suo congiunto Pietro bestialmente feriscono; ciò fatto, circondandosi di scherani atterriscono gli anziani ed impongono sia eletto gonfaloniere Stefano di Poggio: comechè avessero la morte alla bocca, gli anziani rifiutano. Scesa la notte, attendono di qua e di là ad armarsi; ma scemano i partigiani dei Poggi e di tanto si accrescono i difensori della Signoria, che l'atrocità del caso a sangue freddo percosse la mente anco dei meno buoni: alla dimane gli anziani potevano vincere, pur non osarono, scesero a patti con gli omicidi ed impegnaronsi per fede a lasciare partirsi illesi dalla città Vincenzo e Iacopo dei Poggi, Lorenzo e Domenico Iotti perdutissimi giovani. Usciti costoro, si adunava la pratica, dove il vice-gonfaloniere Parpaglioni orando fervidamente conchiudeva si procedesse rigidissimi contro i rei tutti, il perdono concesso ai quattro come estorto dal timore si revocasse. I padri in parte accolsero la proposta, in parte no; i non perdonati si giudicassero, i perdonati lasciassersi stare, ciò persuadere la fama della Repubblica, austera mantenitrice della data fede. In guisa del tutto contraria a questa praticò la Repubblica di Genova co' Fieschi a istanza di Andrea Doria, ma Andrea troppo più prepoteva del Parpaglioni sopra la volontà dei cittadini; e poichè noi biasimammo cotesto atto, volentieri loderemmo questo altro, ma in coscienza non possiamo, imperciocchè dubitiamo forte che i padri a tale si conducessero per non parere vili volendo dare ad intendere che fosse da loro conceduto il perdono con libertà di consiglio; e poi se una volta data si doveva osservare la fede, giustizia di magistrato e costanza di cittadino persuadevano a non impegnarla mai senza causa degna: ancora, non ci riesce accozzare siffatta clemenza verso gli operatori della strage con la ferocia dimostrata contro i compiici loro, dei quali nove mandarono al supplizio, e sette erano dei Poggi; tra i giustiziati andò quello Stefano di Poggio che i padri commossi dalla troppa improntitudine dei faziosi rifiutarono gonfaloniere. I di Poggio continuarono ad agitarsi un pezzo, ma i moti loro erano di coda di lucertola separata dal corpo uno più languido dell'altro; alla fine quetarono. Adesso vuolsi per noi raccontare la storia del tumulto degli Straccioni, come quella che ci sembra piena d'insegnamenti politici: e di un tratto notiamo che tale fu appellato perchè i tumultuanti tolsero per bandiera uno straccio di stoffa nera quasi segno della miseria che gli affliggeva e del cruccio dell'animo loro. Ormai regnava e governava Lucca l'oligarchia borghese, se non pessimo, certo uno dei più tristi reggimenti che si conosca: dura gente i mercanti, cui se o pericolo o concetto grande non agitino, cuore ed ingegno costringono dentro il cerchio breve di male appetita moneta. Primo scopo pertanto di lei durare al timone, onde, avendo il coltello pel manico, empiva le borse dei nomi loro e degli aderenti suoi; quindi in essa la facoltà di eleggere anziani, senatori e i magistrati tutti così dei minori come dei maggiori uffici, o direttamente co' propri voti o indirettamente creando i deputati preposti a nominare e ad ordinare i collegi: però innanzi tutto ella faceva la parte pei congiunti e per gli aderenti; caso ce ne avanzasse, andava in cerca di qualche citrullo nè carne nè pesce, ma non ce ne avanzava: la plebe escludeva perchè, superba, le sembrasse imbrattarsi a prenderla a parte del governo; escludeva i nobili perchè, paurosa, temesse rimanere soperchiata: oltre questo, precipuo scopo assottigliare i salari del popolo e più che poteva ridursi in mano ogni ragione di lavoro. Il gonfaloniere e gli anziani, correndo il 13 gennaio del 1531, commisero a sei cittadini che riformassero l'antico statuto dell'arte della seta, aggiungendo e tagliando quello che fosse loro parso utile o dannoso: ed essi adempirono il cómpito; se non che, mossi dallo scopo accennato di sopra, trafissero in più parti l'interesse del popolo: a quanto ci è dato conoscere, questo era quello che maggiormente offendeva: la facoltà tolta al popolo di lavorare seta col suo telaio in casa; l'ufficio del marchio su le pezze levato dalla corte dei testori; il prezzo diminuito alle opere in mal punto, conciossiachè grande angustiasse a cotesti tempi la carestia il popolo e quotidianamente crescesse. Il popolo, secondo il solito, guaiva, qua e là in capannelli si adunava e sbuffando smetteva i lavorii; i governanti, secondo il solito duri finchè non mirino il diavolo nel catino intorandosi dicevano: si osservasse appuntino la legge, chè cassarla o riformarla adesso gli era come darla vinta al popolo con iattura inestimabile dell'autorità ed esizio del reggimento: intanto i nobili e gli altri esclusi, infiammati di carità pelosa, soffiavano in cotesto fuoco compassionando al popolo; lo tempestavano dicendo ch'egli aveva ragione da vendere, ma che badasse a non farsi mangiare come le ciliege una dopo l'altra; nell'unione stà la forza: ora il popolo non intese a sordo, però mandato attorno lo invito, si radunò il primo di maggio nella chiesa di San Francesco, dove aveva altare; e poichè si trovò in maggior numero di quello che avessero i capi presagito, questi deliberarono recarsi nel chiostro maggiore del convento di Santa Lucia: quivi tutti a parlare, a interrompersi, a contradirsi; sentenze e voci diverse e un brontolío come di caldaia quando spicca il bollore. Matteo Vannelli capo maestro vedendo che la veglia passava in accordature, recatosi sulla predella dell'altare di S. Lucia così favella: «Orsù azzittatevi ed uditemi, chè a questo mo' voi discorrete a vánvera: quanto sia iniqua la legge che ci hanno messo addosso, inutile dire; pertanto stendiamo una bella e buona scrittura dove si leggano specificati tutti i gravami che la legge ci porta e domandiamone la emendazione; poi non sarà male metterci in fondo a mo' di rammarichío che gli avi consideravano gli operai come cristiani battezzati e fratelli da sovvenire sempre bene inteso col loro vantaggio, non già come santo Bartolommeo da scorticare con danno di loro e nostro; e ora che ho detto la mia, venga altri a dire meglio di me, chè io ci avrò gusto.» Ed altri invero parlarono, ma non aggiunsero un filo alla trama, onde i convenuti gridarono: «Andiamo al grano!» E così deliberata la supplica, elessero diciotto capi maestri tessitori, chiamandoli capitani, affinchè la presentassero e con quelle più accomodate parole che sapessero raumiliassero i padri, onde essi perseverassero nella umanità di cui avevano dato saggio pur dianzi, quando per sovvenire il popolo dalle angustie presenti gli concessero la proroga di quattro mesi a pagare i debiti. I capitani, accettato lo ufficio, prima giuraronsi unione e fede, poi s'incamminarono al palazzo, dove presentarono la supplica: il gonfaloniere Martino Cenami, uomo dabbene, gli accolse con miti parole, e comechè dichiarasse segno di contumacia e quasi di fellonia essere stato il costoro ritrovo in Santa Lucia, nondimeno li confortava a starsi di buon animo, chè sarebbero stati consolati: ond'eglino, scusandosi non avere mai inteso offendere la legge per dolo ma bensì averla per ignoranza trasgredita, si ritirarono; e forse per allora a cotesto modo si rassettava la cosa, se, dopo partiti, gli anziani continuando i ragionari sopra quel successo, Fabrizio dei Nobili agramente riprendendo la mansuetudine del gonfaloniere, non fosse uscito fuori con queste parole: «Signori miei per guarire a costoro il mal del capo ci vorrebbe un recipe di capestri.» Di che turbatosi Matteo Vannelli, che a sorte ci si trovò presente, raunato il popolo, lo ammonì a non addormentarsi in grembo a Dalila; per la quale cosa il popolo bandì un'altra radunata pel giorno di poi più solenne di quella già fatta: se riuscisse maggiormente solenne male possiamo affermare, certo ella fu più numerosa e più sediziosa; però che la gioventù, correndone la stagione, si era dilungata per la campagna a cantare il maggio, ma questa volta non con cembali e pifferi nè con arbori ornati di nastri e di fiori bensì con picche, alabarde, corazze, elmi, tamburi, come se andassero a battaglia ordinata non già a festa: e' fu ossentazione di terrore e minaccia, non offesa, dacchè dal negare reverenza ai maggiorenti nei quali occorrevano e dallo squadrarli torbidi con l'aggiunta di qualche bottone in fuori, non torsero un capello a persona; anzi essendosi dibattute in costoro Biagio Mei cittadino di alto affare, questi li riprese un cotal poco acerbo: «Giovani, giovani, non si va fuori per sollazzo con armi parate a nocere; andate su presto a deporle, se pur non volete che qualche stroppio vi accada.» I petulanti giovani si contentarono rispondergli: «Va per le tue carabattole, vecchio, chè a noi quello che piace e giova vogliamo fare.» Ora questa frotta di giovani, a quel mo' abbigliata, venne con infinito schiamazzo ad ingrossare l'adunanza, e con essi di ogni maniera operai, i quali non furono reietti, all'opposto accolti a braccia quadre, avendo inteso che gli anziani avessero spedito in montagna perchè le squadre si accostassero alla città e dessero spalla al bargello per farne una funata. I padri, vedendo crescere la tempesta, deliberarono mandare alla volta del popolo quattro commissari per abbonirlo: cessasse il tumulto; quanto aveva chiesto essergli stato largamente concesso; sul passato si mettesse una pietra. Giunti però i commissari nella piazza di San Francesco, ecco si videro accerchiati da una torma di furiosi i quali, strabuzzando gli occhi, luridi e ignudi nelle membra, scarmigliati i capelli, con le mani in alto, sbarrata la bocca ululavano: «Pane! pane, cani!» E cominciava la faccenda ad abbuiarsi; per lo che quanto più in fretta poterono accostaronsi all'altare, dove i commissari Ludovico Bonvisi e Battista dei Nobili favellarono poche e scucite parole; più efficace Giambattista Minutoli orò in questo senso: «Cittadini dabbene, che armi? che minacce sono queste? Volete buttare all'aria la libertà? E allora fatelo senza tanti arzigogoli, ma avvertite bene, per tôrre un occhio a noi, voi verrete a cavarveli tutti e due; perchè in verità io per me nel contegno vostro non mi ci raccapezzo. Voleste la proroga per soddisfare i debiti, e l'avete ottenuta; vi doleste del caro dei viveri, e per quanto stava in noi vi abbiamo sovvenuto; le riforme intorno l'arte della seta vi davano fastidio, e noi le abbiamo casse; alla maestà della legge contraffaceste e continuate a contraffare, e di questi malefizi i padri vi largirono perdono e ve lo rinnovano per mia bocca, compreso il presente. Ora dunque di che vi dolete? Di gamba sana? Dubitate per avventura della fede nostra? Mi amareggia supporre simile sospetto: ma, ad ogni modo, noi non offende, e voi avete torto; imperciocchè se alla Repubblica nostra si può movere appunto, egli è preciso per la tenacità sua talora soverchia ad osservare la fede data; e valga il vero, per non portare qui in mezzo troppo antichi esempi, chi di voi non ricorda la osservanza dei patti ai Poggi omicidiari sacrileghi e sovvertitori delle sacre leggi della libertà? Sicchè se avete nuove cose a chiedere, palesatele, onde noi vediamo se sia spediente concederle; se poi non le avete, allora quetatevi ed attendete ai lavori consueti, chè con questo sciopero per ogni dì che passa ne va un tesoro, e a voi troppo più che a noi.» Il popolo rispose che veramente si fidava poco: intorno al caro forse i padri avranno creduto provvedere, fatto sta che i fornai dispensano tuttavia ai poveri pane di vecce, e in testimonio sporgevano un tozzo, dicendo che ne cibassero per giudicarne a prova, sicchè al Bonvisi toccò ingozzarne due bocconi che dichiarò stomachevoli: però su questo punto fu promesso solennemente si sarebbe apportato rimedio davvero; il marchio delle pezze si rese alla corte dei testori; ad ogni operaio fu concesso lavorare col suo telaio e per conto proprio; quanto a prezzo della stoffa grave andante arieno avuto per la tessitura sei bolognini a braccio, eccetto damaschi e roba a colori, chè allora si sarebbero portati fino ad otto e, secondo la qualità, anco a dieci ed a dodici rispetto ad ermesini e a taffettà, dei larghissimi a un colore dieci bolognini; a più colori undici. Di dolci parole non si fece a spilluzzico, sicchè anco per questa volta il popolo se ne andò a casa lieto e contento. I nobili esclusi dal reggimento, non pochi dei borghesi venuti avanti per subiti guadagni, e i caporioni della plebe, come quelli a cui pareva avere insaccato nebbia, vivevano di pessima voglia: tornando a mettere su il popolo, temevano dare a conoscere troppo che lo facevano per voglie ambiziose e avare, e quindi ritrarne beffe e danno; ma stillando la cosa, conobbero che del modo di assicurare il popolo non si era parlato e tornava inutile parlarne, imperciocchè tale che appagasse riusciva impossibile trovarsi; di qui pertanto presero partito per sommovere gli animi appena tranquilli del popolo: «chi compra dalla pazzia ha per giunta il pentimento, susurravano attorno; per che vi siete lasciati aggiundolare dai caporali vostri che sanno di melone lontano un miglio. Chi assicura il popolo di non pagare lo scotto all'oste? I bietoloni che sputano tondo sacramentavano non ci vedere modo di scavare una guarentigia, mentre bastava volerla perchè da sè ci cascasse in mano: sicuro! finchè la medesima gente regge non ci è salvazione, ma questa gente non diciamo già si cacci via, ma cessi di governare sola, si allarghino le borse degli eligendi: perchè esclusi parecchi nobili per censo e per gesti preclari? perchè non si contano nulla i borghesi più utili e più ricchi di tanti altri fanulloni da molto tempo abilitati agli uffici? E plebe o non plebe, che significa questo nelle repubbliche? Non siamo uguali davanti alla legge? Non dobbiamo tutti avere parte così agli onori come agli oneri dello stato? E perchè la plebe porterà sempre il vino e beverà l'acqua? Ad ogni tratto che al popolo piaccia gitta un plebeo su la piazza o sul campo da disgradare Tullio o Cesare. Allargandosi il governo e mettendoci dentro le persone di sua fiducia piena, il popolo conseguiva la sicurezza che leggi in suo detrimento non se ne sarebbero deliberate, e alla men trista, avvertito in tempo, avrebbe fatto stare i legislatori in cervello.» Di qui nuovi assembramenti e nuove richieste, non enormi certo nè ingiuste; tutto altro: ma pretendere a forza convertito in legge su nel palazzo quanto si delibera in piazza è morte espressa di ogni reggimento civile; meglio vale buttare giù il governo per rifarne un altro. Il consiglio messe a partito le leggi, rimasero vinte tutte: invece di 30 i consiglieri furono 40 per terziero, in tutto 120; non ce n'entrasse più di 3 per famiglia; proibito il cumulo degli uffizi; fatto posto a ben trenta popolani; ai filatori data facoltà così di vendere come di comprare sete crude; rinnovasi e con solenni riti si giura la promessa del perdono. Adesso poi la si faceva finita davvero, ed i cittadini incontrandosi per via rallegravansi, per contentezza sopra l'una e l'altra guancia baciavansi; e s'ingannavano, chè il popolo è mare di molte onde ed una volta agitato non posa se prima l'ultimo flutto non venga a rompersi sul lido. Avanzava una gente di cui lo ingegno, il costume e le opere provammo e ai giorni nostri proviamo tuttavia; io renunzio a descriverla con parole mie, perchè parrebbe che voltassi addietro la faccia dal 1867 per favellare del 1531, e forse me ne potrebbe venire nota di maligno: riporto pertanto inalterate le espressioni di Giuseppe Civitali, di cui la cronaca si conserva manoscritta negli archivi del municipio di Lucca. «Dipoi suscitarono molti che, avendo visto le cose dei testori andare bene, pensarono per la medesima via arrivare a qualche loro disegno, che per inalzarsi agli onori ed ottenere premi, se n'eccettui l'arme, altra via non avevano, e questi erano certi giovani invero bravi ma piuttosto oziosi e nemici a guadagnarsi il pane con onesti lavori che altro; i quali essendo di fresco venuti dalla guerra, si erano disvezzati da ogni maniera di negozi, e disegnando potersi mantenere bene in ordine in casa come fuori quando gli correvano grosse paghe, volentieri si accostavano a coloro i quali rimescolavano l'acqua per pescare nel torbido.» Con simile peste in corpo, con cittadini che atterriti atterrivano, con altri che alla chetichella mettevano legna sul fuoco, non parrà cosa strana nè forte se la città in breve provarono al paragone men fida del bosco; ogni dì subbugli e ferite e un chiudersi le botteghe e trarre a rumore il popolo in piazza. Il soprastante delle carceri conciavano pel dì delle feste, e quando i colpevoli dannarono alla multa ed al carcere, rispondevano questi facendo manichetto e bravavano: gli andassero a pigliare; dopo il soprastante ne veniva come per sequela che bastonassero il bargello e i famigli, bazza se non gli uccisero; un cotal più di rispetto l'ebbero pel mazziero della Signoria spedito verso di loro per sermonarli, chè si contentarono rincorrerlo a sassate: volevano nelle mani il potestà per insegnargli a camminare diritto, e più del potestà studiavano agguantare il capitano del popolo, però che si fosse vantato che se lasciavano fare a lui, gli avrebbe ricondotti al canapo. Al consiglio, comechè composto di caloscioni, pur venne la muffa al naso; ma veruno ebbe coraggio, non che di arrestare, nominare soltanto i delinquenti; onde, per non dare a conoscere la miseria in cui era caduto, il governo finse conoscerli e perdonarli: ogni cosa a rotoli; non misfatto punito, anzi bastava mostrarsi impronto ad esigere, non già a implorare perdono, perchè venisse conceduto subito. Dopo siffatto esperimento non si sa che fantasia fosse quella di ordinare che veruno si attentasse a portare arme di giorno nè di notte; e fu per non detto: ancora si fece un decreto per condurre una guardia di 100 fanti, e il popolo lo cassò; ridevole e a un punto miserabile stato questo, che il consiglio dentro il palazzo deliberava provvisioni che alla porta si annullavano, mentre quello che alla porta il popolo ordinava confermavasi dentro, e ciò perchè giù in cortile, guardia non chiesta, stanziavano continuo da quattrocento tagliacantoni con la corda degli archibugi accesa, i quali il consiglio presumeva cacciare con 100 fanti, e lo diceva, e non solo lo diceva, ma lo bandiva perchè lo sapessero meglio. Le quali inanità considerando io scrittore non solo nelle storie vecchie ma sì nei rivolgimenti che mi sono passati sotto gli occhi, ho dovuto persuadermi che lo intelletto umano va sottoposto ad eclissi come il sole e la luna; e avventurato vuolsi celebrare colui che ne patisce una volta sola in capo all'anno. Siccome però neppure agli aizzatori tornava il perpetuo subbuglio, e a qualche cosa volevano approdare, fecero chiedere che piacesse al consiglio mettere a partito: che i forastieri d'ora in poi non avessero magistrato; la età degli anziani sia non minore di anni 25, del gonfaloniere 30; al consiglio dei Trentasette si aggiungano sei per terziero; le tasche vecchie cessino, si facciano le nuove, e chi le deve fare fino da ora si elegga: finalmente, come il _Gloria_ in fondo al salmo, perdono a tutt'oggi: le quali provvisioni riuscirono vinte agevolmente. Anche questo partito a cui satisfece e parve anco troppo, a cui no, essendo ormai risoluto di vivere di rapina; continuarono le soperchierie dei popolani, gli oltraggi, le morti, e vie e vie crescendo si diede mano agl'incendi e a tanto giunsero di esorbitanza che chi loro feriva o ammazzava aveva ad essere irremissibilmente punito, s'eglino i feritori e gli ammazzatori, dovevano del pari irremissibilmente andare assoluti. Alcuni cittadini accorgendosi ormai che a cotesto modo egli era pigliare il male per medicina, in numero di nove si trovarono a Forci villa del Buonvisi e fra di loro convennero di liberare da tanta abiezione il magistrato della patria, dando ai popolani tale un picchio sul capo da farne durare la memoria un pezzo; perciò, chiamati 500 fanti dalla Montagna e 300 da Camaiore, disposero che arrivassero sotto la condotta di Bernardo Pieroni sul fare del giorno alle porte della città quando si apriva, dove irrompendo, sforzassero la entrata e difilati si recassero al palazzo e lo custodissero tanto che nuova gente di fuori e i cittadini nobili si armassero per ingaggiare battaglia. Ma il trattato non fu tenuto segreto in guisa che la plebe non ne avesse fumo; per la quale cosa mille armati di tutto punto si trovarono ad impedirne lo ingresso: intanto anco gli avversari alla plebe armansi e si versano giù per le vie; chi urla che i Camaioresi intromettansi, chi no; schiamazzi e minacce per una parte e dall'altra; più volte abbassarono le aste per ferirsi e più appressarono la corda al fucile per isparare gli archibugi; sicchè la sgarrò proprio di un pelo che in cotesto giorno le strade non corressero sangue: e nulladimeno non accadde guaio; imperciocchè taluni cittadini, o timidi o prudenti, recatisi in fretta su le mura, ordinassero ai fanti della campagna in nome della Signoria si ritirassero, e quelli obbedirono: per questo accidente i nobili sbaldanzirono e presero a sbandarsi; a cui fugge, i cani mordono le gambe. La plebe gridava: Adesso è tempo di pigliarsene una satolla; terribili gli urli: Sangue! fuoco! ma più terribile assai ciò che tacevano, ed era: Arraffare. Ma a Dio non piacque che in cotesto giorno andasse Lucca in ruina; la plebe, non tutta ladra, si divise; e siccome ambedue le parti in mezzo all'ira tanto senno serbarono da conoscere che, per poco si accapigliassero fra loro i nobili, gli avrebbero di leggeri oppressi, ristettero prevalendo i consigli men rei; però, rinfocolati i sospetti, la plebe volle si bandissero alcuni cittadini invisi, e lo furono; volle si spedissero commissari a Camaiore che per cosa al mondo non movessero senza comandamento del gonfaloniere e degli anziani, e ne furono mandati tre, Cenami, Massei e Tirti; vollero si licenziasse il Pieroni capitano di Camaiore, e fu cassato; e, ciò che parve allora enormissimo, vollero che le chiavi della città ogni sera si presentassero in palazzo, quivi dentro una cassa ferrata si riponessero e con due chiavi si chiudessero, di cui l'una terrebbe il gonfaloniere, l'altra il popolano Granucci; ancora, i giovani di scarriera ordinarono alla meglio e loro commisero la custodia delle porte col salario di quattro e più scudi al mese: fidatissima guardia se altra fu mai, imperciocchè se veniva a cessare il governo che vigilavano, finiva la cuccagna; qualcheduno poteva tradire, ma non pareva facile però che fra di loro si guardassero, ed a corromperli tutti ci voleva troppo. Procedendo le faccende in questa maniera, ogni giorno più si coloriva il danno del diuturno disordine, il quale principalmente pativano coloro che lo avevano soprattutti o desiderato o promosso; dacchè i nobili, mano a mano spandendosi per le campagne, attendevano a lavorare e a difendere le terre, e questo facevano, e bene, non così i mercanti, che ormai come trarre profitto dai propri capitali non sapevano, e non era il peggio, il peggio era la tremarella continua che li rubassero: già parecchi erano spariti recandosi in più tranquilla stanza: e sebbene il governo accortosene facesse ardua la partenza, non per questo meno sgomberavano segretamente la pecunia e le preziosità loro; la quale paura crebbe oltre ogni confine allorchè la mattina vedevano le porte delle loro case segnate con tinta rossigna della parola _desolabitur_: ma questa infelice provvidenza a parecchi fu esiziale, imperciocchè i soldati preposti alla custodia delle porte, o sia che per opera di spie lo scoprissero o per istinto lo subodorassero di un tratto, avendo frugato ogni involto che fuori della porta si trasportava, trovarono il frodo, il quale per amore del bene pubblico (già s'intende) fra loro spartirono; chi si richiamava, legnate; modo spiccio e, bisogna pur dirlo, sopratutto efficace per fare star cheto chi dà fastidio: ancora, credendo di provvedere al futuro, pretesero che venisse loro stanziato il salario di 10 scudi per uomo a vita, e non sapevano che la rivoluzione dalla destra tiene un pennello per dipingere quanto gli salta nella fantasia, e nella manca una spugna per cancellare quanto il popolo non conferma. Intanto i magistrati, indegni dopo le ultime prove della suprema loro inettezza, vollero darne una di viltà; però deliberarono abbandonare il palazzo, lasciando lo stato in balia della plebe, e Bonaventura Micheli gonfaloniere, piangendo dirotto, ne mosse la proposta in consiglio, la quale udita dagli astanti, non ce ne fu uno che non recasse ambe le mani agli occhi e in singhiozzi non rompesse. Tutte le cose umane più o meno affrettandosi giungono all'apice, donde non potendo più oltre salire, forza è che scendano: e questo in Lucca fu il punto supremo della insolenza del popolo, imperciocchè uno di loro che all'acqua era stato e stava, non già alla tempesta, di repente salito in ringhiera con modi acerbi, ma ad un punto affettuosi, garrì gli anziani confortandoli a rimanere, non badassero alla improntitudine di qualche farabutto, chè egli procedeva non solo senza, ma contro il consenso dei capi; e di quest'altro gli assicurava, ch'egli con tutti i parenti suoi e gli amici era disposto a mettere per la difesa loro a sbaraglio la vita a patto che compissero a lor posta il proprio dovere e non parlassero mai più di simile cosa. Vedendo la cosa avviata bene, quasi per metterle il tetto, pensarono ricorrere a Dio e ai santi, perchè, se non a cagione dei propri meriti, almeno per loro misericordia, li tirassero fuori da tanti affanni; perciò ordinarono prima di tutto un digiuno: veramente quale corrispondenza passasse fra il digiuno e la concordia non si vede adesso, ma allora ci si vedeva; poi allestirono una processione co' fiocchi, quale non si era mai veduta pari per lo avanti, conciossiachè nelle antecedenti più di due corpi in giro non si erano portati, e questa volta furono cinque: oltre le bandiere delle contrade e molte altre di privati cittadini, comparve il gonfalone della _Libertà_, dove a caratteri da scatola tutti di oro si leggeva questo nome trapunto, e lo portarono a vicenda tre popolani e tre nobili per vie più cimentare la concordia. Chiuse la funzione un discorso spartito in parecchi punti di quel famoso predicatore che fu fra Girolamo generale dei Servi, il quale, per giudizio di quanti lo udirono, fu cosa da smovere il pianto non, che alle belve, ai sassi. I preti, che da ogni legno sanno cavare schiappe per farne bollire la pentola, indussero i padri a fondare un altare alla Libertà e a questo altare assegnare un cappellano con quattordici fiorini al mese, poi creare una seconda cappellania con la entrata di sei e vitto intero alla mensa degli anziani. I nostri vecchi sapevano l'arte, noi no; noi spogliamo i preti e vogliamo ci dicano grazie; noi ne manteniamo uno esercito a spilluzzico, e però tutti ci lacerano a morsi; valeva meglio tenerne pochi e assettare le faccende in guisa che per amore della paga dicessero bene di noi; alla più trista allora chi ci avrebbe benedetto, chi maledetto, mentre adesso in coro ci bestemmiano e scomunicano co' ceri gialli. Dio, argutamente sentenziò Federigo Campanella, pei preti è _trino_ in paradiso, ma qui in terra è _quattrino_. E' parve non senza mortificazione dei fedeli che in chiesa costumasse come in cucina, dove i troppi cuochi sciupano il desinare; perocchè gli animi non si racchetarono, e gli strappi non si rammendarono, anzi tutto si arruffò peggio di prima, colpa di taluni sediziosi che di essere ridotti al canapo non ne volevano sapere; finalmente a mezzo marzo entrò il nuovo magistrato di cui per la prima volta fece parte Francesco Burlamacchi, e questo parve disposto a volerne vedere la fine, e, quasi per fare libro nuovo e conto nuovo, innanzi tratto bandì perdono generale di quanto fosse detto ovvero operato fino a tutto cotesto giorno, che fu il martedì santo: poi cassò la guardia accogliticcia del palazzo, dando ad ogni uomo di mancia un mese di paga perchè potesse rigirarsi e fare i fatti suoi; le chiavi delle porte tornarono a custodirsi nel modo antico, ed ogni cosa parve riprendere la consueta andatura. Avevano ottenuto molto, ma pel giorno della festa della Libertà confidarono di comporre ogni screzio in modo permanente; e questo dì venne: che razza di libertà fosse quella dei Lucchesi e quanta causa avessero di rallegrarsene già vedemmo, ma per ordinario la gente si contenta di poco. Per quel giorno dunque fu ordinata la processione consueta, ma più solenne degli anni passati, dove si portò attorno lo stendardo della Libertà tutto inorato ch'era una maraviglia a vederlo; lo seguivano il senato, i dottori, i cavalieri e dopo gli artieri e per ultimo il popolo in bella ordinanza. Dopo avere girato un pezzo, convennero in duomo, e colà un canonico, il quale non si sapeva bene se più sentisse di dottrina ovvero di santità, ma sentiva forte di ambedue, sciorinò una orazione con la quale dimostrava espresso che la libertà senza pace non si può dare, e pace senza libertà si può dare anco meno; poi, agguantato un Crocifisso con due mani, cominciò a trinciare benedizioni che pigliavano un miglio di paese; venne dopo la messa tra suoni e canti mirabili, e finalmente l'ora del desinare, sicchè la processione uscì dalla chiesa lieta e contenta che ogni cosa fosse riuscita a così desiderabile fine. Ma il demonio non si diede per vinto, chè anco una volta s'ingegnò di ficcarci la coda: onde accadde che, essendo uscite di chiesa le prime regole dei frati, a Giannino di Castelnuovo venisse fatto di vedere un Paolo Antongioli di Camaiore vocato lo _Imbroglia_, nè si potendo tenere, gli corse addosso con l'arme ignuda gridando: «Ecco uno dei traditori chiamati per mandarci alle coltella.» Di qui uno scompiglio da non si potere con parole descrivere; svolazzare di tonache di più fogge e colori, ceri e lampioni in fascio, cristi in pezzi, madonne rotte, chi urla e chi piagne, chi bestemmia e chi prega; chi si fa largo giocando di calci e di pugni, chi si rassegna a farsi calpestare mugolando allorchè qualche scarpa ferrata gli ammaccava le costole; donne capovolte in mucchio addosso ai frati, cui cotesta pareva strana novità; dei rimasti in duomo parte si restrinsero come pecore sotto il leccio quando la procella imperversa, parte dalle porte laterali spulezzarono a casa, dove arrivarono a tempo che la minestra non raffreddasse: tuttavia il tumulto rimase lì, e la processione potè ripigliare il cammino; ma la fu una cosa guasta, e ad ogni uomo pareva mille anni di levarsi la cappa e correre a casa perchè le mogli non istessero in pensiero; per tutto quel dì si ebbe una pace torbida, piena di ansietà; la mano dei cittadini, virtù fosse o paura (ma se virtù ci era, la paura vinceva di cento cotanti almeno), ricorreva più spesso al pugnale che alla forchetta mentre sedevano a mensa: finalmente, come Dio volle, per tutto il giorno e per la notte appresso non accadde altro strappo. La mattina per tempo, radunato il consiglio in cotesti giorni cambiatosi, per opera principalmente di Francesco Burlamacchi, che per la prima volta ne faceva parte, i padri deliberarono si ordinasse che le armi si deponessero e tre dei più facinorosi si bandissero. La mala bestia della plebe presente il morso, per ciò recalcitra con tutte le forze; invano qualcheduno non cieco affatto contrasta, ella lo scaraventa da parte, e buon per lui se non gli passa sul corpo; e poichè il furore della plebe, se non le poni davanti un obietto da abbattere, svapora, sorse una voce che chiedeva aversi a castigare i Buonvisi, i quali prima aizzatori o soccorritori, ora sperimentano nemici, ed era vero: forse li mosse amore di giustizia, ma è da credersi poco, piuttosto io penso che lo studio del giusto fosse in loro mescolato alla cupidità di primeggiare, ed era considerando che su città ruinata altri non regna eccetto la desolazione, però intendevano preservarla; subito con urli selvaggi una frotta di furiosi domanda si atterrino i palazzi dei Buonvisi, tutta cotesta casata si cacci in bando; a questi urli contrappongonsi altri gridi non meno formidabili: «Lascinsi in pace i Buovinsi, a chi tocca loro un capello guai!» Sì, no, e in fondo ai discorsi brevi un lungo rompersi di ossa con pugni e con legni; vinse il partito degli assalitori, i quali per assicurarsi la vittoria andarono a pigliare le artiglierie del palazzo; la forza non valse a trattenerli, meno poi le parole; questi pezzi di cannone trainati a braccia tu vedevi qua e là roteare a mo' di paglie: se non che i Buonvisi non erano gente da lasciarsi cogliere alla sprovvista, anzi avevano fortificato mirabilmente il palazzo e riempitolo di molti uomini fidatissimi ed esperti nelle armi. La plebe, visto il palazzo irto di archibusi sporgenti dalle feritoie, fece come il cane intorno all'istrice, lo girò e rigirò e all'ultimo digrignando i denti andò pe' fatti suoi. Tuttavia, venuta la notte, i Buonvisi, persuasi di cedere al tempo, per amore che la città non s'insanguinasse si scansarono a Monte San Quilico, luogo quasimente su le porte della città. Essendo impertanto risoluti gli anziani di dar fine ai disordini con qualunque partito, fosse pure insolito e straordinario, intimarono un'assemblea di capi di famiglia dei chiamati o no a formare parte del governo, e perfino preti, per trattare della salute della patria; sommarono i convenuti a 1500, a cui il gonfaloniere rivolto espose: «Non essere giammai corso tempo più calamitoso del presente nè mai la città avere avuto tanto bisogno come ora del consiglio e del soccorso di tutti i cittadini; però invocassero, prima di favellare, Dio, siccome faceva egli esclamando: _Domine, labia mea aperies_.» — Poi stato alquanto sopra di sè, riprese a dire, e non disse nulla, se togli che la città era condotta al verde, che il medico pietoso aveva fatta la piaga puzzolente e che ci bisognava provvisioni terribili; ma quali avevano ad essere e da quali eseguirsi taceva; invitati e supplicati gli astanti a palesare il proprio parere, uno su l'altro se la sgabellava peritandosi. Strano caso questo e da me come notato sovente, non ispiegato mai: se pigli uomo per uomo, ti accadrà rinvenirlo animoso e sapiente; metti insieme due o trecento uomini siffatti, e peggio se più, e piglieranno per ordinario deliberazioni codarde e stolte: sembra che a stare in gregge si diventi bestie; onde il titolo di onore _egregio_, il quale insomma che significa mai, se non fuori del gregge? Il cronista Civitali, da cui desumo questo racconto, forse per trafiggere la dappocaggine dei Lucchesi convenuti all'assemblea, scrive che _tacevano aspettando che altri incominciasse a consigliare, e però consigliavano i consiglieri a manifestare primi il proprio consiglio_[13]. Allora salì in bigoncia Bonaventura Michele e parve non orasse, bensì camminasse per mezzo alle uova, tuttavia, comechè velato, aperse il concetto che il palazzo avesse a munirsi di presidio capace di opporsi agl'impeti dei sediziosi; gli oratori che gli successero a mano a mano presero cuore e favellarono più aperto; un prete, il canonico Menocchi, riciso: all'ultimo uno avvocato, messere Cesare dei Nobili, il quale con lunga diceria espose che si sarebbe dato alla disperazione se non confidasse nella misericordia divina, la quale avendo tante volte salva la Repubblica, non poteva fare a meno di tutelarla anco questa: e prima di tutto si confessava della colpa di avere favorito le ragioni dei popolari come quelle che gli erano parse giuste, e di questo errore domandava a tutti umilmente perdono; e qui cavatosi dal seno un batolo di taffettà di seta nera, se lo cinse al collo in segno di pentimento, e non fu certo penitenza grave: soggiungeva poi le intemperanze della plebe avere trapassato ogni termine di possibile pazienza, onde l'avrebbe fieramente perseguitata, come prima amorosamente l'aveva protetta; e certo dopo tanta longanimità di perdono altro non restava che adoperare il castigo, al quale si sarebbe potuto dare mano se come avevano il volere così possedessero il potere: dunque qui voglionci armi provate e fedeli che, messe a presidio del palazzo, ponessero il cervello a partito di quaranta o cinquanta tagliacantoni usi a mandare a soqquadro la città per campare di rapina. Conchiusa la orazione, si levò uno schiamazzo di diverse voci, parte delle quali urlava: Non guardia! non guardia! ed altre all'opposto: Buon consiglio! buon consiglio! Ma il Boccella anch'egli popolano ricreduto sopra tutti bociava: E' voglionci un quattrocento soldati forestieri almeno decisi di mettersi allo sbaraglio, e per questo si mandi subito la proposta a partito; anch'io era dei loro, ma il soverchio rompe il coperchio, e questo stare continuamente su la corda non approda all'anima nè al corpo. Tutti gli aderenti suoi, che non erano pochi, gli facevano bordone: onde allora (come sempre avviene che ognuno porta acqua al mare) uno dopo l'altro conchiusero per la guardia; accesissimi a volerla coloro che più avevano palleggiato pel popolo, quasi studiosi di emendare il fallo e di farlo dimenticare: anco gli artieri dopo tentennato un pezzo convennero in questa sentenza; pure non si omettevano i supremi sforzi per contrastarla dai pochi faziosi i quali sentivano come cotesta legge era la corda che doveva stringerli al collo; se non che a sbigottirli e a disperderli valse una parola ad alta voce bandita da certo tessitore di drappi, forse detta per eccitarli a fare di tutto, la quale fu: «_Addormentati, destatevi_»; e tre volte la ripetè, poi tacque; ai sediziosi sembrò udire quasi la sentenza di morte, gli altri ne presero baldanza per mandare a compimento le deliberate risoluzioni. Pertanto gli anziani, licenziata l'assemblea popolare, convocarono il consiglio degli eletti per ordinare le cose a norma di legge: bene vollero ritenere tutti i convocati e ne li pregarono, anzi ordinarono si chiudessero le porte per impedirne la uscita, ma e' fu indarno, però che dei sediziosi i più spaventati si gittassero dalle finestre per andare ad avvertire i compagni di fuori che per loro era spacciata se la legge della guardia restasse vinta; la quale avvertenza siccome verissima avendoli altamente commosso, si adunarono affannosi in cento forse nella casa Matraini, altri in altri luoghi, ma non gran numero; finalmente fra tutti messa insieme una assai grossa banda, di arme così offensive come difensive ottimamente forniti, si avviarono verso il palazzo decisi di tentare l'estreme fortune; giunti lì presso, cominciarono a bersagliare con gli archibusi: dei cittadini rinchiusi taluni si rannicchiavano come cosa balorda, ma i più, diventati audaci, avrieno voluto rendere pane per focaccia, se non che mancavano le armi; ma a questo provvidero e tosto, chè, fatta aprire al massaio la stanza della munizione, quivi fornironsi copiosamente di picche, di archibugi, di spade, di corsaletti, di rotelle, di celate, insomma di ogni ragione armi. Le leggi temute quasi di rincorsa votaronsi; ormai era fiera rotta. I sediziosi dopo alcuni sforzi si accorsero quanto folle consiglio fosse quello di volere espugnare il palazzo: però andarono ad appostarsi quivi dintorno, sparando un nugolo di archibugiate contro qualunque si avvisasse cacciare il capo fuori dalla finestra: però quantunque nella massima parte i partigiani dei faziosi fossero usciti di palazzo gittandosi giù dalle finestre, pure taluno ve ne rimaneva; fra questi uno Alberto da Castelnuovo, immanissimo giovane, il quale con perverso animo volle e tentò dentro una medesima ruina seppellire città e cittadini, il fatto e la memoria del fatto; ond'è che, approfittandosi del parapiglia degli accorsi nella stanza della munizione, lasciò cascare la corda accesa sopra un bariglione di polvere aperto; s'infiammò la polvere e con veemenza pari al terrore scrollò le mura, svelse il tetto balestrandolo in frammenti lontano per centinaia di braccia; venti infelici ne andarono più o meno malconci di dolorose ferite; e nondimanco così provvide il caso che il fuoco non si appigliò agli altri bariglioni lì presso poco discosti. Il fiero giovane, a cui forse non caleva salvarsi riuscendo, si salvò per essere andato a male il suo disegno. Conchiuse le deliberazioni e licenziato il consiglio, compresero che, lasciando il palazzo, ci sarebbero entrati senza indugio i sediziosi, e poi, ancorchè avessero voluto abbandonarlo, non saria venuto lor fatto, imperciocchè costoro gli tenessero in certo modo assediati. Allora fu pensato di mandare alla torre per sonare le campane a stormo, onde, avvisati i cittadini del pericolo della Signoria, con le compagnie dei gonfaloni traessero alla difesa del palazzo; il torrigiano, più tristo di uno sbirro degli Otto, rispose che non si poteva fare senza la fede del partito dei Signori; materia di stato cotesta e andarne del capo: sopraggiunti altri cittadini, la fecero sonare per forza. Ai più animosi dei rinchiusi in palazzo sembrava ostico di restare in prigione a posta di una mano di paltonieri; dissuasi da cimentarsi, si tennero un pezzo, poi, non potendo reggere al canapo, versaronsi giù nel cortile; qui si diede principio alla battaglia; poco giovarono alabarde e spade, nulla gli archibugi, e fu guerra a coltello; da una parte e dall'altra morti e feriti, e forse si finivano tutti se a taluno dei sediziosi non frullava in testa il pensiero che, traendo i cittadini al suono della campana, correvano rischio di trovarsi presi in mezzo a due fuochi; quindi saltarono fuori a pigliare gli sbocchi delle strade, lasciando i feriti ad aiutarsi come meglio potevano. Chi si trovò a cotesto caso afferma che pareva il finimondo, e noi, che, se non a quello, ci trovammo presenti ad altri parecchi che gli dovevano come goccia a goccia rassomigliare, c'immaginiamo facilmente lo strepito dello incocciare delle armi bianche, il rimbombo degli archibugi, il correre, il gridare, il minacciare e gli estremi singulti; a questo unisci il rintocco delle campane di tutte le chiese, quasi voce di Dio che si lamenta sopra le iniquità della sua creatura, la quale poteva creare e sarebbe sempre a tempo a ricomporre migliore; lo strillo dei fanciulli, le strida delle donne imperversanti per le vie co' capelli sciolti, gli occhi storti e le mani levate; chi domandava il marito, chi il padre; i vecchi piangevano maledicendo alla sorte che gli aveva mantenuti in vita per renderli testimoni di tanta calamità; a tutti pareva venuta la fine di Lucca, e avrieno dato a patto, della persona un braccio, della fortuna il mezzo per salvare il resto; ed invece proprio in cotesto punto si mutavano le sorti, perchè i cittadini amorevoli del vivere civile si trovarono in tanta copia da sforzare i riottosi, i quali dapprima furono respinti fino nei borghi della porta di San Gervasio, dove fecero testa tentando ricuperare il perduto, massime il cortile del palazzo, essendo stati avvertiti come i difensori, spargendosi in varie parti della città per combattere, lo avessero lasciato vuoto; di vero fatta una punta fin là pervennero e l'occuparono. Gli anziani rimasti in palazzo adesso si trovarono nel peggiore partito che avessero mai provato, dacchè i cittadini ch'eransi divisi da loro per andare ad afforzarsi altrove fossero rimasti d'accordo che in caso di pericolo gli avessero mandati a chiamare; onde avvenne che, non sentendosi ammonire, ognuno attese a raccogliere gli uomini della sua contrada, ad ordinare le bande sotto i gonfaloni e a provvedere difese. In tanta angustia gli anziani vennero a conoscere come i Buonvisi a San Quilico fossero giunti a mettere insieme fra amici e aderenti loro e soldati tratti da tutte le terre del dominio, massime da Camaiore, tanta gente da vincere ben altra impresa che non era quella di levare la ruzza agli scapestrati lucchesi: però la difficoltà stava nello avvisarli, e a questo per buona ventura potè riparare Lunardo Pagnini, il quale uscito dalla città in tempo opportuno, accadde fare in pro' degli anziani due cose parimente utili; la prima avvisando i Buonvisi che stessero avvertiti perchè da un punto all'altro avrebbero potuto essere chiamati, la seconda nel sostenere un contadino spedito dai sediziosi con lettere ortatorie a Regolo da Coreglia perchè venisse via con quanta più gente potesse a fare spalla alle fortune cadenti degli amici. Intanto, giunta la sera, i tumultuanti rimasti a guardia del cortile, non si vedendo da nessuna parte ingrossare, persero l'animo, per la quale cosa, ognuno pensando ai casi suoi, parecchi col favore delle tenebre si dileguarono, rifugiandosi nelle case dei parenti e degli amici come presaghi della prossima ruina, mentre altri all'opposto correva per la terra smanioso per ricondurre gli amici alla tenzone. Gli anziani ignoravano l'operato di Lunardo, e dove anco lo avessero saputo, non avrebbe approdato a nulla, perchè era mestieri ordinare ai Buonvisi che movessero; e nè anco questo bastava, chè l'osso giaceva nel rimetterli dentro la città. Gittati gli occhi dintorno, non ci videro persona a cui potessero fidarsi; per ventura seppero esserci rimasto Bastiano da Colle, prete, semplice di costume, ma fedele molto e della patria zelatore caldissimo; chiamatolo in camera, gli dissero: «Bastiano, se ti basta l'animo, la salute della patria sta in te.» «Io sono parato, rispose il prete, a dare per la patria quando occorra la vita; però dite su che io mi abbia a fare.» Il gonfaloniere allora: «Tu piglierai questa chiave ch'è della porta di San Donato e farai di portarti in Quoieria, dove trovati Nicolaio Anchiani e Taddeo Pippi conciaioli, dirai loro da parte nostra che s'ingegnino avvisare i Buonvisi a Montequilici che movano tosto con tutta la loro gente, ed arrivati che sieno alla porta, li mettano dentro per condurre a termine la impresa che sanno.» Il prete, esultando di essere reputato capace di apportare un tanto benefizio alla città, si gittò in ginocchione dinanzi al gonfaloniere ringraziandolo umilmente del favore grande che gli compartiva, e perchè, Dio propiziando, potesse riuscire a buon fine il negozio, lui pregava che in nome della santissima Trinità lo benedicesse; nel quale suo desiderio il gonfaloniere affettuoso abbracciandolo e baciandolo lo compiacque; e dicono altresì che gli astanti non potessero per tenerezza trattenere le lacrime. Prete Bastiano, volendo battere il ferro quando era caldo, messosi la chiave sotto la tonaca, per la via delle mura andò difilato in Quoieria; occorse in Andrea da Decimo, il quale, sospettando fosse ito costà a spiare mandato dai tumultuanti, lo squadrò a stracciasacco, onde egli, accortosi della temperie, con lieta faccia gli disse: «Figliuolo, io me ne vo per cosa di altissima importanza a casa Anchiani, la quale non sapendo dove sia, prego voi che fin là mi accompagniate e me la mostriate.» Arrivato là, per disdetta lo Anchiani non trovarono, il Pippi nemmeno; onde il prete sbigottito, non sapendo come rimediare, si aperse con Andrea da Decimo, cui cotesta parve una grande cosa; però fu di parere consigliarsene con due altri cuoiai, ai quali tutti il prete Bastiano scoperse la chiave raccomandandosi a mani giunte che in tanta stretta non fossero per mancare alla patria. — La fiducia alimenta il fuoco dello amore quando è avviato; onde cotesti uomini grossieri non è da dirsi con quanta alacrità cercassero attorno per trovare il Pippi od altra persona saputa che avesse capacità e autorità per condurre la pratica. Come Dio volle incontrarono giusto Taddeo Pippi, ch'era gonfaloniere della Sirena e persona la quale per coteste faccende valeva oro; onde subito prete Bastiano ristrettosi con lui, con parole concitate gli disse: «Taddeo, una grande fortuna ti capita nelle mani, perchè in te sta la salute della patria e di tanti signori che vanno per la maggiore: piglia, questa è la chiave della porta di San Donato; qui fa di chiamare da San Quilico il soccorso e di qui mettilo dentro; se riesci a tante (e, solo che tu voglia, riescirai), oltre la lode dei presenti e la fama nei posteri, così copiosi pioveranno sopra il tuo capo i favori e le grazie che anco chiudendo gli occhi tu non te li saprai immaginare.» Taddeo prese la chiave e, portatasela con le braccia in croce alla bocca, come si costuma fare co' Cristi, dopo averla di alcuna stilla di pianto bagnata così favellò: «Orsù con noi sia Dio e andiamo tosto, che lo indugio piglia vizio.» Uscito co' suoi, gli venne incontro Meuccio Dini, giovane di gran cuore, piacente e di seguito grande nella sua contrada, inoltre non imperito nella milizia, dove egli aveva fatto brevi ma onoratissime prove; a lui pure teneva dietro una banda di gioventù gagliarda; da ciò tolse argomento il Pippi a bene sperare, sicchè da lontano gli gridò: «Meuccio, questa libertà vi sia raccomandata.» A cui Meuccio di rimando: «Per questa libertà voglio morire.» Allora andaronsi incontro a braccia aperte e baciaronsi in bocca; poi stando lì in piedi deliberarono Taddeo con la sua gente pigliasse la via delle mura riuscendo a porta San Donato, Meuccio co' suoi avrebbe tenuto la strada maestra. Intanto che queste cose accadevano in città, in campagna a Monte San Quilico messere Martino Buonvisi, montato su di un poggiolo, raccolti intorno a sè parenti, clientela, soldati della repubblica e gente del contado che a frotta traeva costà quasi a festa, così favellava; «Le cose di città, compagni miei, le sono andate male, ma le potevano andare anco peggio; imperciocchè, con tante ingiurie, con tanti malefizi, con tante atrocità, gli scellerati uomini che le hanno commesse non hanno potuto impedire che i padri, per virtù loro, non ponessero a partito, e il consiglio non vincesse la guardia del palazzo. Ora però, se noi non aiutiamo i magnifici Signori, egli è come se non si fosse fatto di nulla; essi compirono il debito, adesso sta a noi soddisfare al nostro: essi ci hanno mandato ad avvertire che se noi ci presentiamo alla porta San Donato, ci sarà aperta senza fallo; dunque teniamo lo invito, e Dio provvederà; nè già crediate trovarvi soli alla impresa, chè tanti del contado vi seguiteranno che per me credo vi parranno anco troppi...» Voleva dire di più, ma lo interruppe un grido dei volonterosi, cui pareva mille anni essere condotti ai muri, ond'egli, invece di spingerli, ebbe adesso a sforzarsi di trattenerli: andassero cauti per Dio, procedessero ordinati se pur non volevano che succedesse loro come ai pifferi di montagna; frattanto il Pippi, rassegnata alla meglio la sua compagnia, si accosta alle mura con lo stendardo e dà il segno agli amici di fuori, il quale avendo visto Bernardo Sinibaldi, che stava in vedetta vicino ai fossi, corse via sulla sponda del Serchio chiamando con alte grida il Buonvisi il quale dall'altra banda del fiume si tratteneva; ma Lunardo Pagnini si cacciò col cavallo nel fiume per portarne più tostano avviso, però, come avviene, la pressa prolungava lo indugio, che, intralciatosi per le vetrici del fiume, mal sapeva sbrogliarsene, onde a sua posta con gran voce chiamò Silvestro Trenta, il quale per ventura lo udì; e quivi recatosi e sentito il caso, persuase la sua compagnia a guazzare il fiume, e avvegnachè avessero trovato rotto il canape della barca, per impedire che la corrente li portasse via, piantarono forte parecchie alabarde in fondo al fiume alle quali agguantandosi senza pericolo passarono; e ciò con tanto maggiore animo essi impresero in quanto che, quasi per aizzarli, innanzi ch'entrassero nell'acqua, Martino con certo suo piglio soldatesco disse loro: «Figliuoli, chi non si sente capace non si metta in ballo nè a rimanere si périti, chè buona prova può fare restando qui con Ludovico a guardarmi la casa.» E' non ci fu caso, allora vollero guadare tutti di stianto: a casa Ludovico rimase co' vecchi e co' malati. Precedeva a tutti Martino, ma, giunti a tiro di archibugio, Vincenzo di Puccio non patì che a quel modo andasse più oltre volendo ad ogni patto mettercisi egli medesimo, e così camminando, arrivato presso il torrione di Santa Croce, sostò alquanto per consultare il modo da seguire, caso mai pigliassero a sfolgorarlo le artiglierie; il Pissini opinava si avesse attendere che fosse più imbrunita la notte per poi passare oltre rasentando le mura, ma il Puccio di riscontro: «O che vuoi tu aspettare, sii benedetto? o non odi che suona l'un'ora di notte? avanti, avanti, che il nemico avvertito potrebbe rinforzarsi da questo lato; avanti.» E così di corsa arrivarono alla porta San Donato, dove trovarono meglio di quattrocento uomini quivi precorsi senza consiglio, ristretti come pecore; e, più grato del pari che utile incontro, vi rinvennero alcuni giovani sperti in arme e di gran nome, i quali, tornando dalle cacce delle marine, nulla sapevano dei trambusti di Lucca, e, presane notizia così alla lesta, si proffersero partecipare alla impresa capitani o soldati. Tuttavia la porta non si apriva, sicchè cotesti giovani impazientiti sentivano scottarsi sotto le suola il terreno; onde taluni procedendo con tumultuario consiglio decisero portare in fretta paglia e fascine e con esse abbruciare la porta; tali altri all'opposto rigettavano cotesto partito come troppo lento e perchè avrebbe chiamato agevolmente a sè l'attenzione del nemico; proponevano invece accostare alle mura lunghi pioppi con piuoli traversi ed a questo modo scalarle, il che sarebbe stato ancora più lungo: non attecchirono entrambi e, smesse le vie pericolose, spedirono gente che con celere corso si affrettasse a prendere lingua fino alla porta San Pietro, dove venne detto loro tornassero addietro; pazientassero un poco, chè senza fallo si sarieno aperte le porte di San Donato. Udito questo, il Puccio, da quel saputo giovane che era, per trattenere la moltitudine ed anco perchè entrando non commettesse disordine, tutta quanta la dispose nel seguente modo: la prima battaglia fu di gente armata di giachi, corazze, celate ed arme in asta, che egli medesimo in capo fila conduceva; poi seguivano dugento archibugi, dopo questi forse altrettanti con armi lunghe di varia ragione; per ultimo copia di contadini, qual con vanga, qual con badile, qual con accetta, insomma muniti di arnesi rustici, i quali secondo la occasione i cittadini avrieno provato guastatori o saccardi: in tutto 1000 e più. Per di dentro Meuccio Dini e Taddeo Pippi affrettandosi ognuno per la sua via giunsero alla porta San Donato, dove chiamato Lodovico Bernardini preposto alla custodia di quella e dategli le chiavi, intimarongli aprisse, la quale cosa egli fece senza fiatare: a questo modo quei di fuori con quei di dentro mescolaronsi, a braccia quadre si strinsero al petto; i baciari, i dolci parlari non si contano, per cui pativa di tenerezza ci era materia a un diluvio di lacrime. Poichè le liete accoglienze furono reiterate le tre e le quattro volte, si rimisero in cammino: Martino Buonvisi, sapendo come per ordinario la modestia garba al popolo (e dico per ordinario, conciossiachè talvolta incontri più l'arroganza secondo l'umore non già dei popoli ma del popolo stesso dalla mattina a vespro), voleva porsi in disparte, ma non lo sostennero il Puccio e il Pippi in cotesti primi amori stemperati, e lo misero in mezzo alla battaglia accompagnato da una schiera di fior di gentiluomini che gli facevano guardia. Tanti erano i lumi che nelle contrade per dove passavano ci si vedeva come di giorno, le donne dalla finestra sporgevano le lucernine accese a quattro lucignoli, o candelieri, o lumi a mano; e perchè nulla mancasse di quanto serve a chiarire, non lasciarono intatte nè manco le candele che i preti donano alla festa della Candelara per ripigliarsele pel sepolcro la settimana santa: nè gli stessi liberatori s'inoltravano sprovvisti incontro al buio; al contrario chi recava fasci di sarmenti, chi fascine e chi mazzi di paglia intrecciata; i morti pure erano stati messi a contribuzione, però che dalle stanze mortuarie avessero tolto le torcie a vento: breve, tanta era la luce che chi avesse veduto la città di lontano avrebbe giudicato facilmente ch'ella fosse in balía dello incendio. Per le case, per le vie, dalla gente di ogni età e di ogni sesso si alternavano continui altissimi i gridi: Viva la patria! viva la libertà! — Però in mezzo a cotesto baccano il cuoiaio Meuccio non perdeva il giudizio, per modo che, appressandosi al palagio, ordinò che la prima battaglia levasse via tutti i lumi a fine di giungere improvviso, ed anco immaginò un altra astuzia, la quale fu che, mentre la prima battaglia veniva oltre cheta e al buio, gli altri lontani, i gridi rinforzassero e i lumi ravvivassero, confidando così che i chiusi nel cortile, nel supposto che gli avversari loro si trovassero sempre lontani, non abbassassero la corda su gli archibugi con morte e ferite dei primi assalitori; i quali sempre più avvicinandosi, furono ammoniti dal Puccio: «Adesso di rincorsa, ma larghi.» E ciò disse per tema delle artiglierie, che immaginava apparecchiate nel cortile pel palazzo. — Ma la paura davvero fu maggiore del danno; imperciocchè i sediziosi, ridotti nel cortile, vista la grande moltitudine della gente che veniva a combatterli, persero subito il cuore; gli altri intanto cominciarono a grandinare palle così repentinamente che la guardia dei sediziosi posta davanti alla porta del palazzo non ebbe tempo di ripararsi dentro, sicchè in un attimo rimase tutta morta o ferita; dei chiusi alcuni calatisi dalle finestre a tutta corsa fuggirono verso le mura dalla parte del Bastardo, poco innanzi a cagione di vetustà o per quale altro vizio ruinate, e quivi arrampicandosi per le macerie, con fatica non meno che con pericolo, gittandosi alla campagna scamparono la vita. I vincitori non omisero spingere costà uomini armati perchè s'impadronissero dei fuggenti, ma arrivarono tardi, e poi si crede che taluno mosso a misericordia facesse loro spalla memore del detto: che finchè abbiamo denti in bocca non si sa quel che ci tocca; di quei che rimasero in palazzo, parte caddero spenti sull'atto, pochi cercarono lo asilo nelle chiese, invano; dei commessi errori si ebbero il meritato castigo. La plebe, e qui sta il guaio, la quale il bene e il male non comprende laddove non sia rappresentato da una persona, messe da parte la patria e la libertà, prese a gridare: «Viva i Buonvisi!» E poi per la plebe, fin qui, variare principe o principato egli è mutare basto; non così pei maggiorenti, a cui la forma del principato dentro la quale si trovano piace come quella che dà fondamento alle dignità ed agli uffici loro: però, mentre paiono i soli zelatori del bene comune, attendono solo al proprio interesse; e Martino, che sel sapeva, diede subito su la voce ai gridatori esclamando: «Qui null'altro deve acclamarsi eccetto la libertà!» I quali gridi Furono con non poco turbamento uditi dal magnifico gonfaloniere e dagli anziani, quasi augurio sinistro di futuro danno; epperò commossi dentro ma in vista lieti gli si fecero incontro e gli favellarono le seguenti parole, che io cavo dal cronista e tali quali riporto, per la ragione altra volta allegata, che studiandoci su io non saprei come meglio significarle: «Magnifico messere Martino, voi siete il benvenuto quando, come crediamo, vi sia la libertà raccomandata; ecci stato detto che si è gridato in Lucca il nome della vostra casa; ora benchè, crediamo, sia contro vostro volere, pure ci corre l'obbligo dirvi che questo non si conveniva nè era da comportare, epperò sarebbe il caso che voi, unitamente a quelli che vi accompagnano gridaste tutti unitamente: Viva la libertà, per la quale noi siamo pronti a morire quando alcuno volesse contaminarla.» Il Buonviso alquanto trafitto rispose con voce un cotal poco alterata: «Io qui stommi non per altro che per la libertà, come debito di ogni cittadino amorevole della patria; impertanto voi altri gridate pure con me: Libertà! libertà!» E libertà gridarono, e il gonfaloniere se ne chiamò pago, come se libertà si radicasse negli urli; tuttavia questo ripiego venne in punto ad assicurare gli animi mareggianti, imperciocchè non si sentisse altro che acclamare ai Buonvisi, e ciò si temeva che fosse non senza segreto accordo: da cotesta benedetta libertà lucchese erano germogliati fuori tanti tiranni che a temerne uno nuovo non sembrava fuori di proposito. Una volta tranquillati sopra questo, gli anziani largheggiarono in ogni maniera di dimostrazione benevola, sicchè senza dar tempo al tempo con amplissimo decreto dichiararono Martino Buonviso liberatore della patria, autore della pace e padre del senato lucchese. I patrizi lucchesi dovevano essere nella buona fortuna crudeli, però che si fossero mostrati nell'avversa codardi, e crudeli furono. Radunati in palazzo, proposero e vinsero le seguenti deliberazioni: si cerchino, si sostengano e si esaminino co' tormenti i colpevoli del rumore a San Martino il giorno della festa della libertà, dei tumulti a casa del signore Marzilla commissario imperiale, dello insulto a casa dei Franchi, del trasporto dell'artiglieria contro la casa Buonvisi, in fine dello assalto al palazzo, estimato il più nefario di tutti i misfatti; gli operatori di questo nel decreto appellavansi addirittura _traditori della patria_; chiunque citato non comparisca, reo di lesa maestà: e' ci correva da questo linguaggio a quello del dì in cui il gonfaloniere piagnendo voleva uscire di palazzo e lasciare lo stato ai cani, e lo avrebbe fatto se un popolano non gli rinfacciava la sua viltà; ma così va la fortuna. Al tempo medesimo, per dare un colpo al cerchio ed un altro alla botte, il perdono del martedì santo si tenne fermo; fu ordinata la guardia delle milizie forestiere al palazzo, intanto i più fidati cittadini lo custodissero; il prezzo del grano, che valeva ventiquattro bolognini lo staio si diminuisse di sei; poi per giunta i soliti fervorini di concordia, di amore di Dio, del prossimo altresì, _et reliqua_. Dopo i detti si mise mano ai fatti: primamente levarono di casa al commissario imperiale, Giovanni Abul di Marzilla catalano, sei cittadini che vi si erano rifuggiti, commettendosi alla fede di lui, il quale gli aveva assicurati stessero di buon animo, avrebbe posto a difenderli ogni sua possa e, occorrendo, la vita; e nondimanco quando gli furono tolti di sotto strillò, tempestò e poi si tacque; indizio certo per me che lo Spagnuolo mangiò a due palmenti, non parendo possibile che i Lucchesi tanto cautelosi, e timidi volessero fare alle cornate con un commissario dello imperatore; come primi presi, così furono i primi giustiziati; i cadaveri loro rimasero parecchi giorni appesi al campanile di San Romano a terrore del popolo; non sembra che i condannati si estimassero rei, nè troppo li spaventasse la morte, dacchè uno di loro, Ludovico Matraini, li confortasse con assai acconcia e fiorita orazione con la quale pigliò loro a dimostrare: «che non è vergogna morire per la patria; patria non è e non fie mai un ordine di cittadini che per forza o per fraude soperchia gli altri.» Dopo queste prime giustizie confidarono la facoltà di processare e di punire al pretore e ad una balía eletta a tale scopo. Questo maestrato procedè come procedono tutte siffatte falci fienaie della giustizia umana: dodici condannò nel capo; stettero incerti su Bernardino Granucci e per tredici ore fra loro batostarono, poi nel dubbio lo uccisero, chè dichiararlo innocente menava in lungo e non era di buono esempio: della confisca non importa parlare, chè allora seguitava le condanne come l'_amen_ l'_oremus_: sei in galera a vita, sei a tempo, a perpetuo carcere uno, a temporaneo quattro, sette relegati a vario confino, tre a perpetuo esiglio; otto, per non parere, assolverono. Dei cinquantacinque che citati serbaronsi contumaci, tre in perpetuo bando, gli altri, se tornavano, messi a morte; confiscati i beni a quarantacinque; quattordici ne uscirono illesi o per favore di parenti o perchè anco la giustizia dove la batte la batte. Non la risparmiarono a cotesti due preti, cristianelli di Dio, che avevano trovato a farsi il covo, uno all'altare della Libertà, l'altro alla mensa degli anziani; gli strozzò il boccone, e, siccome allora usava, senza tanti rispetti, notte tempo strangolarono i sacerdoti Giambattista di Daniello e Giuseppe da Matraia dopo averli sconsagrati nelle regole. Essendosi rinfocolati gli odii contro i poggeschi, i quali, dice il decreto, piuttosto come nemici che aspettano luogo e tempo a nuocere che come cittadini grati ai beneficii ricevuti vivevano, privaronli tutti per tre anni degli onori: più avventurati assai dei preti Daniello e da Matraia furono due altri, uno Lorenzo Matraino, il quale, trovandosi prigione dentro una stanza del palazzo insieme a suo fratello Filippo, procurò gli fossero recati parecchi lenzuoli da casa, ch'essi con infinita industria ridussero in fasce ottimamente cucite dai lati, e mercè di quelle nel fitto della notte calatisi inosservati, si ridussero in luogo di salvezza; più strano caso fu quello di Paulino Granucci, a cui furono messi i ceppi, ma trovandosi ad avere così sottili le gambe che sguazzavano dentro, tanto s'industriò che giunse a cavarcele; allora con ardimento da fare rimbrividire chi vide i luoghi saltò giù sopra un tetto e da questo su di un altro, e così via e via, finchè di un salto non balzò in istrada, donde corso difilato alle mura, con un altro salto si trovò in campagna scampando la vita, e troppo bene se lo meritava. Pareva fosse tempo di smettere, ma paura ed ira nella gente patrizia non così tosto si attutano; cessata la volta dei colpevoli, venne quella degli aderenti loro, citandoli a compire, pena la vita; ma essi conoscendo a prova che dal presentarsi al tribunale iniquo ne veniva sicurissima morte, si mantennero contumaci, però banditi tutti a perpetuo esiglio: esclusero solo Bartolommeo Civitali, come quello che giovancello essendo fu assistito dalla legge (e più da qualche suo consorte), la quale presume che nella età tenerissima l'uomo si disponga a misfare non per dolo, bensì per leggerezza. E tuttavia non pareva ai patrizi potere dormire i sonni in pace se non si toglievano dinanzi agli occhi Vincenzo Granucci e gli amici suoi, i quali non sapendo come agguantare, ricorsero al discolato, a cui sottoposero sei nomi; quattro ne resultarono vinti, il Granucci in capo. Nè pur qui finirono le vendette, le quali non cesso riportare fino ad una, onde il popolo apprenda rabbia di ottimati che sia; e non oppongano già che i patrizi mancarono, essi vivono e anelano ricuperare il perduto; questo è perenne desiderio delle persone, più duraturo nei corpi collettizi e negli ordini; onde considera, lettore, quanto poco senno abbiano gli uomini di stato, i quali volendo disfare un ordine di cittadini reputato infesto, gli tagliano i rami e non lo svellono dalle radici; col tempo i rami ritornano ad aduggiare più maligni di prima: o non toccare, o schianta. — Adesso si tenta per via di straforo mettere le mani addosso ai più temuti di essi, i quali andavano pure compresi nel perdono del martedì santo: sostenuti Marchiò, Spinellone e Alfeo testori per causa di stato; questi accusano parecchi loro compagni e da capo la casata Poggio; fine di questo processo fu che a Riccardo del Fornaio mozzarono il capo; gli altri condannati alla carcere o al bando; madonna Caterina Bartolomei di Poggio fu licenziata con pagheria di 3000 ducati; che più? Ribelli e banditi in due volte quelli che scalarono le mura; i primi furono settantadue, i secondi venti. Chi è venuto leggendo fin qui le rivolture dei popoleschi di Siena e quelle dei popoleschi di Lucca non può astenersi da confrontare fra loro le ragioni del moto, le guise di palesarsi e lo esito, e si maraviglierà come, mentre il popolo sanese si proponesse fini più eccessivi e gli ottenne, ai Lucchesi poi non venisse fatto conseguire meno, assistiti da molta ragione; tuttavolta le cause quasi di per sè medesime si fanno manifeste, e sono, che il popolo sanese, pigliando parte nel reggimento, innanzi tratto sapeva quello che si volesse, ed a che si proponesse portare riparo; era pratico del modo da tenere; da sè si guidava, nè sarebbe riuscito abbindolarlo a persona; al contrario i Lucchesi, uomini grossieri ed operai al salario dei mercanti, si risentono per ingiuria materiale, voglio dire la parvità della mercede; e neppure ella sarebbe di per sè sola bastata senza il caro del vivere; ottenuto quanto appetivano, tornano a casa; aizzati da quelli che esclusi dal reggimento volevano esserci messi a parte, per la seconda volta ripigliano il tumulto per fine che o non li riguardava o poco; rimuginata dal profondo la città, ribollono le ime fecce e vengono a galla con confusione e minaccia di tutti; donde per necessità lo screzio e lo accostarsi dei migliori a chi conserva, i quali, tutti intesi a superare il mal presente, non badano al futuro, e percotendo la licenza uccidono la libertà. Il principato, lo rappresentino uno o pochi, ridivenuto saldo, non ammazza solo i colpevoli, bensì anco quelli che gli fecero paura senza badare se lo abbiano difeso od anco salvato; anzi quanto più potente, tanto più reo. Lo storico Zonara racconta come lo imperatore Basilio cacciando corresse pericolo grande, imperciocchè un cervo avendolo investito ed intralciategli le corna nella cintura lo portasse via di sella, del quale successo un suo fedele turbato trasse la spada e tagliatagli la cintura lo salvò; Basilio in premio gli fece mozzare il capo, avendo la paura vinto la gratitudine; la forma drammatica del caso lo rese famoso, ma con semplicità maggiore alla occasione tutti i principati rassomigliano allo imperatore Basilio. Opera da folle sarebbe seminare e non raccogliere; e tale non era certo il senato di Lucca, che per non perdere tempo mise fuori una legge in virtù della quale si escludevano da tutti gli uffici e maestrati così di onore come di lucro coloro che solo da dodici anni in qua stanziavano in Lucca, nè unicamente essi, bensì i figli eziandio e i discendenti loro in avvenire; da ora in poi chiunque venisse non potesse per lungo domicilio acquistare diritto alcuno, eccetto quelli di cittadinanza, ed anco non dai primi domiciliati, ma dai discendenti loro in secondo grado: a questo modo i patrizi si apparecchiavano a instituire la burlevole e nondimanco feroce oligarchia che per tanto secolo mortificò Lucca; nè, a quanto sembra, mettevano troppa cura ad infingersi; cotesta legge fu panno che mostrava aperto la corda. Però gli oligarchi si trovarono sul punto di naufragare in porto, nè si poteano lamentare, dacchè paia naturale che dove molti congiurano a opprimere un popolo scappi fuori uno che s'industrii opprimere tutti. Viveva in corte di Carlo V un cittadino lucchese nominato Pietro Fatinelli, uomo di maneggio, procacciante e armeggione, il quale, mettendo ora il piè da un lato, ora dall'altro, come costumano gli spazzacamini, erasi inalzato assai su per la cappa della corte: anticamente appellavansi venditori di fumo, e vi aveano leggi che li punivano; adesso lasciansi stare, o perchè troppi, o perchè non reputino più misfatti gli arzigogoli loro; e di vero fra i deputati del nostro parlamento italiano io ce ne conosco parecchi, nel senato qualcheduno. Ora siccome da lontano ogni cosa che riluca par di oro, così i Lucchesi assai si valevano dell'opera sua, rimunerandolo di buone mance e commendandolo molto; ond'egli invanito fuori di misura stimò devozione le facili lodi di cui è largo ogni uomo cui prema, comechè mediocremente, tenersi bene edificato un altro uomo: bolli bolli, al fine egli venne nel pensiero di rendersene assoluto signore, sicchè, côlto la congiuntura che l'imperatore si riduceva a Lucca per conferire col papa, gli tenne dietro; dove giunto incominciò subito a mettere mano alle sue girandole: ignoro se lo conoscesse prima o se imparasse allora a conoscere il capitano Baccigalupo di Chiavari, persona arrisicata ed usa a mettersi in simili cimenti; fatto sta che con lui si accontava, e, riscaldandosi scambievolmente il cervello, credevano la impresa bella e fornita; se non che, considerandola più da vicino, conobbero com'essi si versassero nell'assoluta deficienza di tutte le cose a questo fine necessarie, onde deliberarono tenerne motto al conte Agostino Lando di Piacenza, persona di scarriera, in fama di traditore e rapace; nè la fama apparve bugiarda, come si comprende pel caso che sto per narrare e per l'altro più truce della strage proditoria di Pierluigi Farnese. Costui pertanto non respinse la profferta, finse al contrario accettarla, volle essere posto a parte di ogni particolarità, poi, pattuito segretamente il premio col senato di Lucca, gli mise in mano tutti i fili della trama: allora tesi i suoi archetti, il senato si pose a uccellare, ed essendo capitato a Lucca il capitano Baccigalupo, tosto il sostennero e sottoposero alla tortura, di cui gli spasimi non potendo egli sopportare, confessò pianamente ogni cosa ed ebbe per non perdere tempo mozza la testa; subito poi fu spedito dal senato a Carlo V perchè gli desse modo di tagliarne un'altra. Carlo, che di congiure era vago come il can delle mazze, fece alcune lustre per non parere, in fondo poi egli aveva maggior premura di consegnarlo che gli altri non avevano avuto di chiederlo: glielo dava con riserva di volere rivedere il processo prima di venire al taglio. Il senato la data fede osservò, lo imperatore trovò tutto fatto a pennello: testa più testa meno non monta; e per salvare un capo italiano davvero non valeva il pregio leggere un processo. Al Fatinello e al Lando furono pagate le debite mercedi, al primo col ferro, al secondo con l'oro. Per tutti questi eventi di leggieri si comprende come Lucca andasse piena di umori, per cui la massima parte e la più manesca dei cittadini sentendosi offesa e temendo di peggio, doveva argomentarsi inchinevole a qualunque rivolgimento che mirasse a sottrarla a questo miserabile stato di cose: nè basta, le nuove dottrine religiose più che altrove serpeggiavano in Lucca e presentavano ottimo punto di appoggio per dare la leva alle varie vacillanti dominazioni d'Italia. CAPITOLO V. La Riforma in Italia fa progressi e minaccia sopraffare il cattolicesimo. — Cause che la provocano. — Spettacolo quotidiano dei vizi del clero. — Santi padri, poeti, storici e letterati grandi tutti addosso a Roma. — Vallesi e albigesi se fossero in Italia e quanto durassero. — Benveduti dal clero nella Calabria e perchè. — Paganesimo della corte romana, da questo rimane indebolita la fede. — Imposture dei chierici e documenti falsi per la goffaggine loro di leggieri scoperti. — Lorenzo Valla e donazione di Costantino. — Versi di Battista Mantovano. — Lione X morendo non potè avere i sacramenti perchè gli aveva venduti. — Studi biblici: traduzioni, chiose e commentari. — Savonarola se possa considerarsi precursore, di Lutero. — Cesare Cantù e suo perfido libro degli _Eretici in Italia_; sue strane difese della chiesa romana. — Versioni italiane della Bibbia. — Smania di leggere libri dei riformatori. — Opinione stramba di fra Iacopo Passavanti su la traduzione volgare della Bibbia; così non la pensa Sisto V; al fine Roma approva la traduzione italiana della Bibbia, ma come. — Libri proibiti sotto nomi diversi dei loro autori penetrano nel Vaticano. — Curiosa avventura narrata dal cardinale Serafino circa Melantone, che si rinnuova per altri. — Copie di libri proibiti; guadagno e pericolo allettamenti per i librai ed i pirati. — Scoperte, viaggi e commerci nocciono alla soperchianza romana; nocciono altresì le guerre e il mescersi delle nazioni fra loro. — Improperi che si avvicendano. — Imperatore e papa. — Sacco di Roma; meraviglia dei Tedeschi di vedere gl'Italiani sopportare il dominio dei preti. — Spagnuoli ladri e cattolici superlativi. — Tedeschi ladri un po' meno e cattolici punto. — Scede al papato. — Scena accaduta sotto Castello Sant'Angiolo. — Giorgo di Furstemberg venuto dal fondo di Germania per impiccare il papa e i cardinali. — Arringa del vescovo di Bari agli auditori della Ruota Romana. — Ferrara. — Renata. — Modena i Grillenzoni, Ludovico Castelvetro ed altri; in Modena la Riforma si allarga. — Bologna; casi del frate Mollio. — Sparata dello Altieri. Commissione romana per la riforma dei costumi creata da Paolo III, e caso che ne fanno i preti, anzi quei dessi, che la composero. — Le città del patrimonio di San Pietro: disputa ad Imola tra un frate ed un laico. — Venezia mercanteggia di eresia come di droghe. — Progressi della Riforma costà. — I luterani per poco non professano la religione loro pubblicamente; provincie di terraferma in quale stato si trovino. — Milano giudicato da Paolo III. — Vita ed avventure di Curio Secondo. — Valdesio spagnuolo a Napoli svia l'Ochino dal cammino della Chiesa. — Siena città dei santi e degli eretici. — Ochino e donde il suo nome; sue vicende, peripezie e dottrine. — Pietro Aretino e l'Ochino. — La devozione delle Quarant'ore inventata dall'Ochino. — Smancerie del cardinal teatino all'Ochino. — La riforma a Pisa, a Mantova, a Locarno. — Digressione intorno al fanatismo religioso e politico. — Odio contro il papato nella universa Italia. — Donne eretiche in Italia. — Si parla della riforma nella città di Lucca: e cause per aborrire Roma in Lucca antichissime. — Pietro Martire, donde il nome e la patria; suoi studi: predica sul purgatorio. — Vicario di San Frediano a Lucca: suo apostolato costà; amici e studi suoi. — Paolo III a Lucca non molesta il Martire, e perchè. — Cardinale Contarini amico del Martire e tinto di eresia. Carlo V tiene al fonte Carlo padre di Giovanni Diodati volgarizzatore della Bibbia, e papa Paolo lo battezza. — Oscena guerra contro il Martire, perfidissime lettere del cardinale Guidiccioni lucchese alla Signoria di Lucca. — Disegno di Carlo V circa a tôrre la libertà a Lucca riportato dal Luito Balbani non è creduto dal Tommasi, e con poco fondamento. — Un frate è preso; a forza liberato dal carcere, nella fuga si rompe una gamba ed è ripreso. — Il Martire e l'Ochino lasciano la Italia; il primo è eletto professore a Strasburgo. — Chiesa luterana di Lucca percossa non dispersa: che cose le scrivesse il Martire tredici anni dopo la sua fuga. — Lucca donde cava il nome: cause per le quali a Lucca la Riforma più presto che altrove attecchì e più lungo durò. — La Riforma in onta alle apparenze di esito certo e alle paure di Roma venne meno in Italia. — Se ne indagano sommariamente le cause. — Inquisizione; Roma da prima osteggia la inquisizione, e perchè. — Persecuzioni a Modena. — Del Castelvetro e della infamia del Caro buon letterato ed uomo pessimo: nè chi vive in corte di Roma può essere diverso. — Sonetto del Caro contro il Castelvetro mandato a memoria per virtù dei reverendi padri barnabiti. — Confronto delle lapidi sepolcrali di ambedue. — Feroce e moltiplica persecuzione a Ferrara: Olimpia Morato fuggendo scampa. — Commissione del re di Francia alla zia Renata duchessa di Ferrara; sue angustie: messa in carcere, divisa dai suoi; il figlio Alfonso la manda via. — Questi il _magnanimo_ Alfonso di cui canta il Tasso: in che pregio il _magnanimo_ tenesse il Tasso. — Grandezza d'animo di Renata; sue figliuole. — Venezia tira partito dalla libertà di coscienza come da ogni altra cosa; ma poi spaventata dalle minacce di Roma piega: persecuzioni costà. — Terrore cattolico nell'Istria. — I Vergeri. — Caso miserabile di esuli veneziani dannati a morte per eresia. — Quali i supplizi veneziani. — Improntitudine dello inquisitore contro il duca di Mantova. — Ferocie clericali a Faenza ed a Parma; a Faenza il popolo dà di fuori e si sfoga. — Falsità pretine a Locarno; miserie dei Locarnesi spatriati. — Disputa tra il nunzio e le donne di Locarno. — Avventura di Barbara Montalto. — Altre atrocità pretine da clericali moderni, massime dal Cantù, non pure scusate, ma quasi lodate. — Roma avversa a Napoli la Inquisizione di Spagna perchè intende esercitarla da sè. — Lamentabili casi avvenuti in Calabria. — Sansisto e la Guardia colonne infami per Roma. — Corrispondenza tra Roma ed Austria, e poi tra Austria e Francia; digressione intorno alle condizioni presenti d'Italia. Testimonianze cattoliche intorno alle crudeltà sacerdotali da mettere non che ad altri pietà a Nerone. — Bartolomeo Fonzio mazzerato nel Tevere. — Paolo IV invaso da libidine di sangue: popolo romano rompe le statue di lui morto, mentre avrebbe dovuto rompere la testa di lui vivo. — I parziali di Pompeo Di Negri mercè settemila ducati ottengono che prima di bruciarlo lo strangolino: questo il Cantù afferma che i preti facessero senza quattrini: ma per essere creduti dal Cantù bisogna essere preti e carnefici. — Pio V più feroce di tutti: varie stragi a Como, a Torino, a Roma. — Paschali strangolato ed arso alla presenza del papa. — Altre persecuzioni. — Si torna a Lucca; diligenze per estirpare in cotesta repubblica l'eresie. — Lucchesi sciamano a frotte, massime i Burlamacchi: dove si rifuggissero; discendenza ed estinzione della linea di Francesco Burlamacchi. Grande fondamento poneva altresì il Burlamacchi negli umori religiosi, i quali dove più dove meno andavano allargandosi in Italia, ma però con tanta perseveranza da persuadere ogni uomo avvezzo a speculare che la Riforma sarebbe senza fallo prevalsa: di fatti veruna contrada della cristianità compariva come la Italia disposta alla Riforma, però che qui cadesse quotidiano sotto gli occhi lo spettacolo della contaminazione della gente chiesiastica; e sebbene di molta autorità fossero i santi padri che così in Italia come fuori rampognavano la chiesa romana delle sue abominazioni, pure, se non più credito, certo maggiore pubblicità di loro ottenevano i poeti, i filosofi, i politici e di ogni maniera letterati, imperciocchè i successi che imprimono carattere ai popoli prima di diventare fatti sieno idee, e queste partonsi dalla mente agitatrice del mondo. Gli è vero che lo scherno e la rampogna cadevano sopra vizi personali, ma tanto si dilatava il numero dei contaminati che gl'innocenti erano eccezione; e poi Roma, studiosa del profitto presente, così aveva ravviluppato le persone con le cose, la forma con la sostanza, che districare male si potevano allora, adesso peggio, ond'io sinceramente credo che, percossa la curia romana, abbia a toccarne la Chiesa. Ancora, seminii di rivolta e di opposizione occorsero sempre in Italia; antichi sono fra noi gli albigesi e i valdesi calati dalle Alpi in Lombardia e quinci allargatisi per la universa Italia fino alla remota Calabria, nonostante le trucissime persecuzioni dei papi e degl'imperatori, da Gregorio IX e Federigo II in poi legati a piantare anco a mo' di stile la dominazione loro nel cuore dei popoli e poi nemici implacabili a strapparsela di mano, nel secolo decimoquarto duravano in Italia sovvenuti dai Boemi e dai Polacchi; in Calabria erano l'occhio diritto dei preti cattolici e più dei frati; non già che questi sul principio non avessero mostrato loro il viso dell'arme, come quelli che li temevano venuti a soppiantarli, ma provatili in seguito obbedientissimi a pagare le decime, e queste rinvenute grasse a causa della stupenda industria posta dai medesimi nella coltura dei campi, si erano adattati a vivere con essi in pace su questa terra, salvo a mandarli allo inferno nell'altro mondo. Oggimai corre notizia comune che gran parte della religione di Giove entrasse in quella di Cristo, e questo travasare di fede come si fa del vino dall'una all'altra botte, mentre nuoce alla prima, non approda alla seconda; e peggio poi quando nella corte di Roma si palesò piuttosto il furore che la passione per la favella e le antichità romane. Già fino dalla fanciullezza di Lione X, allora Giovanni, il Poliziano si stizzava con la madre sua perchè con la lettura del Salterio lo imbarbarisse; promosso pontefice, la Chiesa comparve ingombra di una moltitudine di scrittori e di artefici pagani a tale che non la casa di un pontefice, ma l'aula di Augusto per lo appunto sembrava. Il Sadoleto con ciceroniano stile fulminava la scomunica contro Lutero, il Bembo dettava forbitamente elegante la bolla delle indulgenze; per lui non erano morti gli dii vetusti, anzi nei suoi versi rivivevano Lucina ausiliatrice dei parti, gli dei mani ed anco gl'inferi; alle cortigiane senza tante cerimonie ponevansi per le chiese statue e monumenti, dove si avvertiva, mediante solenni epitafi ciò farsi appunto pei meriti acquistatisi nei meretricii esercizi; e simile culto alla maniera dei pagani dispose gli animi a credere poco, a deridere molto, dissolvere col dubbio e apparecchiare la filosofia. Veramente quando noi consideriamo i casi umani, soprattutto desidereremmo che nè la tirannide mai nè lo errore fossero mandati a contristare la terra; pure, dacchè un fato ce gl'invia, dobbiamo altresì confessare che ci vengono accompagnati col germe della loro distruzione in corpo: così quando Cosimo I volle spegnere ogni aspirazione di libertà, procurando rimbambire le menti con le baruffe grammaticali, ritemprò invece la lingua, anello di unità fra i popoli italiani e pegno di futuro risorgimento. Arrogi le immani falsità impunemente fabbricate dai preti ingordi nei secoli d'ignoranza ed ora col nuovo lume degli studi conosciute e derise; primo e infestissimo fra questi critici molesti Lorenzo Valla, il quale mentre rende argomento di sceda la donazione di Costantino corre rischio di essere bruciato vivo; fine che non poterono fuggire Girolamo da Praga e Giovanni Hus, peggio di Cristo traditi da masnadieri che ardivano affermarsi vicari e sacerdoti di lui: Venderecci fra noi gli altari e i templi Ceri, incensi, preghiere e sacerdoti, Venale il cielo, se lo paghi, e Dio. come si lamentò Battista Mantovano nel suo poema _Della calamità dei tempi_; e gli studiosi conoscono l'acerbo epigramma corso fra la gente quando papa Lione morì senza sacramenti, di cui questo era il concetto: ei non potè averli perchè gli aveva venduti. Successe a danno della Chiesa la diffusione dei volgarizzamenti della Bibbia in diverse lingue; donde poi chiose e commentari e confronti: nè le nocque meno lo studio dei santi padri, i quali porgono testimonianza dei costumi della prima chiesa di Cristo e della infamia della odierna chiesa dei preti: la scienza adoperata a far lume allo errore si vendicò mostrando la di lui turpezza alle genti. Ormai ognuno sentiva la uggiosità della Chiesa, universale il malcontento e la voglia di ridurla a termine di onestà; ma il modo non appariva, e più del modo restava ignoto l'uomo che volesse e valesse iniziare la contesa. Il Savonarola forse era nato per mandare sottosopra la chiesa romana; a taluno sembra di no, perchè, considerata la maniera della sua contradizione, sembra intendesse riformare il costume salvando il resto; ma anco Lutero cominciò da piccoli inizi; ed una volta il frate posto sopra lo sdrucciolo, non si sa dove sarebbe ito a finire, chè lieve scintilla gran fiamma seconda. La Chiesa gli rubò la mano e lo fece ardere; Cesare Cantù, in certo suo libro recentemente pubblicato col titolo _Gli eretici in Italia_, ci fa sapere che egli giudica calunniatore espresso di santa madre Chiesa chi afferma ch'ella facesse ardere vivi gli eretici: questo è falso; la Chiesa prima di bruciarli gli faceva strozzare. Di tale indole le difese del Cantù se non peggiori; su le fodere del libro un beghino francese scrive che cotesto libro mancava alla Italia: certo prima che il Cantù lo componesse non ci era; rimane a vedere quanto egli abbia provveduto alla patria, alla verità e alla sua fama componendolo, e di ciò basta ed è troppo. A noi gente stracca di anima e di corpo male riesce comprendere quanto allagamento traboccasse dallo studio della Bibbia; ei si cacciò come il cuneo nel ceppo della tradizione e della dottrina chiesastiche; dapprima Roma non ci avvertì, o se pure ci badava, mal poteva anco da lontano presagire il guaio che le venne: dopo la stampa delle Bibbie ebraiche onde furono famosi gli ebrei soncinati, venne il furore delle traduzioni nelle lingue orientali: nella lingua volgare nostra affermasi la traducesse ab antiquo Iacopo da Varagine vescovo di Genova, ma non se ne trova traccia; dopo di lui la tradusse Nicolò Malermi; più tardi Antonio Brucioli di Firenze; successero al Brucioli traduttori biblici Santi Marmocchini, Zaccaria Rustici ed altri che non si ricordano; chi lo può sapere ammaestra che nel decimoquinto secolo se ne fecero nove edizioni, nel decimosesto venti: la smania di possedere Bibbie e le chiose le quali andavano dettandoci su alla giornata i teologhi non amici di Roma pigliava garbo e calore di febbre. Il carmelitano Baldassare Fontana da Locarno in questo modo raccomandavasi a certo pastore evangelico: «Con le lagrime agli occhi e con sospiri noi che sediamo fra le tenebre supplichiamo umilmente voi, cui sono famigliari gli autori dei libri della scienza ch'ebbero in sorte penetrare i misteri di Dio, di spedirci i libri dei grandi maestri, specialmente le opere del divino Zuinglio, dello illustre Lutero, dello arguto Melantone, del puntuale Ecolampadio; sua eccellenza Verdinyller fu da noi incombenzato di pagarvene il prezzo.» Allora Roma, dal nuovo pericolo commossa, si diede a calafatare le fenditure onde entrava l'acqua, ma tardi; fece dire per fino al Passavanti, forbito scrittore dello _Specchio di vera penitenza_, che il ridurre la Bibbia in questo nostro idioma volgare egli era avvilirla; Sisto V non la pensava così, chè all'opposto ci mise mano egli stesso e la voleva stampare, ma ebbe a sospendere a istanza della Spagna, più papesca del papa. All'ultimo la Chiesa praticò una via di mezzo: la si traducesse in italiano, ma però non si stampasse senza commenti, che hanno che fare col testo quanto gennaio con le more, o che mutano niente meno la negativa con l'affermativa, o viceversa. Ma a cotesti tempi non correva stagione benigna pei compositori di commenti; sicchè gli sbirri papalini tonsurati o senza tonsura cacciavanli come belve in bosco: ma siccome la guerra si dichiarava ai nomi, così fu agevole bucare la legge sopprimendoli ovvero alterandoli, per la quale cosa i libri proibiti penetravano perfino nel Vaticano e vi rimasero un pezzo, finchè, conosciutili, si gittarono via quasi scorpioni fossero o rettili velenosi. Il cardinale Serafino certo dì narrava a Scaligero maggiore una assai piacevole avventura. Erasi stampata a Venezia l'opera dei _Luoghi comuni_ di Filippo Melantone col titolo di messere Ippofilo di Terra Nera, cioè recando in volgare il cognome greco Melantone, che suona appunto terra nera, e capovolgendo il nome Filippo: piace il libro a Roma, dove per un anno intero vendesi in pubblico anzi, spacciatasi la prima mandata, ne trassero degli altri da Venezia; all'ultimo un frate francescano scoperse la ragia: da prima se ne levò uno scalpore grande, e nientemeno si parlava di mettere alla colla il libraio, il quale forse non avrà letto sillaba del libro; ma poi non se ne fece altro e si abbuiò la cosa col bruciare tutte le copie sopra le quali poterono mettere le mani. Così del pari accadde a Lutero, di cui la prefazione sopra l'Epistola di san Paolo ai Romani e il Trattato intorno alla giustificazione corsero un pezzo sotto il nome del cardinale Fregoso e piacquero. Le opere di Zuinglio circolarono un dì sotto il nome di Coricio Cogelio, e parecchie edizioni dei Commentari di Martino Bucero sopra i Salmi vendevansi in Francia come cosa di Aretio Felino. Roma raddoppiava scomuniche da levare il pelo, e i librai audacia per provvedere libri proibiti, chè dove vi hanno pericolo e guadagno due maniere di gente corrono smaniose, i pirati e i librai, e non si sa bene se spinti più dal primo o dal secondo movente. Valsero (come ogni cosa vale che purghi la mente dagli errori e allarghi lo intelletto) alla decadenza del tristo edifizio clericale le scoperte americane, i viaggi, le scienze ed i commerci impresi co' popoli comechè rimotissimi del mondo, e per altra parte valsero le guerre, le discordie dei principi, l'odio delle nazioni e il rovesciarsi delle une su le altre. Papa Clemente accusava Carlo, e non era vero, di tepidezza, se pure non si doveva chiamare avversione, alla chiesa cattolica, come anco di leggi pubblicate nei suoi stati lesive della dignità non meno che degli interessi della santa sede; Carlo di rimando rinfacciava al papa la guerra accesa da lui per bene due volte a ruina di Europa e i perpetui sotterfugi per sottrarsi alla riforma della Chiesa nel suo capo e nei suoi membri; avere voluto e chiesto a sazietà si convocasse per questo un concilio generale, e poichè vedeva che gli si dava erba trastullo, egli erasi risoluto abolire nella Spagna la giurisdizione del papa, insegnando per quel modo alle altre nazioni come gli abusi preteschi potessero correggersi e l'antica disciplina restaurarsi senza bisogno di papa. — Troppo più di questi bisticci nocquero al papato. Roma assalita e messa al sacco e il mescolarsi insieme di tante e tanto varie nazioni. I Tedeschi non si potevano capacitare come un popolo ingegnoso qual è e confessavano che fosse l'italiano si rassegnasse a vivere soggetto ad un sacerdozio sozzo ed odioso che lo faceva poltrire nella ignoranza trassinarlo e scorticarlo a suo agio. Durante il sacco furono visti gli Spagnuoli, cattolicissimi se altri mai ne vissero al mondo, esercitare violenze immani e rapine senza requie, anzi dopo il pasto avevano più fame di prima; non così i Tedeschi, i quali certo bevvero il vino altrui e le altrui robe rubarono, ma sopratutto posero studio ad avvilire i riti della Chiesa per modo che mentre cingevano d'assedio il castello Sant'Angiolo questo fatto operarono: una torma di soldati vestiti da monaci e da preti saltarono in groppa a muli, a cavalli; uno fra loro appellato Grunvaldo, notabile per vaste membra, vestito da papa, con un triregno di carta dorata in capo monta sopra una mula con arnese alla grande; dietro a lui un altra comitiva di ufficiali immascherati quali da cardinali, quali da vescovi, con cappello o mitra sul capo, con vesti di vario colore a rosso o bianco o pagonazzo secondo la dignità; accompagnava la processione una moltitudine di pifferi e tamburi cui teneva dietro la folla del popolo rumorosa e festante; così Grunvaldo benedicendo a destra ed a mancina arriva fin sotto Castel S. Angiolo, dove scende dalla mula e subito su di una sedia gestatoria viene tratto d'intorno a spalla di uomo; ora pigliato un ciottolone di vino o rovesciandoselo in gola propina alla salute di Clemente, i circostanti ne imitano lo esempio; poi impone ai cardinali il debito di professarsi fedeli allo imperatore e li sottomette con giuramento all'obbligo di non turbare da ora innanzi la pace dello impero con le fraudolenti ribalderie loro; oggimai sudditi tranquilli senza mescolarsi nel reggimento civile s'ingegneranno a vivere secondo i precetti della Scrittura e lo esempio di Gesù Cristo. Ciò compito, si mise con voce magna a predicare a parte a parte, narrando le infamie, i parricidii, le scelleratezze, insomma tutti i delitti di rapina e di sangue onde la chiesa di Roma venne in abominio degli uomini e di Dio; e poi concluse obbligandosi di trasferire per via di testamento ogni sua potestà a Martino Lutero, perchè trovasse maniera di assettare questi sconci: egli solo capace a rattoppare la barca di san Pietro, egli solo pilota idoneo a condurla in porto così sdrucita com'era per colpa di coloro che, invece di custodirla, annegati nella gozzoviglia e nella lascivia l'avevano lasciata andare per persa; e all'ultimo disse: «Quelli che approvano le mie proposte alzino la mano in segno di consenso.» Tutti levarono le mani così popolo come soldati gridando: «Viva il papa Lutero! viva il papa Lutero!» E fortuna volle che il papa e i cardinali non cascassero in mano a quella bestia di Giorgio Furstemberg, uomo di ferro, che, partitosi dalla estrema Germania a capo de' suoi lanzichenecchi, portava attaccato all'arcione della sella un mazzo di capestri rossi ed uno d'oro, coi quali aveva giurato impiccare i cardinali e il papa; e lo faceva, ma non gli capitarono fra le ugne. Ma via, gesti erano quelli e detti di gente iniquissima al papato, nè parrebbe dovessimo farne caso, se scrittori contemporanei, anzi magistrati, in occasioni solenni con termini del tutto pari non avessero vituperato la corte di Roma. Il vescovo di Bari Stafilo, arringando gli auditori della Sacra Rota romana intorno alle cause dello eccidio di Roma, tra le altre cose diceva a cotesti prelati: «Ma orsù rispondetemi: donde derivano tutti questi casi? perchè tante sciagure ruinarono sopra di noi? Perchè tutta la carne ci sta corrotta intorno alle ossa, perchè noi siamo non già cittadini della città santa, bensì di Babilonia, la rea baldracca. Mirate come tutte le profezie si avverino a danno suo. Isaia esclama: — Oh come la città sacra, di giusta e fedele, diventò meretrice! un dì in lei regnava la giustizia, ci regnano adesso sacrilegi ed omicidii; prima l'abitava gente eletta e di virtù amica, adesso la ingombrano il popolo di Gomorra, una razza di vipere, i figliuoli della corruzione, sacerdoti infedeli e complici di ladri. — Nè mi si dica questa profezia già compita, avendosi a referire alla ruina di Gerusalemme avvenuta ai tempi di Vespasiano, imperciocchè (ve lo affermo io) il futuro stesse tutto dipinto al cospetto del profeta; onde male si può sostenere che la sua visione si riportasse ai successi prossimi alle profezie piuttostochè ai più lontani. E di vero, se per noi si vorranno ricercare argutamente le altre profezie, ci apparirà manifesto com'esse si riferiscano a Roma, nè eccetto che a lei possano a verun'altra città referirsi. L'apostolo san Giovanni nell'Apocalisse gli è chiaro come l'acqua che accenna a Roma allorchè dice: — La grande città la quale ti sta davanti è la città che regna sopra tutta la terra; ella giace sopra sette colli. — Dunque qui si parla di Roma; il profeta aggiunge ch'ella si posa seduta sopra fiumi di numero infinito, ed anco questo non si può attribuire eccettochè a Roma, solo che voi vogliate porre mente che fiume significa popolo; egli, il profeta, dice altresì: — Ella va coperta con nomi di vergogna, ella è madre d'impurità, di fornicazione e di vituperio. — Oh! qui poi si conosce espresso che dichiara Roma, conciossiachè quantunque questi misfatti dapertutto compaiano, in verun luogo come in Roma smaglino nella loro potenza satanica.» Sebbene io non creda e non sia che a Ferrara s'incominciasse a predicare la Riforma, pure è certo che quivi meglio che altrove cestisse e quinci meglio che altrove si propagasse; perocchè Renata figlia di Luigi XII e moglie di Ercole II la proteggesse; prima ch'ella si partisse di Francia lei aveva nella dottrina dei riformatori allevata Margherita regina di Navarra; giunta in Italia in compagnia di madama di Subisa sua governante, contro la romana curia inviperita, a mano a mano si circondava di gente fidatissima tutta congiunta alla Subisa, come il suo figliuolo Giovanni, che fu poi uno dei campioni della Riforma di Francia, Anna sua sorella ed il fidanzato di lei Antonio de Pons conte di Marennes; più tardi ci venne Clemente Marot poeta francese, che, obliato un giorno, oggi dà vita e moto alla poesia di Francia per quanto ella ne possa andare capace, e per un tempo vi ebbe onorata stanza in qualità di segretario della duchessa; gli tenne dietro Leone Jamet, e per ultimo, sotto il finto nome di Carlo Happeville, ci si condusse Calvino. Tutto questo tramestío non si potè operare senza che Roma ne pigliasse fumo, e se ne sentisse rovello non importa dire, sicchè tanto e tanto ella si maneggiò con Ercole, uomo cui pareva essere principe perchè mandava la gente alla forca per conto altrui, che questi si obbligò in virtù di trattato col papa e coll'imperatore di bandire quanti Francesi si trovassero in corte. Così Renata ebbe a separarsi con ineffabile affanno dalla Subisa e dai suoi; il Marot esulò a Venezia; al Jamet riuscì passarsela tra goccia e goccia rimanendosi al fianco della duchessa: ma innanzi che si venisse a questo passo il seme era stato sparso, mercè la dottrina dei letterati illustri chiamati a Ferrara a professare umane lettere nella università ovvero ad istruire i giovanetti principi; e comechè tutti luterani non fossero, tutti però le idolatrie romane e la insopportabile superbia dei preti aborrivano; ricordansi tra i più celebri Celio Calcagnini, Lilio Giraldi, Bartolomeo Riccio, Marcello Palingenio, Marcantonio Flaminio, Chiliano e Giovanni Sinapi e Fulvio Morato padre a quella Olimpia che tanto buona fama di sè sparse nel mondo. Difficile sarebbe dire quanti alle dottrine luterane si convertissero in Ferrara; pochi certo non furono, ma apertamente ne apparve mutato il numero a norma della mutabile mente del duca, che feudatario della Chiesa ogni acqua bagnava; importa eziandio ricordare che, a seconda dei tempi, nobili in copia seguaci delle dottrine novelle dalle altre parti d'Italia sotto la protezione di Renata, come in fidatissimo asilo, a Ferrara ricoverarono. A Modena, se avessimo a prestare fede al cardinale Morone vescovo di cotesta città, la faccenda sarebbe ita anco peggio, avvegnachè egli giudicasse la città intera imbrattata di luteranismo; ma ognuno sa quanto i chiesastici costumino in pro' loro a impiccolire o ad allargare le cose; e poichè o tu li prenda per un dito o agguanti loro la mano, gridano lo stesso, e tu, quando ti capita, tienli per la mano e pel collo; e poi putendo egli stesso di eretico sicchè ebbe a durare un lungo processo ed a patire prigionia fino alla morte di Paolo IV, forse con le dimostrazioni di zelo eccessivo s'industriava allontanare il sospetto da sè: però sendo Modena città letterata, non fa maraviglia se quivi troppo più che altrove occorressero nemici a Roma. L'accademia modenese fondata dal Grillenzoni, smesso ogni altro tema, s'inabissava nelle controversie teologiche: temuto sopra tutti, epperò unicamente perseguitato quel Ludovico Castelvetro il quale recò nella critica e nelle dispute filologiche l'acre sottigliezza della teologia, e forse non ebbe animo buono, ma di lui due cotanti più tristo Annibale Caro suo nemico, il quale gli scriveva libri contro con la medesima intenzione che il boscaiolo tagliava fascine per servizio della Inquisizione: Narrasi che i predicatori cattolici erano costà presi a dileggio, sicchè dovevano a marcio dispetto lasciare il pulpito agli avversari, i quali con la copia degli argomenti e con lo eloquio degno, o sia che così fosse, o sia che così paresse, empivano di entusiasmo gli ascoltatori. Al Bucero parve ormai cotesta città guadagnata alla fede e gliene mandò lettere gratulatorie anco qui molti i dotti che ragionano, il popolo che sente scarso. — A Firenze, donde già si erano tirati due papi di casa Medici, e regnava Cosimo dei Medici, la riforma non poteva aspettarsi lieti giorni nè gli ebbe, bensì generò parecchi uomini che furono strenui confessori e martiri della religione riformata, come Pietro Martire Vermigli, monsignor Carnesecchi, il Bruscoli ed altri. Il Cantù ci fa sapere come il Bruscoli fosse spia di Cosimo, e pur troppo sarà stato; che monta questo? forse voi altri cattolici volete soli il privilegio di raccogliere nel proprio seno traditori? E se costui hassi a stimare infame perchè spia, vorreste salutare santo Cosimo che lo pagava? Ma di questo infelice parleremo più tardi. Chiamati dalla fama della vetustissima università, dotti e ignoranti traevano dalle più remote parti di Europa a Bologna; i primi per insegnare, i secondi per istruirsi; veruna terra meglio disposta di quella alla dialettica dacchè il giorno per la filosofia non era ancor sorto; mancava la favilla per appiccare lo incendio, e questa, non già favilla ma torcia, fu Giovanni Mollio di Montalcino minore osservante. Costui, dopo avere professato con molta rinomanza nelle più celebri università d'Italia, si ridusse a Bologna, dove subito gli mosse guerra l'astiosa dappocaggine del Cornelio metafisico; di qui una sfida a disputare in pubblico, dalla quale il Cornelio uscì spennacchiato; l'ira lo fece spia, e sta bene, perchè mediocre in lettere, moderato in politica e spia siano tre focacce levate dalla medesima pasta; sottoposto il povero frate al sindacato di quattro cardinali, ebbe un santo dalla sua, perchè buono non lo rinvennero, e tristo da buttarlo sul fuoco neppure; solo gl'interdissero la predica sopra l'epistole di san Paolo, ma parlarono a sordo; allora il cardinale Campeggio lo cacciò via dalla università; trovo anco scritto che certo Baldassare Altieri mandava avviso ad un suo amico tedesco come un gentiluomo di Bologna, quando si fosse dichiarata guerra al papa, stava pronto a concorrerci a sue spese con seimila fanti da lui arrolati e pagati: quantunque a me paia cotesta più che altro iattanza, pure, fatta la parte sua alla esagerazione, si ha da dire che molti e potenti vivessero in Bologna gli zelatori della Riforma. E giusto favellando della necessità di riformare i costumi chiesastici e della voglia che la curia romana aveva di farlo, merita essere da noi riportato un caso il quale da un lato dimostra il credito grande che si tiravano dietro le deliberazioni di cotesta città, e chiarisce dall'altro la fede pessima dei papi. Taluni Bolognesi avendo scritto a Giovanni Planitz ambasciatore dell'elettore di Sassonia in Italia circa la necessità di convocare il concilio, questa lettera mise tanto il campo a rumore che Paolo III per ischermirsi deputò tosto una commissione di quattro cardinali e di cinque prelati affinchè avvisassero sul da farsi; fra i cardinali il Caraffa. La commissione eseguì il cómpito con prestezza pari a lealtà; moltissime colpe accennò e molti rimedi propose; principalissima delle colpe da emendarsi dichiarò il cumulo degli uffici di cardinale e di vescovo; il rapporto della commissione si legge in parecchie raccolte ed ha per titolo: _De concilio de emendanda Ecclesia iussu Pauli Tertii_; fu stampato, pubblicato per comando del papa, ma nè papa nè cardinali lo mandarono nè manco per ombra ad esecuzione; dei cardinali che lo composero quelli che erano ad un punto vescovi continuarono a tenere mitra e cappello; il cardinale Polo avendo a scegliere tra cardinale e primate d'Inghilterra, conservò i due offici; e quel Caraffa così ferocemente rigido, diventato Paolo IV, condannò quanto aveva proposto cardinale teatino. Gran brava gente i preti! — Non che la terra lombarda, pareva che san Pietro non potesse salvare dalla contaminazione nè manco quella terra che i preti chiamano _patrimonio_ di lui: e però la storia testimonia propense alla Riforma le città di Faenza e d'Imola; in quest'ultima narrasi che un predicatore affermando come veruno potesse acquistarsi il paradiso tranne che in virtù delle opere buone, certo giovane gli arguì contro gridando: «Bestemmia! La Scrittura dichiara Cristo avere conquistato il paradiso con la sua passione e morte, e a noi donarlo per effetto della sua misericordia.» Di qui s'impegnò la disputa, stando la gente in cerchio dintorno ad ascoltarli; il giovane, o perchè fosse bel parlatore, o perchè fastidissero il frate, sovente aveva plauso; di che stizzito il frate di un tratto proruppe: «Va via, grullo, tu non hai anco rasciutto il latte su le labbra, e ti attenti a ragionare di divinità, mentre altre barbe che la tua non è tacciono comprese dalla riverenza del mistero.» E il giovane al frate: «Di male in peggio; o non hai tu letto nel Vangelo che Dio deriva la sua gloria dalla bocca dei fanciulli?» Il frate scappò via scotendosi la polvere dei sandali, come se Gomorra o Sodoma abbandonasse. Venezia faceva il commercio di eresia come gli ebrei soncinati di Bibbie; non che ella fosse priva di contaminazione, per dirla in istile di curia romana, chè anzi più delle altre città italiche se ne risentisse, ma in bell'armonia teneva unite borsa e coscienza; colà riparando gli eretici italiani dettavano o traducevano e stampavano opere che poi si esitavano con molto vantaggio e presto nella rimanente Italia; colà più di tutti diffondevano la luce e la semenza del Signore, per dirla in istile di Riforma, Pietro Carnesecchi e Baldo Lupetino, entrambi salutati martiri allora, adesso fanatici. Con questi si dava da fare un Baldassare Altieri di Aquila, a cui incolse bene perchè segretario dell'oratore inglese a Venezia: a ragione per tanto Lutero scrivendo a Giacomo Zeigler molto si rallegrava del profitto cavato da cotesta città; di vero i protestanti osarono qui quello che si erano peritati di tentare altrove, vogliamo dire, chiedere alla scoperta la facoltà di professare pubblicamente il culto luterano. — Da Venezia si riversavano simili umori nelle provincie di Bergamo, Verona, Brescia, Vicenza, Treviso; ed è da credersi che se in cotesti tempi un papa avventato avesse strinto troppo, gli si saria rotta la fune in mano: che se qualche volta pencolando il doge la dava vinta a Roma consegnandole taluno eretico, questo generava danno, ma poco, ed anzi la voglia di vendicarlo o di operare in guisa che non si rinnovasse rendeva vie più smaniosi i luterani a propagare le proprie dottrine. Verranno i tempi sinistri; per ora il vento soffia secondo nel gonfalone dell'eresia. A veruna città seconda, a moltissime prima, Milano agitava irrequieta la cupidità di rompere l'odiato giogo di Roma; da lei fino nei remotissimi tempi apparve la voglia di opporsi al papato; e di lei forte si lagna Paolo III scrivendo al vescovo di Modena, accusandola di girsene dietro alla dottrina diabolica ed impura degli antichi eretici: stava proprio a Paolo III padre di Pier Luigi Farnese adoperare la parola impura; e' ci hanno vocaboli i quali scottano le labbra di cui li profferisce; i preti poi, per quello che ne appare, non temono scottature. Qui occorre, quanto più breve per me si potrà, esporre le vicende di Curio o Curione secondo; imperciocchè le opere sue molto potessero sopra gli animi dei Milanesi e dei Lucchesi. Egli nacque a Chieri, donde si fece il suo cognome Curione, primogenito di ventitrè fratelli; mandato a studio a Torino, quivi s'invaghì delle dottrine dei riformisti, per professare liberamente le quali s'indettò con certi amici suoi, passate le alpi, ridursi in Germania: presi in Aosta sono chiusi nel castello di Caprano; dopo due mesi a Curio concedono stanza nel monastero di San Benigno; colà gli prese il ticchio di aprire un reliquario e cavatene le ossa, metterci dentro una Bibbia e con questa leggenda: «Vedi l'arca dell'alleanza, la quale contiene i veri oracoli di Dio e le veraci ossa dei santi.» Scopertasi la beffe, chiamata a quei tempi sacrilegio, Curio, subodorando che i sospetti facevano capo a lui, se la svigna a Milano; colà condusse donna di casa Isacchi ed ottenne una cattedra dove si acquistò bellissima fama: costretto a uscire di Milano per causa dalla invasione spagnuola, recossi a Casale e quivi dimorò alquanti anni oscuro; la morte di tutti i suoi fratelli lo persuase a tornarsi in Piemonte per raccogliere il paterno retaggio; glielo serbava un cognato, a cui per averlo troppo lungamente custodito ora sembrava proprio che fosse suo, onde invece di rendergli il patrimonio gli fece il tiro di accusarlo di eresia; e Curio da capo a scappare con arguzia e celarsi in Savoia. Certo dì trovandosi ad ascoltare la predica di un frate domenicano a Castiglione, avvenne che costui, seguendo il vezzo antico nè fin qui smesso di malmenare con calunnie Lutero, affermava la sua dottrina allargarsi fra i Tedeschi lurchi, perchè tollerante ogni libito più reo; a cui, non si potendo più tenere, Curio contrappose a voce alta: «Tu menti» Visto e preso: ai preti parve toccare il cielo col dito; pregustavano l'onore e l'odore che sarebbe loro venuto dal leppo di un _atto di fede_ alla spagnuola, non meno che calcolavano i frutti del terrore; il diacono dell'arcivescovo di Torino si affretta a Roma per sollecitare la condanna; intanto, per assicurarsi che non gli scappi, lo consegna al fratello del cardinale Cibo, il quale da pari cura agitato te lo ficca in prigione coi ceppi ai piedi; ora ecco, mentre pareva per lui perduta ogni via di salvezza, sovvenirlo la fortuna: gli si gonfia una gamba tanto che il carceriere, giovane epperò non affatto tristo, ci ravvisa la necessità di liberarlo dal ceppo pesantissimo di legno: di che aveva a temere egli? Non restava preso con quell'altro piede? E poi come fuggirà il prigioniero? La sua carcere sta in mezzo a tre altre stanze di cui una abita il custode, nell'altra albergano le guardie, nella terza convengono tutti e mangiano. Vista l'arrendevolezza, se pietà non la vogliamo chiamare, del giovane carceriere, il Curione pensa nuova malizia; si finge infermo; una calza empie con la camicia ed altre ciarpe, e il tutto attorce e comprime intorno ad un bastone che a sorte trova nella prigione appresso al letto: ciò fatto, si ripiega quanto può sotto la coscia la vera gamba, adattando al ginocchio la gamba finta così che questa paia quella: poi sul bruzzo rompe in gemiti. Il carceriere accorre profferendosi sollevarlo, e quegli lo prega gli muti il ceppo dal sinistro al destro piede tanto che gli dia tregua lo spasimo che lo trafigge; e il carceriere lo appaga; parendogli poi quasi ridotto agli estremi, molto compassionandolo, lo lascia solo; quando il sonno tenne custode e guardie, Curione pian piano abbigliatosi va ad origliare alla porta della stanza; dormivano tutti, e mentre tenta cauto la porta per somma ventura ella cede al suo tocco, avendola lasciata socchiusa il carceriere o per oblio o piuttosto per soccorrerlo caso mai ne avesse sentito il lamento; entra nel tinello, dal tinello a tastone trova la scala, e giù per essa come se avesse l'ale. Ma in fondo alla scala non era aperta la porta, bensì sbarrata da enormi catenacci; risalì il misero la scala notando sottilmente ogni cosa, come avviene a cui prema di salvare il collo dal capestro: a mezza scala rinvenne una finestra; non correva tempo per conoscere di quanto ella stesse sopra il terreno; profondo il buio, ogni arnese mancava; avanti a sè gettò la cappa per ammortire la caduta, poi quanto più può si spenzola fuori e all'ultimo si lascia andare; senza danno cadde nel cortile; va difilato alla porta di mezzo, sperandola chiusa unicamente per via di stanga a traverso, e s'inganna, era serrata a catenaccio; allora si aggira intorno tastando i muri, e trovatili lisci, sgomento e stanco si abbandona. In questa ecco comincia a splendere in cielo un fuoco tramandante luce, la quale quella della luna non appaiava, ma l'altra delle stelle vinceva; forse erano stelle cadenti, o meteora altra cotale; fatto sta che per essa potè speculare meglio le pareti e vedere nei canti come il muro nuovo tirato su al lato il vecchio lasciasse certa crepatura dove non era disperazione arrampicarsi con le mani e co' piedi; e questo tentò, ma levato alquanto da terra il sasso a cui con le mani si aggrappa, cede, ed egli giù a gambe levate, e il sasso sopra con grande fracasso. Palpitante di terrore colà rimase un pezzo, temendo che allo strepito del tracollo svegliate le guardie non gli riponessero le mani al petto; di ciò fu niente; ripreso animo torna ad arrampicarsi, scavalca il muro e, in casa di tale che egli nomina Filosseno Nucca ricoverandosi, scampa la vita. Questo caso accadde senza intervento di angioli nè di demoni; altri non crede che passasse a quel modo liscia e suppone corrotti custode e guardie; poteva anco darsi, ma quando ci afferma proprio lo stesso Curio che l'andò come la contano, non si sa perchè non gli si deva credere, conoscendo fughe accadute tanto nei moderni che negli antichi tempi troppo più di questa maravigliose e stupende: egli poi narrando la propria storia, ne attribuisce il merito a Dio, e ciò stà bene; dice che non fece voti, non imprese pellegrinaggi, in somma nulla eccetto votarsi a Cristo supplicandolo che lo sovvenisse a sostenere la guerra contro le passioni, col suo spirito lo trasse a sè, lui adoperasse come il vasaio costuma della creta. Nè finirono qui le sue vicende: dopo breve soggiorno a Salò fra i suoi, si recava a Pavia, dove fu professore tre anni: ma alfine ebbe a cedere allo sforzo del papa, che lo aveva tolto a bersaglio; riparò prima a Venezia, poi a Ferrara, dove la duchessa Renata lo munì di lettere commendatizie per Lucca, le quali accolte con favore, lui promossero i cittadini professore nello studio. Nè qui trovò requie; il papa sempre addosso, ond'ei l'ebbe a segnare col carbon bianco se gli riuscì ricoverarsi prima a Losanna, poi a Basilea; una volta si attentò tornarsene a Lucca per pigliarvi la moglie e i figliuoli, ma gli sbirri della Inquisizione, che stavano su le intese, lo sorpresero a Pescia mentre mangiava: vinto dalla paura alla vista di loro, si leva in piede di scatto ed impugnato il coltello, spaventato, spaventava i sbirri, i quali l'uno su l'altro aggomitolandosi, egli passa di mezzo a loro, ed essi lo lasciano ire con Dio. Molte opere egli scrisse e molto predicò; i riformati lo levano a cielo, i cattolici lo denigrano fino allo inferno: uomo fu come gli altri, ma certo operaio indefesso e di profitto grande da per tutto dove egli insegnò, massime a Lucca. FINE DEL VOLUME PRIMO. VITA DI FRANCESCO BURLAMACCHI DI F. D. GUERRAZZI VOLUME SECONDO MILANO CASA EDITRICE ITALIANA DI M. GUIGONI 1868 _Proprietà letteraria_. Tip. Guigoni. CONTINUAZIONE DEL CAPITOLO V. Da tempo remoto, e lo accennammo di già, travagliava Napoli il seme della eresia; ai Vadesi si aggiunsero i Tedeschi, venuti in Italia ai danni di Roma, ma poi voltati contro la Repubblica di Firenze e contro ogni cosa che in Italia sapesse di libertà, perchè papa e re bisogna ch'e' s'intendano; l'un regge l'altro; s'ei si accapigliano, durano finchè non si svapora nell'uno o nell'altro il vino dell'orgoglio; rinsaniti, si rifanno su i popoli. Ai Vadesi ed ai Tedeschi successe lo spagnuolo Valdes temuto per la bontà sua, lo ingegno, lo zelo indefesso e sopra tutto per la efficace modestia, in virtù della quale egli, pago che i suoi concetti si avvantaggiassero, si celava ed altri a farsi chiaro sovveniva. Egli diè il tratto alla esistenza del frate Ochino staccandolo dalla chiesa romana e di valorosissimo amico lo rese nemico capitale; a molte chiese appartiene la storia di lui del pari che quella di quasi tutti i compagni suoi, ma qui io la riporterò sempre succinto, però che il Valdes lo levasse dalle dannose dimore. Siena è la città dei santi; ma siccome non ci ha diritto senza rovescio, così del pari è la città degli eretici. L'Ochino nacque da Domenico Tommasini di Siena nella contrada dell'Oca, dove pure sortì i natali Caterina da Siena, esaltata santa; di qui il soprannome di Ochino. Ai giorni nostri avvertirono come la bandiera di cotesta contrada porti i tre colori precisi della odierna italiana; Ochino e Caterina derivano da parenti oscuri; padre di questa un tintore, falegname quello dell'altro: giovine e propenso a malinconia Ochino si rese frate minore, non rinvenendo regola più di questa severa; ci stette poco, chè recatosi a Perugia, vi studiò medicina. In quel torno istituirono i cappuccini, e poichè questi gli parvero più conformi alla sua rigida indole, così volle vestirne l'abito; di qui in breve (tanto fece profitto nello studio della divinità, e tanto lo sovvenne natura) usciva atleta di Cristo acquistandosi fama di supremo oratore, anzi divino. Carlo V dopo averlo udito proclamava ch'egli avria fatto piagnere i sassi; lasciamo i sassi al suo posto, il Sadoleto e il vescovo di Fossombrone non dubitarono metterlo a canto ai più famosi oratori dell'antichità. Del vecchio peccatore cardinale Bembo non importa rammemorare le smancerie; lui con ressa infinita egli ottiene da Vittoria Colonna predicatore a Venezia, di lui e della sua eloquenza s'innamora, della salute si piglia smaniosa cura fino a raccomandarsi che dove occorra sforzino il suo Bernardine a cibare carni in quaresima, altrimenti non potrà reggere alle fatiche apostoliche. Forte percotevano la mente dei popoli la sua barba bianca, il volto emunto, gli occhi incavati e fiammeggianti, le vesti squallide, il costume rigido; camminava per colli e per pianure a piedi ignudi; il capo ad ogni più rea stagione scoperto sempre; andava di porta in porta accattando la vita; suo letto la terra, cortinaggio le frondi degli alberi: tutti lo riverivano e levavano a cielo; per poco stette che vivo non lo santificassero: dal comune andazzo si lasciò trarre fino Pietro Aretino, il quale, con modo in cui traspare la schernitrice perversità sua, scriveva al papa credere che non senza consiglio della provvidenza tanto peccatore egli fosse scrivendo ovvero operando, imperciocchè altrimenti l'Ochino non avrebbe ottenuto la gloria imperitura di ridurlo ad abiurare i suoi tanti peccati. L'Ochino, in virtù del credito grande che aveva, la cella concessagli per abitare a Venezia convertì in convento dei cappuccini; ed all'Ochino eretico vanno debitori i pii cattolici della devozione delle Quarantore, la quale tuttavia si pratica con tanti benefizi dell'anima e del corpo che ogni uomo li può vedere. Il papa gli aveva posto un bene pazzo, ed a ragione; imperciocchè quale vendemmiatore più potente di lui nella vigna di Cristo? La elemosina raccolta nella città di Napoli in una sola predica toccò niente meno che i cinquemila zecchini. Ma l'Ochino aveva già dato la balta; egli stesso scrivendo al Muzio lo informa che, meditando, digiunando e in tutte le altre guise mortificandosi, era giunto a scoprire tre cose: la prima, che, Gesù Cristo avendo saldato col suo sangue ogni conto vecchio della umanità, bisognava reputare eresia pretta la dottrina che dopo cotesto caposaldo gli uomini avessero a faticare di nuovo per salvarsi con le opere: e veramente starebbe così; ma ciò non torna a Roma, perchè se le opere non sono più necessarie alla salute dell'anima, ella potrebbe chiudere bottega; e dall'altra parte appaga più la ragione il concetto che ognuno debba essere giudicato alla stregua del merito; di ciò colpa la proterva intemperanza dei preti, i quali, volendo arare sempre coll'asino e col bue, misero insieme cose fra loro contrarie deliberati di saldarle insieme con la fede: sicuro! non fa mestieri travagliarci troppo a cercare la razionalità delle proposte quando tu possa concludere: O credi o t'impicco. La seconda delle cose scoperte dall'Ochino fu che i voti frateschi, siccome empi, non tengono, e non ci ebbe a durare fatica; la terza, che la chiesa romana è vituperio di Dio, ed anco qui fu facile trovato. Se ne accorsero subito ch'ei balenava; dicono lo aizzasse il Valdes a Napoli col mostrargli che nonostante le belle parole a Roma lo avessero in conto del somaro che porta vino e beve l'acqua; nè manco il cappello rosso gli avevano dato! Le sono novelle, però anco sotto la tonaca del capuccino, come sotto il mantello di Diogene, talora la superbia si rannicchia. Per tanto prese a fastidire e messa e coro e orazioni; anzi a certo frate che, avendo notato com'ei si astenesse dalla preghiera, gli disse: «Andando ad amministrare la religione senza preci tu mi pari un cavaliere che vada senza staffe; bada alla cascata», l'Ochino rispose: «Chi fa bene prega», sentenza da legarsi in oro. Chiamato a Roma, pei conforti del Vermigli, non tiene lo invito, al contrario, gittata la tonaca alle ortiche, si rifugge a Ginevra; lo accolse esultante Calvino; ne dolse amaramente a Roma, la quale gli spedì su le calcagna per ricondurlo, ma indarno; intanto si pose mano a spegnerne gli alunni; dannato a morte un fra Bartolomeo da Cuneo; tutta la religione dei cappuccini subito cernita per isceverarne il grano dal loglio; per poco il papa non la soppresse affatto; le querimonie della sua fuga andarono a cielo; gli scrisse il Muzio e il Caraffa, prima cardinale, poi papa, ed è sollazzevole udire come questi lo vezzeggiasse col nome di cerbiatto e lo allettasse al ritorno sul colle degli aromi, il quale nel vocabolario della santa madre Chiesa significa catasta di legna; poi séguita coll'imprecare ai vitelli di oro e al culto degli alti luoghi; pesta mani e piedi perchè da ora innanzi non ci abbiano più ad essere Roboamo e Geroboamo, Gerusalemme e Samaria, ma sì un solo ovile ed un solo pastore; ragioni tutte, come ognuno vede, una meglio dell'altra per persuadere i più tenaci. In Ginevra l'Ochino fondò la chiesa riformata italiana; quivi scrisse e stampò varie opere, tra le quali si ricordano i _Cento apologhi_, cui caninamente mordono i preti perchè li scottano; peggio conciò Paolo III in certa lettera la quale conservasi nella Laurenziana; lui matricida, lui rotto ad ogni infame libidine, assassino e traditore dei complici assassini, delle immanità del figliuolo Pierluigi Farnese partecipe: della esagerazione in cotesti improperii ce n'è e di molta, perchè preti e frati erano tutti spretati e sfratati o no, i quali se abbiano avuto od abbiano fede non so; questo so, che carità non conobbero mai. A Pisa città prossimissima a Lucca gli eretici si adunarono apertamente in chiesa e vi celebrarono la messa; come argomentasse Mantova si ricava dal breve mandato da Paolo III al cardinale Gonzaga col quale lo ammoniva essere venuto a notizia come costà chierici e laici si attentassero disputare su materie di religione intorno a cui ognuno doveva tacere, imperciocchè egli e solo egli avesse ricevuto commissione di ragionare per tutti. La eresia, ovvero la luce del vero evangelico secondo gli umori diversi degli uomini, s'insinuò anco a Locarno; dapprima scarsa, ma non per questo sgomentaronsi gli apostoli, assai facendo capitale sopra gli esempi biblici, massime su quello di Gedeone, il quale con iscarsa mano di forti abbattè Madian; linguaggio consueto ai fanatici e dai religiosi passato ai politici per mala sorte e con peggiore consiglio, perchè nelle faccende religiose il poco apostolato opera come il molto, se non nella estensione, almeno nel concetto, mentre nelle politiche quello che non basta gli è come non fosse: colà si tratta di persuasione, qua di forza. Le città che si sfasciano a suono di tromba occorrono unicamente nella Sacra Scrittura; e ai tempi che corrono pochi e male armati e peggio nudriti Leonidi soccomberanno davanti a molti bene ordinati, provvisti dei migliori arnesi guerreschi ed ottimamente pasciuti; se ne vogliano rammentare i volontari che corrono alla impazzata lasciando noi in dubbio se li spinga generosità o piuttosto follia; dove poi li meni tedio di vita, e' possono ammazzarsi a loro bell'agio a casa. A Locarno impertanto i luterani crebbero e moltiplicarono; a maestri ebbero un Fontana, un Benedetto da cotesto luogo, un Varnerio Castiglione, un Ludovico Runco ed altri dei quali la fama vinse un Beccaria; dalla prossima Chiavenna vi scesero a storme pastori; insomma Locarno, più che disposto a seguitare il moto, ordinato ad imprimerlo e solenne. E poichè troppo menerebbe a lungo discorrere parte a parte degli uomini i quali promossero in Italia la corrente della riforma, basti per lo scopo della nostra storia sapere come ormai non occorresse terra dove un mutamento nelle cose della fede ed in ispecie nei costumi dei chiesastici non si desiderasse; nell'Istria, a Genova, a Verona, a Cremona, a Cittadella, a Brescia, a Civita del Friuli, in Ancona e per fino nella stessa Roma pullulavano uomini ricchi di dottrina e di costanza, deliberati a osteggiare la mostruosa instituzione che ha nome papato. Nè meno degli uomini si mostrarono in questa bisogna ardentissime le donne. Dell'Olimpia Morata già dissi; sopravvive oltre la sua la fama della Manrichia di Bresegna da Napoli, di Lavinia della Rovere da Urbino, della Maddalena e della Cherubina degli Orsini, della Elena Rangoni dei Bentivoglio, della Giulia Gonzaga bellissima di forme, onde corse voce che Solimano di lei per fama fieramente invaghito commettesse ad Ariadeno Barbarossa rapirla, e questi, obbedendo al suo signore, venuto in Italia si avventasse inaspettato a Fondi, dove la Giulia aveva stanza, e per un pelo non la colse, chè la donna svelta scappò in camicia; avventura piena di passione e degna di figurare nella storia quando fosse vera. Tra le eresiarche pongono altresì la Vittoria Colonna, e falsamente, perchè nelle cose della fede ella balenò anco troppo, chè la tirava l'Ochino, ma il cardinale Polo la tenne ferma al chiodo. Però sopra Siena, sopra Ferrara, la città di Lucca noverava nel suo seno protestanti palesi e più nascosti, i quali aspettavano la occasione propizia per bandire apertamente la separazione di cotesto stato dalla chiesa cattolica. Cagione principalissima di siffatti umori predicano Pietro Martire, ed è vero, non però unica nè prima: ricordinsi gli alunni lucchesi del Savonarola, ed in ispecie lo zio di Francesco Burlamacchi spositore della vita del maestro ed istruttore della gioventù. Ora, per favellare di Pietro Martire, dirò che e' fu di Firenze e di casa Vermiglia, martire nominato perchè il padre suo afflitto a cagione della morte di quanti figli gli nascevano votò questo ultimo, se gli viveva, a san Pietro martire: gli sopravvisse, ed egli da galantuomo tenne il patto. Il giovanetto studiò molto e bene sotto Marcello Virgilio segretario della repubblica fiorentina ed ebbe compagni illustri; mite di natura e al tutto inchinato alle cose spirituali, si ridusse di sedici anni al chiostro dei canonici regolari di Santo Agostino a Fiesole; dei beni terreni non gli calse, anzi confortò il padre suo che la massima parte del censo avito legasse all'_Albergo de forastieri_ in sussidio dei poveri; dotto di latino, di greco e di ebraico, di ventisei anni imprese l'apostolato della parola, la quale non impetuosa come quella dell'Ochino, bensì lene scendeva nei cuori portandoci la divina persuasione; e poi, quantunque in sembianza di vergine cristiana, pure gli arrideva la musa e quella di ardentissimo affetto lo proseguiva; però a lui sopra gli altri amici in delizia Benedetto Cusano grecista da Vercelli, volgarizzatore di Omero, e il poeta Flaminio: dopo avere predicato con plauso in molte terre d'Italia andò a Napoli abbate nel convento di San Piero in Ara; quivi avendo annunziato che predicherebbe sul testo della prima epistola di s. Paolo ai Corintii che dice: _col fuoco sarà provata l'opera dell'uomo_, tennero per sicuro che si trattasse del purgatorio; quindi si dilatarono le viscere ai romanisti, sicchè pensate quanta la maraviglìa loro e più la rabbia quando udirono chiarire da lui coteste essere parole simboliche ed accennare alla intera distruzione dell'errore: di autorità non fece a spilluzzico, nei libri dei santi come in quelli dei curiali si trova tutto e per tutto; i teatini, potentissimi, lo accusarono allora al vicerè Toledo, ma egli sostenuto dagli agostiniani non li badò; ricorso al papa, per quella volta la sgarrava. Uscito da Napoli per colpa dell'aere maligno, peregrinò visitatore del suo ordine l'Italia, richiamando con ineffabile dolcezza i traviati su la diritta via; per ultimo venne priore di San Frediano a Lucca, e poichè qui trovò le coscienze disposte, a viso aperto prese ad esporre la sua dottrina; senza requie inteso a formare atleti i quali valessero a sostenere la lotta co' difensori di Roma, chiamava da Verona Paolo Lanciso famoso aristotelico ad istruire la gioventù lucchese nella lingua latina, da Ferrara Celso Martinengo nel greco, ed Emmanuele Tranellio nell'ebraico: guadagnò alla sua fede diciotto frati, i quali come diciotto apostoli spedì d'intorno a diffondere, come egli sosteneva, la luce della verità, e gli avversari affermavano, le tenebre dell'errore. Con lui s'accontò, e fu acquisto potente, don Costantino priore della Fregionara; egli sopra tutti infaticato istruiva i giovani nelle umane lettere e in divinità spiegando il Testamento nuovo ed i Salmi; nè giovani soli accorrevano ad udirlo, bensì ancora cittadini di ogni maniera, patrizi e popolani: nello avvento e nella quaresima predicava il solo Vangelo; nel rimanente anno prendeva per testo l'epistola di san Paolo, cosicchè in breve si vide fondata a Lucca una chiesa evangelica, di cui il Martire era salutato pastore, e seguace la parte migliore dei cittadini, i quali, dotti al pari che devoti, diedero in processo di tempo splendido segno di attaccamento alla religione riformata. Mentre queste cose avvenivano papa Paolo III si condusse fino a Lucca per conferirvi con Carlo V intorno ai negozi di Europa, massime intorno alle faccende della fede; e tuttavia, sebbene cotesto papa astutissimo conoscesse l'umore del Martire, nè gli mancassero eccitamenti ad usargli mal tratto, egli se ne astenne pensando al tempo immaturo e al seguito grande che il Martire aveva in cotesta città; forse, vuolsi credere, che il cardinale Contarini lo proteggesse, conciossiachè molto lo riverisse ed amasse ed anche egli a Lucca si conducesse per tenere al Martire proposito delle novità delle chiese germaniche; nè il Contarini andava immune da qualche sprazzo della dottrina dei riformati. Narrasi per Carlo Eynard, il quale dettò una breve monografia intorno ai Burlamacchi, come Carlo V imperatore alloggiando nel palagio della Signoria, certa notte a forza desto udisse per casa un gran tramestio e un nicchiare, un gemere da mettere pietà; ond'ei chiamata gente le ordinò andassero a vedere che cosa fosse accaduto e glielo riferissero; tornato il messo in breve lo informava, una gentil donna avere testè partorito con molta angoscia un figliuolo, di che egli rallegratosi, significò volerlo tenere al sacro fonte ed imporgli il proprio nome. Il papa fece la cerimonia; e cotesto pargolo fu poi Carlo figlio di Michele e padre di Giovanni Diodati, capitalissimo fra i teologhi protestanti e volgarizzatore della Bibbia, argomento di anatemi per Roma e di ammirazione per quanti sentono amore alle umane lettere. Pel Martire a quel modo non poteva durare e non durò, chè nemici gli si serrarono addosso non solo i frati degli altri ordini per emulazione, ma sì anco i suoi per vendetta dei riformati costumi: quali arti adoperassero non porta specificare; fratesche erano, e però la meno trista la calunnia. Di questo tempo ci avanzano tre lettere del cardinale Bartolomeo Guidiccioni scritte da Roma alla Signoria di Lucca, dove si lagna che i pestiferi errori della condannata setta luterana, i quali pareano soppressi, abbiano dormito per destarsi più gagliardi di prima: l'ammonisce che pigli partito su ciò presto e bene, se non vuole tardi patire cosa che le dispiaccia: denunzia le conventicole in Santo Agostino, che, note a Roma, notissime denno essere a Lucca, e se la Signoria non provvede, vuol dire che esse accadono lei sciente e consenziente — dopo nè anco un mese da capo il buon cardinale loda la Signoria dell'egregio animo ch'ella dimostra e la conforta di spedire subito oratore a Roma per giustificarsi; intanto come caparra facciano prendere incontanente Celio Secondo Curione, _che stà in casa Arnolfini ed ha tradotto in volgare alcune opere di Martino Lutero, per dare cotesto bel cibo sino alle semplici donne della nostra città, oltrechè da Vinegia e da Ferrara se ne intende di lui pessimo odore; così è dar fare diligentia in quei frati di Santo Agostino, maxime di ritenere quel vicario.... custoditi con diligentia li potranno mandare a Roma, ovvero avvisare che li tengono a istanza di Sua Beatitudine;_ passato un altro mese, torna a battere il ferro caldo e dice: sentire inestimabile amarezza per l'augumento quotidiano della perversa dottrina nella nostra città; in cotesta medesima mattina (26 agosto 1542) essere state lette nella _Congregatione_ otto conclusioni luterane di don Costantino priore della Fregionara, le quali tanto dispiacquero al papa ed ai reverendissimi deputati che gli hanno commesso iscrivere a V. S. perchè lo facciano incarcerare _hic et nunc_ e incontanente spedirlo insieme all'altro frate di Sant'Agostino: ed in questo modo et con diligentia operando sarà grande _purgatione del mal umore della nostra città_: prega, come altre volte pregò, la Signoria perchè si emendi da sè medesima _et non axpetti che altri la emendi_. Tale la insolenza romana, a cui per mostrarsi adesso due volte più impronta non manca la voglia, bensì la possa. Il Beverini nei suoi lodati annali lucchesi a questo luogo racconta come Luiso Balbani dimorando a Brusselles, avendo grande amistanza col Granvela, potè senza essere veduto udire i ragionamenti tenuti fra lo imperatore, il nunzio apostolico e l'oratore di Cosimo I, sul conto della repubblica, i quali insomma mettevano capo a questo, che, là dove la Repubblica non si emendasse, lo imperatore le avrebbe tolta la libertà e sottoposta a Cosimo; dettando il Tommasi il sommario delle storie di Lucca dà di frego a questo racconto, principalmente fondato sopra la inesattezza di alcuni particolari che lo accompagnano; ma più che ci si pensa sopra, e più conghietturandosi comparisce vero o ad ogni modo supposto per costringere la Repubblica a qualche provvisione esiziale alla religione riformata. Intorno allo agostiniano così pertinacemente richiesto a Roma, anzi alla morte, ecco quanto trovo scritto: i nemici del Martire, e per converso gli amici di Roma, volendo tastare un poco l'umore del popolo, ottennero facoltà dai commissari romani di sostenere questo frate, che, sospetto di eresia, era confessore ed assai cosa del Martire; la Signoria si strinse nelle spalle e lasciò fare; meno codardi alcuni patrizi, ammiratori della pietà e della innocenza di quello, rompono le porte del carcere e lo liberano, ma nella fuga lo sciagurato cadde, si ruppe una gamba e fu ripreso per essere condotto più tardi a Roma quasi in trionfo. Indracati i satelliti romani mettono accusa formale contro il Martire avanti la corte di Roma; spedisconsi messaggi a sobillare la gente contro lui, i quali, come suole quando si tratta di mal fare, ottengono seguito sopra l'aspettativa, e principalmente tra i frati agostiniani, inveleniti contro il Martire perchè con la sua riforma gli aveva ridotti al canapo e (poichè tornava, almeno pel momento) si dava loro ad intendere agitassersi, la pristina libertà rivendicassero, chè in questo caso il rompere impune in ogni più sfrenato libito; nè stette guari che, convocata a Genova una congregazione generale dell'ordine degli agostiniani, ella citò il Martire, a comparirvi: ma il Martire, che quanto al nome ci stava, rispetto al fatto pare non gli garbasse, ed accivettato era, ed anco pei conforti dei suoi amici, assetta alla meglio le proprie faccende, poi si scansa a Pisa in compagnia del Lacisio, del Trebellio e del Terenziano; quinci scrive agli amici perchè procurino la libera partita a quanti dei correligionari intendano esulare con lui; per ultimo rimanda l'anello, insegna del proprio ufficio, affinchè non gli appicchino il sonaglio di avere fatto suo pro' della sostanza del convento; da Pisa a Firenze, dove con parlare succinto persuade l'Ochino a cansarsi a sua volta (la quale cosa egli fece due giorni dopo di lui), da Firenze per le Alpi retiche si conduce a Zurigo, a Basilea ed a Strasburgo, nella quale città ebbe accoglienze quali si costumano fra i perseguitati, chè gli uomini per amarsi bisogna che si sentano miseri. Appena pigliato un po' di riposo a Strasburgo, dove gli allogarono con onorevole stipendio una cattedra nella celebre università, scrisse alla chiesa riformata di Lucca esponendo le cause ond'egli costretto abbandonò la dolce patria italiana, e le faceva coraggio a perseverare nello amore del Vangelo[14], che bene ella aveva tolto a norma della sua eterna salute. Conosciuta la fuga del Martire, con la feroce bramosia di cui noi che scriviamo avemmo ed abbiamo immagine viva nelle opere sbirresche dei diversi principati fin qui succedutisi in Italia; sbirri sempre comunque tu li nomini, li vesta o gl'_incrocicchi_ come si fa ai canti per salvarli dalle lordure, ecco i cagnotti assediare il convento del Martire, rovistarlo da cima a fondo, menare a vergogna i religiosi in prigione, otto più lesti in gamba se la svignarono riparando in Isvizzera: malgrado questa fiera persecuzione, la chiesa protestante non andò dispersa, all'opposto come rovere sbattuta dal vento resistè alla bufera romana sicchè il Martire scrivendo ben tredici anni dopo ai fratelli lucchesi così si esprimeva: «Voi avete fatto per molti anni tanto avanzamento nel Vangelo di Gesù Cristo che non era punto mestieri io vi esortassi con lettere, ed altro non mi restava, eccetto questo: che in qualsivoglia luogo mi trovassi, io vi levassi a cielo.... si accrebbe poi la mia letizia quando seppi come, dopo finite tra voi le mie fatiche, Dio vi avesse provveduto di maestri sapienti, zelatori e considerati, in grazia delle virtuose cure di loro la opera impresa andava a perfezionarsi.» Comechè Lucca, giusta quanto ci narrano gli antichi cronisti, pigliasse nome da _luce_, però che prima fra le città italiche aprisse gli occhi alla luce del Vangelo, o forse appunto per questo, fu precipua fra noi a durare nella dottrina luterana: cause speciali per lei erano la molta anzi la troppa parte che gli oligarchi tenevano nello stato, ed essere questi tutti o quasi dottissimi e per ciò alla bestiale prepotenza romana fieramente avversi: la esperienza fatta dai reggitori che i riformati d'irreligiosi, scapestrati e poco meno che atei diventarono virtuosi e dabbene, dalle risse aborrivano, e, cessate le parti, i cittadini ogni giorno più si rendevano fra di loro servizievoli, le donne oneste: arrogi che il duca di Firenze, perpetuo nemico della Repubblica, abiettavasi a Roma perchè prima gliene consentisse la rapina, poi gliela consacrasse; onde i nostri vecchi sebbene di ossequi non facessero a penuria col sommo pontefice, tuttavia in fondo, non guardando più all'erta che alla china, desideravano che i luterani affliggessero lo impero in Germania; ed intanto, per approfittarsi dei tempi, si tenevano a cavallo al fosso. Quello che avvenne al Martire nei diversi paesi dove lo trasse la sua ventura e che facesse e come finisse a me non giova esporre; nè manco dirò le vicende della Riforma in Italia: da quanto fu narrato e dagli sforzi supremi dei papi e dei satelliti loro per isvellerla fin dalle radici rimarrà chiarito il mio assunto, il quale è scopo capitalissimo di questa vita, che Francesco Burlamacchi, non fantasticando cose vane, al contrario ponderando i casi, i tempi e gli umori dei popoli, si accingesse ad impresa, se non sicura, probabile; e se non riuscì, egli è perchè la fortuna mal si accorda ai fatti virtuosi; degli eroi che si accinsero a magnanime imprese i popoli esaltano più i felici, gli infelici più rammemorano con pietoso animo; i primi in parte ebbero la loro mercede nei gaudi della gloria, i secondi l'aspettano sempre dalla ricordanza dei posteri, e l'abbiano. E tuttavia, nonostante i casi e i giudizi di uomini peritissimi, come a mo' di esempio del cardinale Sadoleto, il quale scrivendo al cardinale Farnese nipote di Paolo III si sfogava perchè il papa, abbindolato da pessimi piaggiatori, non si accorgeva della ribellione universale degli spiriti e della rabbia di stracciare a morsi l'autorità papale; e il cardinale Caraffa, poi Paolo IV, che dichiarava riciso la lue luterana avere contaminato in Italia non pure gli uomini di stato, ma altresì la massima parte dei membri del clero, nonostante i voti del Vallicola e le speranze di Celio Curione, che, trionfando la vera religione di Cristo in Italia, vedeva l'universo genere umano precipitarsi con impeto fuori di misura maggiore a quello dei primi tempi della Chiesa verso la santa rôcca di cui Cristo è castellano, verso le tre torri difese dalla fede, dalla speranza e dalla carità; nonostante queste ed altre cose, la Riforma in Italia, comechè avesse posto radice, non prevalse, all'opposto rimase schiantata. Chi volesse ricercarne le cagioni con sottile esame forse ne troverebbe a dovizia; io ne riporterò alcune le quali mi si presentano sotto mano: prima di tutto le persecuzioni implacabilmente feroci esercitate per via del tribunale del santo Uffizio; lì per lì sembra strano come sul principio Roma osteggiasse la istituzione di questo scellerato tribunale in Italia, ma dopo un po' che ci pensi sopra, conosci che la cosa va pei suoi piedi; ell'era la Spagna che presumeva mettere succursali del santo Ufficio a Napoli e a Milano, e questo non faceva al caso di Roma, la quale tenne sempre l'occhio alla penna per dominare e non essere dominata, onde si mise dalla parte del popolo per ributtarla allegando con parole e con sembianza compunte che troppo crudo si comportava la Inquisizione in Ispagna perchè potesse consentire pigliasse piede in Italia; mentre la ipocrita aveva provocato l'efferatezze spagnuole, e mentre qui fra noi ella ne commise tali e tante non dirò da disgradarne quelle, ma da comparire loro onorevolmente da lato: in questa guisa sotto pretesto di tutelare la libertà la strozzano, e mentre volgono la passione del popolo a respingere la Inquisizione spagnuola, i preti mascagni la italiana consolidano: assodata che ella fu, imperversò come turbine; avventuroso chi potè fuggire! quanti gli sbirri presero, gittarono in carceri oscure ed ignote: oscure perchè l'anima dei prigionieri sgomenta piegasse davanti al terrore, ignote perchè i congiunti e gli amici al pensiero del sepolcro precoce si sentissero compresi di paura; eccetto poche terre, dalle altre tutte lo esercizio del culto luterano sbandito. Però, come succede, la persecuzione crebbe la costanza o la ostinazione negli eletti, i quali secondo il costume degli antichi cristiani continuarono a professare la propria religione in luoghi riposti ed anco talora per caverne. A Modena per opera di alcuni insigni prelati, fra i quali piace notare i cardinali Sadoleto, Morone, Contarini e Cortese, tentarono accordo coi riformati di cotesta città, e parve altresì si fossero assettati, ma egli erano tranelli, e forse da entrambi i lati, chè mal bigatti provaronsi sempre i settari: più tardi un Erri andato fino a Roma faceva la spia ai suoi concittadini, e Roma lo rimandava sbirro, giudice e carnefice a Modena; parecchi non istettero ad aspettarlo e si cansarono, di cui il più celebre è il Castelvetro; fiero, acuto e senza cupidità nè paure, di Roma sentiva quello che in ogni tempo sentirono gli uomini savi; ma ciò che più gli nocque fu la batosta ch'ei sostenne coll'Annibal Caro a causa della censura mossa da lui alla canzone: _Venite all'ombra dei gran gigli d'oro_; dove al Caro parve toccare il sublime, mentre (per dirla col concetto di Longino) _egli altro non fa che gonfiare le gote_: ai tempi nostri appena gli uomini che appellansi moderati o consorti ci porgono idea della infame rabbia che questi misero negli screzi politici, di quella che i letterati allora ponevano nelle contese scientifiche: sicari adoperavansi e veleni, peggio anco di questi la calunnia occulta al Santo Uffizio per farti bruciare vivo, ovvero (come sostiene il dabbene Cantù) prima strangolare e poi ardere. Dalle pessime di queste arti non rifuggì il Caro: sempre il Cantù, per difendere il Caro, afferma che non ce n'era mestieri, e può darsi, ma ciò non toglie che il Caro, nato e nudrito fra i prelati, di coteste ribalderie non si bruttasse; più tardi il Castelvetro andò a Roma per giustificarsi delle accuse appostegli, se non che, vista la mala parata, si cansava a Chiavenna, donde in seguito passò a Ginevra; chiamato da Renata non tenne lo invito, comechè questa la propria lettiga per viaggiare con comodità gli profferisse e gli mandasse danaro, cui egli ringraziando respinse: condusse il Castelvetro la inferma vecchiezza a Basilea, a Vienna e a Lione; ricondottosi in Chiavenna, quivi morì.[15] — A Ferrara il triste sacerdote non rifuggiva (e qual cosa mai si tiene dai sacerdoti per venerato o per santo?) da seminare la discordia fra le famiglie; così giunse a pervertire ogni senso morale che il tradimento fu giudicato meritorio; insidia la mensa dove si sedeva il padre co' figliuoli; trabocchetto il talamo, non più fidato custode dei ripostissimi colloqui dei consorti: un'aura di spia attossicò la vita; raccolti per questo modo gl'indizi, il papa con breve del 1545 raccomandava gli accertassero con la tortura. Bene incolse alla Olimpia Morata; che, invaghitosi di lei un giovane tedesco, se la tolse in moglie e la recò lontana dalla terra crudele; gli altri finirono in prigione; taluno attestò col martirio la fede abbracciata; nè debolezza dei tardi anni nè tenerezza dei novelli nè sesso nè prosapia illustre nè eccellenza d'ingegno nè rettitudine di vita trovavano, non dico grazia, ma nè anco discrezione davanti la feroce improntitudine della razza malnata che sacerdotale si appella. Pietoso il caso della duchessa Renata, dove tu pendi incerto se più tu deva ammirare la costanza della donna o la poltroneria del marito o la temerarietà della curia romana. Il papa, per isforzare Renata, mise su Enrico II re di Francia suo nipote, il quale le spedì a posta di Francia maestro Oris inquisitore della fede, a cui, finchè giovanezza gli arrise, piacque più il vino che il sangue, vecchio, più il sangue del vino. La commissione del re al maestro inquisitore portava che prima attestasse alla zia Renata la sua amarezza per vederla entrata in cotesto laberinto di eresia; se ciò non valesse a ritrarnela, l'obbligasse con tutta la sua casa di assistere alle prediche; dove nè pure questo rimedio giovasse, allora si ponesse sola in luogo appartato, e i famigliari suoi si processassero e condannassero. E così fu fatto: la mutarono di carcere più volte, e così di compagnia come di carcere; talora dubitarono che piegasse e s'ingannarono, stette come torre ferma alle lusinghe, alle minacce e perfino alla separazione dalle proprie figliuole; solo dichiarò credere alla _chiesa cattolica_, sopprimendo _romana_; più duro del padre, il figliuolo Alfonso, per non incontrare intoppi nella investitura del ducato da parte del papa, intimò alla madre o si convertisse o se ne andasse. Esaù vendè la primogenitura per le lenticchie, Alfonso la madre postergò al ducato: vedemmo peggio, però senz'altre parole tiriamo innanzi. Ella si partiva vecchia da Ferrara, dove era venuta giovane; il figlio che la esiliava era quel magnanimo _Alfonso_[16] che fece cantare e imprigionare il Tasso. Delle figlie di lei notissime Leonora e Lucrezia, massime la prima, meno nota Anna, la quale sposò prima il duca di Guisa e, lui morto, quello di Nemours, e più degna di esserlo per avere temperato la rabbia cattolica contro gli ugonotti. Renata si chiuse a Montargis, dove il suo castello meritò il nome di _Albergo di Dio_, lei quello di madre degli afflitti; difese i perseguitati con la parola, con gli aiuti e perfino con le armi; perchè un dì che il suo genero duca di Guisa le intimava o cacciasse via gli eretici o avrebbe dato l'assalto al castello, ella rimandò indietro l'araldo con questa risposta: «Và e digli che incontrerà me prima sopra le torri del castello, e lì vedremo se gli basterà il cuore di ammazzare la figlia di un re.» Venezia arieggiò in parte l'Inghilterra; la libertà ella amò, ma troppo più i guadagni, i quali adesso le persuadevano osteggiare ed ora blandire Roma: in cotesto tempo correva stagione di blandirla, però persecuzioni, disastri, ruine non contavano e nè le lacrime, purchè il conto tornasse: molto meno il sangue; agli aristocratici mercanti il sangue risparmia lo inchiostro rosso, il quale nella scrittura doppia spesso utilmente si adopera. La procella suscitata dalle istigazioni di Roma viene esposta con colori foschissimi nelle lettere dello Altieri al Bullingero: «Ogni dì cresce la violenza della persecuzione, arrestano in massa e in massa condannano alle galere ovvero alla carcere perpetua: noi vedemmo bandire cittadini con i propri moglie e figliuoli; i più felici hanno dovuto la salvezza loro alla fuga: a tale stretta siamo noi che io comincio a temere per me, io che fin qui potei offrire asilo altrui; ma la volontà di Dio sia fatta, e la virtù si affina con la sventura.» L'Altieri rappresentava a Venezia l'elettore di Sassonia ed altri principi germanici: non è qui la occasione di narrare quale e quanta la indefessa opera sua in pro' dei fratelli di fede; finchè gli fu possibile tenne fermo; messo nell'alternativa di esulare ovvero di professare la religione cattolica romana, scelse essere spatriato; ma poi non gli bastò il cuore di allontanarsi, e si avvolse ramingo con la moglie e il figliuolo dilettissimi entrambi per diverse terre del dominio veneto; nel 1549 così scriveva da Brescia al Bullingero: «Sappi che vivo in mezzo a continue paure; pericoli di morte mi circondano; l'Italia tutta è perniciosa per me e per miei poveri figlio e consorte; ogni dì aumentano i miei terrori, conoscendo espresso che i miei nemici non poseranno finchè non mi abbiamo divorato vivo: rammentati di me nelle tue orazioni.» Di lui non si ebbe più novella mai; forse chi sa? anco di questo sventurato risponderebbero le cupe acque del Canale orfano, se elle avessero voce e senso. Se così a Venezia, peggio nelle provincie; nell'Istria un inquisitore Grisone andava di casa in casa a rovistare ogni ripostiglio per rinvenirvi libri vietati o Bibbie; minacciava multe, castighi ed estremi supplizii; presi da terrore i cittadini si accusavano fra loro. Questo che io dico ti somministri argomento della tetra inverecondia di costui; sospetti a Roma i Vergeri, di cui Giovambattista era vescovo di Pola; adesso per muovere il popolo contro loro il Grisone salito in pergamo declamava: «Io vedete, se un nugolo di malanni vi è cascato addosso? Viti, olivi, messi, tutti al diavolo: le mandrie morte stecchite; nulla di salvo, e ciò perchè? Perchè voi sopportate che un vescovo eretico in compagnia di eretici come lui vivano qui in mezzo a voi. Smettete ogni speranza di sollievo finchè non abbiano essi ricevuto la mercede a seconda dei meriti; perchè dunque rimanete qui con le mani in mano? Affrettatevi, correte a lapidarli.» Poco dopo cotesto vescovo di veleno, come fu sospettato, moriva; il fratello Paolo scampava appena la vita; peregrinò per varie terre e dopo avere sopportato strane venture riparò fra i Grigioni. Le romane improntitudini alla perfine irritarono i patrizi più giovani in ispecial modo quando giunsero a mettere a repentaglio la Repubblica co' Grigioni: dalle ugne degli inquisitori liberarono un mercante grigione e rimandaronlo a casa, invano empiendo il Nunzio cielo e terra di querimonie: ma egli erano passeggieri miglioramenti seguitati da peggiori ricadute; onde i protestanti Veneti ebbero ad abbandonare la patria, riparando nella Istria; però anco cotesto asilo essendo loro indi a breve riuscito molesto, comprarono una nave per girsene in cerca di patria novella; e già partivano quando certo mercante creditore di tre fra loro si provvide in giustizia per istaggirlo; e ciò non potendo ottenere, stando la nave in procinto di partenza ricorse allo inquisitore ed accusò tutti di eretici: presi, trasportati a Venezia e convinti dello errore commesso, furono condannati a morte: fin lì sentenze capitali non se ne erano viste a Venezia, eccetto in qualche parte rimota di terra ferma meno vigilata dalla solerzia dei padri, adesso funestarono anco la capitale: non fu di fuoco, bensì di acqua, non ispettacolosa come piace ai preti, sibbene segreta secondo il costume Veneto; notte tempo colà facevano passare il prigione dentro una gondola dove lo aspettavano un prete e due sbirri, tutti insieme pigliavano il largo di là dai castelli dove gli attendeva un altra barca; accostatesi allora quanto basta le barche mettevano una tavola traverso sopra le loro poppe, e su la tavola il condannato carico di catene, con un pietrone ai piedi: dopo ciò le barche vogavano di forza in senso opposto e l'infelice spariva nei gorghi delle acque. Se non più famoso, più tormentato degli altri il padre Baldo Lupetino, il quale traverso venti anni di doloroso carcere ebbe caro il giorno del martirio come quello della liberazione. Comecchè le storie vadano piene della crudele tracotanza sacerdotale, pure in questa corsa traverso la Riforma in Italia mi sia permesso soffermarmi a narrare come lo inquisitore a Mantova non si peritasse mettere le mani addosso a persona congiunta di parentela col duca, il quale credendo che la cosa fosse accaduta per errore o che bastasse un suo cenno a comporla, mandò un messo con preghiera allo inquisitore perchè lo licenziasse; ma costui, che al pari degli altri cercava lo scandalo col fuscellino, rispose reciso: «non potere, e che al duca faceva di berretta, è vero, come a suo naturale signore, ma che il papa, di cui era in cotesto caso il rappresentante, stava sopra tutti i duchi, re e principi di corona della terra.» A Faenza e a Parma la Inquisizione fece anche peggio: nella prima di queste città, sostenuta persona insigne per dottrina e per pietà, in odore di eresia è messa alla tortura; negando l'accusa, moltiplicano i tormenti e, non potendo spuntarla gl'inaspriscono al punto che fra atrocissimi spasimi vi lasciava il meschino la vita: il popolo diede di fuori e in un momento diventarono tritoli il palazzo, gl'istrumenti e gl'inquisitori medesimi: furori che per essere giudicati divini bisognerebbe che la passione consegnasse in mano alla ragione e si alternassero regolarmente per ora in capo all'anno almeno due volte, per rendersi poi necessari una volta appena in capo ad un secolo. Piena di pietà è la storia dei riformati di Locarno. I preti cominciarono da falsificare un documento in virtù del quale i Locarnesi si professavano cattolici e co' riti della romana chiesa si obbligavano vivere: quando i preti pretesero farlo valere alla dieta dei sette Cantoni, surse una procella d'ira e di vituperio; non però se ne commossero i preti, i quali tanto seppero dimenarsi che ottennero: chi dei Locarnesi si convertisse cattolico rimanesse su quel di Locarno; spatriati gli altri. Il giorno nel quale i Locarnesi dovevano manifestare questa loro volontà, i protestanti presero a difendersi; non furono ascoltati, dicessero netto se volevano o no farsi cattolici: proruppero in no tanto sonoro che l'eco lo ripercosse lontano lontano per la costa dei monti. A gittare legna sul fuoco ecco giunge il nunzio del papa, il quale focosamente assilla deputati svizzeri a farsi restituire dai Grigioni il Beccaria sovvertitore dei Locarnesi per multarlo con le meritate pene; quindi a impedire che gli esuli trasportassero seco i loro beni e figliuoli; questi, sostenuti, diventassero a forza cattolici: i deputati concessero la prima richiesta, ributtarono la seconda come eccessiva: il nunzio, prosuntuoso al pari che soverchiatore, udito di certe gentildonne le quali, assai avendo delle cose della fede fatto profitto, passavano per luminari, volle provarsi con esso loro, e di leggieri fu vinto, vuoi per forza di argomenti o per eleganza di eloquio; allora, il malanimo convertito in odio, egli giurò la ruina di Barbara Montalto principale su le altre; quando meno se lo aspettava, una turba di scherani si avventa sul far dell'alba al suo castello e le intìma seguitarla in prigione. Non si scompose la donna, solo implorò dagli sbirri la lasciassero sola per decenza tanto ch'ella si vestisse: annuirono entrando nella stanza accanto, dove aspettarono tanto che impazientiti sforzarono la porta della camera per pigliarla, ma non la rinvennero; frugarono da per tutto e sempre invano: affacciandosi sopra la terrazza lei videro in mezzo al lago che seduta sopra una barca, sventolando una pezzuola, li salutava. Il caso successe così: ella abitava un antico castello di cui una via sotterranea metteva capo al prossimo Lago maggiore: rugginosa per diuturno disuso era la porta talchè sei uomini a stento l'arieno potuta smovere; ma il marito essendosi fatto la notte precedente un mal sonno, provvide che l'aprissero; nè di ciò contento, procurava altresì che ivi presso stessero ammaniti i rematori della barca per cavare la famiglia di pericolo; di ciò la donna consapevole deluse la pretesca rabbia; il nunzio, per rifarsi, acciuffa certo mercante chiamato Nicolò, il quale dallo errore di avere discorso con irriverenza della Madonna del Sasso in poi di altra colpa non era reo; straziaronlo co' tormenti, poi dannarono a morte: indarno supplicarono per lui i Locarnesi tutti, massime cattolici; il nunzio non intese ragione, intorato ordinava che lì per lì senza indugio di sorte si strangolasse e bruciasse. — E neppur qui ebbero fine le atroci persecuzioni dei riformati locarnesi: avendo convenuto fra loro di traversare il contado di Milano, furono avvertiti che veruno gli avrebbe ospitati; se più di tre giorni si trattenessero, sarebbero stati ammazzati, a gravi ammende sottoposto chiunque gli sovvenisse ed anco per poco con loro favellasse. Scelsero nel cuore del verno arrampicarsi su le Alpi; ma giunti a Rogoreto, si trovarono chiusi dalla neve; lì stettero, e vincendo con isforzi inauditi la rea fortuna, ci si sostennero fino a primavera, e questo fu miracolo di amore; a primavera parte accolsero i Grigioni e parte Zurigo, procurando per via di carezze fraterne consolarli delle passate amaritudini. A Napoli, lo abbiamo accennato, Roma avversò la Inquisizione spagnuola per cupidità di primato; in altro modo proposta piacque, e romani preti e frati furono spediti ad esercitarla: se più mitemente che in Ispagna, adesso vedremo. Gli scrittori raccontano che la furia della Inquisizione in cotesta nobile città si levò repentina come l'uracano; a frotte legati, imprigionati, poi spediti a Roma, dove dopo averli straziati co' tormenti bruciavano: presi da terrore i cittadini, considerati rinnovarsi i tempi di Silla, dove causa di esizio era più che la dubbia fede il certo possesso del podere di Arpino, in compagnie cominciarono ad esulare: ben per loro se avessero condotto a fine il disegno; se non che, giunti ai piedi delle Alpi, alzando le ciglia in su, contemplarono l'acerbo cielo e la terra desolata; allora gli assalse il desiderio del lieto aere natio, la dolce temperie e la contrada dispensiera feconda di tutti i doni della natura: non ebbero cuore di valicare le Alpi e tornarono a casa, dove patirono di ogni maniera umiliazioni, ingiurie e patimenti, privi di conforto della coscienza, che senza requie li chiamò codardi. Il papato, che tenne e vorrebbe sempre tenere le granfie fitte in Roma e gli occhi da per tutto, ora vede in Calabria la vetusta colonia dei Vadesi: erano circa quattromila agricoltori e pastori, gente di fatica e di Dio, semplice di cuore, innocentissima di opere; essi abitavano due terre San Sisto e la Guardia; antica la loro fede, diversa affatto dalla romana: dopo tanto secolo al papa saltò in testa di sottoporli all'alternativa di farsi cattolici o di morire. Le vie di mezzo non usano a Roma: vennero colà inviati due monaci; la storia ne ricorda il nome, io nol dirò, monaci erano, e basta; questi da prima si conducono a San Sisto, dove si mettono a predicare così: «Caccino via i loro sacerdoti, entrino in grembo della chiesa romana, ascoltino la santa messa; questo per ora, il resto impareranno più tardi; e se nol faranno per amore, di tanto stieno sicuri, che lo avranno a fare per forza.» Alle parole ebbre, i Vadesi di San Sisto raccoltisi insieme dissero. «Donde a noi viene sì gran male? Da vivere dentro cerchia di mura fabbricate dalle nostre mani; per tanto non istiamo a bisticciarci con cotesti uomini, partiamci, lasciamo loro le nostre case, noi potremo vivere liberissimi nei boschi.» E come dissero fecero. I frati se restassero mogi non importa dire, pure ripreso l'animo, divisarono recarsi difilato alla Guardia, dove appena intromessi ebbero cura di chiudere le porte; quindi esposero la missione loro come avevano adoperato a San Sisto, e mentendo aggiunsero che gli abitanti di cotesta terra si erano tutti senza eccezione ridotti alla loro volontà; imitassero anch'essi tanto bello esempio rinserrando l'antico vincolo di fratellanza fra loro: abbindolati così indegnamente, assentirono, se non che, in breve scoperta la frode, uomini donne e infanti irruppero verso la porta per raggiungere i fratelli nei boschi. I frati fuori di sè tratti dalla rabbia bestiale incitano il governatore a movere con forte mano di milizie contro i profughi di San Sisto, i quali dall'alto delle rupi dov'erano riparati supplicavano: non fossero micidiali del loro sangue; da secoli abitare in pace coteste terre e quivi avere raccolto ogni affetto come ogni sostanza; pure lascerebbero ogni cosa, niente si porterebbero seco, tranne il necessario pel viaggio; li lasciassero andare, non li costringessero per disperazione all'estreme difese: non li badarono; s'immisero dentro le forre delle rupi, e quivi rimase la più parte infranta dai massi sopra loro tracollati. Alla rabbia sacerdotale allora si aggiunse non meno truce la superbia soldatesca; vennero a corsa in Calabria nuovi soldati da Napoli, si bandirono liberi dallo inferno e dalla galera quanti masnadieri in cotesti tempi infestavano le strade pubbliche a patto che le scellerate armi andassero a santificare con la strage degli eretici; ci asteniamo descrivere gli orrori che ne successero; per naturale ferocia l'uomo trascorre un pezzo in là; tu pensa dove mai egli arrivi, se creda che quanto più imperversa immane e più si accosti al paradiso. Intanto i frati mèssi di Roma, appiccato che ebbero il fuoco alla girandola, si trassero da parte per fare una nuova giacchiata; fingendo deplorare cotesti casi, confortano gli abitanti della Guardia di condursi al cospetto loro per comporre cristianamente gli screzi; ed essi vanno: settanta dei maggiori presi furono tratti in catene a Montalto e quivi dallo inquisitore Panza torturati con infernale efferatezza non solo per farli confessare in proprio danno, ma ed anco in danno dei fratelli loro; nè riuscendo lo inquisitore, imbestiavasi nel martoriare cotesti miseri, così che a Stefano Carlino, per la gran forza dei tormenti, le viscere scoppiarono fuori del ventre. Un Mazzone fu pesto ed arso con torce resinose, ed il suo figlio precipitato giù dal campanile di una chiesa; Bernardino Conte, perchè, sendogli presentato il crocifisso da uno di questi carnefici, rispose: «Allontanatelo dagli occhi miei, chè il vostro Cristo non può essere il mio», prima spalmarono di pece, poi bruciarono, nè più nè meno che ai tempi nostri gli Austriaci costumarono in Brescia con lo Zima falegname; onde e preti e Austriaci meritamente furono compresi da noi nel medesimo odio, che nè per tempo rallenta, o per morte cessa. Ora agli Austriaci strumento della rabbia sacerdotale si surrogarono i Francesi; tale sia di loro: molto è il danno che ci apportarono, ma troppo maggiore lo strazio. Dio ci assista, ma la virtù italiana, che si fece strada traverso le ugne delle granfie dell'aquila austriaca, non morirà fra quelle dell'aquila francese: però l'odio fra due nazioni destinate ad essere sorelle non è naturale cosa; possa ricaderne la pena sul capo di cui ne fu la colpa. Di sessanta donne messe alla tortura la più parte perì; tormentati del pari i congiunti venuti da terre lontane ad implorare mercè pei miseri cattivi: il terrore impietriva i cuori e le menti dei popoli. Confessare o negare tornava lo stesso, ma confessare peggio; di fatti certo Venninello per impetrare tregua agli spasimi della tortura prometteva udire la santa messa; dunque, ne arguiva lo Inquisitore, su lui possono i tormenti, quindi, dove s'inaspriscano, è concesso sperare confessione più ampia a danno dei suoi compiici; mosso da simile logica, così ordinò si martoriasse con lo arnese chiamato l'_inferno_ che dopo otto ore il misero esalò l'anima dolorosa. — Io non pensava allargare tanto questo capitolo ma i casi accaduti nella mia patria mentre lo stava scrivendo m'impongono il dovere di palesare con qualche maggiore particolarità che cosa abbia ardito Roma qui in Italia e che oserebbe adesso, se, in grazia del sussidio di Francia, ella giungesse ad ottenere la pienezza della sua autorità: e i casi che verrò riportando io non caverò mica da scrittori protestanti e neppure con le mie parole esporrò, sibbene da scrittori cattolici romani, i quali procedono avversi ai martoriati perchè tenuti da loro in conto di eretici: così pertanto scriveva il segretario di Antonio Caracciolo al suo padrone: «Illustrissimo signore: di quanto avvenne qui circa agli eretici non mancai di tratto in tratto porgervi debita relazione, ora poi mi occorre ragguagliarvi, dei terribili supplizi eseguiti a danno dei luterani fino dall'11 giugno. A dirvela schietta, mi è parso proprio un macello: venuto il boia, fece mettere in fila i condannati; dopo ciò, preso certo straccio di tela, ne bendò uno e trattolo su la piazza attigua alla fabbrica, ordinò s'inginocchiasse; in meno che si dice amen allora con la manca lo acciuffa pei capelli e con la destra gli sega la gola mediante un coltellaccio; compito il primo ammazzamento, il carnefice va per un altro, col medesimo straccio insanguinato lo benda, nel medesimo luogo lo strascina, e nella medesima guisa lo scanna, e così di seguito, finchè, spossato di forze e grommoso di sangue da capo piedi, non ebbe ingombro il terreno di bene ottantotto cadaveri! Lascio considerare a voi l'angoscia dell'animo mio alla vista del terribile spettacolo; mirabile poi la pazienza e la mansuetudine con la quale cotesti eretici patirono il supplizio; pochi sul punto di morire abiurarono la eresia, la più parte perseverò in quella con infernale caparbietà: i vecchi perirono chiusi nel silenzio, qualche giovane proruppe in gridi di dolore. Quando penso al carnefice col coltello insanguinato tra i denti, tenendo in mano lo straccio grondante sangue, afferrare con le braccia sanguinose le vittime una dopo l'altra come montoni per portarli al macello, davvero mi piglia il ribrezzo della febbre. Adesso adesso arrivano le carra per caricare i cadaveri, i quali hanno da essere squartati ed appesi sopra le vie maestre da un capo all'altro della Calabria; se il papa e il vicerè non mandano ordini per temperare lo zelo del marchese Buccianici, questi diserterà il paese: oggi ha emanato un decreto per cui sarà messo al tormento un centinaio di donne e poi morte; così pareggerà il numero degli uomini se non lo passa. Ora sonano le otto, e voglio andare ad informarmi dei discorsi tenuti da cotesti eretici indurati prima d'incamminarsi alla morte; mi si dice che taluno si mostrò temerario al punto di non volere guardare il Crocifisso e nè di confessarsi delle peccata; questi, messi da parte, saranno _bruciati vivi_: sento che gli eretici da guastarsi qui in Calabria sommeranno a seicento; costoro derivano dalla valle di Angrogna vicino alla Savoia, difatti qui in Calabria gli appellano oltramontani; nel regno, senza contare la Calabria, abitano quattro città, nè per quanto io sappia essi si conducono male; hanno poche lettere, di costume preclari, attendono intero alla coltura dei campi, e vicini a morte si mostrano molto religiosi a modo loro.» E Tomaso Costo nella sua storia di Napoli, confermando lo atrocissimo caso, a questo modo dichiara: «A taluni segarono il collo, ad altri il corpo a mezzo della vita, altri giù dalle rupi precipitarono; tutti infine patirono atroce, ma pur bene meritata morte. Caparbietà pari alla loro non fu vista mai; il padre mirava perire il figlio, il figlio il padre; e gli scongiurati, invece di mostrare segno alcuno di dolore, giubilando dicevano che andavano a fare da angioli presso a Dio; tanto gli accecava il demonio impossessatosi di loro!» Se così altrove, pensa se a Roma: però, profondo conoscitore dell'uomo, il prete, considerando come la soverchia paura stupidisca, alternò il supplizio scenico con la strage segreta; così chiamato a Roma con salvocondotto Bartolomeo Fonzio veneziano, ad uso veneto cucito dentro ad un sacco annegarono nel Tevere. — Secondando lo impeto dell'avventata indole, Paolo IV aborrì come codardi i partiti discreti; si compiacque dello scandalo esclamando che la torcia doveva mettersi in cima al candeliere, non già tenersi riposta sotto lo staio; però di un tratto sostenne principi, principesse, preti, frati, vescovi, intere accademie e perfino alcuni giudici del tribunale del santo Uffizio: procedendo più oltre minacciò cernire il loglio dal grano anco nel sacro collegio, al quale effetto commise si ricercassero intorno alla fede i cardinali Polo e Morone, Foscarari vescovo di Modena, Luigi Priuli ed altri spettabili personaggi. Riarso dalla febbre della superstizione, per istinto feroce, inasprito dal contegno dei nepoti, ai quali troppo si commise e i quali troppo perseguitò, cotesto papa presso a tirare l'ultimo fiato non ebbe altro pensiero tranne quello di chiamarsi intorno al letto alcuni cardinali e raccomandare loro che per l'amore di Dio la Inquisizione nella sua interezza mantenessero; se non periva, egli avrebbe intorno a sè seminato il deserto: appena lo seppe morto, il popolo riduce in cenere il palazzo della Inquisizione, le sue statue rompe e scaraventa nel Tevere; furibondo adesso quanto prima fu vile. Il successore Pio IV da prima parve più mite; alla rovescia dei gatti, i quali sul principio allungano gli ugnoli, i preti li ritirano: ma di mano in mano se non peggio di Paolo, quanto lui contristò la umanità; il tribunale della Inquisizione mise in luogo appartato oltre Tevere, quasi vergognando mostrarlo: ma, nascosto o palese, tendeva ai medesimi fini co' medesimi tormenti; quivi l'alemanno Filippo Camerier conobbe e consolò l'anima afflitta di Pompeo Di Negri calabrese, cui nè amore di congiunti nè opera di amici valsero a liberare da fato inesorabile; solo, offerendo ben settemila scudi alla avarizia sacerdotale, ottennero questo, che invece di _bruciarlo vivo_, prima lo _strangolassero_, poi _ardessero_: ciò discrede il Cantù, che ogni sua fede pone nelle testimonianze del carnefice. Pareva di peggio non potesse accadere e non fu così: a due cose non si trova fondo, allo inferno e alla crudeltà dei preti. Eletto il Ghislieri a pontefice col nome di Pio V, mostrò fin dove possano giungere la forza e il malvolere giunti al fanatismo. A costui non parve abbastanza feroce Carlo IX nè la strage di san Bartolomeo sufficiente olocausto al suo furore, sicchè scriveva lettere su lettere a cotesto re minacciandolo dell'ira celeste, dove avesse risparmiato un capo solo degli eretici, e fosse qualunque; e Spagna e Francia contrastavansi allora cotesta belva di prete per avventarsela contro, ed ella insanì per modo che un giorno mostrò i denti ad ambedue pubblicando le sue costituzioni, delle quali espresso il sugo ai giorni nostri leggemmo nel sillabo di Pio IX. Prima ardevano pel delitto, adesso pel sospetto di eresia: non passava giorno che Roma non andasse contristata da simili immanità; infinite le lusinghe perchè gli eretici veri o supposti si ritrattassero; per questa sottomissione attendessero non solo perdono bensì laude e premi; ma côlti al varco le promesse irridevano; il barone Bernardo di Angola, che nella speranza di uscir di pena confessò quello che vollero, ebbe a pagare pel riscatto della vita bene ottomila scudi e poi fu condannato a perpetua prigionia, e la segnasse col carbone bianco; non diverso toccò al conte di Pitigliano, il quale, oltre a sfamare la pretina avarizia con mille scudi, ebbe a ridursi a stare, finchè gli durò la vita, dentro un convento di gesuiti. Sconvolto ogni senso morale, lodevoli anzi santi si giudicarono i fatti i quali si proponessero la esaltazione della Chiesa; tradimenti e sacramenti del pari graditi a Dio. Certo gentiluomo modenese notte tempo è chiamato in Castello Sant'Angiolo; ei va tremando per ogni vena; condotto alla presenza del castellano, questi lo interroga se egli avesse un parente del tal nome, il quale, condannato come eretico in Modena, erasi rifuggito a Ferrara; il gentiluomo rispose affermativamente; allora il castellano senza ambage gli dice: «Or bè, adesso a voi tocca morire, ovvero scrivete al cugino che pel giorno e alla tale ora si faccia trovare alla posta tale in Bologna per conferire insieme su negozio gravissimo; scegliete.» Il gentiluomo sopraffatto dallo spavento scrive, e tuttavia lo tengono sostenuto fino ad esito del tranello; il quale pur troppo riuscì favorevole alla perfidia pretesca, imperciocchè il cugino improvvido, male affrettandosi per compiacere al parente, in breve cadesse nelle granfie sacerdotali. Lascio dei morti, minori in fama (pari tuttavia nel merito, e nel merito come nel martirio furono Fannio faventino e Domenico della Casa Bianca da Bassano) per parlare della fine di Mollio da Montalcino; lui rendevano venerato presso la gente la scienza infinita e la pietà insigne, quindi tanto più dalla curia romana aborrito, la quale gli pose i suoi segugi dietro per agguantarlo, come di fatto lo raggiunsero a Ravenna dove si stava acquattato: giorno fausto giudicarono cotesto a Roma, dove venne tratto con istrepito di armati. — Ammanita una solenne udienza della Inquisizione a cui assisterono con molti inquisitori parecchi vescovi e sei cardinali, vi comparve il Mollio in compagnia di non pochi altri sostenuti, nelle cui mani posero un torchietto acceso appena entrarono in sala: letta l'accusa, concessero agli accusati la difesa. Il Mollio si difese da sè: egli pertanto a viso aperto propugnò la propria dottrina intorno alla giustificazione, alla confessione auricolare, ai sacramenti; disse, com'è, empio ed usurpato il potere che il papa si arroga, e finalmente, vôlto con piglio severo verso i giudici, a questo modo gli apostrofò: «Se mai, o vescovi e cardinali, avessi potuto persuadermi che la potenza da voi usurpata e le dignità delle quali voi v'insignite rispondessero a taluno merito vostro, io non vi vorrei arguire; ma poichè io conosco di certa scienza come per voi sono state calpeste la temperanza, la verecondia, la onestà e la virtù, così emmi forza significarvi alla ricisa che voi le derivate non già da Dio, bensì dal demonio. Se fosse la vostra davvero potestà apostolica, come presumete dare ad intendere agl'ingenui, la dottrina e la vita vostre si rassomiglierebbero a un punto quelle degli apostoli: ora non è così, i vostri atti portano tutti il marchio della corruttela, della ipocrisia e della cupidità; ond'io non posso astenermi da considerare la vostra chiesa asilo di masnadieri e caverna di ladri. La vostra dottrina ch'è mai se non tessuto di menzogne? La vita vostra non palesa chiaro che vi siete fatto Dio del ventre? Voi siete sempre assetati del sangue degli eletti. Con qual fronte voi vi vantate successori degli apostoli e di Gesù Cristo voi che lo spernete nella parola e nelle opere, voi che trucidate i suoi fedeli ministri, voi che costumate come se Dio non fosse in cielo, rendete inutili i suoi precetti sopra la terra, fate forza alla coscienza dei santi? Impertanto dalla vostra sentenza mi appello, e v'intimo, gente sanguinaria e dolosa, a comparire dinanzi al tribunale di Cristo quando i titoli vostri di superbia non abbindoleranno, e quando gli strazi ed i carnefici vostri non atterriranno più la gente; ed in testimonianza di quanto vi ho detto, ecco vi rendo quando voi mi avete dato.» E qui scagliato in terra il torchietto che aveva nelle mani lo spense: forse, anzi di certo, non avria avuto virtù per salvarlo più mite sermone, tuttavolta e' pare che al Mollio come a Socrate in cotesta occasione premesse meno difendere sè stesso che empire di vergogna i propri giudici; ma co' preti la vergogna è sciupata. Pomponio Algeri fu di Nola; studiò a Padova, ingegno sottile e nell'arte critica supremo, se la morte acerba non lo rapiva alla sapienza: tuttavia scolare compose certa operetta breve di mole, di argomentazione potentissima, con la quale si riduce in polvere tutto quanto i curiali romani anfanando ricavano dalle Scritture e dalle decretali in pro' del papa: avesse egli dettato blasfemi contro Dio, rilevava poco, Dio si difende da sè; contro il papa gli era ben altro negozio: faceva pertanto mestiero spegnere cotesto aspide innanzi che crescesse. Venezia servì da sbirro il papa; pure, sentisse rimorso o pudore, non volle consegnare il misero giovane al papa, lo condannò ella stessa cacciandolo in galera, donde pure ci ha redenzione. Ma siffatti empiastri non talentavano al papa, amico dei partiti netti, il quale focosamente instò presso il senato perchè glielo consegnasse: a sbramare la belva poteva dargli una carogna il senato, ma temè cimentarsi, però che cotesto maestrato ormai fosse destinato a scendere di viltà in viltà dentro il sepolcro; quindi glielo inviava vivo e incatenato a Roma, dove senza gingillare lo condannarono ad essere arso vivo: morì a trentaquattro anni con tali segni di grazia divina che i cardinali assistenti al supplizio per renderlo più solenne ne rimasero spaventati pur pensando al tardo ma inevitabile giudizio di Dio. Le spie stavano attaccate come l'ombra ai corpi dei sospetti, nè in casa solo, ma fuori; così a Francesco Gamba da Como, frequentando per suoi commerci Ginevra, essendo accaduto certa volta di celebrarvi la cena in compagnia dei suoi fratelli nel Signore, al suo ritorno fu preso e in meno che non si dice un _Credo_ condannato alle fiamme; s'interpose l'ambasciatore imperiale, che a grande stento ottenne la esecuzione della sentenza per qualche giorno si differisse, e cotesta il misero ebbe a sperimentare importuna pietà, imperciocchè in quello intervallo di tempo i frati non facessero altro che tambussarlo con isciolemi e scede e di ogni maniera strazi, cui egli rispose mansueto sempre: anco i parenti e gli amici gli diedero molestia, pure tentando scrollare l'anima indomita con le considerazioni di affetti e d'interessi terreni. Di tutto ei prevalse: dal volto dai gesti, dalla dolce favella usciva uno incanto che investiva i cuori dei carnefici postigli attorno e gli sforzava al pianto; li benedisse, li perdonò supplice si volse a Dio perchè egli pure li perdonasse: tanto amore gli nocque; gl'inquisitori, temendo l'effetto della sua facondia, ordinarono che prima di condurlo al patibolo gli mozzassero la lingua, come fu fatto: così tratto fuori, anco sul palco gorgogliò sangue e preghiere pei suoi persecutori, quinci volse intorno gli sguardi e, visto alla lontana un suo amico lo salutò della mano; subito dopo lo strangolarono ed arsero. Tutti gli astanti piansero, eccetto i preti, i quali ruggirono: essi ben potevano percotere questi uomini dabbene con le pene degli scellerati, impedire che santi fossero e come tali si venerassero non potevano. Poco è a dirsi del Varaglia piemontese, già cappuccino, che mandato a convertire i Vadesi rimase convertito; a tradimento preso, fu condannato a morte a Torino: morendo volle spaventare come Scevola gl'inquisitori annunziando loro tanti essere i suoi fratelli nella fede di Cristo che gl'inquisitori non saprebbero trovare canapa nè legna a bastanza per istrangolarli ed arderli tutti; ma gl'inquisitori, come Porsenna, non si atterrirono continuando a strozzare ed a bruciare finchè la umanità non ebbe loro tronche le braccia. Vittima anco più pietosa di lui Luigi Pasquali di Coni: preso fino dai primi anni di sua vita dalla dottrina dei riformati, studiò a Ginevra, dove tanto si distinse che lo elessero predicatore ai Vadesi di Calabria; avendo egli dato fede di sposo a Camilla Guerina, rispose non potere accettare senza il consenso della fidanzata, la quale volentieri lo accordava; andasse, obbedisse al Signore, ella lo avrebbe aspettato fino al ritorno: egli allora si partì con Stefano Negrino. Dopo molto travagliarsi, entrambi caddero in mano alla Inquisizione; il Negrino lasciò morirsi di fame in prigione, e parve non il più animoso, bensì il meno doloroso partito; all'opposto il Pasquali, dopo otto mesi di prigionia a Cosenza, trasportarono a Roma: molto patì e tutto sostenne con maravigliosa costanza, come si desume dalle lettere pietosissime spedite da lui alle chiese perseguitate della Calabria ed all'afflitta sposa; in una di queste lettere si legge il suo viaggio da Cosenza a Napoli; è pregio della opera riferirla: «Dei nostri compagni quei due che persuasero a ritrattarsi non hanno patito punto meno di noi, e Dio sa che cosa gli aspetta a Roma. L'onesto Spagnuolo soprastante alla nostra scorta ci volle far comprare la catena; a questo fine mi strinse così crudelmente i polsi che le carni ne rimasero stracciate; pur troppo mi accorsi che per riscattarmi dallo spasimo egli era mestieri dargli quanto mi trovava a possedere di pecunia; poca cosa invero, due ducati, appena bastevoli alle prime necessità; pure glieli diedi. Durante la notte alle bestie somministravano paglia per corcarsi, a noi no, ci toccava giacersi per terra; a Napoli ci hanno chiusi dentro una carcere umida, fetente per la lunga dimora di luridi prigionieri.» Il fratello del Pasquali accorso per salvare il povero fratello, tale gli apparve quando prima lo vide al cospetto dello inquisitore: «orribile vista! egli scrive; nudi il capo, le braccia e le mani stracciate dai rigidi legami come di uomo che venga tratto alla forca; tanta pietà mi vinse che, andandogli incontro per abbracciarlo, mi vennero meno le forze: Fratelmo, egli mi disse, se cristiano sei, perchè ti lasci abbattere così dalla sventura? O che ignori forse come nè anco un capello cascherà in terra senza il volere di Dio? Confórtati in Cristo, chè i mali presenti non hanno paragone con la gloria avvenire. — Silenzio con coteste grullerie urlava l'inquisitore. Quando fummo sul partire, mio fratello pregò costui a volergli concedere carcere meno insopportabile; al che quegli rispose: — Io non ho altra carcere per te. — Ma almeno vi pigli compassione dei miei ultimi momenti, e Dio un giorno ve ne renderà merito. — È cortesia mostrarmi villano con empi ostinati ed induriti come te. — Certo dottore piemontese il quale si trovava in nostra compagnia si unì a noi per iscongiurare lo inquisitore alla misericordia; fu tempo perso, egli si rimase inflessibile. — Non vi sconfortate, allora soggiunse mio fratello; voi vedrete ch'egli lo farà per amore di Dio. — Anco volessi non potrei, tutte le prigioni adesso sono piene. — Ma via non tanto che un qualche cantuccio non avanzi sempre per me. — E poi con la tua lingua di vipera mi contamineresti le persone che ti stessero allato. — Ebbene io vi prometto tacere. — Insomma hai inteso che tu non devi uscire di qui? — Pazienza! — Conchiuse il mio fratello.» Pochi dì innanzi di morire, Luigi, volgendosi al suo fratello, così gli diceva: «Ringrazio Dio che nella mia lunga tribolazione e terribile parecchi eletti spiriti non hanno avuto paura di mostrarmi la loro benevolenza; te poi ringrazio particolarmente, mio dilettissimo fratello, per le tenere cure che ti sei tolto per me. Per ciò che mi spetta, Dio mi concesse la grazia di conoscere il nostro Signore Gesù Cristo in guisa di sentirmi sicuro nella via della verità: conosco che mi tocca camminare per lo angusto sentiero della Croce e mi trovo disposto a sigillare la mia testimonianza col sangue: non temo la morte, molto meno la perdita dei beni terreni, unito come sono di cuore al mio Redentore e consapevole del retaggio che mi aspetta nella vita celeste.» Il suo fratello, il quale sembra che sul retaggio della vita celeste facesse minor capitale, instava presso Luigi affinchè con qualche dichiarazione vedesse di salvare quella po' di sostanza alla famiglia, e se ci fosse verso anco la vita; ma egli fiero: «O fratello mio! il pericolo in cui tu ti versi mi angustia più di quanto soffro e più dei patimenti che mi si apparecchiano. Ahimè! come lo appetito disordinato delle cose terrene ti rende indifferente ai beni del cielo!» Per ultimo, l'8 settembre 1560 lo trassero nella Minerva a sentire leggere la sentenza che lo condannava a morte; e il giorno dopo dentro una corte del Castel Sant'Angiolo, presenti il sommo pontefice e i cardinali, prima lo strozzarono, poi l'arsero. I nostri preti vietano ai fedeli assistere alle rappresentanze sceniche, però che, se commedie, facilmente corrompono il buon costume, e se tragedie, inferociscono gli animi: questa gente dabbene ha avvertenza a tutto. — E ormai che entrammo in queste miserie più addentro che non ne avevamo fatto disegno, come taceremo delle sventure domestiche? Cosimo primo granduca, a quanto pare, non badava più al torto che al diritto; la sua religione si rassomigliava più presto a quella di Margutte che a qualunque altra; egli, comechè segretamente, stava ammanito a fare il suo cammino anco con la vela della eresia; che da lui si tenesse corrispondenza col Bruciolo già avvertimmo anzi se ne serviva di spia; meglio però la connivenza di questo tristo co' riformatori resulta dal suo carteggio con Pero Gelido da Samminiato, ch'egli spediva in Francia a subodorare le rivolture politiche di cotesto paese, e si conosce come lo servisse di coppa e di coltello tanto da passare ispia anco lui non senza pericolo della propria vita; il degno uomo però adoperava così senza un interesse al mondo; solo nella fiducia che Cosimo in fondo in fondo si sentisse parziale per la dottrina dei riformati e s'industriasse al trionfo della vera religione di Cristo; di vero egli prega Dio che infonda in Cosimo il vero conoscimento della verità, perchè sia arnese di persuadere al papa che, deposti ogni interesse ed ambizione (il che torna lo stesso che persuadergli a disfarsi), voglia una volta che di questa causa si conosca la verità, come farebbe se si disponesse a congregare un concilio legittimo nel mezzo della Germania e a presiederlo in persona, dove si riformasse la Chiesa davvero; di che ne acquisterebbe gloria immortale presso gli uomini e la salute eterna presso Dio: e se non lo vorrà fare, non importa, imperciocchè accadrà in onta sua, trattandosi di cosa la quale come disse Gamaliel, venendo da Dio, non può mancare. A Cosimo tiranno coteste ciammengole non potevano andare; ciondolava nel dubbio per agguantarsi lì per lì anco ai rasoi per non battere sul lastrone, ma poi sentiva che la tirannide sacerdotale con la tirannide principesca sono fatte per reggersi; e dove mai lo avesse dimenticato, ecco là l'arcivescovo di Firenze Alessandro dei Medici suo cugino e suo ambasciatore a Roma che glielo ricordava con esplicito sermone: «Serenissimo signor mio, per la molta pratica che io ho delli umori di cotesta città, a me pare che la devozione di fra Girolamo causa duoi effetti cattivi, anzi pessimi quando vi si gettano come fanno al presente: il primo è che quelli che vi credono si alienano dalla sede apostolica, e se non diventano eretici, non hanno buona opinione del clero secolare e dei prelati, e gli obbediscono mal volentieri, ed io lo pruovo. L'_altra, che tocca Vostra Altezza, è che si alienano dal presente felice stato, ed all'Altezza Vostra concepono certo odio intrinseco, se ben la potenza e la paura li fa stare in cervello_. Ed io ricordo che Pandolfo Pucci una volta, poco innanzi che si scoprisse il suo tradimento, mi disse una mattina grandissimo bene di fra Girolamo con mia grandissima maraviglia; so che leggeva le sue opere con quegli altri congiurati.... I suoi devoti sono sempre queruli, sempre si lamentano, e perchè temono a parlare del principe, parlano dei suoi ministri et ordini, ecc.» E va bene: come tutte le libertà, così tutte le tirannidi sono sorelle; a quei che si tirano su a liberali e non ci credono o piuttosto fingono di non ci credere accade di queste due cose l'una, o finiscono per diventare satelliti del tiranno, o capitano male dopo avere ingannato sè stessi e la umanità. Di monsignor Pietro Carnesecchi non si potrebbe dire bene tanto che bastasse: indole umana, benigna e più, comechè nella pratica della virtù rigidamente costante; egli dotto nelle greche e nelle latine lettere, parlatore diserto, poeta insigne, consigliere argutissimo e fedele, delizia di quanti il conobbero, tra i quali piace distinguere quei due chiari intelletti che furono i cardinali Sadoleto e Bembo. Gli fu amico Giulio dei Medici, esaltato poi a pontefice col nome di Clemente VII, il quale lo elesse pronotaro apostolico e segretario; con tre abbazie lo locupletò nel reame di Napoli, in Francia e nel Polesine; avendolo a mandare allo imperatore Carlo V nel 1531, lo accompagnò con questa commendatizia di cui non sapremmo immaginare nè più calzante nè più affettuosa: «Noi ti raccomandiamo un cittadino fiorentino, uomo di somma fede e di modestia singolare, il quale, e pei suoi meriti e per l'animo a noi divotissimo e per nobiltà e per virtù, amiamo quanto maggiormente possiamo.» E certo il papa favellava sincero, imperciocchè perfino del proprio nome volle ch'ei usasse; ed in cotesti tempi corse fama che la Chiesa pei consigli del Carnesecchi si governasse. — Siffatto intelletto era impossibile che le improntitudini romane sopportassero; convenuto sovente a Viterbo presso il cardinale Reginaldo Polo in compagnia di Marcantonio Flaminio, si pascevano _de illo cibo qui non perit_, ovvero di ragionamenti ribelli all'enormezze di preti cupidi, feroci ed ignoranti; a Napoli prese usanza col Valdes, l'Ochino, il Vermiglio e il Caracciolo; altrove strinse amicizia col vescovo Soranzo, col Vergerio, col Rangoni, Priuli, Merenda, Altieri, Celsi ed altri parecchi; mantenne più che benevole corrispondenza con Vittoria Colonna, Margherita di Savoia, Renata di Francia, Lavinia della Rovere e Giulia Gonzaga; generoso ed umano sussidiò largamente i perseguitati; diceva anco a chi non lo voleva sapere come a capacitare gli uomini ci vogliono buoni argomenti esposti con amore, non già lo immane urlío «_abbrucia, ammazza_»; pii ed innocentissimi affermava avere provato la più parte dei protestanti; cui si ritrattava compiangeva di spirito debole e di animo abbiosciato, all'opposto chi persisteva nella fede novellamente assunta lodava, e fra questi levò a cielo il Valdes scrivendone al Bonfadio; insomma disse ed operò in guisa che in cotesti tempi per mandare alle fiamme un uomo dabbene ce n'era anco di troppo. Citato a Roma nel 1546, il cardinale di Burgos lo esaminò intorno le sue corrispondenze con gli eretici, i sussidi loro somministrati, le raccomandazioni come precettori di tali che insinuatisi nelle famiglie sotto pretesto d'insegnare pervertivano la coscienza dei giovanetti, il favore fatto presso duchessa di Traietto in pro di due ospitati perchè il vero evangelo bandissero alle genti; ventura per lui che Paolo III beveva grosso ed impedì che il negozio inciprignisse: ma pecora segnata ormai egli era; ito in Francia, tornarono ad appiccargli le accuse; le quali a cagione della regina Caterina che gli si professava parzialissima poterono attecchire anco meno che a Roma. Poteva costà vivere tranquillo, ma i fati che strascinano gli uomini più che questi non credono e certo poi più che non vorrebbero, lo condussero di nuovo in Italia, farfalla intorno alla fiamma che lo aveva a incenerire; egli mise stanza in Padova, città ch'ei giudicava appartata dalle romane insidie epperò opportuna alla professione pacifica delle sue dottrine: s'ingannava, anco là la curia prese a perseguitarlo più implacata che mai; niente gli valse separarsi dai viventi o chiudersi nella solitudine o studiare le parole e i passi; l'odio, che non perdona mai, lo circondava come l'atmosfera. Il Gelido con queste pietose parole dava contezza di lui al Bibbiena segretario del duca Cosimo: «Molto spesso ragiono di lei con monsignor Carnesecchi, il quale è abbandonato, si può dire, da ognuno, eccetto da me, il quale tanto lo potrei mai abbandonare quanto la madre il suo figliuolo, amandolo quanto si può amare un vero amico, e certo non per beneficii che io abbia ricevuto o speri ricevere da lui, ma perchè sempre l'ho conosciuto uomo dabbene e bonissimo, e se mai lo ebbi tale, in questa sua afflizione, ch'è delle gravi che possono accadere ad un uomo, perchè si perde la roba, l'onore e quasi la vita, finisco di certificarmi che Dio è con lui e lo governa e lo consola e lo fortifica, chè altrimenti non potrebbe tollerare questo colpo mortalissimo con tanta costanza di animo e quasi con ilarità come con effetto tollera. Si è ritirato in casa, che fa conto gli sia una onesta carcere: conversa co' suoi libri e coi suoi pensieri per la maggior parte divini e vôlti alle cose dell'altra vita, di maniera che, in questa persecuzione che lo priva della conversazione degli uomini, l'assuefarà a conversare con gli angioli, e così verrà a trarsi altro frutto di questo suo esilio di quello che dal suo trasse Boezio o qualsivoglia altro filosofo, perchè altra consolazione si trova nella filosofia cristiana che nella umana.» Fra Michele inquisitore a nome di Paolo IV citò il Carnesecchi a Roma, ed egli mantenendosi contumace, senz'altra indagine venne scomunicato il 5 aprile 1559; come a Dio piacque, a Paolo successe Giovannangelo dei Medici col titolo di Pio IV, il quale sendogli amico, lo ebbe tosto ribenedetto dichiarandolo buon cattolico ed obbediente alla Chiesa. Allora, punto dal desiderio del natio luogo o nello intento di porsi al riparo di più sicuro asilo, il Carnesecchi da Padova si trasferì a dimorare a Firenze, dove visse in pace onorato da tutti e caro, come credeva, a Cosimo fino alla esaltazione di Pio V; in quel torno, senza che il Carnesecchi se ne addasse, una terribile procella si affoltò sopra di lui. Rincresceva acerbamente a Cosimo che la morte gli cavasse dalle mani un papa prima di averlo sfruttato secondo i suoi bisogni; tanta era stata fin lì la sua prevalenza sopra la curia romana che Pasquino espresse questa opinione universale effigiando Cosimo vestito da papa col motto: «_ecce Cosmus Medices pontefex maximus_.» Col papa amico pareva a Cosimo potere navigare sicuro pel pelago intricato della politica ed anco alla occasione prepotere, imperciocchè i concetti di Cosimo fossero grandi o almeno cupidi, e poi i contrasti per le precedenze a cotesti tempi si mostrassero od avessero occasione per mostrarsi più dispettosi che mai; e ciò o rispondesse alla fumosità per virtù dei costumi spagnuoli diventata tanta parte del cervello italiano, o piuttosto a segno esteriore di primazia proseguita dai principotti con tanto maggiore smania nelle apparenze quanto più impotenti a conseguirla in sostanza. Al duca di Firenze davano continua molestia i duchi di Savoia, di Mantova e di Ferrara, massime di Ferrara: mentre quel di Savoia era andato a pescare il titolo di re fino a Cipro non senza riso dei potentati d'Italia e di fuori, e fin d'allora Cosimo mulinava conseguire dal papa titolo e grado che lo preponessero ai suoi emuli, come di fatti pei meriti suoi, tra i quali non ultimo la consegna del Carnesecchi, acquistò e fu incoronato granduca. Pertanto il cardinale Pacecco scrisse al duca il 10 giugno 1566 una lettera perfida come la sanno scrivere i preti: «Sarebbe peccato grave per Cosimo se non desse al papa tutto favore perchè egli potesse adempire il suo ufficio di vicario di Cristo: avendogli sua Beatitudine parlato con molta premura di questo negozio, egli Pacecco avere reputato spediente agl'interessi del duca accertarlo di due cose, la prima che in tutta la cristianità non viveva principe il quale delle cose della Inquisizione fosse zelatore come egli Cosimo, e questo molto bene conosce da per sè la S. S. e lo predica; la seconda, che non vi sarebbe cosa, per grave che fosse, che Ella non fosse disposta a fare per suo particolare contento e consolazione: non si maravigli poi della premura che si muove per un uomo, imperciocchè costui non sia un uomo come un altro, e si nutre sicurezza di ricavare da lui molte cose ed importantissime _e forse qualcheduna che fosse di suo servizio_.» Preparato a questo modo il terreno, il giorno dopo Pio V spediva al duca il maestro del sacro palazzo con una lettera scritta tutta di proprio pugno: «Dilecte fili, etc. Ella pare innocente come l'acqua; dia ad esso maestro la credenza che daria alla sua medesima persona, e così la Divina Maestà lo benedica.» — Il maestro del sacro palazzo non aveva altra commissione eccetto quella di farsi consegnare il Carnesecchi, nè si partisse da Firenze se con esso seco non lo trasportasse. Dalle carte del Carnesecchi poi si rilevò come gli amici suoi di oltremonte più volte avessero mosso ressa appo lui ond'egli da Firenze si cansasse, nè egli se ne era mostrato alieno, ma poi, fidando nell'amicizia antica di Cosimo, bandito ogni sospetto da sè come ingiurioso a così egregio principe, si era rimasto; e giusto nel punto che il maestro giunse al palazzo del duca il Carnesecchi pranzava coll'ottimo principe; il quale letta la lettera e udito il messaggio senza scomporsi, mandato pel bargello, fece tradurre l'amico della sua famiglia e suo dalla mensa ospitale al carcere dei malfattori. E qui non vuolsi omettere di notare come cause della feroce persecuzione contro il Carnesecchi fossero due: la prima la strenua difesa con la quale il Carnesecchi pigliò sempre a sostenere la fama di Cosimo; di che si ha notizia in una lettera del Gelido: «Tu ti devi ricordare che tre anni fa predicò un frate di santo Agostino chiamato il Montalcino. Costui pose tanto odio a monsignor Carnesecchi perchè un dì andò a trovarlo in camera e con buon modo mostrò al padre che faceva male a parlare del duca di Fiorenza manco che onoratamente: ma poichè egli era uno dei più arrabbiati Sanesi che mai si potessero immaginare non che trovare, cominciò a levare la voce e dare del tiranno per la testa in modo che il Carnesecchi mi ha detto che bisognò gli dicesse a lettere da scatola ch'egli era la più solenne bestia che andasse sopra due gambe, e se lo levò dinanzi. Il frate andò a dolersene più volte col cardinale Triulzio, ch'era qui legato, e trovando che non ne faceva caso perchè amicissimo di monsignore, disse che troverebbe il modo di rovinarlo. E domandato dal cardinale quello che pensava fare, rispose che la inquisizione era aperta, e che a monsignore, parlando seco, era scappata di bocca non so qual parola sopra un passo di santo Agostino che sentiva dello eretico, ed insomma troviamo che questo frataccio ha suscitata questa persecuzione.» E questo fatto sarà stato argomento per Cosimo di vendicarsi del frate, ma nol fu per salvare il misero Carnesecchi; la seconda causa si desume da certa lettera scritta dal Babbi oratore toscano al duca Cosimo: «Mi disse iersera il governatore di Roma che il Carnesecchi porta gran pericolo di vita, sebbene il processo suo non è ancora maturo, ed ha un gran bisogno di aiuto: quando campi la vita, _sarà murato_ in luogo che non si rivedrà, più essendosi trovate fra le sue scritture minute di lettere che scriveva pel mondo quando fu creato questo buon papa, detestando questa santa elezione _e dicendo molto male di lui e di tutto il collegio_.» E preti e donne non perdonano mai, costumava dire il cardinale di Richelieu, che se ne intendeva. Trentaquattro furono gli errori imputatigli (e quello che per avventura lo condusse a morte si tacque); affinchè uomo conosca per quali cause trecento anni fa Roma ardeva, strangolava, arrotava, mazzolava e squartava le creature umane, io li vo' riferire: «L'uomo con la fede sola si giustifica; fede, e non opere, necessaria alla salute eterna; facile però all'uomo graziato della fede compire opere buone: quantunque inani alla salvazione dell'anima, le buone opere otterranno maggior grado di gloria: per natura inclinati al male e, avanti la grazia, al peccato: arduo ed impossibile, senza grazia di Dio, copia di fede e di speranza, osservare il decalogo, massime i due primi precetti di quello. Si stia alla parola del Signore attestata dalle Scritture; delle indulgenze nella Scrittura non occorre neppure una parola. Lo Spirito Santo non presiedè a tutti i concili nè si mostrava chiaro intorno alla persona legittima per convocarlo: quanti avessero ad essere i sacramenti non sapeva: non obbligatoria la confessione: dubitava del purgatorio e sosteneva apocrifo il libro II dei Maccabei, dove si giudica efficace il suffragio pei morti. Che nella Eucaristia sia presente il corpo di Cristo non nega, nega la transustanziazione e qui ciondola tra Lutero e Calvino: sarebbe bene che anco i laici comunicassero sotto le due specie. La Messa propizia solo per la memoria della passione di Cristo o vero in quanto eccita la fede, per la quale unicamente impetriamo la rimessione dei peccati. Per eccellenza il papa è primo vescovo, non per autorità, la quale non può esercitare sopra le altre chiese, se pure il mondo non gliela deferisca per rispetto a Roma. La più parte degli ordini monastici aborriva, massime gli accattoni, cavallette del pane del povero: le prediche dannose anzichè no, come quelle che raccomandavano troppo le opere: turpe il celibato dei preti: iniquo il voto di castità, la quale è dono di Dio: l'andare pellegrinando randagio attorno vizio di vagabondo, non santità: la cernita dei cibi assurda, non meritorio il digiuno; e poichè Cristo si era offerto mediatore fra Dio e gli uomini, inutile la invocazione dei santi; con altre giuntarelle che toccai disopra, perchè a suo danno si raccolsero le briciole; le quali cose tutte adesso ci paiono opinioni in parte plausibili, in parte oziose; ma i tempi portavano così, ed essi letterati erano e dialettici e teologhi non già filosofi. Caduto in malebranche, il Carnesecchi, per bene due volte atrocemente provato con la tortura, confessò quello che vollero; spontaneo avrebbe detto tanto che mezzo bastava per arderlo. Però tormenti non valsero a denunziare complici, sè accusò solo. Cosimo, fosse vergogna o rimorso o piuttosto astutezza, contando coll'esagerare il sacrifizio fatto al papa ottenerne più lauto compenso, assai si dimenò per proteggerlo; e col mezzo del suo oratore veniva supplicando il papa considerasse la nobile prosapia dello accusato, il nome chiaro, la diuturna familiarità, un _monte di donzelle del suo parentado da accasarsi_, la servitù alla casa Medici, il grado illustre; e il papa, tutto bene considerato, rispondeva: _che se avesse in mano uno che avesse morto dieci uomini non mancherebbe darglielo e concederglielo; il Carnesecchi non potere; e che se si avesse rispetto ai parenti ed alle famiglie, non si sarieno fatte esecuzioni come si sono fatte in molti signori_. Onde il Serristori, che sparvierato uomo di corte era, presa lingua, scriveva al suo padrone per dissuaderlo da mettersi nella calca a farsi pigiare: «Non ci è verso alcuno di aiutarlo, e ciò che l'E. V. facessero non gli gioverieno, ma sì bene imbratterebbono in gran parte quella candidezza e gran volontà che con le opere hanno mostro contro questa pestilenza di eretici, per il che presso Sua Santità sono tenuti in concetto dei più cattolici principi che sieno in cristianità, la religione, virtù e giustizia dei quali da Lei si predica con ogni uomo.» E poi, secondo il costume di tutti i tempi, che i vili, a cui il bene materiato piace, sentono bisogno di tôrre ai magnanimi fino il compianto dei loro simili, il Serristori denigra presso Cosimo il Carnesecchi come uomo senza cervello che in mal tempo, invece di gittarsi giù di sfascio ai piedi del papa ed implorare mercede, aveva tolto a difendersi; insensato che si ostina a non ritrattarsi come tanti altri fanno: ma forse il cortigiano con siffatte parole perfidissime veniva piaggiando l'anima di Cosimo, la quale, lacerata dal rimorso, doveva trovare qualche sollievo al truce tradimento dandosi ad intendere che al postutto il Carnesecchi non era uomo che meritasse osservanza di fede. Anco lui con lusinghe e con terrori tentarono affinchè si ritrattasse: stette fermo, e ad una voce avversi e finti o timidi amici condannarono la sua caparbietà, la quale se non era, l'ottimo pontefice gli avrebbe fatto senz'altro la grazia. Qual mai grazia? Chiuso in perpetua prigione in mano a frati fanatici, ovvero dentro una celletta _murato_; chè il carcere solitario, privo di ogni consolazione, pieno di ogni angoscia mortale, immaginarono i preti nello inferno dei loro pensieri prima che scendesse nel cervello dei moderni[17] filosofi. E poi ormai nel Carnesecchi, venute meno le cause del vivere, era surta la voluttà della morte: chiunque per cause più o meno lodevoli e sovente contennende si sente attaccato alla vita questo non pensa o non crede, ma pur troppo si danno casi pei quali all'uomo la vita diventa supplizio, refrigerio la morte. Il Carnesecchi, non che ritrattarsi, quanti confortatori gli mandavano procurava che si ravvedessero e, lasciato il sentiero dello errore, su la via del vero Evangelo s'incamminassero; donde lo esasperarsi delle pretesche ire. Non sembra che gli fosse letta la sentenza su la piazza della Minerva, bensì in chiesa davanti la sepoltura di Clemente VII, che tanto lo ebbe caro; quindi condotto in sagrestia, dove lo vestirono con la tunica gialla dipinta a fiamme; ridicole cose adesso, allora feroci; il martedì, che, fu il primo di ottobre 1567, portato in ponte, vi ebbe mozzo il capo, e poi l'arsero.[18] Tutti gli storici notarono l'attillatura con la quale ei si condusse a morte quasi segno di vanità o di follia; e questa attillatura, stando alla relazione del Serristori, consistè nel vestire camicia bianca e usare guanti nuovi e pezzuola pur bianca in mano; costoro non sapevano o piuttosto fingevano ignorare come la mondizie del corpo spesso renda testimonianza della purezza dello spirito. Il papa Pio, per non far torto al nome, delle entrate riscosse e da riscotersi de' suoi benefizi, che sommavano a circa cinquemila ducati, fece grazia ai suoi parenti, ma le abbazie di Napoli e del Polesine tenne per sè; quella di Francia sembra che non potesse agguantare. — La viltà, che alla più parte degli uomini somministra le fasce dentro le quali essi vengono ravvolti fin dal nascimento loro, operò in guisa che gli amici lo rinnegarono, gratificando la tristizia del sacerdote, la quale non patisce che dei suoi avversari sopravviva il nome ovvero consente sì che duri, ma infame. Il Mureto, aveva composto un'oda in plauso del Carnesecchi e stava in procinto di pubblicarla, se non che, repugnando sconciare i fatti suoi, si consultò con taluni solenni barbassori di santa madre Chiesa, che lo consigliarono pel suo meglio a rimetterla nel fodero; ed egli comechè ciò costasse non già alla sua amicizia ormai svanita, sibbene alla sua vanità, tenne lo avviso. Del pari cadde l'animo allo stampatore Aldo Manuzio amico sviscerato del Carnesecchi, che gli levò al sacro fonte un figliuolo, e nelle collezione delle sue lettere stampata dopo la condanna di cotesto infelice al nome di lui sostituì quello di _Pero_; anzi nel 1558 costui dettò un magnifico panegirico del suo _caro Carnesecchi_ dedicato al Mureto; più tardi non volendo sopprimere il panegirico, che gli pareva gran cosa, e dall'altra parte aborrendo mettersi a cimento, surrogava il nome di Molini a quello dello amico sventurato; ancora, nella dedica di una edizione di Sallustio al cardinale Triulzio, il Manuzio così favella del Carnesecchi: «Piero Carnesecchi protonotaro; personaggio onorevole, preclaro per virtù e per dottrina facilmente primo su quanti io mi abbia riscontrati nel corso della mia vita», ma nelle edizioni posteriori alla sventura del 1567 nomi e lodi tu cerchereste invano. L'atroce persecuzione durava tuttavia verso la metà del secolo decimottavo, sicchè un Mancurti compatriota del Flaminio, pubblicando certa edizione delle sue opere, giudicò spediente sopprimere le ode intitolate al Carnesecchi, «per non esporsi alla censura della gente, la quale aveva affermato eretico il Flaminio attesa l'amicizia che professava al Carnesecchi.» Altre cose potrei aggiungere; me ne passo, chè me piglia insopportabile il tedio alla vista di tanta abiezione.[19] — Dopo il caso del Carnesecchi fu rotto l'argine a Firenze; molti fuggirono, e molti come suoi fautori furono spediti ammanettati a Roma. Gl'inquisitori insanivano; non modo, non discretezza nè garbo: alla rinfusa agguantano dotti ed idioti, e vessano d'interrogatorii: i secondi, sentendosi ricercare sopra i più ardui misteri della fede, restavano come trasognati; li destavano le multe e le minacce di pene maggiori; lo scandalo giunse a tale che il granduca dichiarò apertamente a Roma non avrebbe più oltre patito che del suo stato si facesse così atroce governo. Lo contentarono sostituendo inquisitori più discreti o più ipocriti, pannicelli caldi; ma gl'istituti rimasero inalterati: anco i forestieri andavano soggetti ad infinite molestie e guai a cui non riesciva dare certezza dell'esser suo. Per lo che la Toscana diventava infame presso le genti: nè per questo diminuivano anzi crescevano nel vulgo le credenze superstiziose d'incantesimi, di malie, di apparizioni del diavolo e miserie altre siffatte; e (orribile a dirsi!) pochi mesi dopo la strage del Carnesecchi a Siena furono _arse cinque streghe_ accusate (e la sentenza aggiunge _convinte_) di avere renunziato al Battesimo, essersi messe in balía del diavolo ed avere ciurmato diciotto fanciulli. Ludovico Domenichi, prete, assai rinomato nella storia della letteratura per avere dettato se non belli almeno molti scritti, fu posto al tormento; e siccome si ostinava a negare, gl'inquisitori imbestiavano a dilaniarlo; al fine potè più la caparbietà sua che il fratesco furore; fu condannato alle Stinche a vita; donde tratto per favore di Paolo Giovio mutò il carcere in convento. L'arte tipografica, già fiorente, cessò; gli stampatori proposero vendere tutti i libri pel costo reale e con perdita ancora del dieci e del quindici per cento, poi li bruciassero; di andare innanzi non ci era altro verso, non si volendo ormai più veruno esercitare in così bella, nobile e facoltosa arte, mentre in altri luoghi è favorita, aiutata e privilegiata; nè più si trovano fattorini per ammaestrarli e servirsene se non per lo più vilissimi e figli di sbirri. Il Torrentino riparava in Pavia, i Giunti a Venezia; nè per quanto eccellenti segretari alle intemperanze procurassero mettere argine, ne venivano a capo perchè ormai gesuiti e preti stringevano nelle mani loro le viscere della Toscana come dentro una tanaglia di ferro; il lamento femminile delle granduchesse beghine troncava l'ale ad ogni conato, e un Cioli faceva più danno in un'ora che il Vinta e il Picchena benefizio in un anno; i gesuiti, dopo avere estorta non so quale eredità a Montepulciano, vi si piantano; poi non bastando loro, si lasciano intendere «che hanno posto la mira ad altri luoghi senza avere riguardo alla distruzione delle case, delle famiglie e delli abitatori che ne succederebbe, et non vogliono per li frutti dei terreni che hanno preso e che sono loro controversi concorrere alle imposizioni anticamente postevi per le spese delle strade, ponti fontane ed altre cose comuni. Oltre di questo si dichiarano assai apertamente di applicare l'animo ad altre eredità, ingegnandosi e procurando che i congiunti ai quali esse appartengono ne rimangano privati, e così nutrendo le discordie e le disunioni tra i parenti per loro proprio interesse. Da questi modi di procedere sono venuti in tale odio segreto appresso la maggior parte di cotesto popolo che se noi non ci avessimo posto freno, sarebbe intervenuto a' detti gesuiti qualche strano accidente e peggiore di quello che successe già molti anni quando a furore di popolo ne furono cacciati mediante una segreta conventicola fatta contro di loro.» Nè si creda mica che questa lettera dettasse un cervello torbido di quei tempi o, come oggi si direbbe, un rompicollo; ella era scritta il tre dicembre 1606 dal granduca Cosimo II al suo oratore a Roma. A tanto di protervia giunse Roma che nella moría del 1630, mentre a gara il principe e i più facultosi dei cittadini profferivano i privati loro edifizi in supplimento dei pubblici per le purghe e le quarantene, e mentre anco i frati sovvenivano con ogni maniera di caritatevole soccorso, quando, costoro vennero richiesti anzi supplicati di concedere pei medesimi offici i locali di cui non si servivano, urlarono allo spoglio e all'assassinamento. Roma inorridì per la violata immunità ecclesiastica e senza indugio scomunicò quanti ci avessero partecipato, veruno escluso. Poco dopo per clemenza somma Sua Santità consentì a ribenedire i violatori a patto chiedessero perdono; agli ufficiali di sanità ed ai Fiorentini brillavano le mani, e questa volta l'avrebbero fatta vedere a cotesti preti sfacciati, ma alle granduchesse ava e madre per siffatti rumori pareva dovesse subissare il mondo: in ginocchio dunque al padre dei fedeli, al vicario di Gesù Cristo, a colui che tiene in mano le chiavi del paradiso per aprirlo o per chiuderlo a cui meglio gli talenta: però gli uffiziali di sanità ebbero a domandare perdono per avere adoperato umanamente senza il beneplacito del papa; e Roma, trovato il terreno morvido, spinse la sua temerità fino a costringere lo stato a restituire le somme contribuite dai chiesastici per la salute comune, ed a stabilire per principio che a spese del pubblico erario dovessero sovvenirsi e preti e frati in occasione di straordinarie calamità. In Toscana, dopochè Cosimo I si abiettava davanti a Pio V, si andò di male in peggio; quegli credè che, genuflettendosi al soglio pontificio, il papa gli avrebbe posto la corona sul capo, ed invece costui gli mise il collare al collo; da quel tempo in poi i granduchi furono considerati a Roma gli sbirri della Inquisizione, ed il Galluzzi scrittore sciatto e servile ciò nella sua storia conferma, e quando parla di Urbano VIII narra come egli pur fosse in possesso di siffatta bassezza quando a posta sua gli tenevano sostenuto in carcere a Firenze Mariano Alidosi signore del Castel del Rio, a cui per cagione di eresia voleva confiscarsi cotesto feudo, il quale _de iure_ si devolveva al granduca. Il nome del papa metteva per paura a soqquadro Firenze, come poco anzi per tutta Italia aveva fatto quello del re Gustavo Adolfo di Svezia; a tale ignominia in poco più di un secolo il principato ridusse gli animosi spiriti fiorentini. Accostiamoci a Lucca. Antonio della Paglia da Veroli prestantissimo ingegno celebrarono i suoi contemporanei nelle lettere umane, e la posterità confermò, ma sopratutto fu pio, in divinità dottissimo e d'imperterrito animo; nemici ebbe molti, e chi non gli ha fra i virtuosi? Superare altrui in dottrina e in virtù sembra peccato sottoposto a pagare questa multa; così preordinò il destino, e le querimonie non montano: soffri, sii grande e taci. Gli stranieri raccolgono amorosi le nostre memorie. Ora non fanno molti anni un Young da Oxford mi chiedeva notizie intorno al Paleario, e con soddisfazione dell'animo mio vidi averne pubblicata la vita a Londra nel 1860 con lettere originali e documenti; noi Italiani per ora siamo incuriosi delle nostre glorie e delle nostre sventure; colpa l'avere scambiato l'aurora boreale coll'alba del vero giorno della libertà. Aonio visse un tempo a Siena maestro di greche e di latine lettere; quivi gli diè gravezza un nugolo di pedanti astiosi, erano trecento; dodici si proffersero accusatori, dei quali capo un Orlando Marescotti; egli si difese con mirabile orazione in senato, niente delle accuse negando, bensì esponendo quanto inani e maligne si fossero; tuttavolta gl'increbbe il mal sicuro ostello e molto bene raccomandato dai cardinali Bembo e Sadoleto s'incamminò a Lucca, dove la cittadinanza lo accolse a grande onore e con larga mercede lo elesse professore di lettere greche e latine, conferendogli di più il carico di arringare due volte all'anno in occasioni solenni. Anco qui non tacque l'ira nemica e gli avventò contro un Marco Blaterone; ma vegliava per lui la benevolenza dei cittadini, la quale, non patendo lo indegno strazio, bandì il Blaterone, che tutto invelenito si recò a Roma per aizzargli contro i frati domenicani. Il Cantù, denigratore inverecondo di ogni gloria che non sia clericale, afferma che, essendogli stato preferito a concorso l'Ammirato prima, poi il Bandinelli, sdegnoso dopo dieci anni di dimora lasciò Lucca: all'opposto io trovo che in Lucca non cessarono mai di amarlo e di rispettarlo: molto profitto avere fatto con i suoi scritti e co' suoi sermoni; solo essersi consigliato di ridursi a Milano, però che costà sotto l'ale dell'aquila austriaca gli paresse stare più sicuro, e poi perchè la crescente prole lo indusse ad accettare il maggiore stipendio proffertogli: a Milano stanziò sette anni; stava bene e si mosse, e male gl'incolse contradire al proverbio. Recatosi a Bologna mentre la febbre sanguigna di Pio V gli mostrava in ogni uomo di lettere un nemico, riescì agevole a cui gli aveva messo da tempo antico la mira addosso comprenderlo nella persecuzione universale; andò ad arrestarlo frate Angiolo da Cremona inquisitore, che trattolo a Roma lo chiuse nel carcere di Tordinona; se fosse posto al tormento ignoriamo: le accuse palesi sommarono a quattro: il purgatorio negato; ripreso il costume di seppellire nelle chiese; scherniti il vivere ed il vestire fratesco; la giustificazione posta da lui nella sola fede verso la misericordia di Dio, il quale perdona pei meriti di Gesù Cristo; ma più gravi colpe, comechè taciute, a suo danno il poema intorno la immortalità dell'anima, il quale, levato a cielo un giorno da uomini insigni non meno che pii e luminari della Chiesa, oggi alle froge bestiali di Pio V putiva di eretico; il trattato _del benefizio della morte di Cristo_, anch'esso un dì giudicato dalla Chiesa libro meritorio, ed ora proibito come un tizzo di carbone infernale: non mancarono e nè mancano anco ai tempi nostri scrittori che non a lui, bensì a certo benedettino, chi dice di Mantova, chi di San Severino, lo attribuiscono, ma certo egli è che la dottrina di cotesto libro l'Aonio professava e predicava; per ultimo le molte epistole spedite nella più parte d'Europa e sopra tutto la famosa accusa contro i Romani pontefici ed i loro seguaci: veramente questa vide la luce solo ventisei anni dopo la sua morte, però che il dabbene uomo ebbe avvertenza di mettere in salvo tutte le sue scritture prima di essere arrestato, tuttavia è agevole persuaderci che per detto suo e degli amici si conoscesse; essa contiene venti testimonianze o capi di accuse; il De Sanctis la pubblicò volgarizzata a Torino nel 1861: vorrei raccomandare agl'Italiani che la leggessero, e ne varrebbe il pregio davvero, ma gli è tempo sprecato finchè il sonno e la vergogna dura: il Paleario si raccomanda che se i popoli potranno costringere il papa a presentarsi ad un concilio dove si tengano conferenze di ogni maniera cristiani, a cui venga fatta facoltà di parlare liberamente al cospetto dei grandi e dei legati delle città; e se in coteste conferenze fie stabilita equità di giudizi e con la parola di Dio si torranno gli abusi e le controversie religiose, sicchè possibile sia che le chiese sanate formino un corpo solo; allora prega i depositari della sua accusa a consegnarla ai difensori dell'Evangelo ed a presentarla al concilio generale libero e sacro come testimonianza di un uomo pio che morendo non voleva davvero mentire a Cristo. «Questa testimonianza, egli aggiunge, e l'atto di accusa saranno da voi lanciati colà come fulmine che abbatterà l'anticristo. Fratelli, ve ne supplico, mettetelo alle strette, non gli date tempo a ordire suoi inganni: lo iniquo rimanga confuso sul colpo, in mezzo al concilio, alla presenza dei principi grandi. Allora leggete e rileggete la mia testimonianza coll'atto di accusa; fate sia lungamente discussa ed esaminata, e così la chiesa di Dio sarà purgata.» Nei ricordi della Misericordia di San Giovanni decollato dei Fiorentini di Roma si trova scritto che Aonio perisse pentito e confessato, chiedente a Dio perdono dello errore suo; e così pure sostengono il padre Lagomarsini e gli abbati Lazzeri e Tiraboschi; le sono ciurmerie pretesche: di che si aveva a pentire cotesto venerando vecchio? Così rammenda col fil bianco la ciurma sacerdotale che il ricucito si mostra lontano un miglio; difatti il Laderchio continuatore del Baronio ci lasciò scritto: «Quando furono chiariti che cotesto figliuolo di Belial stava tenacemente attaccato al suo errore, e che ormai non ci era verso per ricondurlo alla luce, lo condannarono alle fiamme, affinchè al supplizio di un momento tenessero dietro gli eterni castighi»; e nel foglio dopo ci attesta quali fossero i sensi del Paleario e quali le novissime parole ai suoi giudici: «dopo tutte queste testimonianze che voi udiste, o cardinali, sorgere schierate contro me, ogni difesa torna inutile; ormai per me sono deliberato seguitare in tutto il precetto dello apostolo san Pietro, il quale ci dice: il Cristo ha sofferto per noi lasciandoci uno esempio da seguire, il Cristo che non commise mai alcun peccato nè dal suo labbro uscì mai parola d'inganno. Quando lo avvilirono d'ingiurie non contrappose ingiurie, quando lo bistrattarono egli non minacciò, bensì si diede in balía di coloro che lo condannavano ingiustamente. Pronunziate impertanto il vostro giudizio, condannate Aonio, fate il debito vostro ed empite di contentezza il cuore de' miei nemici.» Dalle lettere brevi che scrisse in procinto di morte alla diletta consorte ed ai cari figli assai chiaro si dimostra come lui pigliasse vaghezza di morire, e sentisse proprio bisogno riparare in parte dove nè la vista nè l'udito delle scelleragini umane lo funestassero: «Non vorrei, carissima consorte, egli scrive, che tu pigliassi dispiacere del mio piacere nè a male il mio bene. È venuta l'ora che io passi di questa vita al mio Signore padre Dio. Io ci vo tanto allegramente quanto alle nozze del figlio del gran re.... Sicchè, consorte dilettissima, confortatevi della volontà di Dio e del mio contento, e attendete alla famigliuola sbigottita, che resterà di allevarla e custodirla nel timor di Dio ed esserle madre e padre. Io era già di settant'anni vecchio e disutile; bisogna che i figli con la virtù e col sudore si sforzino a vivere onoratamente.» Ed ai figli altresì raccomanda «che sebbene il mezzo col quale a Dio piace chiamarlo a sè possa loro parere amaro, pure, essendo di sua contentezza somma e piacere, li prega a volersene anch'essi contentare; lascio loro in patrimonio virtù e diligenza, e quelle poche facoltà ch'essi hanno.... l'ora mia si avvicina; lo spirito di Dio vi consoli e vi conservi in sua grazia.» Che razza di eretici fossero questi non si comprende, e nondimanco l'atroce potestà che adesso ci vorrieno riaggravare sul collo li condannava al fuoco! Così Aonio Paleario di 70 anni vecchio, esempio di ogni cristiana virtù, dalle sacerdotali iene l'8 luglio 1570 era prima strozzato, poi arso. — E nè anco questo bastò, chè un Latino Latini da Viterbo curiale ebbe cuore di celiare sopra le ceneri di Aonio per via di uno epigramma il quale insomma diceva ch'egli, avvisando di tôrre dal suo nome Aonio la T, pensò potere scansare la forca, la quale però dopo dieci lustri gli tornò in capo, con più il capestro ed il rogo. Molti a Lucca i seguaci della riforma, e dei maggiorenti, sicchè reputarono fare a fidanza, anzi essi rampognarono superbamente chi fuggendo cercava asilo in contrade straniere, e levarno i pezzi addosso a coloro che si erano lasciati ire fino a ritrattarsi; ma altro è parlare di morte altro è morire, ed alla svolta si provano i barberi. Di repente sorse la fiera persecuzione di Paolo IV; i timidi e gl'interessati, che come a Lucca altrove sono i più, diventarono per paura feroci; non santità di legge osservata, non forma di giudizio, fatta una funata dei sospetti, empite le carceri; gli arnesi del tormento riforbiti e ostentati a pompa; allora gli spavaldi cagliarono, si picchiarono il petto, e detestando pubblicamente l'errore, alla meglio si aggiustarono; a molti riuscì fuggire: allora Pietro Martire cui avevano proverbiato per essersi messo a tempo in salvo scriveva: «O come mi rimarrò io dal pianto, pensando alla terribile procella la quale ha desolato la fiorita chiesa di Lucca senza lasciare pure orma di lei! Quelli che di voi non avevano contezza forse vi hanno temuto troppo deboli per resistere alla bufera, ma io non avrei mai creduto che voi vi sareste tanto vergognosamente abiettati; e a voi erano pure noti i furori dell'anticristo e il pericolo che minacciava i vostri capi quando ricusavate fuggire e prevalervi di ciò che taluno di voi chiamava il rifugio del debole, ed io consiglio di prudenza in tempi perversi. I laudatori della vostra costanza dicevano: Questi animosi soldati di Cristo a piè fermo aspetteranno la gloria di affermare a prezzo di sangue e di martirio il progresso del Vangelo nel proprio paese, non patendo a verun patto di comparire secondi ai magnanimi esempi somministrati loro quotidianamente dai fratelli di Francia, del Belgio e d'Inghilterra. Ah quante speranze svanite! Quale argomento di esultanza agli empi nostri oppressori! Più che con le parole col pianto egli è forza deplorare questa dolorosa vicenda.» Nè, a vero dire, i pericoli che correva Lucca erano vani, e già lo accennammo. Cosimo smaniava allargarsi; troppa piccola veste la Toscana per lui, quindi stava alle vedette per coglierla in fallo e così dare la balta allo inquisitore perchè gliela consegnasse. Il Caraffa e il Ghislieri a patto di schiantare la eresia avrieno dato fuoco, non che al genere umano, al mondo; sicchè all'oratore veneziano Fedeli, come altrove fu avvertito, Lucca pareva una povera quaglia sotto allo sparviero. La repubblica ciondolava con astutissimo consiglio tra lo scansare i pericoli di fuori, non disperare quei di casa, tenersi bene edificata Roma e non cedere alle improntitudini di lei: insomma fine della disuguale scherma fu, che Lucca respinse incrollabile la Inquisizione e i gesuiti da casa sua: imperciocchè Salvatore Guinigi, spedito a Roma per istornare la venuta loro a Lucca, scrivendo all'Offizio su la religione dichiarava: «aver considerato come cotesti huomini fossero di qualità che quando mettono il piede in un luogo fanno come il riccio e cercano sempre tirare a loro; che _teatino_ non vuole dire altro che _tira a te,_ e perciò non pigliano nella loro religione furfanti o poveri, ma cercano subornare giovani ricchi e che possano portare molto utile; e chi li ha per vicini non si tiene padrone del suo, perchè se _li viene_ volontà di allargarsi, bisogna star forte: chi ha vigna vicina alla loro, bisogna che commetta al vignaruolo che chiuda la porta subito che li vede, perchè applicandoci l'animo saria perduta; e che il fine loro è di mangiar bene e bevere meglio e di governare tutte le cose tanto nel temporale quanto nello spirituale con malissima sodisfatione dello universale e con pericolo che un giorno non ne segua qualche pericolo notabile.» Comechè pusilla e trepidante, Lucca in questo tenne il fermo; e quando Alessandro Guidiccioni, per gratificarsi Roma, indegno cittadino, macchinava contro la sua patria sbottonando da per tutto che non ci si poteva dar sesto se non ci si piantava la Inquisizione, il governo lo dichiarò nemico della città; così del pari adoperò contro Lorenzo del Fabbro, pessimo uomo, il quale andava attorno accattando segnature sotto una supplica a Roma per ottenere il benefizio della Inquisizione; volle per di più bandirlo; la Inquisizione lo difese, e il governo per non romperla lo lasciò stare; e quando Pio IV volle levare al governo l'esame dei libri proibiti ed altri uffizi, egli con un mondo d'industrie procurò tranquillarlo, siccome ottenne. — A mano a mano che soffiava il vento emanò leggi da prima miti e, per quanto ne sappiamo, messe in esecuzione alla buona di Dio: ma poi bisognò smettere il fare la gatta di Masino; le leggi di mano in mano diventarono terribili e misero i denti davvero. Le leggi promulgate dal consiglio furono queste: la prima del 28 marzo 1525; per essa si provvede che i possessori di libri luterani i quali si recusino a consegnarli dentro giorni 15 dalla promulgazione della legge agli anziani paghino la multa di ducati cinquanta; la seconda del 12 maggio 1545: con questa si ordina: non leggansì libri vietati, nè anco per ischerzo favellisi di cose religiose; chi trasgredisce, la prima volta paghi scudi 50; la seconda gli si confischino i beni, e se non possiede beni per 100 ducati, vada in galera sei anni; la terza, patisca la perdita dei beni, il fuoco ed altre pene. Pareva che dopo il fuoco altre pene non ci avessero ad essere, ma non è così. I possessori di libri proibiti dentro quindici giorni dalla notificazione del decreto o li portino al vicario del vescovo o glieli mandino col mezzo del suo confessore, ovvero gli abbrucino; se disobbediscono, confisca; e così del pari il libraio che provvede di fuori libri siffatti; corrispondenza vietata con tutti gli eretici, massime coll'Ochino e col Martire; non si mandino loro danari, non si servano; lettere da essi mandate si portino dentro tre giorni all'Uffizio di Religione composto del gonfaloniere, dell'Uffizio della Onestà, e di tre cittadini eletti dal Consiglio maggiore; se no, confisca. L'accusatore rimane segreto e guadagna la terza parte delle multe e delle confische; il reo che accusa il complice va impunito. La terza legge venne promulgata il 24 settembre 1549; per lei fu modificata la provvisione del 1545; all'Uffizio si aggiunsero due altri consiglieri; si prescrive aduninsi una volta per settimana; chi manca paghi un fiorino di oro; considerato che le pene troppo gravi erano rimaste inani, di ora in poi i trasgressori paghino la prima volta 100 ducati di oro; se non pagano dentro dieci giorni, in carcere per sei mesi; la seconda volta si multino 500 scudi e privinsi in perpetuo degli uffici di onore e di utile del comune; se non pagano, oltre la privazione degli uffici, in prigione tre anni; la terza volta ne vadano la confisca e la vita. Le donne anch'esse sottoposte a queste pene; le loro doti confiscate, salvo lo usufrutto del marito innocente. I libri non approvati dal vicario proibiti. I cittadini si abbiano a confessare e comunicare nei tempi dalla Chiesa indicati; chi manca la prima volta sia dannato in 100 scudi di ammenda, e se non paga entro dieci dì, stia sei mesi in prigione, la seconda dugento scudi, e se contumace a pagare, si abbia un anno di carcere; la terza ne vada la vita perchè, dichiara la legge, _chi non muove l'honor commuova il timor della pena_. Le medesime pene incolgano a cui cibi carne nei giorni proibiti senza licenza del vicario; nella quaresima non si macellino carni boccine nè agnelline nè caprettine, pena dieci ducati di oro, eccetto la settimana santa per la provvista di Pasqua; frate sfratato veruno tenga per famiglio in casa sotto l'ammenda di cinquanta ducati di oro. La legge del 27 ottobre 1558 vieta commercio e di ogni maniera corrispondenza per tutto il mondo con quelli che la Inquisizione dichiarò eretici, e il consiglio ribelli, e ai trasgressori ne vadano la prima volta 500 scudi di oro, la seconda la vita: parrebbe che bastasse, ma no; per la terza volta sono comminate le pene prescritte dagli statuti contro i ribelli: per la quale cosa è dato supporre che anco morti agli occhi della Inquisizione si poteva commettere peccato. Nel 19 dicembre 1561 per legge fu concessa facoltà all'Uffizio di aprire casse, valigie, bauli e lettere per venire in chiaro della eresia; e qui multe pecuniarie, si lascia stare la vita. In quel torno promulgarono altresì un'altra legge per la quale fu dichiarato che i discendenti degli eretici per due generazioni si ributtassero da qualunque ufficio sia di onore, sia di utile del comune, e così dentro come fuori della città e dello stato: iniquissima legge che condannerebbe gl'innocenti pel colpevole, ma accettissima al papa, il quale vicario di Cristo non è di certo, il Dio che perdona, bensì vicario del Dio di Moisè, forte, prepotente, geloso, che visita nel suo furore la quarta e la quinta generazione di quelli che l'odiarono; accetta tanto che, pur volendo in qualche maniera mostrare l'animo grato alla repubblica, le mandò in dono la rosa d'oro, e il principe Colonna fu commesso con le maggiori solennità di presentargliela. Più enorme di tutti il decreto del 9 gennaio 1562: per questo si proibisce agli eretici ed ai ribelli di frequentare Italia, Spagna, Francia, Fiandra e Brabante, dove per ragione di commercio soglionsi condurre i buoni cattolici lucchesi; chiunque gli ammazzi riscuoterà la taglia di 300 scudi; se l'omicida è ribello, abbia grazia; se non ribello, la chieda e la ottenga per altro ribello. Buoni tutti, ma questo decreto poi commosse le viscere paterne di Pio IV e di Carlo Borromeo che dicono santo: sicchè il papa non potè stare alle mosse e con amplissimo breve segnato Fiorebello Lavellino mandava al consiglio essersi smisuratamente rallegrato della sua sapienza e pietà, ch'egli non saprebbe immaginare documento che meglio di quello tutelasse l'onore di Dio e la salute della patria; e che perciò senza dubbio alcuno Dio sovverrebbe una città dove così pura e così sincera si conserva la sua religione. Quando Roma ti loda, non ci è caso, o fosti stolto o iniquo. Come parve al papa non parve questo editto preclaro a Caterina di Francia nè a Carlo IX, i quali ne fecero le loro dimostranze alla repubblica, che si scusò con certe ragioni che valsero ad attutare cotesti principi meritamente gelosi del diritto di sovranità sopra i propri dominii; nel 1566 le antiche leggi confermaronsi e si estesero anco per Ginevra; nel 1568 s'ingiunse che, albergatori o no, tutti facessero la spia al forestiero che alloggiavano in casa. Nel 1570 si pubblicò una nota di eretici da evitarsi, i quali furono: «Giusfredo Bartolomeo Cenami, Giuseppe Cardoni, Antonio Liena, Cesare Mei, Michele di Francesco Burlamacchi, Lorenzo di Alò Venturini, Nicolao Franciotti, Salvatore dell'Orafo, Gaspero e Flaminio Cattani, Benedetto Calandrini, Giuseppe Iova e Marco da Rinucci[20]; più tardi ci si aggiunsero Francesco Cattani con tutta la famiglia e il genero Rustici, Vincenzo Mei con la moglie ed i figli, Cristoforo Trenta, Girolamo Liena, Nicolao e Guglielmo Balbani, Gaspero da Massaccuccoli e Francesco Bonaventura Micheli. E noi, frugando pei ricordi dei tempi, troviamo come Roma si sbracciasse a soffocare in Lucca ogni anelito di libertà religiosa: così il vescovo nel novembre del 1555 arresta e processa sottoponendolo al tormento Rinaldino soldato di Guardia, e dopo averlo costretto ad abiurare in duomo sopra un palco, vestito di giallo, con torchio di cera gialla in mano, lo mandò legato a Roma al Santo Offizio; nel 1556 il vescovo per comandamento di Roma cattura come sospetti di eresia ed ostinati a non ritrattarsi Girolamo Santucci, Giovannipiero da Dezza e Giovambattista Carletti, e gl'invia a Roma, donde furono relegati nelle proprie case. Del pari per ordine espresso di Roma nel medesimo anno il vescovo fece citare pubblicamente dal pulpito in duomo sotto pena della vita e della confisca da applicarsi alla Camera apostolica per intimare loro che si costituissero nelle carceri del Santo Offizio a Roma, Nicolao e Girolamo Liena, Nicolao Balbani, Gaspero da Massaccuccoli, Cristoforo Trenta Guglielmo Balbani, con altri parecchi; e poichè rimasero contumaci, l'eccellentissimo consiglio li dichiarò ribelli e ne confiscò i beni; di più, nel medesimo giorno impose le pene a cui in qualsivoglia maniera per lettera o per messaggio corrispondesse con loro; e non si potendo sfogare in altro, così volendo la Inquisizione di Roma, gli arse in effigie nel gennaio del 1559 sopra la piazza di San Michele: sei mesi prima Michele di Alessandro Diodati, chiamato a Roma, era chiuso in carcere, dove si logorò fino al pontificato di Pio IV: e poco dopo con solenne e grottesca cerimonia presi pel collo ebbero ad abiurare in duomo non pochi cittadini, fra i quali un frate sfratato dei Servi. Nel 1575 venne in Lucca un visitatore da Roma mansueto in vista e col pretesto di riformare il clero in ciò che per avventura contenesse in sè di malsano; di repente poi chiese ed ebbe braccio per arrestare otto cittadini, i quali, eccetto il Turretini, che si salvò, inviaronsi al Santo Offizio a Roma con le catene alle mani ed ai piedi: visitò case, rovistò armari per trovare libri proibiti, predicò, confessò, comunicò, fece il diavolo a quattro, ma non ebbe seguito tranne fra plebe e femminucce pinzochere. Nel 1576 la Inquisizione prescrive al senato gli mandi a Roma Francesco Arnolfini, il quale, mostrando come sarebbe suprema iattura pe' suoi interessi partire su due piedi, ebbe a dare malleveria di 1000 scudi che sarebbe andato: meglio per lui si fosse messo in salvo perdendo i mille scudi; ei volle andare e si trovò sommerso nelle carceri del Santo Offizio: trascorso appena un mese, mandò la Inquisizione per messere Nicolao Pighinucci e messere Antonio Minutoli; il consiglio pauroso li consegnava, ed essi incontrarono la sorte dell'Arnolfini. Per causa di religione nel seguente anno furono citati Giuliano, Filippo e Benedetto Calandrini, madama Elisabetta vedova di Nicolao Diodati, Carlo di Michele Diodati, Michele di Francesco Burlamacchi e messere Giuseppe Iova: poco dopo fu proibito parlare e scrivere ai seguenti ribelli per causa di religione Paolino Minutoli, Venanzio Bartolomei, Regolo del Venoso, messer Filippo Rustici, Scipione Calandrini, Lodovico delle Tavole, Matteo Civitali e messer Simone Simoni medico: il 4 novembre del medesimo anno dichiarano ribelle Giuliano Calandrini; nel 21 detto fu citata madonna Chiara di Paolo Arnolfini e condannata per dieci anni in casa; per dieci anni in prigione Giovanni Nuccorini, e Giovanni da Pariana nella testa; nel decembre processarono Iacopo di Chimento barbiere; venti giorni dopo citarono madonna Elisabetta e il figlio Nicolaio Diodati e Carlo di Michele Diodati; nel febbraio del 1568 citarono parecchi cittadini, fra i quali due donne, madonna Francesca Cattani, la moglie di Filippo Rustici, la moglie di Vincenzo Mei e Flaminia figlia; nel marzo dichiararono ribelli madonna Elisabetta, Pompeo e Carlo Diodati, nell'aprile citato sotto pena del capo e della confisca Biagio Mei; nello agosto, oltre a parecchie capitali condanne, fu commesso di procedere contro la moglie di Luiso Guidiccioni, e poco prima avevano citato, sempre sotto pena della confisca e del capo, le madonne Maria Massei ed Elisabetta Micheli. Queste poi sono le famiglie lucchesi le quali spatriate andarono a porre la stanza loro a Ginevra. Vincenzo Mei con moglie e figli, Filippo Rustici con moglie, Paolo Arnolfini, Nicolao Barbani con la figlia, Francesco Micheli con la moglie e tre figli, Maria vedova Massei, Cristoforo Trenta col figlio, Guglielmo di Carlo Balbani, Girolamo Liena Nicolao da Lucca con moglie, Giovannantonio legnaiuolo con moglie e figli, Gregorio Arrighini, Scipione di Giuliano Calandrini ministro della Valtellina, Giovanni Domenici, Vincenzo del Muratore, Vincenzo Bonicelli, Regolo del Venoso, Giovanni Pìerellini, Regolo Benedetti con moglie e figlia, Paolino Minutoli con la moglie, Giorgio Baroncini, Simone di Simone medico, Giovanni e Ludovico Simoni, Salvatore Franceschi, Giuliano Calandrini con la moglie, Elisabetta Arnolfini con tre figli, Benedetto Calandrini con la moglie e Maddalena Arnolfini, Pompeo Diodati con la moglie, Carlo Diodati, Giuseppe Iova, Virginio Sbarra, Arrigo Balbani, Cesare Balbani, Antonio Liena, Ansano Pranconi, Francesco Turretini con altre cinque famiglie del medesimo casato, madonna Elisabetta vedova Bartolomei, Timoteo Rustici, Paolino Terricciola, Francesco Cattani con moglie e cinque figli, Vincenzo Minutoli, Giovanni Lunardo, Domenico Colla, Giovanni Barsotti e Giovanni Diori; con parecchie altre famiglie di basso lignaggio; due famiglie Arnolfini ripararono a Londra ed una a Bordò; tre ne rimasero a Ginevra; il Lucchesini nella storia letteraria di Lucca ricorda taluni dei discendenti di questi esuli i quali sè o la patria illustrarono coltivando con plauso universale le scienze e le filosofiche discipline. Dei Burlamacchi, oltre Michele figlio di Francesco, posero domicilio in Ginevra Fabrizio Burlamacchi: due famiglie del medesimo nome cercarono asilo in Amsterdam e lo trovarono. Ho letto in qualche libro che in Giovan Giacomo Burlamacchi chiarissimo pubblicista, di cui il libro intorno al _Diritto naturale_ leggiamo tuttavia con profitto, si estinguesse nel 1748 la famiglia Burlamacchi: ciò non sembra esatto; il pubblicista Burlamacchi scendeva da Michele uno dei figli di Francesco, ma questi n'ebbe cinque, e Federigo produsse più degli altri la sua discendenza; l'ultimo fiato fu Margherita nata nel 1717 che sposa a Francesco Gaetano Spada morì nel 1740; ma a lei sopravvisse Cesare padre, però che mi occorra notato ch'egli cessasse nel 1753. Oltre questa feroce ed irrequieta persecuzione, altre cause impedirono che la Riforma prevalesse in Italia; il popolo nostro nel complesso cura poco le credenze religiose; poco si esalta del paradiso e meno teme lo inferno; sembra attaccato al culto ed è; e più era una volta, perchè a lui garbano gli apparati scenici, e lui unicamente percotono le rappresentanze plastiche; in chiesa i giovani italiani s'innamorano e i loro amori coltivano; più quando le città difettavano di teatri e di ritrovi: l'opera buffa se costumasse di giorno, ammazzerebbe la messa, massime se data gratis: intanto il teatro diurno nelle ore vespertine ha disfatto i vespri: pinzocheri e beghini durano e dureranno finchè alla corona e al rosario non surrogheranno qualche altro balocco per le mani e per lo spirito meno fastidioso di quelli. Arrogi che, essendo ristretto il numero dei riformati, nè la fede della più parte di loro giunta al furore del fanatismo, bene si ebbero a deplorare martiri, ma troppi meno che nelle persecuzioni dei cristiani: ancora, le dottrine dei riformati comparivano astruserie ed infatti erano; poco il volgo c'intendeva o nulla, quindi agevolmente prestava le orecchie ad ogni maniera di calunnie, comechè stranissime, contro di loro; la Riforma, se bene considerate, vi apparirà faccenda di lusso, privativa di letterati magni, fuori dalla intelligenza del volgo. Nè io certo mi dolgo che la Riforma non allignasse in Italia: certo ella è qualche cosa, come quella che alle abiette superstizioni di Roma si contrappone e di molte ciurmerie onde ella contrista il genere umano la scema, tuttavolta non lo incammina sopra il retto sentiero della verità. L'Italia, vero Anteo delle nazioni, imperciocchè quando percuote la terra, quinci risorga con rinnovato vigore, alle fiamme dei roghi per ardere gli eretici accese la fiaccola della filosofia sperimentale, titano che senza soprammettere monte a monte assalisce il cielo e Dio quali li crearono la feroce cupidità dei sacerdoti nè teme fulmini, chè ella gl'incatena e se ne serve a mo' di corsieri legati al suo carro: nè granito nè credenze nè spazi infiniti nè terrori reggono dinanzi all'azione del suo trapano fatale; tutto ella fora; da per tutto penetrano aria e luce. Galileo Galilei approdò meglio all'umano intelletto che non arieno fatto mille Ochini e mille Vermigli; gli scritti di costoro ormai pochi leggono o nessuno, mentre il seme gittato dal Galilei ogni momento feconda di più e s'inalza al firmamento, penetra nel centro della terra, il creato sottopone a numero e a misura, strappa inesorato lo involucro così allo errore come alla verità, e ridotti entrambi ignudi, dimostra del primo la schifezza, della seconda la sostanza divina. Sopra le tracce di Bacone e di Galileo ecco divampare per tutta Italia uno ardore di rompere il giogo delle pretesche menzogne, scoprire il vero, debellare gli errori: ogni uomo da per sè provava e riprovava; ma più efficaci assai furono l'esperienze quando si ordinarono con norme certe e scopo prefisso mercè la istituzione dell'accademia del Cimento: «ella fu, sentenzia sapientemente uno storiografo toscano, che diede l'ultimo crollo ai peripatetici ed abbattè insensibilmente la tirannide dei frati sopra le scuole.» Nel museo fiorentino dentro ben costrutte bacheche oggi si conservano gli strumenti che primi servirono al Galileo e agli accademici del Cimento per l'esperienze loro: quando gli uomini in certi giorni solenni dell'anno fie che movano a venerarle come le uniche, le vere reliquie sacrosante della verità, allora esultate; il regno dello errore sarà finito, e noi misero armento delle tirannidi principesca e sacerdotale incamminati sopra il sentiero che per diritto tramite conduce a Dio. Ma tutto ciò, sia in bene o in male, ai tempi del Burlamacchi non era ancora avvenuto; in parte latente, in parte manifesta, la Riforma travagliava l'Italia; potenti uomini e principi la promovevano, i più eletti ingegni s'industriavano propalarla con le parole e con gli scritti, stava in bilico di trionfare; chi aveva bisogno che prevalesse se ne faceva la vittoria sicura. Lucca, come dimostrammo, principalissima fra le città italiane zelatrice delle nuove dottrine, e la famiglia di Francesco, e Francesco stesso fra i primi, primissimo su tutti. Adesso con difficoltà somma se ne rintracciano i vestigi a sommo studio soppressi dalla paura, dallo interesse ed anco dall'opera assidua dei nemici della Riforma: difatti indi a poi Lucca diventò, e forse anco adesso rimane, la città più contaminata di beghineria fra le altre della nostra penisola; per me credo provato abbondevolmente il mio assunto, che la impresa di Francesco Burlamacchi poggiava sopra diramazioni segrete, ma oltre ogni credere estese, ed aveva troppo maggiore probabilità di riuscita di quella che gli scrittori dei tempi paurosi o venduti ci danno ad intendere e che lettori superficiali mostrano di credere. — CAPITOLO VI. I moderati del 1859 erigono al Burlamacchi una statua, ma non ne dettano la vita, e perchè. — Concetto del Burlamacchi repubblicano e avverso al potere temporale. — Sua prudenza ed arti adoperate a procacciarsi compagni nella impresa. Sebastiano Carletti chi fosse; prima operaio nel fondaco Burlamacchi, poi soldato sopra le galere di Lione Strozzi; viene a Lucca, va a Marsiglia per tirare lo Strozzi nella congiura. — Cesare Benedino è messo a parte della impresa: chi fosse; come lo adoperasse il Burlamacchi, che lo tratta più largamente di quello che la Repubblica fiorentina non trattasse il Machiavelli. — Generosità del Burlamacchi. — Gli Strozzi e l'indole loro; Bastiano Carletti va a Marsiglia per conferire col priore; non ce lo trovando, lo raggiunge a Parigi. — Ragioni diverse delle congiure. — Bastiano va in Iscozia ed in Inghilterra col priore, e succede una sosta alla congiura: gesti del priore costà. — Favorito da Francesco I, ma poco accetto ad Enrico II, e perchè. — Lo pospone nel comando dell'armata ad altro capitano meno degno; non per questo si ribella, come il Doria, e perchè. — Lione Strozzi, priore di Capua come il padre suo Filippo, si giudica fosse ateo. — Il Carletto, tornato a Lucca, ferma una posta fra Lione Strozzi e Francesco Burlamacchi a Lucca; ma Lione balena; pure va a Venezia per aspettarlo. — Il Burlamacchi è eletto commissario delle milizie di montagna: quando queste milizie venissero instituite: reputazione di questo ufficio e vantaggi che porge ai disegni del Burlamacchi. — Va a mettere pace tra San Quirico e Castelvecchio, ma è pretesto; messa da banda la pace, schizza a Bologna: quivi lasciato il servo, va a Ferrara, dove conferisce co' riformati; poi s'incammina a Venezia dopo avere da capo lasciato il servo Bati a Francolino, ma poi ce lo raggiunge; motivi presunti onde così costumasse il Burlamacchi. — Quello che avvenisse a Venezia secondo che depose con giuramento in giudizio Bartolomeo da Pontito detto il Bati. — Differenza di forma e d'ingegno fra il Burlamacchi e lo Strozzi. — Conferenza fra questi due. — Il Burlamacchi espone a parte a parte l'ordine della congiura e il modo di riuscirvi: Lione approva, ma piglia tempo per la esecuzione della impresa; pericoli e vantaggi dello aspettare, e per converso dello affrettarsi. — Il Burlamacchi torna a Lucca, dove attende a confermare gli amici ed a crescere il numero dei suoi seguaci: esce degli anziani; subito dopo lo eleggono gonfaloniere con universale soddisfazione. — Manda più volte il Benedino a Venezia sotto pretesto di comprare tinte, per sollecitare lo Strozzi, che gingilla senza prendere nè lasciare. Per le cose fin qui discorse abbiamo fatto manifeste le cause e gli argomenti sopra i quali faceva capitale Francesco Burlamacchi per condurre a buon fine la disegnata impresa; onde ora si accorgeranno i lettori quanto ella fosse audacemente pensata e come potesse essere con ottimo consiglio eseguita. Adesso la iscrizione lapidaria corrosa dagli anni e dal malvolere degli uomini alterata è restituita nella sua prima lezione, sicchè ogni uomo può leggerla pel suo verso. Coloro che governarono la Toscana nel 1859 e negli anni seguenti eressero al Burlamacchi una statua; aríeno adoperato meglio se taluno fra essi ne avesse dettato la vita per rivendicarlo dalle infamie di storici venali; poi dopo, se pur volevano, inalzargli la statua; ma questa altri, non essi scolpirono, altri non essi pagarono, mentre la vita è mestieri concepire e dettare con la propria virtù. Ancora, senza odio come senza dispetto, è chiaro com'essi intendessero onorarsi coll'onorare un magnanimo che volle l'Italia nostra potente e sgombra dagli stranieri, nè s'ingannarono; ma io pongo pegno che se ne sarebbero rimasti se avessero o creduto o saputo che Francesco nostro in questo era fermo, che verun reggimento si confacesse alla Italia dal repubblicano in fuori, e noi non avremmo salute mai se prima la nequissima potestà temporale dei sacerdoti non fosse per sempre abolita. A cotesti tempi siffatta sentenza correva fra gl'Italiani con la dignità di assioma: la insegnarono con gli scritti il Machiavello, e il Guicciardino; dopo trecento e qualche anno la sapienza dei padri diventò errore, lo ingegno follia, e ciò in grazia dei pleclari ingegni che la età nostra rendono lieta, anzi immortale. Vuolsi sopratutto ammirare nel Burlamacchi la prudenza; imperciocchè fin dove gli bastarono le forze, e glielo consentì la materia, egli non si servisse di anima viva; i discorsi che teneva alle brigate intorno alle austere gioie della libertà, al godimento che l'uomo sente in sè nel sagrificarsi per la patria, ed alla fama perpetua che prosegue gl'incliti gesti miravano a questo: se dal consenso ardente, e se dal fiammeggiare dello sguardo di taluno degli uditori, poteva comprendere che lo avesse acceso di affetto pari al suo, cercava accontarsi con quello, e scrutatolo fino dentro alle ossa, se lo provava quale se l'era promesso, lo metteva a parte della impresa: per ciò non si pensi che i suoi disegni palesasse interi, bensì quanto bastava a rovinare lui, non già la impresa e molto meno gli aderenti suoi. — Uno di quelli a cui fu mestieri aprirsi intero fu Sebastiano Carletti calzaiuolo, il quale da prima fu operaio nella bottega dei Burlamacchi e poi militò sopra le galere di Lione Strozzi priore di Capua, e tuttavia militava: dove avendo mostrato intendimento buono e valore non ordinario, era venuto in grazia del priore; da cui essendo sorto con la sua armata nel porto di Marsiglia per istanziarvi alcun tempo, ottenne il congedo di recarsi a Lucca: qui giunto, il Burlamacchi co' suoi trovati lo sperimentò, ed avendolo rinvenuto al caso oltre la speranza, deliberava scoprirsi a lui, e così fece. Bastiano, come quello a cui le ingiurie patite dal suo capitano più assai delle proprie cocevano, intendendo come la burrasca doveva innanzi tratto scaricarsi in Toscana e quivi schiantare la mala pianta della tirannide medicea, non è a dire se confermasse ne' suoi concetti il Burlamacchi, al quale si profferse di tornarsene tosto a Marsiglia per tenerne proposito col priore; a cui, egli affermava, non sarebbe parso vero di operare cosa che a un punto giovasse alla patria ed alla sua antica sete di vendetta soddisfacesse, o, come si dice, di pigliare due colombi ad una fava. L'altra persona alla quale il Burlamacchi si scoperse fu Cesare Benedino da Pietrasanta, che, dopo avere esercitato un tempo onorevolmente la milizia, pose stanza in Lucca, dove con molta lode e non poco profitto attendeva a tingere sete così greggie come lavorate; il quale mestiere in cotesta città, stante il grande commercio serico che vi si faceva, non era mica giudicato vile, all'opposto di altissimo rilievo; ed essendo egli uomo bravo, e per la molta gente che teneva a salario non meno che per l'amorevolezza sua verso gli operai, assai lo seguitavano. Questo il Burlamacchi o con lettere da bruciarsi appena lette o con messaggi verbali spediva ora a Pisa, ora a Pescia o a Pistola, sovente a Firenze ed anco a Bologna e in altre parti di Lombardia: perchè quantunque il Benedino disagiato non fosse dei beni di fortuna, tuttavia il Burlamacchi non consentì mai che egli ci rimettesse del suo, e dai ricordi del tempo ricaviamo che ora di due e tale altra di tre scudi lo rimborsasse per le spese fatte nei frequenti viaggi, e così con maggiore larghezza di quella che la repubblica fiorentina costumasse con Nicolò Machiavello, al quale, sebbene inviato per suo oratore publico, pure ella lasciava penuriare per tre lire o quattro. Abbiamo altrove accennato, e qui ripetiamo, che il Burlamacchi, se non tracollò affatto, molto nocque alla sua sostanza a cagione delle molte spese incontrate a sostenere il suo disegno; e ciò serva di esempio ai nostri padri della patria, i quali non moverieno per la sua salute un dito, se prima non vengano assicurati di guadagnarsi il dieci per cento almeno. Chi fossero gli Strozzi e quali la indole e lo intento loro dicemmo: mutati i tempi, epperò mutati non già gli affetti, bensì i modi di significarli, di Strozzi adesso vediamo pieno Firenze; zelatori di tirannide sotto il velame di libertà a patto di essere eglino stessi tiranni o, se tanto non lice, tiranni almeno di seconda mano per perseguitare, ma sopratutto per arraffare. Sventura grande pel Burlamacchi ch'egli avesse o reputasse avere mestieri di loro! Bastiano pertanto rompendo gl'indugi fu spedito a Marsiglia per conferire col priore e persuaderlo a volere mettersi dentro alla impresa coll'opera, col consiglio e co' danari: caso mai quegli assentisse, gliene porgesse avviso col mezzo di lettera la quale, fingendo versarsi intorno a negozi mercantili, così gli annunziasse: non posso tirarmi indietro da confessare il mio debito verso la vostra ragione, il quale somma a cento ducati, che mi obbligo satisfarvi insieme con gl'interessi dovuti a seconda che voi giudicherete onesto, mano a mano che mi capiterà un buono avviamento di poterlo fare. Però Bastiano comechè usasse diligenza, non trovava il priore a Marsiglia per essere egli partito per Parigi; colà lo raggiunse, ed appena lo ebbe tastato, trovò il terreno sollo per modo che non solo la vanga ci sarebbe entrata ma il manico; per la quale cosa avvisò, il Burlamacchi nella guisa fra loro concertata, onde questi aspettava il Carletti a gloria per precipitare il negozio, avendo egli considerato come delle congiure quelle che mirano a spegnere il tiranno o colui che si reputa tale riescano sempre, quante volte l'omicida non confidi il suo disegno ad anima viva e loco aspetti e tempo a vibrare il colpo: tuttavia se conseguono la strage dell'uomo aborrito, sovente l'uccisore rimane spento, nè da quel sangue germoglia sempre la libertà o perchè, accadendo il caso alla sprovvista, gli animi dei cittadini non si ordinarono ad approfittarsene, o perchè più spesso che non si pensa al tramonto della tirannide non segui l'aurora della libertà; le altre congiure poi (e non le laudabili) le quali si propongono a scopo mutare il governo per necessità bisogna palesare a molti, e ciò talvolta nuoce, tale altra no o poco: nuoce se la congiura deve condursi per sorpresa e quando la universalità dei cittadini ci repugni ovvero ci vada di male gambe; non nuoce o poco quando la imminente rivoluzione venga come sequela d'interessi che hanno mestieri di mutare, però che allora corra veracissima la sentenza la quale dice delle rivoluzioni succedere sempre quelle che sono presagite. Però il ritorno di Bastiano non fu sì presto come avrebbe voluto, e la cosa desiderava, imperciocchè se ne andasse col priore in Iscozia e in Inghilterra per mandato del re di Francia Enrico II, dove condusse a buon fine parecchie onorate imprese, fra le quali quella di espugnare il castello di Santo Andrea, e presivi gli omicidi del vescovo di Santo Andrea, tutti mise senza misericordia a morte. Di Scozia navigò su le coste di Francia per sovvenire alla fortuna di Bologna marittima che pericolava per lo assedio messoci dagl'Inglesi. Siffatto ritardo riuscì funesto ai disegni del Burlamacchi, perchè cotesto anno andò perduto, ed egli facesse capitale grandissimo del malcontento dei popoli a cagione della penuria del grano, di cui era stato infelice il raccolto in Toscana: sopra gli altri poi ne arrovellavano i Pisani un po' per la ruggine antica e più perchè il governo per provvedere Firenze aveva portato via da Pisa quanto grano trovava lasciandola nella estrema miseria; così si arrivò al nuovo raccolto, e la occasione andò perduta, nè dall'oceano Leone e il Carletti tornarono prima del decembre. Ignoro, e poco m'importa cercarne la ragione vera; fatto stà che il priore dopo cotesta impresa venne in iscrezio col re di Francia; gli scrittori del tempo affermano senz'altro come Lione Strozzi andasse meglio a genio di Francesco I perchè grave, circospetto, a moversi lento, tardo a parole, e Piero Strozzi garbasse di più ad Enrico, come quello che procedeva avventato, di mano pronto e di detti troppo più; taluno aggiunge che il re gli fece torto conferendo l'ufficio di capitano supremo del mare ad altra persona la quale non era reputata capace nè manco a reggergli il bacile quando si levava la barba; però lo lodano per essersi comportato in cotesto frangente con maggiore lealtà di Andrea Doria, perocchè non si ribellasse al suo re nè in veruna altra guisa gli nocesse, la quale cosa troppo bene egli avrebbe potuto fare sia pigliandogli alla sprovvista Marsiglia ovvero altra città di Provenza, sia rubandogli parte delle galere od anco legandosi coi corsari di Barberia per disertare le coste di Francia; mentre egli all'opposto, tolte seco due sole galere che erano sue, se n'andò a Malta per servire la cristianità contro i nemici della fede. Vero è però ch'egli lasciava la famiglia e la sostanza sue in Francia, nè possedeva forza di galee quanto il Doria da dargli balía di combattere solo; e per ultimo non era dietro il canto un imperatore il quale avesse fatto le larghe profferte che Carlo V fece al Doria; prima di attribuire un gesto alla virtuosa volontà dell'uomo tu scruta arguto quanta forza ebbe su lui la rancorosa impotenza. Gli antichi scrittori ci narrano altresì certa particolarità del suo ingegno la quale merita essere da noi notata, ed è, che egli sentisse meno che dirittamente delle cose di religione, non mica a modo dei luterani, bensì secondo la dottrina di suo padre Filippo, il quale apparteneva alla setta di coloro che l'anima col corpo morta fanno. Il Carletto di ritorno a Lucca si ristrinse col Burlamacchi, a cui disse da parte del priore che se a Francesco parea mille ore, a lui sembrava mille anni di mettere le mani in pasta per vendicare il sangue del padre; però desiderava udire dalla sua bocca a parte, a parte tutta la trama per poterla poi sovvenire con piena conoscenza di causa: quanto prima si sarebbe recato a Venezia; quivi gli darebbe la posta per conferire strettamente insieme. Per questo messaggio levato a nuove speranze il Burlamacchi più volte mandò il Carletto a sollecitare il priore, parendogli trovarsi su la brace; ma il priore, o sia che stesse ad uccellare gli eventi o sia che in vista non trascurasse verun filo per dipanare la matassa ed in sostanza lo estimasse partito disperato, non ci andava di buone gambe; pure alla fine gli mandò a dire che nello aprile lo avrebbe aspettato a sua posta a Venezia. La fortuna, la quale si diletta a tirar su la gente per precipitarla da maggiore altezza, adesso favorisce il Burlamacchi appianandogli la via a farlo eleggere commissario delle milizie di montagna, le quali non furono punto ordinate in questa occasione, siccome presume il Leo nella storia degli Stati Italiani, bensì vennero instituite fino dal maggio del 1541. Questo ufficio conferiva al Burlamacchi molta autorità, e maggiore egli divisava pigliarsene; oltre questo vantaggio, egli ne traeva un altro forse più utile del primo, ed era stare, andare, inframmettersi nelle faccende altrui e farsi grazioso senza nè anco destare ombra di sospetto negli avversari suoi, però che il cittadino o buono o reo potrà piuttosto procedere innanzi al sole senza ombra che nella sua città senza emuli; nè egli era uomo da lasciarsi cascare di mano la occasione, anzi acciuffandola subito pei capelli, udendo come gli uomini di San Quirico avessero screzio con quelli di Castelvecchio, si palesò disposto a recarsi costà approfittandosi del senso di mansuetudine che ispira nell'animo di ogni cristiano la ricordanza della passione del Redentore, affinchè, messi giù gli odii e gli sdegni, si dessero la pace: di ciò molto i cittadini lo commendarono, molto più ch'egli per amor di Gesù Cristo renunziava a fare la Pasqua a casa in mezzo alla famiglia, ch'era il suo cuore, per la quale cosa, avuto a sè Bartolomeo da Pontito soprannominato il Bati, o che egli fosse suo ordinario famiglio o che di lui si servisse quando andava attorno per negozi, lo condusse seco, e ciò fu il giorno del giovedì santo. A vero dire, non sembra ch'egli a procurare la pace si sbracciasse troppo, e s'intende, imperciocchè se le pratiche attecchivano, gli era mestieri trattenersi per condurle a conchiusione, e la sua mossa a San Quirico doveva essere pretesto, non fine de' suoi disegni: arrivato la mattina traccheggia fino a sera per adunare il Comune, il quale raccolto egli arringò come uomo cui non pareva vero lasciare il suo uditorio più incaponito di prima: questo poi gli venne agevolmente fatto, tirando la natura dei Lucchesi anzi che no al cocciuto; onde, dopo averlo ascoltato, con parlare succinto gli notificarono che se li magnifici Signori comandavano la pace, essi comechè ne fossero vaghi quanto il cane delle mazze, pure come figliuoli di obbedienza arieno chinato il capo; dove poi gli avessero lasciati liberi, allora preferivano perdere vacca e moglie, pecore e figliuoli piuttostochè porre giù l'odio contro i Castelvecchiesi. Ottenuta questa risposta, ebbe a sè il famiglio ordinandogli mettere in sesto le cavalcature. «O non sarebbe meglio, notava il Bati, che noi ci fermassimo fino tutto domani per tentare nuove vie di conciliazione? io ne ho visto rabberciare ai miei dì delle più scassinate di queste.» No, no, risposegli il Burlamacchi, con cotesta gente gli è lo stesso che camminare per rena; io li trovo tuttavia acerbi; lasciamoli maturare un altro micolino al sole. Montati a cavallo, il Bati, che precedeva Francesco, si volse dal lato di Lucca, pur pensando avere a tornarsene a casa, ma il Burlamacchi, fermato per un braccio il famiglio, gli susurrò nell'orecchio: «Non è costinci che tu hai a passare» «O, signore, da dove avremo a passare, noi? Da questa in fuori io non ci conosco altra via.» «Per Lucca, sì, ma tu hai da ire a Bologna.» «A Bologna?» «Sì, e forse un poco più in su: tanto a casa a fare la Pasqua non mi aspettano, ed io mi sono deliberato di recarmi fino a Ferrara per passarmela con la mia sorella.» E il Bati a lui: «Andiamo pure nel nome di Dio.» Misersi pertanto senza indugio in cammino e furono il venerdì sera a Vergato; il sabbato mattina desinarono al Sasso, dove chiamato a sè il Bati gli disse; «Santi Bati, a me occorre essere ad ogni modo stasera in Ferrara. Fa' una cosa: tu verrai a bell'agio; procurami intanto una cavalcatura fresca, chè io m'ingegnerò di mandare a compimento il mio desiderio.» E come disse fece: perchè così sollecito e prima del Bati intendesse arrivare a Ferrara non è ben chiaro, tuttavia si comprende che egli precorresse il famiglio per conferire co' riformati di Ferrara fuori della presenza, anzi senza la saputa di lui; imperciocchè bisognasse camminare guardinghi, non già perchè allora i professanti le dottrine luterane corressero pericolo in Ferrara o ne corressero troppo, ma sì perchè veruno pigliasse sospetto del fatto loro. Di vero Bati, che la notte precedente aveva pernottato in San Piero a Casale, quando la mattina di Pasqua giunto in Ferrara se recò a cercare Francesco nella casa del cognato di lui Giovambattista Lamberti, trovò che si n'erano iti a messa, dov'egli pure andando, ritrovollo in chiesa: di ritorno a casa assai lietamente desinarono, insieme trattenendosi in ragionamenti di negozi, massime sete; però il Bati tenne per fermo che fra due giorni, al più tre, arieno insieme ripreso il cammino verso casa; e s'ingannava, che Francesco, mentr'egli stava per mettersi in letto, nel dargli la buona notte, alzato il dito così gli favellò: «Bati, prima che sia giorno procura di trovarti in piè e di andare per una carretta la quale ci conduca con meno disagio e con più prestezza che sia possibile a Francolino. — A Francolino? disse Bati, e che andremo noi a pescare fino costassù? — Ci si lavorano sete, e ti so dire delle buone; il mio cognato non può allontanarsi dal fondaco; e siccome facciamo a mezzo, vado per lui a vedere se ci sia verso d'incettare i bozzoli.» E via a Francolino: arrivano, smontano allo albergo, dove Francesco lascia Bati e se ne va fuori in traccia, com'ei diceva, di setaioli e marruffini; nè stette molto che, tornato a casa tutto cruccioso, imprecava la sua mala ventura, la quale non gli faceva trovare le persone desiderate da lui, come quelle che si erano condotte al mercato di Venezia, conchiudendo così: «Ormai che mi trovo dentro, non mi fie grave di spingermi fin là al ballo; che ne di' Bati? Già come si va a Roma per Ravenna, così si può arrivare a Lucca per Venezia; andiamo pure.» Montati in barca, vogando di lena il martedì dopo Pasqua scesero a Chioggia, dove Francesco, senza perdere tempo, noleggiata una gondola, saltò in quella ordinando: «A Venezia, e di voga arrancata, chè non mancherà la mancia.» E a Bati che del pari stava per buttarsi giù disse: «No, tu statti e vientene a bell'agio su qualche barca di pescatori. — Ma dove vi troverò io? — Va franco, io farò in modo di trovare te; non dubitare.» E sì dicendo si partì da lui. Adoperando in questa guisa parmi manifesto che il Burlamacchi studiasse di tenere celate le sue pratiche al famiglio, onde non mettere, in caso di sinistro, a repentaglio tanti Lucchesi co' quali aveva a conferire, per avventura noti al Bati; ed in fatti, quando le cose volsero al peggio, egli non ressa alla paura della corda, però, interrogato appena, svesciava quanto aveva in corpo forse con qualche giunterella di suo, sicchè ne andavano a cagione delle sue accuse per le rotte, oltre a Bastiano Carletti, Giuliano Marescalco e ser Nicolò Vanni; degli altri non seppe indicare il nome, nonostante, avvertendo essere di quelli che, sotto colore di pellegrinaggio alla Santa Casa di Loreto, si era spinto fino a Venezia. Bati narra che egli arrivò a Venezia il giorno dopo su le diciannove ore, non sapendo a qual santo votarsi, quando di un tratto gli fu addosso Francesco alle colonne di San Marco dicendogli: «Qui ti aspettava.» Ordinatogli poi gli tenesse dietro, fecero ricapito nella casa del gondoliero che aveva menato Francesco, e quivi ebbero buona stanza, buon letto e meglio cena. Che tramestasse durante il giorno il suo padrone, il Bati non seppe dire, e la notte nè manco; solo ricordava che la notte precedente al dì della loro partenza, dopo avere cenato in casa all'ospite insieme a Bastiano Carletti, questi uscì fuori e passato qualche tratto di tempo tornò dicendo a Francesco che potevano andare; per la quale cosa se ne partirono, però innanzi di passare la soglia Francesco voltatosi addietro lo avvertiva: «Rimanti qui ad aspettarmi, chè tanto fuori di te non ci sarà bisogno.» Rimasto solo, egli si addormentò appoggiando il capo sopra la tavola su la quale aveva cenato: verso mezzanotte gli ruppero il sonno dalla testa due uomini che entrarono nella stanza, uno dei quali teneva un lume in mano; lo riconobbe tosto pel Carletti; l'altro era Francesco, che torbo in sembiante gli disse: «Tu hai fatto un sonno; or va a finirlo a letto.» E Bastiano, messo in casa Francesco, si partì da lui senz'altre parole che con un _buona notte_. Noi sappiamo per filo e per segno ciò che il Burlamacchi in cotesta notte disse e fece, non a modo dei tragedi e dei novellieri, bensì di certa scienza, ricavandolo nella massima parte dai suoi interrogatorii. Francesco Burlamacchi e il priore Lione Strozzi in luogo appartato incontraronsi per concertarsi sul modo di mandare a compimento il disegno dal primo proposto al secondo. Era il Burlamacchi di membra ottimamente formato, ma scarso anzichè no, tuttavolta destro e pazientissimo alla fatica; sbarbato, rasi i capelli, nelle vesti semplice; arguto nel volto, arguto nel dire, parlava lento, preciso come uomo che dimostri un teorema di matematica; l'altro all'opposto, di lato petto e di potenti spalle, barbuto e chiomato; nella faccia, pel collo e per le mani di quel colore di rame che il sole ardente e l'esalazioni saline partecipano ai marinari; breve il dire e concitato come uomo assueto al comando; facile alla ira, gagliardo sì ma soverchio nelle manifestazioni della sua gagliardia: insomma il primo dava più che non prometteva, alla rovescia il secondo; perchè quanto si sparnazza nella esagerazione si sottrae alla sostanza delle cose. Pertanto il Burlamacchi gli espose il suo concetto essere liberare la Italia da' suoi trenta tiranni e dal tiranno peggiore di tutti gli altri posti in mazzo, il papa; non mica in odio al cattolicesimo da lui aborrito, ma che per ciò non intendeva perseguitare, vincendosi la coscienza degli uomini per via di persuasione, non già con la soperchieria. In lui agitarsi unico il senso di carità patria; mentre due erano certo i furori che spingevano l'animo del prode priore, amor di patria e il grido del sangue paterno tuttavia invendicato. Sopra una cosa però bisognava andar chiari, la quale consisteva in questo, che egli non avrebbe dato nè ricevuto aiuto per istituire una monarchia; l'Italia nata per le repubbliche, vuoi democratiche, vuoi oligarchiche o vuoi aristocratiche, difettose tutte, non però quanto la monarchia, e quelle per vizio di uomini piuttostochè per vizio d'instituto, questa per vizio d'instituto anzichè di uomo, essendo cosa veramente lesiva alla dignità della cittadinanza consegnare cuore e cervello in mano ad una dinastia di padre in figlio _per omnia sæcula sæculorum amen_, nel concetto che se uno è buono, l'altro a prova sarà trovato meglio: chè se la monarchia vorrai ridurre a temperata, ella si assottiglierà a giungere per via di corruzione là dove trova ostacolo per arrivare con la violenza, ed è peggio perchè questa ti cresce l'odio e coll'odio ti mantiene la facoltà di possibile vendetta, mentre quella ti castra come un pecoro, che lecca la mano a cui gli taglia la gola; onde delle due tirannidi, cioè la netta e l'annacquata, la rigida e la mansueta, scegli quella tutta di un pezzo; imperciocchè nelle tirannidi violenta, spento il tiranno, le più volte ti rivendichi in libertà, nelle astute, se ammazzi il tiranno, sopravvive la servitù. Repugnare poi alla composizione di una sola e grande repubblica in Italia come quella che, divisa e durata per secoli con istituti, voglie, intenti, commerci, in fine con tutto quanto forma la trama del vivere civile se non contrario, almeno diversissimo, non si sarebbe potuto ordinare in modo uniforme: secondo lui, avrebbe dovuto costituirsi in federazione di repubbliche, debole stato in vero, di faccia ai potentissimi che si erano formati o stavano per formarsi a canto alla Italia, dove non si fosse rinvenuto un ordine di governo il quale, lasciando alle singole repubbliche facoltà e modo di reggersi liberissime su certi conti, per altri poi le stringesse in vincolo siffattamente poderoso che dentro paressero molte e fuori una sola; nè lo ingegno italiano comparire fin lì impoverito tanto da non sapere immaginare di simili arti di stato. — Lione, ch'era prete, anzi frate, dacchè l'ordine dei cavalieri di Rodi, al quale egli come priore di Capua apparteneva, si considerasse monastico, rispose che quanto a papa ei se ne curava come della prima palla che gli passò vicino al naso; lo lasciasse con ambedue le potestà spirituale e temporale, ovvero gliele togliesse, a lui non premere nulla: rispetto al governo da darsi all'Italia pensava non dipendere da loro, nè per ora potere presagire come sarebbero rimaste le faccende e lo stato degli animi adatti a sostenere un reggimento piuttostochè un altro: sembrargli strana la fantasia di taluni che si professano sviscerati della libertà e poi anticipatamente fermano tra loro la forma di governo che intendono impartire al popolo; e non capiscono che libertà costretta e tirannide sopportata arieggiano così che paiono sorelle nate ad un parto: quanto a lui però repubblica o monarchia, una sola repubblica ovvero parecchie non premergli affatto; questo altro poi importargli, vendicare il sangue del padre e costituire l'Italia in istato da sostenere l'urto di Francia e di Lamagna: avrebbe inteso volentieri come questo si potesse conseguire e qual parte ci avesse egli a pigliare. Allora Francesco Burlamacchi peculiarmente gli favellò dello stato non pure d'Italia, bensì della Europa con assai più di acconciatezza che io non abbia saputo fare in questo libro, di che assai si maravigliò il priore, conoscendo a prova quale e quanta fosse la sagacia di lui; e poichè, concordando nei generali su quello che gli era andato esponendo, desiderò conoscere nei particolari il modo di ridurre in atto il disegno, quegli rispose: — «Anco qui l'obietto è doppio, in casa e fuori; in casa penso io ad appiccare fuoco alla girandola, fuori dovete pensare voi prima, ed un poco io. Il modo di riuscire in casa, uditelo, è questo: voi avete a sapere come io sia Commissario delle Ordinanze delle battaglie di Montagna; quantunque io abbia dalla primissima età esercitato in patria con diligenza ed amore parecchie magistrature, altra mira io non ebbi eccetto quella d'impadronirmi di cotesto arnese; nè mi fu avversa la fortuna, chè Giovambattista Boccella anziano e comandante generale, avendomi messo fede, tolse sopra di sè di farne la proposta in consiglio e spuntarla, come di vero accadde. Creato commissario, mi applicai con tutti i nervi a prevalere su gli altri e mercè di non piccolo sforzo ne venni a capo, imperciocchè a loro preme buscare la paga e scansare la fatica; però io governo a mio talento a un bel circa sei mila soldati, buona e cappata gente; a Borgo a Mozzano ne stanziano 1400; al ponte a Moriano 200, altrettanti a Colle e al Ponte di San Pietro; altre altrove. Ora Lucca nella massima parte è disposta a seguirmi; all'altra parte non manca volontà ma coraggio; ma forse anco la prima, se non riesco, mi si volterà contro: le sono cose note, la fortuna lega e scioglie. Amici fidati si accontano meco per tutta Italia, precipuamente a Pescia, Pistoia, Prato, Barga e Pisa: nè mancano a Firenze: i fuorusciti Sanesi non hanno mestieri eccitamenti, pure io mi studio a fare sì che non assonnino, tenendoli sempre agitati fra la speranza e il timore; taccio di Perugia, di Bologna e, che più? di Roma. Il mio disegno semplicissimo è questo: sul finire di aprile o sul principio di maggio, e così mentre il malcontento dei popoli dura a cagione della carestia del grano, la quale non può essere anco lenita dalla nuova raccolta, sotto pretesto di rassegna mi riconsiglio radunare tutte le ordinanze sul prato grande che giace fra le mura di Lucca e Sant'Anna, pigliarne il comando e indirizzarlo dove io intendo.....» Qui lo interruppe Lione dicendo: «Ma, se non erro, i commissari di queste ordinanze sono parecchi: o come potrete voi comandarle tutte?» «Veramente sono tre, ed havvi eziandio il comandante maggiore Boccella ch'io vi ho detto: ma ciò non rileva; già vi affermai ed ora vi ripeto che gli altri commissari assai deferiscono a me, pure ciò metto da parte; io procurerò che le ordinanze tardino a venire, sicchè la rassegna non si faccia che la sera verso il calare del sole; poi tanto le tratterrò sul prato che, venuta l'ora del chiudere le porte, gli altri commissari, smaniosi di tornarsene a casa per cavare la moglie di pena, se ne vadano pei fatti loro e mi lascino solo.» «Bene sta, soggiunse Lione; ma come vi ripromettete che vi seguitino le ordinanze? Le poneste a parte del disegno, ovvero lo ignorano?» «Ignari tutti, e non vi ha alcuno che non lo sappia; conosco gli animi e le voglie loro, essi i miei, senza parlare c'intendemmo; taluno poi dei caporali saprà quanto occorre a suo tempo: per ora giova che sia così. Ad ogni modo, scesa la notte, io darò loro ad intendere, ed essi ci crederanno o fingeranno crederci, di condurli alla mia villa di Santa Maria in Colle, ma intanto che saremo in cammino mi farò arrivare un cavallaro della Signoria apportatore di lettere che comandino ai commissari andarsene subito subito con tutte le milizie a guardare i confini a cagione di minacciate scorrerie dei soldati del duca Cosimo dal lato di Pisa: a questo modo confido condurre la gente senza intoppo di sorte sul monte San Giuliano, al tutto sprovvisto di presidio; potrei passare anco da Ripafratta, anch'ella indifesa; tuttavia qualche soldato a guardia ci hanno pure messo, ed io intendo arrivare a Pisa inaspettato: nondimanco avrei eziandio provveduto che il colonnello di Camaiore con la sua ordinanza si aprossimasse al monte Quiesa, e quinci costà a monte prendesse la via di Pisa per farci la massa della gente onde volgermi grosso a Firenze quanto più mi verrebbe fatto.» «A Pisa voi non potrete giungere che a notte avanzata: come farete a penetrarvi? forse come Arato vi provvederete di scale?» «Non ce ne ha mestieri, avendo io notato come a Pisa non si costumi a modo di Lucca, voglio dire che le chiavi delle porte si consegnino tutte le sere alla Signoria, e fino alla mattina a giorno non si aprono: costà si lasciano le chiavi in mano ai gabellieri, i quali, quando arriva qualche gentiluomo in posta e chiede essere intromesso, gli aprono senza difficoltà. A voi, uomo uso agli sbaragli, mi passo dire il restante; i gabellieri non resistono, andiamo oltre; si oppongono, disperdonsi; scorrendo la città si chiama il popolo col vetusto grido che fece e confido farà palpitare Pisa come se fosse tutta di carne ed avesse un cuore: — Popolo, popolo e libertà! — Non sorgerà inaspettato, io ve lo giuro, nè desterà verun Pisano dal sonno, chè tutti lo attenderanno a gloria.... « — E la cittadella? « — Alla cittadella, rispose il Burlamacchi abbassando la voce, adesso[21] è preposto Vicenzio del Poggio di nazione lucchese e mio devoto; dove mai ne fosse rimosso, poco preme, scarsissimo è il presidio, e il nostro moto deve subito dilatarsi a mo' di polvere cacciata dal vento pei campi aperti; lasciativi in questo caso un trecento soldati dattorno, con gli altri mi avaccerò per Firenze, dove spero entrare senza colpo ferire perchè il duca preso alla sprovvista si troverà povero di partiti, la gente levata a smania di libertà, il tiranno traballante in casa, fuori minacciato di essere chiuso dal contado in arme, i nemici sul collo e armati di ferro e di furore, gli amici lontani; se mai gli metteremo le mani addosso.... « — Lo consegnerete a me....? « — Lo consegneremo a voi. — « — Ma e noi come potremo sovvenire la impresa? « — In molte maniere: primieramente apparecchiando le vostre galere e sorgendo con gente da sbarco la foce dell'Arno per gettarla a terra al primo annunzio del successo rivolgimento: anco potreste levar gente in Pontremoli e in Garfagnana, e di questa pigliare il comando lo strenuissimo messer Piero; io procurerò gli si aggiungessero le bande della montagna di Pistoia, ed anco gli cedo di grato animo il comando delle mie. — Mi hanno altresì informato che messer Ieronimo Pepoli, il quale adesso milita come capitano generale dei Veneziani, uomo di molto seguito su la montagna bolognese, potrebbe tornarci di grandissimo sussidio dove noi sapessimo tirarlo dalla nostra.» « — A questo non bisogna pensare nè manco», rispose acerbo Lione, sicchè il Burlamacchi, senza poterne penetrare le cause, si accorse che aveva messo un dito dove gli doleva; però riprese: «Un'armata francese in qualche porto del Sienese sarebbe la mano di Dio.... « — Dei Francesi non bisogna fare capitale; essi non si movono mai se pure non abbiano il guadagno in mano o il malanno sul collo.» « — Pazienza, faremo da noi: però importa che voi mi forniate di danaro; non troppo, ma pure non soverchio per me che ho da spartire con cinque fratelli e fin qui ho speso sempre del mio: basterà un quattordici o un quindicimila ducati.» « — Questi non mancheranno, ma per voi quale premio vi serbate?» « — Io? La coscienza di fare opera buona in pro' della patria e della libertà: la fama che mai non si scompagna dalle onorate imprese, sia che la fortuna le avversi, o discorde da sè le secondi.» E alzati gli occhi, gli ficcò in quelli di Lione; entrambi gli sguardi s'incontrarono così vibrati che, se fossero stati ferri, avrieno mandato faville. « — Messere Francesco, Dio vi aiuti come siete un'anima romana per miracolo rimasta sopra la terra: or ditemi e quando avvisereste di mettere mano alla impresa?» « — Più presto che faremo, e più avremo venture a pro' nostro. Vi toccai della diffalta dei grani, la quale, oltre al malcontento che genera nei popoli, impedisce si approvvisionino le piazze; e poi corriamo un'altro pericolo, ed è che siccome i cittadini si succedono nella nostra repubblica agli uffici con vicenda brevissima, così io posso sortire anziano per due mesi ed allora cesso di esercitare durante cotesto tempo il commessariato delle milizie, chè i due carichi vietasi cumulare; ancora, senza presumere soverchio di me, potrebbe accadere che mi eleggessero gonfaloniere, chè allora lo stroppio si faria maggiore, avvegnachè al supremo magistrato non sia concesso finchè dura in carica uscire di palazzo: non vi assicuro che ciò non avvenga, ma questo allora non accade senza pericolo e sempre con difficoltà grandissima. Degli altri pericoli non tocco: quanto a me ormai ho messo a repentaglio la vita, ma voi prudente conoscete quanto sia funesto protrarre di simile ragione imprese: a maggio fioriscono le rose, a maggio torni a germogliare la libertà della patria.» A Lione parve, e veramente era, troppo breve il tempo, conciossiachè fosse di mestieri apparecchiare i danari, che si prevedeva non dovere essere pochi, avendosi, oltre quelli domandati dal Burlamacchi, a provvedere per le galee del priore, per le bande che avrebbe messo insieme, per le armi, per le munizioni e per le altre necessità tutte che si tirano dietro faccende di tal sorte. Non potere egli fratello cadetto imbarcare casa sua in ventura tanto zarosa, senza prima farne motto a Piero, il quale per essere maggiore, e per altri rispetti bisognava consultare. Più che tutto poi gli faceva forza il pensiero che adesso non si verificasse il dettato che il pericolo sta nello indugio; perchè ormai l'elettore di Sassonia essendo vicino ad ingaggiare battaglia con Carlo imperatore, per quanto era dato supporre, lo avrebbe vinto, conducendo egli, secondochè porgeva la fama, niente meno che ottantamila fanti e diecimila cavalli: se questo presagio si avverava, a parere suo si sarebbe di molto agevolata la impresa e vinta quasi a man salva. Al contrario il Burlamacchi osservava: «Io per me credo all'opposto, e, se non vi tedia, vi chiarisco in breve delle ragioni della mia sentenza: delle due cose l'una, o lo imperatore vince, ovvero perde: se vince, di siffatto negozio non è più a parlarne; neppure se perde, non per questo andrà in pezzi lo impero e molto meno casa d'Austria; subentrerà alla guerra grossa la guerra varia, moltiplice, minuta, nella quale i soldati italiani, massime ausiliari, non saranno adatti nè desiderati; però i superstiti torneranno in Italia, dove, comechè stremati, pure si troveranno bastanti a presidiare le città che adesso ne sono sprovviste; onde a noi la impresa riuscirà più difficile e certo non senza molto sangue, che adesso si potrebbe risparmiare.» Lione se rimanesse o no persuaso ignoriamo, questo altro sappiamo, ch'egli confermò lì su due piedi mancargli denari e le altre provvisioni di cui già aveva toccato: il Burlamacchi tornasse a Lucca a studiare il buono esito del movimento; dall'altra parte egli Lione non si sarebbe rimasto di affaticarsi notte e giorno perchè ogni cosa andasse presto e bene. Su questo lasciaronsi dopo reiterate salutazioni ed augurii buoni. Lione rimase maravigliato della virtù e della sagacia dell'uomo, dicendo poi che ad emulare ed anco vincere gli antichi personaggi a lui non era mancato che la fortuna. Tornato a Lucca senza dare ombra della sua andata a Venezia, con la consueta cautela gli antichi amici confermò, altri si mise intorno a cercarne, non solo in Lucca, bensì fuori nelle città toscane, massime a Firenze; se non che, mentre si affatica nel suo intento, ecco la fortuna tirare lui repugnante in su per farlo cascare di più alto; quello che presagiva avvenne; pel luglio e per lo agosto del 1546 fu tratto dei Signori e indi a breve, morto prima di entrare in ufficio Baldassare Montecatino, con universale soddisfazione lo elessero gonfaloniere: pareva che questo ufficio dovesse agevolargli il disegno, ed invece fu causa della sua ruina; e in breve dirò il come. Intanto, considerando com'egli solo non potesse fare e che chi ha tempo non aspetti tempo, con lettere e con messaggi serpentava Lione a Venezia a battere il ferro caldo: non essere mestieri tanti ammanimenti, chè il danno dello indugio non compensava il vantaggio delle forze maggiori, le quali si avrieno potuto raccogliere; e perchè qualcheduno gli stesse d'intorno a non lasciarlo assonnare, ci mandò Cesare Benedino dandogli una cambiale tratta sopra Lione di scudi centocinquanta, che gli venne senza eccezione debitamente estinta: al suo ritorno interrogato che cosa fosse ito a fare a Venezia e perchè tanto ci si fosse trattenuto, rispose essere andato per provviste di tinte, di cui è copia in cotesto mercato per venirci da tutte le parti di levante. Però anche questi nuovi eccitamenti non approdarono a nulla, dacchè il priore, o per volontà propria o per commissione altrui, girava nel manico, ponendo innanzi per procrastinare ora questo ed ora quell'altro pretesto. CAPITOLO VII. Le passioni umane di che ragione sieno. — Chi fosse Andrea Pessini, e suo carattere morale. — Cagione per la quale il Pessini si consiglia di nocere al Burlamacchi. — Imprudenza del Benedino, che in lui si confida; il Pessino cavalca a Firenze; tradisce patria ed amico rivelando tutta la congiura al duca Cosimo, che ha paura e dissimula. — Tristizia dei tempi, ai quali possono solo paragonarsi i nostri. — Se possa, essere vero che il Pessino confessasse al Benedino il suo tradimento; com'è verosimile se ne accorgesse il tradito; il Benedino ne porge notizia al Burlamacchi; quali le parole e le deliberazioni di lui; è statuita la fuga e il modo per eseguirla. — Scrive lettera alla Signoria con la quale purga da ogni complicità amici e parenti; se solo accusa: generosità adoperata verso l'Umidi sanese, e codardia del medesimo. — I magnanimi sensi del Burlamacchi derisi dai bracchi del principato. — L'Umidi svela la congiura a Bonaventura Barili cancelliere della Signoria. — Provvisioni del Burlamacchi per accertare la fuga, ed ordini che dà a Baccio donzello. — Il Burlamacchi tarda a presentarsi alla porta San Pietro, e discorsi che ne hanno fra loro Baccio e il Benedino. — Preteso imbroglio dei preposti alla custodia delle porte se verosimile. — Francesco esce di palazzo a sera, aspetta nel cortile il cugino Garzoni, che venuto esce con esso; racconto del Burlamacchi inverosimile, ma fatto a posta per salvare il cugino Garzoni: come si può supporre che accadesse il caso. — Il Burlamacchi, trovando impedita alla fuga la via, torna indietro; va a casa sua; consulta di parenti, che lo consigliano rientrare in palazzo. — La Signoria manda per esso, ed egli va: terrore e viltà dei Signori non intesi della congiura, smanie paurose dei complici; tutte si appuntano a danno del Burlamacchi. — Magnanimità di questo, che dichiarava ignari tutti della sua trama, egli solo colpevole; dopo molte ambagi gli anziani lo fanno condurre alle sue stanze e guardarlo a vista; distrugge carte e ogni altro testimonio della sua impresa. — Consulta del consiglio, dove si propone sostenere prigione il Burlamacchi: esquisite cautele che si adoperano perchè non fugga e non si ammazzi. — Giusti timori degli anziani esposti; mandansi oratori ai diversi principi ed al concilio di Trento; a Cosimo spediscono il più astuto dei cancellieri. — Raccomandazione ai cittadini lucchesi stanziati in paesi stranieri di difendere dalle accuse la Repubblica. — Colloquio fra il cancelliere lucchese e il duca Cosimo; la batte tra pirata e corsaro: non si conchiude nulla. — Il duca per isgarrarla invia alla Repubblica oratore messere Agnolo Niccolini, e si conchiude anco meno. Le passioni sembra che nel nostro cuore nascano gemelle; o se pure sola ci comparisce una passione, tosto ella da per sè si feconda e ne genera altre: questo dicasi così delle buone come delle ree finchè l'uomo non riesca conformato pienamente secondo la propria natura. Altrove affermai come in gioventù sia più cosa la libidine, nella vecchiezza l'avarizia; ma e l'una e l'altra si ammogliano ad altre parecchie. Però sovente crede chi osserva alla grossa che sia accaduto nelle passioni un tramutamento, e non è; rimangono invece quali erano, e o si applicano diversamente, ovvero, non essendo state considerate oltre la scorza, ora paiono diverse. Questo accadde al povero Cesare Benedino, il quale aveva preso dimestichezza con certo Andrea Pessini e, reputandolo buono non meno che bravo, lo amava per traverso la vita. Andrea, frequentando la gente manesca, aveva una tal quale prestanza acquistata, ma più di lingua che di mano; pure anco di mano: compagnone oltre il dovere; a passatempi e a stravizzi immancabile; era più facile a Lucca trovare una osteria senza la immagine del Volto Santo che senza il Pessini, giocatore e perditore disperato; prodigo del suo, contro la ordinaria indole dei Lucchesi, non liberale, onde in un punto stesso o con intervallo breve lo provavano taccagno e sciupone; ma fra la gente pari sua godeva fama di generoso, imperciocchè in compagnia la vanità vinceva la sordidezza, se si giudicava inosservato, allora la sordidezza pigliava il sopravvento alla vanità; siccome poi ogni giorno più la sua sostanza si riduceva al verde, l'agonia della imminente inopia gli andava scanicando lo intonaco di onestà, e più ampie nella bruttezza si palesavano le turpitudini dell'anima sua. Forse se Cesare avesse potuto stargli del continuo allato, si sarebbe accorto di cotesta trasformazione; ma essendosi egli assai travagliato in continui viaggi, poco ci aveva avuto usanza negli ultimi tempi; però quando prima lo vide, malgrado gli ammonimenti gravissimi di non aprirsi se non a persone di fede provata, riputando ch'ei fosse proprio il caso, gli confidò il disegno del Burlamacchi, sicuro di averlo compagno alla impresa. Il Pessini senza farsi pregare ci entrò dentro fino al manico per la ragione che i garbugli approdano ai malestanti, e presentendo quasi per istinto che un qualche brindello gliene sarebbe rimasto in mano; da una parte e dall'altra raccomandazioni e promesse e sacramenti di prudenza e di audacia, di segretezza e di solerzia per procacciare congiurati alla impresa: cose tutte che stanno insieme come l'acqua col fuoco, ma che paiono agevolissime a conseguirsi dalle menti esaltate. Ora, mentre Andrea ustolava per mancanza di danaro, avvenne un caso mercè del quale sperò rimpannucciarsi e andare avanti aspettando il meglio. Era rimasta orfana in età pupillare Giulia figliuola di Bastiano Giustiniani di Rôcca Tagliata sua nipote, assai bene provveduta di sostanza; ond'egli, senza frapporre tempo, andato a torsela, se la recò a casa non si dando pensiero se lo potesse o no fare e se alla giovane garbasse ovvero repugnasse starsi con lui. Gli è più che verosimile, anzi l'ho per certo, che se la fanciulla fosse stata ignuda di ogni ben di Dio, i parenti sarieno rimasti coll'acqua in bocca, e gli zii paterni o avrebbero finto non ricordarsene od anco giurato di non essere parenti; ma l'interesse riscalda il sangue, onde saltò su un Agnello Pessini come più prossimo congiunto a pretendere la tutela per sè. Non mi è chiaro del perchè questa causa fosse sottomessa alla decisione del Burlamacchi; forse in Lucca il magistrato supremo, ch'era il gonfaloniere, come in Inghilterra nei tempi antichi il re, esercitava giurisdizione sopra la persona e i beni dei pupilli: fatto stà che il Burlamacchi, pigliata cognizione della faccenda, sentenziò non Andrea, bensì Agnello avesse ad essere tutore dell'orfana e per sequela amministratore della sostanza di lei, ad Agnello e non ad Andrea spettasse il diritto di custodirne la persona e nella propria casa ricoverarla. — La sentenza era giusta, ma la giustizia o la ingiustizia delle decisioni non importa ai litiganti, i quali non badano ad altro che al danno o al lucro: e il danno tanto più mordeva doloroso Andrea quanto maggiore il fuoco della miseria gli scottava i piedi; e poi per mente accecata qual'era quella di costui c'incastrava benissimo il sospetto che Francesco Burlamacchi gli avesse fatto torto, conciossiachè Agnello gli fosse per parentela congiunto e la sua casa in qualità di avvocato difendesse. Pertanto mossero Andrea Pessino a vendicarsi del Burlamacchi la persuasione di patita ingiuria, la miseria venuta in fondo e la cupidità di rifiorire in auge, sicchè, come vedete, di cause ce n'erano anco troppe: poteva avvertire al danno ch'egli apportava alla patria, ma il Pessini e chi gli rassomiglia non conoscono la patria: anco doveva percotergli la mente la cara immagine dello amico, ma non ci pensò neppure. Calata la sera, se la svigna da Lucca e, tolto a nolo un cavallo, cavalca forte prima a Pisa, poi a Firenze, dove giunto la mattina per tempo senza pure scotersi la polvere da' panni, si presenta al palazzo del duca Cosimo chiedendo con ardente pressa volergli favellare per cosa di stato. Il duca, che, a mo' dei tiranni, massime dei nuovi come lui, dormiva nella guisa dei lepri, ordinò di subito s'intromettesse, ed il Pessini dopo essere stato frugato dal capo alle piante entrò nella stanza, dove a parte a parte espose la trama ordita dal potente ingegno del Burlamacchi; la quale udendo, il duca si turbò nel profondo, pure uso a contenersi fe' vista di dare in risa sgangherate sclamando di tratto in tratto: «Oh che pazzo! oh che grullo!» ma dentro tremava[22]. E pur fingendo di tenere la cosa per inveceria, si buttò giù da letto, e vestitosi in meno che non si dice un _Credo_, ragunò i suoi segretari, i capi dell'arme e i cittadini complici col principato per avvisare insieme intorno ai provvedimenti da pigliarsi in così momentoso accidente. Al Pessini fu intanto ordinato di non partirsi da Firenze, allogandogli stanza in apparenza onorata, in vero prigione; e così rimase finchè non fu chiarito il caso: allora il duca gli diede ufficio in corte e stipendio a bastanza largo. Cotesto pane d'infamia ed intriso di sangue avrebbe dovuto bruciargli le viscere; a lui non bruciò nulla: bevve e morì; questo il suo epitafio sopra la tomba: la fortuna in ciò gli fu cortese che lo spense quando rilassato non poteva più bere nè satisfare alle parti turpissime del corpo: la coscienza in lui non visse o, se pur visse, era morta prima di lui: che fosse fama non seppe mai, e se lo avesse saputo, non correvano tempi che avesse valore: preti e Spagnuoli e tiranni domestici; gara di titoli e di servitù; il valore ristretto nel braccio del sicario, chiesa e bordello, empio tutto, e più di tutto la religione; rei gli amori, rei gli affetti; in mezzo a questi elementi di vita civile a che pro la fama? Taluno dei cronisti racconta come il Pessini, dopo consumato il tradimento a Firenze, tornasse a Lucca, dove, rimorso dalla coscienza, tirato da parte il Benedini, lo ammonisse di quello che aveva fatto raccomandandosi a mettersi in salvo. Ciò non sembra consentaneo al vero; imperciocchè il Pessini avrebbe dovuto repugnare da un lato a simil passo per tema di avere per risposta di un coltello nel cuore; e dall'altro il Benedini, uomo di arme e animoso, quantunque artefice adesso, era ben difficile che si tenesse le mani. La comune opinione apparisce più vera, la quale riporta che il Benedino, confidato appena il segreto al Pessini, questi prendesse a mostrarsi meno, ed anzi gli parve ch'ei lo scansasse; parlandogli della impresa lo trovava svogliato e più volte si mostrò con lui intimorito del male che potesse incoglierlo per non avere rivelato la congiura: per la quale cosa il Benedino, presolo in sospetto, incominciò a codiarlo, sicchè tosto venne a sapere com'ei si fosse allontanato da Lucca; di che egli concepì spavento grande, temendo, come pur troppo ei si apponeva, che ei fosse andato a porgerne avviso al duca di Firenze; e reputandosi come giudicato, tutto commosso si portò a trovare Francesco, a cui con molte lacrime, chiedendo perdono, aperse ogni particolare del caso. Francesco, a sua posta turbato, dopo essere stato alquanto sopra di sè, disse: «Dal principio della congiura io giudicai che la fallita impresa aveva ad essere la mia tomba, ma ad uomo cristiano non lice darsi la morte; questo, che fu reputato eroico presso i gentili, condannano gli evangeli sacrosanti; e per altra parte aborrisco gli strazi a cui mi sottometteranno se mi pigliano; nè mi posso ripromettere che la natura non ceda alla gran forza dei tormenti, donde verrebbe a me infamia, altrui danno: arrogi che veruno crederà, se io non lo affermi apertamente, la mia patria innocentissima della congiura, onde questo mal falco di Cosimo ne caverà argomento di calunniarla presso l'imperatore che il papa e tante ne dirà e tante ne inventerà che non si rimarrà contento finchè non l'abbia ridotta in servitù, scopo supremo che con tutti i nervi prosegue. Or dunque facciamo il viso dell'arme alla fortuna avversa. Tu sai, o Cesare, come io di palazzo non possa uscire, chè a me gonfaloniere lo vietano le leggi, e la notte stieno chiuse le porte della città: però non posso tentare di salvarmi con frutto, eccettochè verso l'un'ora notte e così alquanto prima che tirino i chiavistelli e portino la chiave in palazzo: per la quale cosa tu fa di trovarti a cavallo, con altro cavallo a vuoto per me; procura che sieno buoni corridori ed abbiano balía per durare; e con lo aiuto di Dio ci salveremo. La porta donde mi consiglio uscire fie quella di S. Pietro; verrò _imbalacuccato_; e per segno, affinchè tu possa riconoscermi, porterò o panno o piuma bianca al cappello. Or va' pei fatti tuoi e non ti peritare; il peggiore dei mali è la paura, che a' veri e non piccoli arroge i falsi sterminati.» Rimasto solo, scrisse lunga e circostanziata lettera alla Signoria, nella quale, dopo narrata la impresa cui disegnava condurre a compimento, sè chiamò solo in colpa, veruno fin lì congiurato con lui, perchè, essendo lontano da eseguirla, si era guardato da confidarsi a persone che per tristizia o per levità di animo avessero potuto tradirlo: e poichè sopra gli altri egli praticava coi fuoriusciti sanesi, allettato dai piacevoli loro costumi e dalla dolce favella, così gli correva l'obbligo, per isgravio di coscienza, dichiarare come a veruno di essi avesse scoperto il concepito disegno: non recassero loro molestia, chè sarebbe stata, facendolo, pretta perversità. Non istessero a sbracciarsi in indagini a danno dei cittadini, i quali egli intendeva cogliere alla sprovvista e strascinarli seco con la forza, il terrore e la maraviglia. — Tutto ciò esponeva con efficacissime parole ed affermava con solennissime proteste. Dopo questo, chiamato a sè Giovambattista Umidi, che, come dicemmo, per anni e per esperienza aveva credito capitale presso i fuoriusciti sanesi, gli confida il caso in cui ei si versava e poi lo conforta a starsi di buono animo, avendo procurato di scolpare lui ed i compagni suoi da ogni addebito: a questo fine gli fece leggere la lettera che lasciava per la Signoria; ed aggiunse consigli e norme in virtù dei quali egli ed i compagni suoi potessero tirarsene fuori senza un pericolo al mondo. Insomma l'egregio uomo fu visto affaticarsi smanioso perchè quanti si accontarono con lui andassero immuni da ingiuria, sopprimendo ogni traccia di congiura ed ogni indizio a carico dei cittadini: certo intese a salvarsi, però con questa ragione, che, dove mai la fortuna lo tradisse, il capo suo pagasse per tutti; onde il Cini nella vita di Cosimo dei Medici, nel raccontare questo caso, oltraggia Francesco perchè, «così scioccamente tardando e pensando a salvare più i Sanesi che sè stesso, sè miseramente perdeva.» Bene stà, chè al servo del tiranno le opere generose dell'uomo libero, quando non paiono delitti, sono errori. L'Umidi, imbelle per indole, abbiosciato per la età, alla ingrata notizia batte i denti; per amore di pochi giorni di vita, ecco perde le cause del vivere e la fama; della mente cieco, tremando per tutte le membra, si parte dal gonfaloniere e vassi difilato da Bonaventura Barile cancelliere della Signoria e gli spiattella ogni cosa, sè con le lacrime agli occhi affermando innocentissimo di ogni trama. Che mai questa viltà partorisse or ora vedremo. Approssimandosi al tramonto il giorno 26 agosto 1546, il Burlamacchi, chiamato a sè Baccio Pierini, donzello preposto a custodire le chiavi delle porte nella camera allato a quella dove dorme il gonfaloniere, così gli disse: «Da' retta, Baccio, a quanto sono per dirti e bada di non fallire; quando stasera sarai per serrare la porta di San Pietro, fa di traccheggiarti alquanto più dell'ordinario, e quando vedrai appressarsi per passare un uomo, turato non gl'impedire la uscita, anzi anco al commissario della porta ordinerai da parte mia che lo lasci andare oltre liberamente, imperciocchè si mandi fuora da noi per cose che importano a noi ed ai segretarii nè manco tu e il commissario curatevi conoscerlo, che tale è la volontà nostra: hai capito? — Messere, sì, e sarà fatto.» E Baccio veramente da fedele servitore adempì quanto gli era stato comandato: andò di passo nell'ora assegnata alla porta, si trattenne a ragionare col commissario della buona raccolta primaticcia, su le speranze della serotina, e co' discorsi menava il can per l'aia; all'ultimo affacciatosi alla porta, vide Cesare Benedini incavallato con un altro cavallo a mano con le staffe incrociate su la sella; onde sospettando ch'egli stesse alla porta per aspettare l'uomo del gonfaloniere, gli disse aperto; «O Cesare, state aspettando costì l'uomo che ha da mandare il gonfaloniere?» A cui il Benedino rispose: «Per lo appunto, ma si fa tardi, e lo aspettare mi tedia; pregovi in cortesia che inviate subito subito un targetto dal magnifico per sollecitarlo a spedire il messaggio, perchè qui a lungo con la porta aperta non possiamo aspettare.» «Giusto, gli è quello che diceva ancora io; io farò come avvisate.» Per la quale cosa, chiamato ad alta voce il targetto Gattaiola, gli ordinò andasse difilato al palazzo per dire al gonfaloniere che non mettesse tempo tra mezzo a spedire il suo uomo. Qui dicono taluni cronisti che il targetto prima di partirsi per fare la commissione avvertisse il commissario a non lasciare che persona alcuna uscisse fuora di città; non già che stesse in facultà sua dare siffatti comandamenti, ma così volle il destino o piuttosto la provvidenza per preservare dagli estremi mali la città; e si ravvisò inoltre il dito di Dio in questo altro accidente, e fu, che il targetto non solo diede l'ordine senza facoltà, ma lo diede alla rovescia; ed aggiungono ancora che così pure intendesse Baccio; in siffatta guisa la raccontano parecchi cronisti, ma a me queste cose paiono novelle. Fatto stà che il gonfaloniere uscì di palazzo alle ventiquattro ed un quarto, e sceso nel cortile, vi si fermò alquanto aspettando Ludovico di Garzone Garzoni suo cugino, a cui poche ore prima aveva dato la posta; e siccome costui indugiava, e ad esso premeva partirsi, gli mandò un targetto per sollecitarlo; indi a breve essendo comparso Ludovico, uscì insieme con lui dal cortile per la porta di dietro, la quale egli aveva ordinato tenessero aperta a suo libito: su la soglia egli licenziò i targetti che andavano seco, i quali costumavano accompagnarlo ogni volta notte tempo recavasi a casa sua. Ricavo dalle dichiarazioni fatte da Francesco nel suo processo come, andando per via, egli per la prima volta significasse al cugino i suoi disegni, il caso successo e la necessità di sottrarsi con la fuga allo imminente castigo; dal quale proponimento il Garzoni si studiò con ogni maniera persuasioni distorlo, ma egli come uomo deliberato non gli diede retta, proseguendo sempre il suo cammino finchè, giunti in prossimità della porta di San Pietro, egli tolse commiato da lui, avviandosi solo verso quella tutto turato dentro una cappa, col cappello chino sul volto. Costà giunto mentre domanda passare, glielo vietano; il donzello Baccio cerca e non trova; insiste su l'ordine trasmesso dal palazzo di lasciare libero il passo ad uomo che esca imbacuccato, e rispondono di palazzo essere stato ricapitato loro l'ordine opposto, vale a dire s'impedisse a tutta persona l'uscita: messo così con le spalle al muro Francesco si diede a conoscere, ma non approdò: allora, accortosi della sciagura, rifece i passi. Comechè questo racconto noi caviamo dalla Cronaca manoscritta del Civitali, non che dalle medesime confessioni di Francesco Burlamacchi, assai di lieve si comprende com'egli sia monco ed alterato; invero grave cosa è credere a tutta quella gaglioffaggine del donzello e del targetto che intendono alla rovescia; ad ogni modo in caso ordinario aríeno pur dovuto obbedire al gonfaloniere ora che se lo vedevano lì dinanzi per farli capaci della diritta: parmi chiaro che ormai al commissario della porta fossero giunti ordini terribili della Signoria per impedire la fuga del Burlamacchi; che se non mandarono rinforzo di gente per arrestarlo, forse lo si vuole attribuire a paura di mettere il paese a soqquadro, ovvero alla perplessità nella quale i governi cascano quante volte colpiti da vicende inopinate abbiano a prendere provvisioni supreme; e dal modo in cui il Burlamacchi fa entrare nel negozio il cugino Garzoni tu vedi aperto com'ei tiri a salvarlo; e valga il vero, o che montava porre il Garzoni a cotesta ora bruciata a cognizione della congiura? O che premeva al nostro Francesco farsi accompagnare fin presso alla porta dal cugino? Temeva forse smarrirsi? Ignorava le vie di Lucca il Burlamacchi lucchese? Di palazzo imbacuccato certo non uscì; ciò avrebbe messo in suspicione i targetti: per me la posta venne assegnata al Garzoni per dare ad intendere ai targetti recarsi forse a cena in casa di lui e quindi non avere mestieri di altra accompagnatura; e in casa del cugino certamente andò od in altro più riposto luogo per mutare vesti e chiudersi nella cappa. — Conobbe Francesco per le tante disdette come la fortuna intendesse dargli l'ultimo crollo; onde senza sbigottirsi, accelerato il passo, raggiunse il Garzoni, col quale si ridusse alle proprie case, le quali tuttavia stanno in piedi a Lucca; nè sentendosi capaci a deliberare in cotesto tumulto, mandarono per Pietro Burlamacchi altro cugino di Francesco, che, venuto ed udito il caso, fu di avviso si avesse a consultare Nicolaio suo fratello. Piacque il consiglio, sicchè insieme uniti andarono a casa Nicolaio: colà, messa da parte ogni intempestiva querimonia, esaminata sottilmente la bisogna, spedita gente a speculare le mura e andatici eglino medesimi, con dolore inestimabile conobbero chiusa alla fuga ogni via: per meno reo partito confortaronlo a tornarsene in palazzo; di quanto fosse per succedergli poi non si pigliasse soverchio pensiero, imperciocchè con le aderenze, con le raccomandazioni e co' danari e' si facevano forti di levarlo d'imbarazzo: poichè non si presentava meglio, necessità non dà scelta; però, mentre ripiglia gli abiti civili a fine di recarsi al palazzo, ecco arrivare in casa Girolamo di Spagna coadiutore di cancelleria a significargli di presentarsi subito subito nel collegio degli anziani per trattare di negozi di stato. E il Burlamacchi non frapponendo indugio alla chiamata andò tosto e rinvenne gli anziani allibbiti starsi accalcati attorno a Bonaventura Barili, che per la ventesima volta ricantava loro quanto aveva partecipato a lui il vile Umidi. La paura talvolta si appunta con la virtù per suscitare nell'uomo la ferocia; e la Signoria di Lucca adesso era eroica di terrore: tremava pensando che lei incolperebbero complice del Burlamacchi; proteste e giuramenti non varrebbero a salvarla dal sospetto di reggere il sacco al gonfaloniere; come poteva egli nascondersi sempre agli occhi suoi? Se essa non complice, connivente almeno; e chi tale regge non merita reggere; forse non andrebbe immune da pena; ad ogni modo quelli gli ultimi giorni della Repubblica insidiata da Cosimo, in uggia allo imperatore. In cotesto amore di patria si mescevano il pensiero dei gravi balzelli che si tira sempre dietro il principato, la perduta autorità e le pungenti subiezioni dello schiavo; se ci era via di scampo, questa, non altra: dimostrare con atti atroci animo rigido contro il Burlamacchi, imperciocchè non sarebbe stato verosimile che i complici di lui volessero fare a fidanza sopra la sua sofferenza nè avessero a temere che nelle smanie del dolore non rivelasse la verità: certo la storia rammenta parecchi uomini e talune donne capaci di siffatto eroismo; ma per ordinario sopra le sublimi virtù, anzi divine, non si fa capitale; nè disposto a ciò egli od altri credeva: bisognava altresì che gli strazi comparissero a prova reali, onde Cosimo non ne cavasse argomento di malignare che l'erano lustre, epperò movesse istanza affinchè a lui lo consegnassero, chè egli avrebbe saputo spremergli sangue e verità. In questa sentenza concorrevano i più, come quelli che procedevano sinceri; taluno no, i quali pur troppo si trovavano con Francesco indettati, e nondimanco, per rimovere da loro ogni indizio, ora si mostrano più arrabbiati degli altri; non pietà gli si usi, non rispetto; tanto maggiore sia l'asprezza quanto più grande la fiducia: qual mestieri processo? A che interrogatori e difese? Col frenello alla bocca si conduca sotto la forca e impicchisi. Tu pensa, lettore, qual tremito nei muscoli patissero costoro; come per poco non si sfiancasse nei lor petti il cuore quando mesto sì, ma tranquillo si presentò dinanzi ad essi il Burlamacchi. Egli prevenne ogni disonesta ricerca; chiesto ed ottenuto silenzio, a parte a parte tutta la trama narrò ponendo diligentissima cura nello affermare sè solo colpevole, non avere compagni, anzi averli aborriti perchè fosse tutta sua la gloria della impresa: e parve bene dei magnanimi antichi quando affermò tutto piacergli nel suo tentativo, l'animo, il fine, la stessa morte; rincrescergli, e Dio sa quanto! se dovesse dalla non riuscita averne danno o molestia la sua povera patria. Coloro che col Burlamacchi non avevano mai consentito nè consentivano adesso, ammirarono la costanza e la generosità dell'uomo; gli altri non ammirarono nulla e, vie più temendo ch'egli mutasse di proposito, instavano perchè della capitale e meritata pena senza indugio si multasse; ma i primi prevalevano dicendo: Adagio ai ma' passi, e posto il dito giusto sopra la piaga replicavano: Il subitaneo castigo parrebbe vendetta, non giustizia, e peggio ancora gli avversari nostri non senza ragione sospetterebbero: lo hanno morto perchè non parli, sendo tutti tinti della medesima pece. Così mareggiando in diversi pareri produssero la veglia fino alle sei della mattina; allora, sentendosi rifiniti dalla fatica e dalla commozione, deliberarono andare a riposarsi, non però prima di aver preso tutte le cautele affinchè il Burlamacchi, fuggendo, non portasse via il più potente documento della propria innocenza, la vita di lui: ormai avevano compreso tutti come il miglior mezzo di scolparsi fosse levare le mani tinte nel suo sangue gridando: «_Non è colpa in noi_!» Pertanto gli anziani consegnarono il Burlamacchi a Sforza mazziero perchè lo conducesse nelle stanze del gonfaloniere e quivi lo guardasse a vista in compagnia di due targetti; se gli fuggisse, pena la vita. Prima cura di Francesco ricondotto nelle sue stanze fu cercare la lettera che innanzi la sua uscita di palazzo aveva scritto alla Signoria e trovatala bruciò: rovistato quindi e frugato ogni cosa, quanto gli occorse che potesse indurre remoto sospetto distrusse; assicuratosi che veruno documento avrebbe detto più o diverso da quello che avrebbe voluto confessare egli, dettò la dichiarazione la quale per me sarà riportata nel seguente capitolo; poi adagiatosi sul letto, dormì. Ma non dormirono gli anziani, stanchi invero, ma fieramente agitati da passioni diverse; però prima assai dell'ora in cui eransi data la posta convennero in palazzo; la paura non ha palpebre. Innanzi tratto ognuno portava nuova provvista di odio contro il Burlamacchi, cagione che il quieto loro vivere adesso si trovasse esposto a cimento, quindi suprema cura di tutti porlo in sicuro: per la quale cosa, radunato il consiglio maggiore, misero a partito, che fu vinto con tutte le fave, dal palazzo si trasportasse Francesco Burlamacchi nella torre con buonissima guardia, la quale lo custodisse a vista giorno e notte perchè non pure ei non fuggisse, che questo credevano difficile, ma nè anco potesse darsi la morte. A tale uffizio preposero Iacopo Lioni mazziere, dandogli certo numero di targetti che di due ore in due ore mutassero, e così vispi sempre lo tenessero d'occhio; ancora fecero espresso comandamento al mazziere che non pigliasse da casa sua nè da altri cosa alcuna così al vivere come al vestire necessaria, chè tutto aríeno provvisto gl'illustrissimi anziani. Di più costituirono Alberto Capparoni maestro di casa della Signoria alla custodia della torre, dandogliene la chiave, e lo stesso Burlamacchi consegnandogli per istrumento pubblico: il Capparoni accettò l'ufficio, o perchè non potesse fare a meno, o perchè piace a cui sta sotto saltare quando capita sul collo ai superiori, sia pure carceriere o carnefice; però ci pose per patto che gli fornissero gente da poterle rilevare, sicchè la squisita vigilanza non venisse mai a languire. I padri, consultato il negozio con più maturo consiglio, trovarono sempre maggiore argomento di spaventarsi: pareva loro impossibile che, correndo tempi pieni di mutazioni e vivendo uomini per natura e per abito sospettosi, si piegassero a credere Lucca incolpevole, anzi affatto inconscia della trama del suo gonfaloniere: se il papa o se l'imperatore pigliavano in odio la Repubblica, questa poteva apparecchiarsi a fare il suo testamento; e presso entrambi doppia l'accusa, epperò più difficile la difesa: al papa sarebbe premuto più la eresia, meno la ribellione, allo imperatore viceversa; la batteva tra la corda e la mannaia: quindi non è a dirsi se cotesti padri sentissero salirsi il freddo su per le ossa. Più che tutto tremavano di Cosimo duca di Firenze, genio malo; per istinto tigre, per potenza gatto; Tiberio nano, pure, non potendo sbranare, rodeva; e questa sua facoltà esercitava quotidianamente ai danni di Siena e di Lucca: a Siena rôse pur troppo: parricida, incestuoso, di eretici amico e ausiliatore, e nonostante questo ligio ai pontefici, zelatore di religiose susperstizioni e traditore del Carnesecchi. In tanto estremo loro non sovvenne lì su due piedi più sicuro consiglio oltre quello di mandare subito oratori ai principi italiani per giustificare la città e tenerseli bene edificati, sicchè tosto ne spedirono a Napoli, a Roma, a Genova, a Ferrara, a Bologna ed a Mantova: più solenne ambasceria fecero allo imperatore, nè trascurarono il concilio di Trento, presso cui ebbero difensore interessato sì ma efficace il cardinale Guidiccioni. Però sopra gli altri premeva Cosimo; onde statuirono spedirgli il più astuto dei loro cancellieri, e tale giudicarono che fosse Gherando Macarini: ancora mandarono significando ai cittadini lucchesi i quali o per ragione di mercatura o per vaghezza ovvero per ufficio si trovavano sparsi pel mondo che, per quanto avessero cara la patria e la grazia del senato, attestassero presso principi e repubbliche della innocenza della repubblica nello attentato del Burlamacchi; così i Lucchesi studiavano purgarsi dalla partecipazione del gesto generoso con la solerzia che il reo mette a scolparsi del delitto. I Lucchesi eseguirono il comando del senato con amore, se con frutto non so; fecero quello che i nostri diarii fanno, però gratuitamente, la quale cosa i nostri moderni diarii non fanno. Il cancelliere Macarini, giunto alla presenza di Cosimo, con prolisso discorso gli espose lo accaduto; il quale dopo ch'egli ebbe udito con singolare pazienza, rispose: «Lo sapeva; la è stata una follia, una cosa da non darsene pensiero: non ci ha mestieri sforzo di fede per andare persuasi che i Signori lucchesi, così compassati, usi a non movere passo senza il pegno in mano, volessero ficcarsi giù a scavezzacollo in siffatto selcieto. Cancelliere, non istate a spendere più altre parole, voi predichereste ai convertiti.» Al cancelliere Macarini venne tanto di cuore vedendo come agevolmente fosse riuscito nella sua commissione; e quasi stava per giudicare Cosimo migliore della sua fama, accorto sì, ma giusto principe, quando questi sempre con voce blanda soggiunse: «Però, cancelliere dolcissimo, voi comprenderete di leggieri col vostro savio intendimento che, come io, non tutti la crederanno secondochè voi la contate e com'è; però il meglio sarebbe che voi consegnaste a me il Burlamacchi, ond'io facessi fabbricare il suo processo qui in Firenze dai miei giudici; così veruno dubiterebbe che io ne avessi spremuto il vero, e vi so dire ch'io lo so spillare.» «La non pare proposta che cammini bene in gambe, imperciocchè ogni stato vada giustamente geloso della sua giurisdizione, e la Signoria Vostra Serenissima è qui per insegnarmelo», riprese il Lucchese mascagno. «Certo questo non si può negare, ma nei casi straordinari è mestieri regolarci come possiamo, non come vogliamo.» «Però io non mi persuado perchè altri deva diffidare della lealtà della Repubblica, molto più che noi circonderemo questo processo di tali è tante cautele da appagare i più sospettosi.» «Ed io pure adopererei come proponete voi: anzi io non mi oppongo a che i giudici sieno tanti e tanti; cioè mezzi lucchesi e mezzi fiorentini.» «Serenissimo, non sono i giudici quelli che mettono in pensiero, bensì la tortura, l'eculeo e gli altri tormenti di cui voi siete in abbondanza fornito.» «Forse ne vanno sprovvisti i vostri?» «No, ma voi sapete che tutto sta nello adoperarli.» «Or bene io mi obbligo, per fede a rendervelo vivo.» «Serenissimo, rispose il Macarini guardandolo dentro gli occhi, nell'attimo che precede la morte l'uomo non è vivo?» «Voi, ben me ne accorgo, a verun patto consentite consegnarmi il vostro gonfaloniere. Volete sapere che cosa ne dirà l'universale? Dirà che voi repugnate a lasciarvelo scappare di mano per paura ch'egli confessi cose le quali palesino la ribellione di cotesta vostra repubblica alla maestà dell'impero ed alla dottrina di santa madre Chiesa.» «Serenissimo, per quanto mi è dato conoscere, io vi assicuro diversa affatto la causa per cui i Signori rifuggono dal commettere in balía vostra la vita di Francesco Burlamacchi.» «E quale dunque? Parlate.» «Per obbedienza al comandamento della Serenità Vostra io parlerò: penso, e, così dicendo, se non imbrocco, rasento il vero, che i miei Signori temano che voi per forza di tormenti facciate dire al Burlamacchi non quello ch'è vero, bensì quello che gioverebbe al vostro fine di disservire la Repubblica presso l'imperatore e il pontefice. Per altra parte a me fa difetto la commissione per negoziare simile faccenda: piacciavi, se così vi talenta, indirizzarvi alla Signoria.» E Cosimo, che non si dava agevolmente per vinto, quindi a breve spedi suo oratore alla Repubblica messere Agnolo Niccolini, uomo sagace, devotissimo a lui, onde aguzzasse il suo ingegno per farglielo avere. Il panno mostrava troppo la corda, sicchè da un lato cresceva la tenacità a negarle alla stregua che dall'altro diventava più intensa la smania di volerlo. Parole molte, anzi infinite, scaltrimenti sottili e scherma da disgradarne i più scaltriti negoziatori, profferte e carezze, tutto riuscì invano: oltre alle ragioni già riferite, il Niccolini allegava come veruno meglio del duca fosse impegnato a scoprire proprio come la fosse ita la faccenda; e veruno essere provveduto meglio di lui degli arnesi adattati a questo. Lucca, luogo oltre ogni credere male acconcio a formare il processo; imperciocchè, messa da parte qualunque complicità dal lato dei concittadini e dei parenti del Burlamacchi, egli era naturale almeno che i congiunti, gli amici ed i clienti della sua casa e suoi di ogni pruno facessero siepe per arruffare le prove e sottrarlo al castigo: si lasciassero servire. Ma i Lucchesi, che non si volevano lasciare servire, volendosi salvare dall'ardente molestia, altro scampo non trovarono che dirgli: il fatto del Burlamacchi come attentatorio alla maestà dello impero doversi denunziare a cesare, il quale nel suo consiglio ordinerebbe quello che avessero a fare. — Cosimo sentì la botta; rise sottile, nè potendo pararla, risposo: «Giusto! Anco a lui pareva così: non si potevano i Signori riporre in migliori mani di quelle di cesare»; e volse raddoppiati i suoi conati in corte dello imperatore per avere il Burlamacchi, argomento per lui di terrore e arnese buono ad allargargli il principato. CAPITOLO VIII. Lucchesi, paurosi che il caso del Burlamacchi possa danneggiarli, fanno profferte vilissime a cesare. — Due volte mandansi oratori ai principi per tenerseli bene edificati. — Manoscritto originale del processo si conserva negli archivi di Lucca. — Quali le aderenze del Burlamacchi nelle città toscane. — Corrispondenze co' Sanesi quali. — Sua virtù a scolpare l'Umidi, che pure lo aveva tradito. — Confessa lui essere buono cattolico, e non ci si crede. — Testimonianze soppresse ed ora restituite. — E messo al tormento, altezza di animo dimostrata da lui in cotesto frangente. — Scrive allo imperatore ed al gonfaloniere di Lucca: della prima lettera non trovammo traccia; forse conservasi negli archivi di Vienna; pure se ne conosce il contenuto e si dichiara: si riporta la lettera del Burlamacchi al gonfaloniere. — Che cosa egli e gli Strozzi intendessero fare di Cosimo duca di Firenze. — Torturato da capo. — Smanie di Cosimo per avere nelle mani il Burlamacchi. — Lettera del duca Cosimo in corte allo imperatore per ottenere il suo intento. — Ferrante Gonzaga governatore di Milano manda un commissario imperiale per rinnovare gli esami del Burlamacchi. — Martoriato di capo: da sè spogliasi e si adatta alla corda. — Minacciato della prova del fuoco, da cui per pietà il commissario si rimane. — Terminato il processo, il commissario torna a Milano con due istanze contrarie: il duca voleva il Burlamacchi, e la Repubblica non glielo voleva dare. — Richiesto a Milano: squisite diligenze per custodirlo e perchè: si consegna con pubblico contratto: è messo in prigione onesta, ma dopo pochi giorni condannato a morte. — Tentativi degli amici e dei parenti del Burlamacchi per liberarlo. — Il Gonzaga dà buone parole; memoriali allo imperatore. — Andrea Doria raccomanda il Burlamacchi allo imperatore. — Per salvare Francesco, spendono in corte i parenti più di 36m. ff. — La moglie del Burlamacchi, la madre e l'amica di Cosimo pregano costui per la salvezza di Francesco, e risposta del duca. — Tentasi la fuga: disdetta onde non potè avere luogo: se vero o verosimile il caso. — Compagni di prigionia; chi fosse il marchese Giulio Cibo Malaspina. — Vengono per la tirannide le vendemmie di sangue: quali le cause che mossero cesare a incrudelire, e tra queste le principali. — Ultimi particolari della vita di Francesco Burlamacchi. — Sua sepoltura; potrebbero rinvenirsene le ossa. — Sebastiano Carletti si salva. — Fine miserabile di Cesare Benedino decapitato 14 anni dopo la congiura. — Commiato dello Autore. Affannosi per paura, i Lucchesi mediante autorevoli oratori significavano a cesare avere incominciato gli esami del Burlamacchi; essere parso per maggiore solennità spediente aggiungere agli ordinari auditori di Rota diciotto cittadini dei primi non che il magistrato dei segretari; però, qualora egli temesse di parzialità per lo accusato, confessarsi paratissimi tutti a consegnarglielo, a patto però che in qualche città imperiale e da giudici suoi si esaminasse, ma in balía del duca Cosimo per cosa al mondo non si commettesse: ovvero, se meglio gli talentasse, ponesse un suo commissario a capo del tribunale di Lucca. Dagli oratori spediti ai principi non ricevendo confortanti novelle, spedirono altri personaggi di maggiore autorità presso i medesimi e presso altri stati per propiziarsene i principi; di questi ricorda il nome la Cronaca manoscritta di Nicola Tucci, ed io qui li scrivo: il dottore Cesare Nobili andò al duca di Ferrara, Vincenzo suo fratello alla città di Bologna; il dottore Bernardino dei Medici al duca di Mantova; presso il pontefice furono deputati tre, Vincenzo Parensi dottore, Francesco Cenami e il cardinale Guidiccioni vescovo di Lucca; presso i legati apostolici e gli ambasciatori dei principi concorsi al concilio di Trento il vescovo dei Nobili. Intanto erano incominciati gli esami; questo processo si conserva a Lucca nello archivio di stato, e fu impresso nella monografia del Minutoli comechè con parecchie lacune: da questo ricaviamo come Francesco Burlamacchi, toccati gli evangeli, si obbligò con giuramento di confessare la verità senza mestieri torture; quello ch'ei disse nella massima parte fu da noi riferito nel precedente capitolo; non complici rivelò non compagni, eccetto il Benedino e il Carletto impossibile a celarsi; nel secondo interrogatorio, oltre Bastiano, denunciò Giovambattista Carletti; interrogato perchè nel suo primo esame lo avesse taciuto rispose: «Per dargli tempo a mettersi in salvo.» Incentivo alla impresa la continua lettura delle vite di Plutarco, massime dei quattro incliti capitani Timoleone, Pelopida, Dione ed Arato, i quali con pochissima gente avevano operato grandi cose: su questi pensieri essere rimasto sei mesi e forse un anno senza aprirsi con persona: non si pente del concepito disegno, sfortunato sì, non ingeneroso; solo gli dorrebbe d'ineffabile amarezza se dovesse recare nocumento alla carissima patria ed ai cittadini diletti: disse ignorare la causa per la quale gli fu contesa l'uscita; non incolparne persona; tale ravvisa essere stata la volontà di Dio. E tale favellò il magnanimo per non lasciarsi dietro una maledetta traccia di rancori e di vendette; poco mostrò calergli la morte; anzi, mancata la impresa, rincrescergli la vita; ben premergli la fama e questa sperare si sarebbe mantenuta perenne fra i pochi gentili presso cui fortuna non vale virtù. — Certo avere di lunga mano disposta la materia acquistandosi da per tutto aderenze e cercando ogni via di mettersi in grazia alla gente non solo di Lucca ma fuori, massime nelle città toscane; così in Pisa, pigliando occasione dal sequestro di non so quali bestie e di taluni contadini, rinnovò col provveditore dei Capponi l'amicizia antica durata fra le due case; essersi reso benevolo a Pescia il capitano Bastiano Galeotti col pregarlo di tenergli al fonte battesimale un suo figliuolo, ed indi in poi coltivato con lui buona amistanza. In Barga noverare amici sviscerati Cristoforo Merighi e il fratel suo, come quelli che in grazia di lui erano stati richiamati dal bando e mercè ampissimo indulto rimessi a casa; se però togli simili offici di amicizia, onde ei riputandoli amorevoli, confidava che in caso di bisogno gli avrebbero fatto spalla o almeno non abbandonato; nè anco per ombra aver loro fatto subodorare il concepito disegno. Immaginava che i quattro gentiluomini sanesi rilegati a Lucca gli dovessero essere parziali sul fondamento che vivendo essi fuoriusciti di patria, non sarebbe loro parso vero di ritornarci per via onorata; però con messere Antonio Vecchi avere favellato una volta sola e di novelle del tutto aliene al suo concetto. Col cavaliere de' Landucci parlò due volte, una a San Gemignano, l'altra in palazzo, ed in ambedue gli tenne proposito di questa sua opinione dimostrandogli quanto buona e santa cosa sarebbe se la riuscisse; al che egli rispose: «Qui sta il punto.» Egli, per fargli toccare con mano come con minori forze maggiori imprese fossero tentate e compite, gli mandò il Plutarco raccomandandogli leggesse le vite dei quattro magnanimi quivi segnate; se non che il Landucci alcuni giorni dopo gli rese il libro dicendogli ch'ell'erano fantasticherie cotesti racconti buoni per farsi a veglia; egli avergli maladettamente in uggia. Al Sergardi ne tenne proposito due volte o tre ma su le generali, come sarebbe a dire; che divina impresa sarebbe unire la Toscana in uno stato solo, nella quale ognuno dovrebbe chiamarsi contento di mettere la roba e la vita; a cui il Sergardi rispose sempre: «Pur troppo, ma i tempi correre ormai contrari a simili disegni.» Fu interrogato su l'Umidi, lo indegno uomo che per viltà rese male per bene, e al Burlamacchi per sicuro avrà sussultato fieramente il cuore nel vederselo comparire davanti; ma che sarebbe virtù se non vincesse queste prove? Francesco, senza pur mirarlo in faccia, onde il suo sguardo, malgrado lui, non lo avvilisse, e badando a non alterare la voce, confessò sul conto suo nè più nè meno di quello che depose intorno al cavaliere dei Landucci; vo' dire com'egli fosse non pure alieno, ma schernitore del disegno immaginato da lui; depose altresì essere buono e fedele cattolico, non avere mancato di confessarsi e comunicarsi cotesto anno a Ferrara; e questo avere fatto costantemente negli anni scorsi. Ciò non era vero quanto al sentirsi buon cattolico, circa all'essersi confessato e comunicato può darsi, ma l'erano lustre per parere; ed a questo proposito parmi importante a sapersi come un Tomeo Maniscalco testimone interrogato intorno alla fede del Burlamacchi così rispondesse: «dixe che un giorno vidde il ditto Francesco passeggiare in una chiesa con frate per dui hore in circa, et li parava che ragionassero dei lutherani e non sa di che ordine fusse quel frate, ma che era vestito di nero per quello che si ricorda.» Di ciò non occorre traccia negli atti del processo mandati fuori per le stampe dal Minutoli, come pure della risposta data dal Bati allo interrogatorio se sapesse il suo padrone essersi confessato a Ferrara: «dixe non saperlo»: però i Cronisti manoscritti Tucci, Penintesi Dalli ed altri parecchi difendono a spada tratta il Burlamacchi dall'accusa di eresia; l'affannosa difesa somministra il più veemente indizio della colpa; poichè in cotesti tempi in Italia era colpa e meritevole di morte non professarsi cattolico apostolico romano. — Questo suo primo esame conchiuse affermando che la sua impresa, se la non si fosse scoperta, sarebbe riuscita per fermo, ed a giudizio suo oggi lo crede più che mai. Fin qui sembra che non adoperassero tortura; a questa ricorsero il primo di settembre: in quel dì egli confermò le cose già dette, altre ne aggiunse le quali riferimmo nel capitolo antecedente; negò risoluto aver complici; interrogato se unendosi agli Strozzi avesse concepito qualche convegno di spartirsi con esso loro la Toscana, risoluto risponde: «No mai, era mio intento metterla in libertà e conservarla con la buona voluntà del popolo, e esso disegnava vivere da cittadino privato.» Apporta inestimabile contentezza all'animo del lettore contristato da tanti esempi di odierna viltà la bella natura di Francesco, che, di nulla pensoso tranne della cara patria, a cui teme riuscire troppo molesto, si studia purgarla da ogni sospetto di connivenza con lui, sicchè in mezzo ai tormenti attesta: «solo di questo avere assicurato il priore di Capua, che, quando si fosse venuto al menar delle mani, la città di Lucca era necessitata favorire la impresa con armi e con denari, perchè non si saria potuta giustificare che senza il consenso suo si fosse mostro un tale accidente.» Restituito in carcere, chiese ed ottenne dai padri facultà di scrivere; al quale scopo gli furono concessi due fogli, dove vergò due lettere una per Carlo V imperatore e l'altra pel gonfaloniere e gli anziani: della prima non occorre nei nostri archivi vestigio nè vi si può trovare, perchè fu lettera segreta e diretta allo imperatore: tuttavia ci è dato argomentare che cosa contenesse; imperciocchè, interrogato nel 3 settembre dagli esaminatori sul tenore della medesima, rispose che dove gli fosse riuscito il disegno di unire insieme la Toscana, egli si sarebbe condotto, ovvero avrebbe o mandato o scritto a S. M. lo imperatore per pregarlo di venire dalle parti di qua e vedere di mettere un po' a sesto le faccende della Chiesa, riformandola dai molti abusi che ci sono e riducendola ad uniformità di opinioni; il che _poteva riuscirgli con levarle l'entrate lassandole godere a quelli che l'havevano adesso, e doppo la morte loro l'applicasse o al pubblico o a sovventione di poveri segondo che li fusse parso meglio, che questo harebbe contentato gli Alemanni e riduttoli alla obbedientia sua, li quali non desideravano altro. Et che lo harebbe essortato a pigliare la via di Roma e con lo aiuto di detti Alemanni e della Toschana a farsi imperatore di Roma, parendogli sia male si domandi imperatore dei Romani e che non li comandi; e che questo gli sarebbe facilmente riuscito con soprascritto aiuto e con avere lì vicino il reame di Napoli e della parte in Roma._ Di leggieri si comprende che coteste erano girandole per ingrazianirsi lo imperatore, e a noi sembra per lo manco strano che con essi si augurasse il Burlamacchi di agguindolarlo, molto più che quegli aveva voce o noce di essere maliziato più di volpe vecchia; ma anco delle volpi se ne piglia, e vedremo che cotesto partito inefficace affatto non fu; forse se altri casi non cospiravano a danno del Burlamacchi, aveva salva la vita[23]. Se però non ci fu dato rintracciare la lettera del Burlamacchi allo imperatore, che forse non sarebbe difficile rinvenire negli archivi di Vienna, miglior ventura ci toccò di quella mandata al gonfaloniere, la quale, come cosa di molta rarità, qui offro stampata al lettore: «MOLTO MAGNIFICO SIGNORE GONFALONIERE. «Io ho desiderato havere modo di scrivere per la causa che VS. vederà, et questo è per potere scrivere una lettera a S. M., la quale ho scritto e sarà con questa, e il modo che avesse a tornare in benefitio grande di quella non l'haveo conferita a persona, ma me l'haveo serbata in me, pensando che, avendo effetto la impresa, tutto havesse a riuscire, nè mi è parso dirla alli signori giudici di Rota e altri cittadini; et quando la Signoria Vostra et i secretari la vorranno udire, non li dispiacerà. Et il mandare questa lettera a S. M. non mi pare che possi tornare in danno alla città, anzi utile, e mandarla per mezzo di Niccolò Burlamacchi, che potrà farci andare Gherardo in poste, e anco havesse questa spesa siando stato lui et Pietro causa che sin qui so che non mancherà di sopportarla, et anco parendo potrem mandarla per dui vie, uno per via ordinaria e l'altro per via di Svizzeri e di Agusta; che non potendo andare da S. M. quelli nostri amici di là non mancheran fare di ottenere chi vi andasse, e a SV. quanto posso mi raccomando, e come dissi a tutti con contento, ho che, havendovi tutti per amici e parenti alcuni, so che del mal mio ne havete tutti dispiacere quanto io. Et a Dio piaccia di tenere VS. in sua buona guardia.» _Di VS. Serv._ FRANCESCO BURLAMACCHI. In parte questa lettera corre senza sintassi; ma con lui che aveva le braccia slogate dalla tortura e temeva peggio non si vuole procedere troppo difficili. Questo a me, sembra che si palesi chiaro come il Burlamacchi, secondo la opinione di quanti Italiani ebbero fior di senno, pensò come la Italia non potesse avere salute mai dove il cattolicesimo dalla sovranità temporale non si sceverasse. Un'altra dichiarazione fece il Burlamacchi che certo si poteva risparmiare, conciossiachè non gli venisse affatto creduta, nè egli potè augurarsi che gliela credessero, ed è che, occupata la Toscana e messe le mani addosso, non avrebbero fatto punto male al duca Cosimo: al contrario, ridottolo in condizione cittadinesca, oltre lasciargli i beni propri, gli aríeno egli e gli Strozzi stanziato 20 / m S. di pensione, ponendo in sua balía lo stare o l'andare. Se fra gli Strozzi e i Medici, emuli antichi, debitori scambievolmente e creditori d'ingiurie, di sangue e di guasto negli averi, potessero correre le cose a quel modo lascio che giudichi chi legge. Per ultimo conchiusero col solito _gloria_: «Li signori essaminatori, per cognoscere meglio la verità, comandarno che detto costituto fosse legato alla corda, tormentato e in alto levato e quassato se a lor signori parrà. Et alzato da terra in alto per il _cavaliere_ e suoi birri; domandato di nuovo, dixe non avere altro che dire, e havere detta tutta la verità. Et allora comandarno che fusse quassato, e di nuovo interrogato replicò come di sopra e non havere altro che dire. Et allora li prefati signori examinatori, vedendo la risposta, costantia e perseveratione del ditto costituto così senza tortura come con torture, comandorno esso costituto essere sciolto e riposto nelle ditte carceri con animo di continuare l'examine se a loro parrà conveniente e cosa consona alla ragione». Ma Cosimo non si poteva dare pace di non avere il Burlamacchi nell'ugne; e tu lo vedi irrequieto a far fuoco nell'orcio perchè glielo consegnino, mentre aveva detto e ripetuto a squarciagola il Burlamacchi _sciocco, folle_; la sua potenza assodata così su le armi e nel cuore dei sudditi da non temere crollo di fortuna nè malevoglienza di uomini, adesso dalle sue stesse lettere ti chiarirai com'ei non credesse punto a quello che diceva, anzi sbertava i Lucchesi, i quali anfanavano per dare ad intendere il Burlamacchi uomo che avesse mandato a rimpedulare il cervello; «davvero, scrive Cosimo, quanto sia verosimile che il gonfaloniere è persona capricciosa et pazza, lo dimostra il luogo supremo che tenea di quella Signoria, l'officio di commissario della militia loro.» Dichiara come, mosso non tanto dallo studio del proprio interesse quanto per servizio di Sua Maestà, mandasse subito oratori a Lucca perchè gli consegnassero il Burlamacchi; alla quale inchiesta avere i Signori lucchesi opposto sempre pertinace rifiuto, _come quelli (pensiamo noi) che debbono sapere che costui ha in corpo molto più di quello che loro hanno mandato fuora, e non vogliono si propali, maxime che dei compiici e fautori ce ne debbono essere assai della loro città et d'altronde, e forse persone d'importanza_; per ciò si raccomanda che nel modo stesso che S. M. compiacque i Lucchesi del Fatinello ponendolo nelle costoro mani affinchè lo esaminassero e punissero, così lui Cosimo gratificasse del Burlamacchi per esaminarlo nelle sue mani perchè si sappia lo intero di questo trattato _e per il suo e per il nostro interesse_[24]. Per levarsi dattorno cotesto assillo, don Ferrante Gonzaga governatore di Milano, certamente per ordine di Carlo V, giudicò opportuno spedire persona esperta e fidata a rinnovare gli esami a Lucca con la speranza che tanto sarebbe bastato all'indole sospettosa del duca. A tale uopo mandò a Lucca un dottore Girolamo Belloni da Casale di Monferrato col titolo e il nome di commissario imperiale; trovo in qualche cronista rammentato come costui innanzi di recarsi a Lucca passasse per conferire con Cosimo da Firenze, e può darsi; certo egli è poi che, terminati gli esami, ritornò a Firenze, senza dubbio per darne al medesimo particolarmente ragguaglio: se altro fra loro rimanesse stabilito ignoriamo. Pertanto il senatore Belloni ripigliava gli esami del Burlamacchi la sera del mercoledì 13 ottobre 1546, i quali, continuati nei giorni 14 e 18 del medesimo mese, furono chiusi nel dì successivo 19. — In questi esami egli confermò in sostanza le cose già confessate; altro non poter dire; dove bisogni, si chiama pronto a patire il martirio e tutto quanto al signor commissario parerà di ragione: però nella notte del diciotto ottobre egli non fu estratto di carcere, all'opposto il commissario andò nella prigione del palazzo di Lucca, dove stava custodito il Burlamacchi, ed ordinò che quivi adattassero il curlo. Qui interrogato se avesse detto la verità e se avesse cosa da aggiungere ovvero mutare, poichè ebbe alle diverse domande rispettivamente risposto sì o no, al commissario cesareo parve bene ch'ei fosse spogliato, legato ed alzato, onde con la prova della tortura confermasse ovvero smentisse lo esposto. Qual cuore fosse quello del nostro eroe nel vedersi in così misero stato, pensi chi legge; pure, chiudendo in sè la passione, non turba il sembiante nè aggronda i sopraccigli; da sè spogliasi, da sè si pone alla corda[25]; dove legato, lo alzano da quattro braccia sopra il pavimento e quivi lo lasciano a cotesto modo sospeso. Il commissario, passato alcun tempo, al fine che il peso del corpo aggravandosi slogasse le braccia e ne stirasse angosciosamente i muscoli, con voce pacata riprese: «Dite la verità degli altri complici più di quello che abbiate detto, massime dei signori Sanesi.» E il magnanimo a sua posta: «Ah! signor commissario, che io sono morto, le ho detto la verità, ahimè!» Il commissario allora, per rispondere al richiamo che cotesto infelice faceva alla sua pietà, ordinò lo sollevassero qualche altro braccio di più e poi lo lasciassero ire giù a piombo[26]: questo chiamavasi squasso ed anco strappata; e se i meschini sentissero strapparsi, Dio ve lo dica per me. Il giorno dopo il buon senatore tornava ai tormenti per ispuntarla: così gl'insegnava il suo mestiere, ed è precetto antico che bisogna battere il ferro quando è caldo; nè io di lui mi dolgo nè lo maledico; a quel mo' in cotesti tempi persuadeva la scienza, e noi meritamente lo riprendiamo barbaro; forse e senza forse più tardi gli uomini censureranno incivile quello che adesso la scienza insegna come dogma dalle cattedre: un po' di modestia non fa male a nessuno, nè anco alla scienza. Pertanto il commissario entrato nella carcere del Burlamacchi il 19 ottobre 1546, di nuovo lo ricercava a dire tutta ed intera la verità: a cui il tormentato rispondeva traendo guai: «Ahimè! Signore, che cosa volete che io dica se tutto quello che sapeva fu da me liberamente confessato? Forse quanto confessai alla mia morte non basta? Non avete, signore, la cosa chiara? Di grazia fatemi tagliare più presto la testa che tormentarmi tanto; non vedete ch'io sono tutto stroppiato?» Il commissario soggiunse: «Dio sa se me ne duole nell'anima, ma le mie istruzioni m'impongono che con le ultime prove io mi adoperi a strapparvi di bocca la intera verità, che voi pur troppo mi celate in parte:» «Nulla vi ho celato.» «Forse quanto a voi sì; no per certo quanto ai vostri compiici.» «Vi ripeto che non mi diedi compagni; temendo m'invidiassero l'alta impresa di _ridurre in buon vivere e in libertà questi cristiani_.» «_Questo non toccava a voi._» «_Toccava allo imperatore._» «_Perchè dunque non ne lasciavate la cura a S. M.?_» «_E qui sta il mio errore_: io ho rotto, io pago. Quale tormento mi avanza a patire?» «Ahimè! oltre ogni immaginativa orribile: vi chiuderà il _cavaliere_[27] le gambe in grossi e pesanti ceppi, sicchè siate costretto a tenerle ferme, e dopo avervi unto di sego le ignude piante dei piedi, vi ci accosterà mano a mano carboni ardenti finchè tutte non le abbia abbrustolite il fuoco....» «Orribile cosa invero.... Dio mi aiuti! io sono nelle vostre mani.» Allora il commissario ordinò lo scalzassero e portassero il fuoco: intanto che gli serravano dentro i ceppi le gambe, lo andava stringendo perchè dicesse intera la verità; terrori mesceva a speranze, minacce a preghiere; ma l'altro imperterrito ripeteva: «_Signore, io non so che mai dirvi altro, perchè ho detto tutta la verità, e mai dirò altro di quello che ho detto_[28].» «Il che vedendo, aggiunge il processo allegato[29], lo prefato signor commissario e cognoscendo la ferma costantia del detto Burlamacchi, atteso li tormenti hauti e lo apparato del foco fattoli come sopra, e anchora attesa la età e delicatezza del suddetto Burlamacchi, che non patirìa tanti tormenti se altro sapesse, ordinò fusse lassato e non tormentato: e così fu dimisso in detta carcere con la medesima custodia.» Compito il processo secondochè parve al senatore Belloni, se ne tornò a Milano portatore di opposte istanze, le une per la parte di Cosimo intorato più che mai a volerlo nelle ugne, le altre dei Signori di Lucca a non volerglielo dare; s'egli questi più di quello favorisse ignoro; forse avrà preso lo ingoffo da ambedue le parti e poi avrà lasciato andare l'acqua per la china; anco a quei tempi pigliavasi, non quanto adesso, ma quasi. — Però Ferrante Gonzaga, in apparenza amico a Cosimo, in cuore lo aveva caro quanto il fumo agli occhi; onde è dato presumere che in cotesta come in altre occasioni lo disservisse; di vero venne comandamento espresso dallo imperatore che il prigione si trasportasse a Milano e quivi senza dare luogo ad altre prove, esaminata la causa, pronunziassero la sentenza. Se fosse stato di oro, non si sarebbe posta maggiore diligenza a custodire nè a consegnare il Burlamacchi: alla tremenda paura del senato lucchese premeva che quello sventurato arrivasse in vita a Milano per remuovere ogni suspicione e calunnia; colà giunto vivo, quanto più presto si poteva cessasse. Impertanto venne di Lombardia a prenderlo il bargello con due squadre di sbirri; i Lucchesi lo mandarono guardato da una compagnia di milizia ai confini; colà trovarono il notaro ser Francesco Pauli, che a richiesta del commissario lucchese rogò atto pubblico di consegna; il quale il bargello lombardo ebbe a segnare prima che in sue mani depositassero Francesco nostro. Senza impedimento che ne importunasse il cammino, arrivato a Milano, fu messo in onesta carcere in castello, concedendogli fino dal primo giorno facoltà di moversi liberamente pei piazzali, ma, quasi in contrasto alla non bieca accoglienza, dopo pochi giorni gli fu letta la sentenza con la quale veniva condannato nel capo lui e Giovambattista Carletti, che insieme con esso era stato tradotto a Milano. Per quanto è dato giudicare, sembra che lo imperatore adoperasse a quel modo per sottrarsi alle molestie di Cosimo, pensando che smettesse ogni pensiero su lui, come uomo ormai sfidato e morto. Gli amici e i parenti del Burlamacchi, commossi dal pericolo di quel caro capo, tutti si posero a tentare qualunque via per salvarlo: ora vedremo come nulla per loro si pretermettesse e come nulla o per malvolere degli uomini o per disdetta di fortuna approdasse. Da prima a bene sperare furono cagione le parole confortevoli di don Ferrante Gonzaga, a cui essendo stato indiritto messere Domenico Sandonini per propiziarlo alla causa del Burlamacchi, n'ebbe in risposta: quetassero l'animo agitato, però che il dabbene uomo rimarrebbe per alcun tempo e forse lungo prigione, ma camperebbe la vita; nè si fermarono a questo gli amorevoli ed i congiunti di Francesco, chè supplicarono il consiglio di Lucca a fare loro abilità di sottomettere memoriali a S. M. lo imperatore ed al duca Cosimo affinchè volessero graziare il reo della vita, attesochè avesse cotesto fallo commesso più per ignoranza che per malignità e nulla mandato ad esecuzione, onde i suoi concetti si riducevano a meri sogni ed a immaginazioni senza danno pubblico nè privato. Parve la domanda giusta al senato, che facilmente la concesse; e composti subito due memoriali per virtù di ragioni e per garbo di dettatura notabili, gli affidarono a Girolamo Lucchesi suo cugino, il quale senza perdere tempo si mise la via fra le gambe andando a presentarli ai principi a cui erano rivolti: e poichè se di alcuna cosa si patisce penuria nelle corti, non è certo di buone parole, così il Lucchesi di queste ebbe piene le bolge; però, non si fidando, i benevoli di Francesco persuasero Niccolaio suo fratello, il quale più che volentieri ne tolse il carico, di recarsi a Genova presso il principe Andrea Doria e quivi tanto destreggiarsi con lui da potergli cavare di sotto lettere commendatizie per quanto possibile fosse premurose da presentarsi allo imperatore, essendo ormai noto pel mondo quanto godesse credito il principe nella corte imperiale: e a vero dire Andrea, sentendo compassione dell'uomo, non fu restio a scrivere lettere caldissime in pro' di lui. Giunto in corte Niccolaio, esperto troppo che colà come altrove, ma più là che altrove le ruote senza olio non girano, cercò gratificarsi co' doni i maggiorenti, i quali quanto larghi a promettere così mostraronsi scarsi a mantenere, chè il vender fumo è pure mestiere speciale a cui sta in corte: io trovo nei cronisti lucchesi che la casa Burlamacchi gittò a tale effetto in cotesto fondo fino a trentaseimila ducati, e mi paiono troppi; ma siccome aggiungono che per così eccessivo dispendio i Burlamacchi impoverirono, siamo in certa guisa costretti a crederli. Silvestro Trenta fratello di Caterina moglie di Francesco consigliò la desolata di andare a gettarsi ai piedi di Cosimo per impetrare la grazia del marito; il Minutoli scrive che la donna prima implorasse e ottenesse il patrocinio della madre di Cosimo, mentre il Mazzarosa afferma che non alla madre si rivolse ella, bensì all'amica, forse la Cammilla Martelli; ed io credo l'ultimo perchè la voce della madre suona potente, ma nei cuori disposti a bontà, mentre per una ragione o per un'altra anco i tristi si commovono talora alle supplicazioni dell'amante. Cosimo però spettava alla specie dei rarissimi presso cui l'amante conta poco, la madre nulla; onde, infastidito per le istanze reiterate delle donne, le respinse borbottando: «Badassero ai fatti loro, chè gli stati non si governano con la pietà delle lagrime donnesche.» Non aveva l'imperatore graziato la supplica dei Burlamacchi nè l'aveva respinta; ed essi vivevano di quella vita atroce che or teme ed ora spera, e così allo spirito come al fisico fa lo effetto di cui con subita vicenda passa dallo ardore al gelo; noiosa allora diventa la mensa, sazievoli i familiari colloqui, il letto siepe: si strinsero insieme tutti e risolverono tentare gli estremi conati perchè Francesco, uscito dal castello di Milano, potesse ricoverarsi in Francia: di denari non si facesse a spilluzzico, quello che ci voleva si spendesse; dove era andata la galera andasse il brigantino; il punto stava nel trovare gli arnesi. Come s'ingegnassero non è noto: nella storia di Antonio Mazzarosa occorre un cenno di questo caso là dove scrive che fu avviso toccare più potente molla che le lacrime donnesche non sono, vale a dire l'oro, ed avrebbe sortito esito propizio se per mero errore non fosse stata sospesa l'accettazione della lettera di cambio; per la quale cosa perduto il momento, non si potè più riagguantare la occasione; ed io, volendo chiarire il senso oscuro di siffatte parole, ho rinvenuto nelle _Memorie delle famiglie lucchesi_, opera che si conserva manoscritta nella biblioteca di Lucca, dettata da Nicolò Penintesi, i particolari della fatale ventura, e come gli ho ricavati così gli scrivo. Narra pertanto la cronaca «Come i parenti del Burlamacchi non perdonassero a qualunque gran somma di danaro per salvargli la vita, e mentre vi aguzzavano intorno il cervello per riuscirvi non senza molta speranza, per non dire certezza, si scoperse uno accidente che rese la liberazione di lui, almeno per via della fuga, affatto sfidata. E questo caso fummi raccontato molte volte da Tomaso Burlamacchi trovandomi io a Lione. E' fu appuntato in Milano che fossero tratti marchi 400 di oro di sole, che erano 8 30/m di oro di sole a Lione, con la banca Burlamacchi, nella quale serviva come giovane di contare il suddetto Tomaso di assai fresca età, ma per essere della famiglia e nipote dei magnifici ministri facevano portare a lui un quadernuccio delle accettationi delle lettere di cambio che in un giorno deputato si sogliono accettare nella piazza di Lione, a cui fu ordinato dai Maggiori, secondo l'uso delle predette accettationi, quali lettere di cambio dovesse subito accettare e quali tenere sospese; ma quando fu all'atto pubblico dell'accettatione che segue alla presenza d'infiniti testimoni di diverse nazioni che accorrono a tal fatto, Tomaso equivocando (così almeno dicea a me) sospese le tratte dei 400 marchi che doveva accettare, mentre all'opposto ne accettò altre che doveva respingere, onde i presentatori della lettera spedirono subito per la posta corriero a Milano con lo avviso della sospensione.» — Di che indispettiti coloro che avevano le mani nel trattato, resero impossibile la fuga del Burlamacchi di già abbastanza difficile. Francesco incontrò nel castello di Milano parecchi gentiluomini di cui la storia tace il nome, eccetto quello del marchese Giulio Malaspina, col quale prese usanza, sicchè spesso trovandosi insieme, si narravano le scambievoli sventure, e l'uno andava l'altro confortando. Dei casi del marchese Giulio non importa discorrere; ne scrissi largamente nella vita di Andrea Doria, e là chi ne sente vaghezza potrà riscontrarli; basti tanto che alle prime ribellioni lo spinse Cosimo perchè gli tornavano, per le seconde, che non gli tornavano, egli fu sbirro, chè, arrestatolo proditoriamente a Pontremoli, lo consegnò allo imperatore come si manda il bue al macello. — Lo imperatore Carlo V, fondatore della odierna tirannide e con paura e pericoli grandissimi uscito appena incolume dalle ribellioni germaniche, odiava qualunque sommossa capace a scomporre l'ordine di cose stabilito da lui, non amava Cosimo, aborriva la Francia, ma più di questi aborriva chiunque la regia potestà offendesse per conto proprio: concedasi ai re soli disfare i re, e ci pigli parte anco il popolo a patto che glielo comandi il re e sotto la condotta del re; allora servo devoto e degno di encomio; all'opposto se il popolo sorga contra il re per suo interesse e spontaneo, diventa ribelle e degno di scure sul collo. — Veramente Giulio non tentò ammazzare il Doria in benefizio del popolo, ma per necessità gli era forza ch'egli si commettesse in balía di lui. Adesso era venuto per Carlo il tempo della vendemmia della tirannide; tutti quelli che gli avevano messo spavento avevano a morire. Taluno afferma che egli ordinasse la morte del Burlamacchi perchè, per tenersi bene edificati i Signori di Lucca e il duca Cosimo, ai primi avesse promesso di non dare il prigione, al secondo di consegnarglielo; onde trovandosi per le focose istanze di questo in imbarazzo, come mezzo termine per cavarsene, comandasse tagliassero il capo al Burlamacchi e così farne un fine: forse anco simile considerazione avrà contribuito, ma non ce n'era mestiero; bastava la paura e la persuasione comune a tutti i principati di provvedere alla propria salute co' bagni di sangue: anco il sospetto che nelle congiure del Burlamacchi e del marchese Cibo Malaspina vi avesse parte la Francia può darsi che abbia dato la spinta a Carlo: breve, questo può dirsi, che ragioni per ispegnere i prigionieri ei ne aveva di avanzo. Dalle cronache manoscritte del Canonico Dalli si ricavano i seguenti particolari intorno agli estremi ed alla morte di Francesco Burlamacchi, i quali come percossero me, così penso che varranno a commovere altri. Don Ferrante Gonzaga, quando meno se lo aspettava e contro le sue previsioni, ricevè lettere imperiali che gli ordinavano procurasse, senza mettere tempo di mezzo, Francesco Burlamacchi e il marchese Giulio Cibo Malaspina si giustiziassero; al Gonzaga, che assai favoriva la causa loro, parve ostico il boccone, tuttavia, sendogli forza trangugiarlo, inviò tosto un suo mandato al castellano del castel di Milano con una lettera la quale gli commetteva il supplizio dei due meschini. Il messo arriva in castello mentre il marchese, che giovane era e ben disposto della persona, giocava alla palla con altri prigioni che stavano (come si dice in idioma di carcerato) alla larga, e il Burlamacchi insieme con altri si tratteneva a vederli. Il castellano gli fece chiamare in fortezza, ed essi andarono a tutto altro pensando che a dover morire: appena arrivati i guardiani li separano e chiudono in luogo segreto; tanto fu eseguito per ordine del castellano, a cui crepava il cuore per doglia, così grande amore aveva posto nel Burlamacchi e così teneva in pregio, sicchè a significargli che si apparecchiasse a morire non gli bastò l'animo, onde si raccomandò ad un valente religioso che in destro modo glielo facesse intendere. Il Dalli afferma che il Burlamacchi andò a morte confessato, e può darsi, ma non certo pentito. La mattina seguente ebbero il capo mozzo nella piazza del castello il Burlamacchi, il marchese Cibo e Giovambattista Carletti, e fu come ho avvertito di già, il 14 febbraio 1548; dove mettessero il Carletti uomo plebeo ignoro, il marchese e il Burlamacchi furono sepolti nella chiesa del castello, sicchè volendo si potrebbero cercare con molta probabilità di trovarle, le sue ossa e dare loro insieme a quelle del Ferruccio onorata sepoltura in Santa Croce; e il suo tempo verrà, non ora; adesso bisogna che sgocciolino gl'istituti e gli uomini nemici al popolo, anzi alla umanità. — A questo modo, dopo avere narrato la miserabile strage del Burlamacchi e del Cibo, sentenzia il canonico Dalli, finirono per _ghiribizzi fantastici_, nè un canonico ai giorni nostri giudicherebbe diverso. — Sebastiano Carletti, preso vento a tempo, si salvò in Francia, nè di lui si seppe più novella mai, almeno non la registrarono la storia nè i ricordi dei tempi. — Avanza a dire di Cesare Benedino, a cui incolse la mala ventura: per sua disgrazia credè che la rabbia di Cosimo si fosse attutita; anco i serpenti dopo il pasto posano addormentati, ma il tiranno non chiude mai le palpebre: sicchè il Benedino si affidò di aggirarsi in questa ed in quell'altra città come farfalla intorno al lume e si arse le ale, imperciocchè un suo compare lo tradiva menandolo alla mazza; preso da Cosimo, lo provò con le più atroci torture per cavarne fuori notizie che approdassero ai suoi disegni in danno di Lucca, ma poichè lo ebbe stritolato e lacero senza poterne spillare cosa che volesse, lo buttò al carnefice, il quale lo scemò del capo nella piazza di Santo Apollinare lì presso il palazzo del bargello 12 anni dopo la morte del Burlamacchi e 14 dalla tramata congiura. Nella cancelleria dello antico magistrato degli Otto un dì si trovava il suo processo; adesso dove si conservi ignoro; questo so, che nulla di particolare ci era da cavarne, imperciocchè ei molte cose sapesse non tutte nè le più riposte; tra le mie note rintraccio la sua sentenza e la pubblico in conferma della verità di quanto fu da me esposto[30]. Qui finisce la quarta delle vite e forse l'ultima degli uomini illustri italiani in politica ed in arme che io aveva promesso dettare; ora conviene che io mi fermi, colpa molta dei tempi e parte mia. Ai nepoti degeneri atroce ingiuria il racconto della virtù dei padri. Quanto a me, confesso apertamente che altri potevano dettare queste vite con maggior senno, non già con più diligenza o con più amore. Delle quattro quelle che si accostano maggiormente soavi all'anima nostra le vite di Francesco Burlamacchi e di Francesco Ferrucci: questo più famoso perchè amici e nemici della meritata lode lo proseguirono: chè se nello andato secolo e nel primo terzo del presente se ne infievolì il nome, più che del principe fu colpa di popolo, il quale se nella schiavitù perde mezza l'anima, qual maraviglia poi se perde la memoria, ch'è una delle molte facoltà di quella? E il Ferruccio fecero splendido l'audacia dei consigli, le vinte battaglie, la solerzia stupenda, lo inopinato scoprirsi gran capitano e non meno grande politico, per ultimo la sua morte sul campo, dove giacque sì, ma riposando il capo come su di un guanciale sul corpo estinto del capitano nemico, prosapia di principi e riputato dei primi fra gl'illustri uomini di arme del tempo; breve la sua vita, ma luminosa, simile alla stella cadente che staccatasi dal firmamento precipita in mare. All'opposto il Burlamacchi perì mentre la sua impresa non per anco uscita dal concetto e dallo apparecchio stava per diventare fatto: ei fu pari al minatore, il quale, dopo che con fatica infinita penetrò nelle viscere della terra per estrarre il metallo prezioso, rimane di un tratto sepolto per lo scoscendimento di quella; ovvero simile al Crotoniate che, mentre tenta fendere il mal ceppo della tirannide, resta preso nello squarcio ed è divorato dai lupi: amici e nemici si accordarono a denigrare la sua impresa come follia, sicchè per poco stette che la terra gittata sopra il suo cadavere non seppellisse ad un punto la sua fama: e non per tanto, tutto bene considerato, per me giudico Francesco Burlamacchi non pure superiore al Doria e all'Ornano, ma sì eziandio allo stesso Ferruccio: di vero questi trovò armi parate, la guerra accesa, popolo inferocito nel proponimento di sè incenerire e la patria piuttostochè sopportare da capo la tirannide di Clemente VII principe e papa; rinvenne altresì emuli generosi, argomento efficacissimo acciò la virtù scintilli; fama sicura, vita inclita e morte onorata. Francesco Burlamacchi solo si sente vivo in Italia ormai fatta cimiterio e non dispera richiamare i morti alla vita, nè solo alla vita, ma anco alla potenza e alla gloria, concetto al tutto divino; manca di armi e le appresta con arguzia suprema onde il sospettoso tiranno toscano non ci abbadi, e i suoi stessi concittadini non indovinino lo scopo: sbalordisce la operosità con la quale raccoglie forze e la sagacia onde fa sì che tutti ignorino il suo disegno, e lo conoscano pochi e non intero. Pesa con la diligenza che l'orafo pone a bilanciare l'oro lo stato della Europa, le armi e i fini dei diversi potentati, le sequele della riforma; niente viene trascurato di quanto attenga alla materia ovvero allo spirito, più peculiarmente indaga la Toscana e la Italia: dopo accertato il corso stava per isciogliere la vela. Il suo concetto, gagliardo di verità perchè composto con la sapienza dei grandi che lo precederono e con la sua; partiti per condurlo a termine quali si vogliono per necessità e che trascurati partoriscono sicura ruina. — Con la libertà egli intese conquistare la potenza della patria; libertà di coscienza sovvertendo Roma, che nella stessa mano presume stringere Croce e mannaia, e libertà civile, affrancando la Italia da ogni tirannide principesca così domestica come straniera; quanto ai partiti pratici questi e non altri: il popolo si travagli a costruire lo edifizio del popolo; importa che il popolo uscendo dalla secolare ed abbietta servitù si purghi con la sventura, con gesti disperati e con la effusione del sangue corrotto; a mondarlo dalla sozza lebbra non basta la piscina miracolosa, ci è mestieri la propria virtù. Desta quanto sai, anco squassandolo pei capelli, il popolo dal letargo in cui lo immerse il servaggio, dove tu non gli sgranchisca col pensiero la mente, con lo affetto il cuore, col moto il sangue, tu avrai fatto la prova di rizzare in piedi un cadavere. Questo non piacque: un dì salutarono il popolo padrone perchè si eleggesse padrone, e dopo la sceda dei Giudei, i quali, messa la corona di spine sul capo a Gesù, lo salutavano re percotendogli il volto con la ceffata, mai nel mondo fu vista in ignominia la pari; il popolo certo era chiamato a versare il suo sangue, e lo versò ma a mo' dello stagno che si cola nel buco ad assicurare l'arpione dove attaccano la catena: successero miserabili saturnali di prepotenza, di codardia di cupidità e di altre più ree passioni, donde nacquero odio, infamia e miseria: per ciò sorse un grido, che a taluno parve motteggio, ed altri abbaiò, il quale fu: «Stavamo meglio quando stavamo peggio:» questo il _mane, techel, fares_ dei tempi: non si creda già, come asserirono falsamente, che un uomo pescasse il detto e ne imboccasse il popolo; il popolo sa vestire i suoi concetti di forma da disgradarne anco Dante. _Adesso il popolo non crede più che per mutati ordini politici si miglioreranno le sue sorti, o non gl'importa, o non ci bada_; persuaso è di questo, che fin qui andò di male in peggio; per la quale cosa oggi presente che bisogna trasformare lo stato dell'umano consorzio; in questo nuovo intento migliore arnese fia quegli che patisce di più: non importa frequentare gli studi alla università per avere fame, ed un singulto di affamato insegna più di cento lezioni di professore; però una volta quando si andava a caccia di forme politiche, e credeva che giovasse così, il popolo si preponeva letterati, uomini di scienza, gente insomma che andava per la maggiore, e dietro ad essi camminava nella fiducia di essere condotto per la retta via; oggi il popolo si chiama legione, a lui non fanno letterati, nè li cerca; basta a sè e non vuole essere più abbindolato: di qui la sazietà degl'istituti parlamentari come quelli che ai casi soprastanti non si affanno; tanto varrebbe adoperare un vaglio per attingere acqua dal pozzo: i governi smaniano a scoprire gli agitatori del popolo, ed essi altro non mostrano che la inanità del loro intelletto; il popolo si agita da sè; mettano in carcere il popolo se sanno, o se meglio loro capiti, ci mettano la fame; ma nè anco questo basta, egli è mestieri imprigionare il moto fatale che affatica il consorzio umano e lo spinge a sconquassarsi per ricomporsi poi. Dove da me volesse sapersi le guise dello scompaginamento, quali le ruine che ingombreranno per un tempo gli stati, e quale l'ordine nuovo, confesso ignorarlo, ed io mi spavento meno della trasformazione che del modo col quale sarà operata. Un tempo forse con prudenza e con senno si sarebbe potuto provvedere sollevando gli argini mano a mano che le acque crescevano; si sono volute impedire con una chiusa a traverso, e le acque per ora riottose la scavalcano per iscassinarla più tardi. Oggimai per noi (e me lo credano gli uomini della mia età, esperti pur troppo a nostro danno con gli accidenti della lunga vita) oggimai per noi non vi ha più gloria a raccogliere e nè contentezza; la nostra sapienza ha da ridursi indi in poi a questo: nello studio di morire con manco rimorsi che ci fie possibile. — FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME. APPENDICE LETTERA INEDITA DI FRANCESCO BURLAMACCHI «Molto magnifici Signori. Da poi che intesi Andrea Pissini essere andato a Pisa e di lì auto cavalli per andare a Firenze a rivelare quello che io avevo ragionato con Ciesari di Benedino alla Excelentia del Duca di Firenze, parendomi di avere errato; conosciendo che a vostre S. M. dava disturbo, affanno e spesa, pensai salvarmi. E così aveo ordinata la cosa, secondo me, benissimo. Ma siando piaciuto a Dio di fare che non seguisse così come l'aveo hordinata, bisogna ringraziarne Dio, che le S. vostre magnifiche ne saranno più giustificate. E ancho che a me habbi a esser di pregiudisio più che non sarè stato se fussi stato fuora (che come si dicie è meglio essere uccello di boscho che di cabbia), nè averò pasiensia e sforzeromi di andarmi accomodando alla volontà di Dio, _sine quo factum est nihil_: e dirò alle S. V. M. la cosa come stà. Avendo lecto molti libri di storie e considerato che quando un paese è unito insieme e che stia d'accordio, in quel paese si stà sicuramente e però allegramente, e inoltre lecto che la Toscana antichissimamente è stata in quella unione che io attendevo di fare, mi pareva che, potendosi fare, fusse cosa avesse a tornare in gran benefisio della città delle M. S. V. e conseguentemente di tutta la Toscana. E così andavo pigliando piacere di pensarvi, andavo da me considerando se ci fusse modo a farla. E così siando stato in questo pensiere, andai pensando che fusse bene far quelle ordinanse di montagna; chè quando si feciono quelle del piano non ero in quella considerazione[31]. E parendo al generale della città che fusse così bene per poterci difendere el paese, si vinseno. E siandosi vinte, mi pareva che fusse stato assai. E così andai poi vedendo di essere fatto uno de' commissari di quelle hordinanse di montagne. E così siando stato fatto avendo questo pensiere, ne parlai con Ciesari di Benedino, mostrandoli el modo che secondo me era facile a succiedere; al quale, per essere stato soldato, prestavo qualche fede. E così siando parso ancho a lui, ne andavo ragionando e pensando, se mai fusse tempo di metterla in effetto, che era al presente, per molte opportunità che concorrevano; e così consigliavamo quanto fusse da fare. E in questo è accaduto che, avendoli ditto la importansia che era di tener la cosa secreta, lui parendoli che fosse secreto assai ancho che la conferisse con Andrea Pissini, la conferì secho. E lui avendo ricevuto dal M. Consiglio, secondo però gli pareva, torto della suplica che si lesse in Consiglio e che si determinò sopra: che la fanciulla, che era in casa sua, nipote di Agnello, avesse a stare in quel luogho che allo spettabile officio delle vedove paresse honesto e buono; o vero parendoli avere ricevuto torto da me, che l'avessi passata o consigliato la si passasse fra le M. S. V. e da poi si mettesse a Consiglio, s'è voluto vendicare contra tutta la città e contra me; che bastava vendicarsi contra di me; e farne advertite le M. S. V.: e quelle mi aren dato quel castico fusse parso ragionevile: dove che al presente bixognerà ghovernarsi altramente, e le S. V. M. ne faranno quello parrà più espediente per la città che bisogna ben consigliarla. El modo che aveo pensato fare era questo. Di far venire l'ordinansa della Vicaria del Borgo qui in la città, così come eran venute quelle del Bagno e di Villa. E questa era di più numero di giente che altra ordinansa, perchè in questa è compresa la Vicaria di Gallicano, e tutte sono sotto il colonnello Gian Tommaso. E perchè vi è molti di quelli che sono sotto ditta hordinansa, che sono molto discosti, facevo pensieri, ed ancho tornava meglio a quello volevo fare, ordinar che fosse la mattina al ponte a Moriano, e lì vedere che avesse buono rinfrescamento o da poi farla venire el giorno in la città. E potendo, che credo sarè stato facile, ci arei condutto la hordinansa del Ponte a Moriano, che el commissario Nicolao Bernardi non penso avesse mancato. E così facevo conto di farla venire qui in la città che, fatta la mostra, si fusse partita alle 22 hore e meso, o 23; e riduttola in prato, dove facievo conto di darli da mangiare; e passar così el tempo fino a mezz'hora, o una hora di nocte, e da poi hordinar che andasseno per la via di Santa Anna a passare al ponte a Salissimo e a Pontetetto, e di là qui, e poi andarsene in montagna. Quando fussero là mostrar che vi fosse stato nuove delle gente del Duca, e così inanimatoli condurli alla volta del monte San Giuliano e da poi a Pisa. E avrè avuto la banda del Colle e così quella del Pon San Pieri, talmente che saremmo stati 1800 fanti. E inoltre avrè hordinato a Camajore che fusse partita la banda di là e venutane a Chiesa; e di là andarsene a Pisa. Talmente che con quella giente, e col dar nome della libertà, si può tenere per certo che gli arè incitati a pigliare l'arme, e insieme con noi andarne alla volta di Firenze. E anche aveo pensato mandar a far 500 fanti a Pontremoli, et esser el primo su l'armi e al dar danari: quali danari cioè lire 4 per fante con prometter buona paga, pensavo non avessen a manchare. Di verso Pescia facievo conto che la banda di Villa e del Bagno vi andassen, e non penso avessen mancato li colonnelli, maxime scrivendoli io che ero commissario, e siando stato in quel luogo che sono stato[32], talmente che poteva facilmente andar tutto bene. A Castelnuovo ancho e per la Garfagnana facievo pensieri far come a Pontremoli, di sorta che la cosa si potea tener a 15 soldi per lira[33]. Le opportunità che erano sono queste: li cattivi portamenti del Duca contra li suoi sudditi, che tutti erano malcontenti, e ogni poco di cosa che si fusse visto non mancavano di attacarceli: non avere un soldato solo in tutto el suo stato: e anche non esser gente in Italia: et esser io commissario: et essere stato nel luogo vostro: e avere preso (faciendo conto di far questo) amicisie a Pescia, a Pistola, a Bargha e a Pisa; talmente che si poteva sperarne buona fine, e così fatto la cosa, far conto si vivesse in questa Toscana securamente e allegramente. Questi sono stati ragionamenti, e ne avevo parlato con questi gentiluomini senesi generalmente, ma particolarmente con M. Giambaptista Humidi, e con M. Marciello, quali mi sconfortavano, et io gli assegnavo le ragioni che pareno vi fossero; e se cie li avessi potuti condurre, che noi di qua e lor di là, in un medesimo tempo ci fossino missi in arme, si potea dire el giuocho vinto. Ma non è piaciuto a Dio! Pur non s'era pensato ancho di avere licensia dalle S. V. M., di condur qua la banda che si aveva a condurre; nè anche parlatone, aspettando la opportunità. E forsi sarè indugiato e non fatta; che homo si poteva pentire e dismetterla. Le S. V. M. ànno inteso el ragionamento e pensamento; quelle deliberino quello che si ha da fare: che Dio piaccia al meglio spirarle!» NOTE [1] Questi fu un ingegnoso fabbro fiorentino il quale non metteva mano a verun lavoro, e fosse pure il principe, se prima non gli lasciavano la caparra; onde ebbe il soprannome di _Caparra_: egli fece gli anelli e gli altri ornamenti di ferro del palazzo Strozzi. [2] Nella Biblioteca di Lucca. [3] _Storie fiorent._ lib. 33. [4] _Storia de' suoi tempi_, lib. 5. [5] _Storia d'Italia, di seguito al Guicciardini_, lib. 5. [6] Baroni. _Armi delle famiglie nobili di Lucca_, t. 8, ms. nella Biblioteca lucchese. [7] Ms. nella biblioteca di Lucca. [8] Contratto di nozze rogato il 29 ottobre 1525, ind. XIV, notaro Giuseppe da Piscilla. [9] Miscel. Lucen. ms. nella Biblioteca del Municipio. [10] Dalli can., Cron. di Lucca compilata sopra la più antica di Salvatore Dalli ms. nella Biblioteca del Municipio. [11] Spada Alessandro, Storia lucchese ms. fino al 1594: «operò tanto essere nominato dei 3 commessari di esse milizie, nel quale uffizio si mostrò diligentissimo e cortesissimo, ond'era dai soldati amato, ed i suoi colleghi a lui si riportavano.» _Civitali_ Giuseppe, Storia di Lucca fino al 1572 ms.: «si faceva molti amici, facendo piacere a ciascheduno, spendendo anco del suo patrimonio e con evidente danno della sua famiglia, e trascurava le sue faccende con mala sodisfatione dei suoi.» [12] La è strana la etimologia del _Santoviene_: e dicono che i Sanesi aspettando il capo di san Ausano, il quale aveva ad essere intromesso in Siena dalla porta Eugenia, quivi in gran numero convenissero, e standovi su le spine a causa della impazienza, di tratto in tratto per cosa che vedessero movere alla lontana gridavano: «Il santo viene», per lo che, smesso il nome di porta Eugenia, prese l'altro di Santoviene. [13] «_E dico che di dir non mi dà il cuore,_ _E lascio dire a un altro dicitore_.» MALMANTILE — 6 CANTO. [14] _Martiris_ Epistola universis ecclesiæ lucensis fidelibus, 1543. [15] Io scrittore ricordo come nella primissima età frequentando la scuola dei padri barnabiti di Livorno, mi tafanassero per farmi pigliare in odio il Castelvetro come uomo empio, zotico ignorantissimo e maligno, e se più ne sai, più ne metti; mercè loro consegnai alla memoria questo primo sonetto della corona del Caro contro messer Castelvetro Ludovico che ancora non ci è voluto uscire, e ormai non ci uscirà più: «O vituperio della umana gente! I sacri studi e le onorate scole, Onde ha l'alma virtù perpetua prole, Ond'è simile a Dio la nostra mente, «Contamina un sfacciato, un impudente Veglio immaginator di ombre e di fole, Di cui lo stil, lo inchiostro e le parole Son la rabbia, il veleno, il ferro e il dente. «Questo empio vecchio per fare empio altrui Coi caduti dal ciel nostri avversari Venuto è in terra fuor dei regni bui. «Quinci turba le cattedre e gli altari E muove guerra ai santi, e tu da lui Misera età senno e valore impari!....» Singolare è il confronto degli epitafi di questi due più che avversari nemici: si mette su quello del Caro come principalissimo vanto _la fedeltà_ ovvero _servitù_ a Pierluigi Farnese e al cardinale Alessandro suo figliuolo; su l'altro del Castelvetro si scrive come conforto del decennale esilio che _libero_ riposa, in _libera_ terra, dove _liberamente_ morì. [16] Il magnanimo Alfonso era anco poeta; difatti avendo Torquato Tasso richiesto la provvista del vino al dispensiere del duca, questi rispose in rima: «Una botte di vin sia data al Tasso, «E mangi e beva e dorma e vada a spasso.» E bene stà: i poeti di corte non hanno a fare altro, e ringrazino Dio se non li mettono in gabbia a cantare. Anco in Inghilterra il _salario_ del poeta di corte fu ed è una botte di malvagìa all'anno. [17] Nella relazione di questo caso mandata dall'oratore Veneto residente a Roma al senato si legge: «Furono i rei diecisette, dei quali quindici _abiurati_, restando condannati, chi _serrati in perpetuo fra due muri_, chi in prigion perpetua, chi in galea perpetua o per tempo, ed alcuni appresso in certa somma di danari per la fabbrica che si ha da far....» [18] Il Laderchio annalista papalino desidera che il Tuano referendo la condanna del Carnesecchi avesse dichiarato s'ei fu arso vivo o morto, e poi afferma come la Chiesa non abbia mai condannato persona a perire vivo fra le fiamme; però egli stesso nel volume seguente XXIII, pag. 200, emenda l'error suo su questo particolare. Il buon Cantù, che tante cose sa, questa finge ignorare, e ciò a profitto di quella scellerata curia di cui si costituiva campione: _nec tali auxilio, nec defensoribus istis tempus eget_. [19] In certa oda ad _Petrum Carnesecchum_ del Flaminio soppressa per cautela del Mancurti occorrono questi versi: Non loci tamen ulla temporisve Intervalla, tuos mihi lepores, Non mors ipsa adiment. Manebo tecum, Tecum semper ero tibique semper Magnam partem animæ meæ relinquam. I quali recati nel volgar nostro suonano così: «nè di tempo spazio nè di luogo nè la morte stessa fie che mi tolga le grazie tue; sempre teco starommi e teco sempre sarò e a te pur sempre di questa anima mia lascerò gran parte.» Questo altro non prova se non che le bugie possono significarsi tanto bene in latino quanto in italiano; vero è che l'oda fu soppressa dal Mancurti, ma il Flaminio non avrebbe operato diverso, sendo uomo pusillanime e rimesso secondatore dei tempi. [20] Furono pubblicate anco due note di libri proibiti, come si ricava dal Manuale della Cancelleria del 10 luglio 1545 fog. 57, e dal libro delle Riformagioni nello Archivio di Stato, Arm. 45, n. 18. fog. 39. Antonio Brucioli Pietro Martire Vermigli Fra' Bernardo Ochino Giovanni Ecolampadio Simone Hessy Giusto Iona Giovanni Leonicero Giovanni Vicleffo Giovanni Delenio Giovanni Pomeranio Leone Iude Bullingerio Erasmo Sarcerio Osvaldo Miconio, Lucemario Giovanni Bomelio Sommario di scritture Ermano Bodio, e tra le altre opere la sua Unione dei dissidenti Libri tre della penitenza Filippo Melanetonio Ottone Brunsfegio Ulderico Zuinglio Giovanni Brismanno Andrea Carlostadio Ulrico Uttenio Martino Bucero Giovanni Hus Pietro Artopeo Lamberto Pellicano Heirischio Giovanni Brenzio Charicio Cogelio e Aricio Arsace Schoffer Martino Lutero Dottrina vecchia e nuova, volgare e latina di Urbano Regio Giovanni Hepino Ochino, della Confessione Vita nuova, e certa sua semplice dichiarazione Pasquillo in Ispirito, e tutti gli altri contenenti eresia, ovvero opinione di eresia, precipuamente condannati dalla santa chiesa romana per dichiarazione dello spettabile Officio. Finchè li proibì la Chiesa questi libri cercaronsi, compraronsi, con pericolo si tennero e lessero: oggi li vietò la filosofia, e cascarono giù nell'oblio, donde veruno varrà a trarli fuora. [21] Vedi la Dichiarazione autografa di F. Burlamacchi su questo proposito nel Cap. ultimo. [22] Nuove ricerche ci hanno fatto conoscere come in Lucca fosse instituito l'Ufficio delle vedove e dei pupilli: ora davanti a questo fu discusso il piato fra i Pessini, che venne primamente composto per via di transazione, cui non volendo osservare quel malanno di Andrea, Agnello ricorse ai magnifici Signori, i quali tutti il 23 agosto 1546 decisero la transazione si adempisse: onde par vero, almeno in parte, che Andrea Pessini non del solo Francesco Burlamacchi, bensì della intera Signoria volesse vendicarsi. [23] Nel capitolo antecedente ho detto che il Burlamacchi quando tornò in palazzo ebbe cura di abolire la lettera che scrisse innanzi di lasciarlo per provvedere alla sua salute con la fuga, deponendola sul tavolino di camera sua; tuttavia reputò spediente sostituire alla lettera distrutta certa narrativa che il diligente signor Lione Del Prete rinvenne e pubblicò nel tomo 12 p. 309 2.º S. dello Archivio Storico italiano: gli è certo che la lettera doveva contenere cose buone a dirsi, se riusciva la fuga e buone a tacersi se questa andava come andò fallita: però simile scrittura deve considerarsi se non simulatrice, almeno in parte dissimulatrice del vero; nondimeno in tanta scarsezza di documenti relativi alla vita del Burlamacchi qui la metto, come quella che, nota a pochi, pure emana autenticamente da lui. [24] COSMUS MEDICES DUX FLORENTIÆ. Le vostre del 4 sono state gratissime al solito per i molti avvisi..... Quel che a noi occorre dirvi dell'occorentie di qua si è che dopo che fu scoperto el trattato del Burlamacchi confaloniere di Lucca del quale per le nostre de 29 del passato vi demmo avviso, furono inviati qua da noi prima un secretario et dipoi dui ambasciatori di quella città per persuaderci che la cosa non havesse fondamento alcuno faciendola leggiera quanto più si poteva, con allegar che detto confaloniere è persona capricciosa et pazza, il che quanto sia verisimile lo demostra il luogo supremo che teneva di quella signoria et l'officio di commissario della militia loro. Noi, premendo la cosa per l'interesse nostro et non punto meno per quello di S. Maestà nella coniuntura che ella si trova di presente, giudicammo expediente di ricercare quei Signori che si contentassino di darlo in mano nostra per insin a tanto che noi l'havessimo fatto examinare con intervento et presentia di qualche uomo loro et questo per bene intendere e' particularj della cosa et chi erano i compiici et fautori, et per tale effetto mandammo a Lucca uno del nostro consiglio a fare ogni istantia possibile che ce lo concedessino con promessione di rimetterlo nelle mani loro subito che si fussi esaminato. Ma nò ce l'hanno voluto concedere, come quelli (pensiamo noi) che debbon sapere che costui ha in corpo molto più di quello che loro hanno mandato fuora, et non vogliano si propali maxime che de compiici et fautori ce ne debbono essere assai della città loro et d'altronde, et forse persone d'importanza. Haviamo fatto noto el tutto a S. M. dalla quale speriamo sì come ella fece gratia a quei Signori del Fascinello (sic) per lo interesse della città loro vorrà anco che Costui sia examinato fuor di Lucca nelle mani nostre o in altro luogo conveniente, perchè si sappia lo intero di questo trattato et per il suo et per il nostro interesse, et ci è parso dare anche conto di tutto questo a voi per vostra informatione perchè sappiate di che maniera e' Lucchesi si deportino verso di noi in questo negotio et la satisfazione che lo animo nostro può e deve prendere di loro. Gli avvisi più freschi che habbiamo della corte...... Da Firenze Alli XI di Settembre 1546 EL DUCA DI FLORENTIA. [25] Et subito postosi da se medesimo alla corda spoliato e dopo ligato e alsato per brasa quattro o circa da terra e quivi stando sospeso ecc. — Processo negli archivi di stato. [26] Et allora alzato, squassato, ecc. — Id. [27] _Cavaliere_, come si è visto di sopra, i Lucchesi chiamavano il boia: proprio così; io non ci metto su nè olio ne sale. [28] Si noti che la massima parte delle parole, in ispecie poi quelle che pongo in bocca al Burlamacchi, furono tolte dal processo originale. [29] Di nuovo avverto il processo originale fatto al Burlamacchi in Lucca si trova nello archivio di stato, Serie A Armario 4, N. 44; occorre stampato nella Biografia del Minutoli, ma in parte manchevole: perchè ciò facesse ignoro. — [30] Sentenza di morte di Cesare Benedino. «6 luglio 1566 C. Cesare di Niccolaio Benedino da Lucca, per havere da più tempo in qua insieme con Francesco Burlamacchi cittadino lucchese in diversi luoghi havuto intelligenza di macchinare et perturbare il pacifico e quieto stato e benessere di S. E. S. con intrare di notte armata mano in la città di Pisa et quella furtivamente tôrre a essa S. E, e con animo perverso entrare in più luoghi dello stato sollevando et facendo movimenti in danno di quella, et essere andato a Venezia e conferito il loro malanimo a banditi e ribelli di quella, come più appieno appare nella sentenza, fu condannato ad essere decapitato in su un palco perciò da farsi nella piazza di S. Pulinare et la testa messa sur una picca. A dì detto fu es: lib: 299 e 42. Veduto il processo et l'esame fatto dal capitano Cesare di Niccolaio Benedino da Lucca, dove in sostanza si contiene che il prefato capitano insieme con Francesco Burlamacchi cittadino lucchese dello anno....... o più vero tempo in Lucca et in più e diversi altri luoghi havere havuto intelligentia di macchinare et perturbare il pacifico et quieto stato e bene essere dello Illmo Signor nostro il signor duca di Fiorenza et di Siena, con entrare di notte, armata mano, in la città di Pisa e quella furtivamente torre alla prefata E. S. con animo perverso d'intrare in più luoghi dello stato e sollevando il popolo fare molti e diversi movimenti in danno et pregiuditio di S. E. I. et dei suoi fedelissimi sudditi, et a questo effetto più volte è andato a Venezia e conferito questo loro cattivo animo e pensamento con più sbanditi e ribelli della prefata S. E. I. e fatti più altri discorsi e cattivi effetti tendenti solo a mettere in esecutione il malo intento loro, come più largamente et a pieno appare nel detto processo, examine et costituti in un libro a parte nella cancelleria di detto magistrato. Et veduta la ratificatione fatta per lui davanti al magistrato e tutto quello che fu a vedere et a considerare, et volendo intorno a ciò fare conveniente e meritevole giustizia acciocchè di tal suo fallo mai più per tempo alcun possa gloriarsi, ma la sua pena passi in esempio agli altri. — Per ciò lo condanniamo ad essere menato in sulla piazza di S. Pulinare presso al palazzo della residenza di detto magistrato, dove per il ministro d'iustitia in su un palco a ciò deputato gli sia tagliato _il capo dalle spalle sì et in tal modo che l'anima dal corpo si divida_ (non si può negare a cotesti giudici il merito di significare precisamente il proprio concetto) _e la testa fitta_ e confitta in su una picca su detto palco per termine di tre o quattro ore, al tutte le predette cose con ogni et.» A dì 15 luglio et. [31] Le ordinanze della Montagna furono stabilite il 17 maggio 1544. Notisi che da quel tempo il Burlamacchi meditava il suo disegno; e da quanto dice può credersi che a questo effetto egli n'eccitasse la istituzione. [32] Allude qui alla carica di gonfaloniere che avea ricoperto. [33] Intendasi _Per tre quarti assicurata_, ossia _di molto probabile_ riuscita. È un modo di dire che può sembrare strano, ma che trovasi nel Machiavelli e in altri cinquecentisti. Notabile questo Ricordo di messere Francesco Guicciardini CCLX: — Chi ha governo di citta, o di popoli, se li vuole tenere corretti, bisogna ch'e' sia severo in punire tutti e delitti, ma può usare misericordia nella qualità delle pene, perchè dai casi atroci, e quelli che hanno bisogno di esemplo in fuora, assai è ordinariamente se gli altri delitti sono puniti _a 15 soldi per lira_. INDICE DEDICA. Pag. 5. PROEMIO. Pag. 7. Decadenza dei popoli graduata: difficilmente risorgono: e se risorgono, sentono per lungo tempo il sepolcro. — Viltà nostra di che danni operatrice nel secolo decimosesto; diversità che passa tra dominatore che ti regge in casa e dominatore che ti regge di fuori. — I papi prima dominatori, poi soci, all'ultimo aguzzini dei re. — I mutamenti religiosi o sovvertono le condizioni dei popoli o le confermano e perchè: Quello che dapprima Leone X pensasse della riforma. — Cristianesimo in onta alle apparenze di subiezione è ribelle, protestantesimo nonostante la sembianza di ribelle è servile. — Per quali cause gl'Italiani si mostrassero parziali alla riforma religiosa. — Condizioni della virtù militare in Italia durante il secolo decimosesto: molta e a suo danno. — La Italia non può morire, e lo ha dimostrato: circolo delle umane cose se vero; umanità sempre in moto verso il meglio. — Sardanapalo ed Anassarco, e parallelo fra loro. — Immondezzaio moderato che ha avvilito la Italia dal 1859 in poi. — Non avendo nè potendo avere credito da per sè, i moderati sfruttano l'altrui, ma per poco; finchè non si fanno forti su le manette. — Dove, come e perchè il Burlamacchi si avesse la statua, per virtù dei moderati. — Orazione del professore Pacini ed iscrizione bugiarda: fatti che lo provano: verun tiranno si mostrò astioso quanto i moderati in Toscana. — Della setta moderata vuolsi disperso il seme, se intendiamo che la buona morale risorga, senza la quale restaurare la vita del popolo è niente. CAPITOLO I. Pag. 19. Dicono Francesco Burlamacchi nato di piccola gente, e non è vero. — Il Dalli canonico ce lo dà per fallito, e perchè; così pure lo Ammirato e lo Adriani per piaggeria al principe; non diversamente il Botta, ma per pecoraggine: giudizio sopra questo scrittore, severo ma meritato. — Antichità della famiglia Burlamacca: donde il suo soprannome per opinione dei cronisti: quale fosse prima. — Questa famiglia, come degli ottimati, e guelfa è cacciata dal popolo; torna in patria, dove si distingue per uomini insigni e tiene sempre luogo onorato fra i maggiorenti. — Sue case e torri, patronati, sepolcri ed armi gentilizie; sostanza dei Burlamacchi, per quali cause scemata. — Francesco mercatante di seta; per ciò lo sfregiano l'Ammirato e lo Adriani. — Fiorentini mercadanti tutti, così i Capponi, e così i Medici, i quali esercitavano la mercatura anco dopo fattisi principi. — Giovanni Bicci presta danaro sul pegno della tiara papale a papa Martino. — Dei genitori di Francesco, dei suoi fratelli e delle loro fortune. — Quali i suoi studi; allora fra semplici artefici s'incontravano con frequenza in Toscana dicitori in prosa ed in rima; stato presente di letteratura deplorabile in Toscana, in Firenze deplorabilissimo. — Fra Pacifico, zio di Francesco Burlamacchi e veneratore di fra Girolamo Savonarola, ne detta la vita; lo difende altresì nel dialogo chiamato _Didimo e Sofia_; insegna il modo di mettere in cervello l'enormezze romane, educa la gioventù e muore in odore di santo; educatore della gioventù lucchese e di Francesco. — Sue qualità fisiche e morali: chi fosse la sua moglie. — In che età entrasse Francesco nella magistratura; ed indi in poi tenne sempre il maestrato: non cerca mai uffizio, uno sì, e perchè. — Buoni ordinamenti della repubblica lucchese per difendersi dalle insidie dei potentati vicini. — Divisione della città per l'amministrazione e per la difesa, terzieri, gonfaloni e pennoni. — I Burlamacchi del terziere della Sirena adoprano questa immagine per cimiero. — Come ordinate le milizie; quante le armi e quanti gli armati così in città come in campagna; segnali diurni e notturni per convocare le milizie. — Francesco col favore di Giambattista Borrella viene eletto commissario delle armi. Quali i compagni di Francesco in cotesto maestrato, e quali i luoghi alla custodia loro commessi; larghezze del Burlamacchi per attirarsi la benevolenza dei soldati: a quanto sommassero le battaglie di campagna. — Si parla delle imprese felici e delle sventurate, e per quali cause le seconde possano acquistare lode pari alle prime. — Di Focione e del suo giudizio intorno alla guerra lamiaca. CAPITOLO II. Pag. 37. Se una legge fissa governi le cose morali e politiche come le fisiche: difficoltà di rinvenirla. — Scienza politica fallacissima e perchè. — Quante volte nei suoi presagi politici sbagliasse il Machiavello; esempio solenne di giudizio errato accaduto ieri. — Burbanza e vanità delle cicalate che appellano _Filosofia della storia_; sistemi a vicenda divoransi. — Secolo XVI secolo _caposaldo_; comincia epoca nuova non anco compita: a qual patto i popoli cesserano le guerre. — Ciclo perpetuo dei medesimi eventi presagito dal Machiavello non è fatale: nuovi semi partorirono e partoriranno sempre nuovi frutti. — Speranza e pazienza veraci angioli custodi della vita. — Stato di Europa nel punto della storia nostra: conquiste normanne in Inghilterra: Inglesi conquistano la Francia. — A Carlo VII succede Luigi XI che compone il reame di Francia in arnese di guerra. Prosunzione dei giudici moderni; con quali norme hassi a giudicare dei tempi e degli uomini passati. — Come la religione diventi flagello del consorzio civile: colpe del cattolicesimo pervertitore di morale e impedimento al migliorare della stirpe umana. — Luigi XI morendo non si pente, anzi crede di aver ben meritato della monarchia e di Dio. — Se Ludovico il Moro e le donne di Savoia e di Monferrato fossero unicamente cause che i Francesi calassero in Italia, e sembra di no. — Stato d'Italia per colpa dei suoi principi dispostissima ad essere invasa. — I Francesi l'avrebbero conquistata e tenuta se non era la Spagna; la quale in breve per virtù e per fortuna si costituisce in potente reame. — I reali di Spagna; consentono a starsi in mezzo neutrali perchè Carlo VIII spogli gli Aragonesi di Napoli, poi sotto pretesto di soccorerli vanno a spogliarli essi. — Dura sentenza del Prescott contro la Italia e non giusta. — Tra il re di Francia e il re di Spagna cresce l'odio per la contesa dello impero: prevale la fortuna di Carlo, ch'è assunto imperatore; Francesco I è condannato nelle spese e perde la causa. — Larghezza di stato non fa grandezza. — Lo imperatore non arriva mai a soggiogare la Francia; se ne assegnano le cause diverse interne come esterne. — Carlo V come politico sommette ogni considerazione all'interesse, pure pende per natura al beghino. La libertà di coscienza in Germania si desiderava davvero, pure serviva a colorire il fine della libertà politica. — Pace inopinata di Crespy; in apparenza la Francia ne ha il meglio; vantaggi grandi che ne cava Carlo V. — Opinioni contrarie sopra cotesta pace: anche nelle famiglie dei contraenti genera dissidi. — Misero stato d'Italia. — La Francia procura tregua, non potendo pace, fra lo imperatore e il Turco. — Carlo scarrucola Francesco, e questi non se ne vuole accorgere. — Carlo si volta intero alle cose di Germania: convoca la dieta a Vormazia per istabilire il concilio, il quale abbia a definire le questioni religiose. — _Interim_ che fosse, e quando, ed a quali fini si concedesse. — I Tedeschi cresciuti di forze repugnano a mettere in compromesso il presente loro stato: e poi non hanno sicurezza recandosi a Vormazia: salvocondotto imperiale da non se ne fidare: quando salva e quando no; perse Hus e Girolamo da Praga; difese Lutero ma perchè: parole animose di Lutero recandosi a Vormazia. — Ferdinando re dei Romani sotto apparenze sante nasconde fine scellerato pel quale convoca la dieta a Vormazia. Altri fatti donde i protestanti desumono prova di animo ostile dello imperatore contro di loro; e segnatamente dal caso dello arcivescovo di Colonia. — Si apre il concilio di Trento; con quali intenti di Carlo. — Morte di Lutero; allegrezza dei cattolici e sbigottimento dei luterani; a torto entrambi; le cose apparecchiate, protratte per necessità di tempi poco si offendono per la morte di un uomo. — Paolo papa mette le mani nel negozio dell'arcivescovo di Colonia per arruffare la matassa allo imperatore. — Lo imperatore apre la dieta a Ratisbona; i protestanti vi si presentano per via di mandatari. — Se meriti lode di astuto il contegno tenuto da Carlo in cotesta congiuntura. — Trattato dello imperatore col papa, e patti della lega: girandole di Carlo e stizza del papa che si vede rubare il mestiere. — La Germania va in fiamme: apprestansi armi a combattere. — I Veneziani dissuadono il papa di porgere aiuto allo Imperatore, e buone ragioni che ne danno, ma invano. — Tradimento di Maurizio di Sassonia a carico del suocero e del cognato. — Conchiudonsi nozze, come sempre, favorevoli a casa di Austria. — Iattanze del langravio: numero stupendo di milizie raccolte. — Dannose dimore e peggio che inutili proposte dei luterani a Carlo; il quale, montato in furore, senza consultare la dieta, gli mette al bando dello impero. — I principi mandano l'araldo a intimare la guerra contro lo imperatore ed a protestare contro il bando. — Così le armi dello impero ingaggiate in guerra piena di pericolo, ottima la occasione per tentare novità in Italia, il Burlamacchi poi uomo da volere e sapere cogliere la occasione. CAPITOLO III. Pag. 67. Condizioni d'Italia. — Paolo III e suoi concetti per ingrandire il figliuolo Pierluigi: quali i costumi di questo scellerato, nè la storia li dichiara tutti: quanti stati il padre gli procurasse e su quanti mettesse gli occhi; Milano e Napoli desiderati invano: Siena insidiata. — Con quali arti i Sacerdoti abbiano messo assieme la roba: perchè i cardinali assumessero vesti di colore vermiglio. — Andrea Doria avverso a Farnesi: se avesse cause private s'ignora, pubbliche ne aveva e quali; si espongono gli argomenti per credere che Andrea non si sarebbe opposto ad un moto inteso a liberare la Italia dagli stranieri. — Venezia fino da cotesti tempi a quale stato ridotta; politica conservatrice sa dell'etico e perchè; ragione delle repubbliche aristocratiche: durare non è vivere, e mal s'intende di che cosa sappia la lode data da Vittorio Alfieri a Venezia; anch'ella non avrebbe impedito la cacciata degl'imperiali d'Italia; solo non avrebbe mosso un dito per affrettarla. — Di Savoia non importa parlare; piccolo stato egli era e ad ogni moto ostile. — Firenze sola a sostenere la causa della democrazia; da tutti abbandonata e tradita, massime dai Francesi; poi dal Doria, da Siena e da Lucca: condizione degli animi dei Fiorentini spenta la Repubblica. — Lorenzino dei Medici a cui parve Bruto, che cosa paia a noi. — Perchè Cosimo I abbindolasse il Guicciardino. — Quale ragionevolmente lo scopo di Cosimo I dei Medici. — Pure in Firenze, Lucca e Siena bollivano umori vogliosi di novità. — Cose di Siena per mostrare come potesse favorire il moto del Burlamacchi. — Fabio Petrucci cacciato: mutazione del reggimento verso il principato per opera di Alessandro Bichi, che viene ucciso; i suoi aderenti. — Contese tra il popolo e i noveschi. — Noveschi che fossero e quanto arieggino coi moderati moderni. — Governo popolesco che pensi e che faccia. — Noveschi tentano pigliar Siena, sono ributtati. — Il Trecerchi alla porta di _Santoviene_, e donde questo nome. — Il popolo si vendica. — Caso del Bellarmati o di suprema virtù o di avarizia suprema. — I Sanesi procacciando i propri vantaggi mentre il papa e lo imperatore si versano in angustie si stimano astuti: necessità grande che avevano per andare cauti: pure screzio tra nobili e popoli circa al doversi sovvenire Firenze, e il popolo vuole. — Carlo vinta la guerra si scopre favorevole ai noveschi; invia a Siena Lopez perchè agguindoli con le frodi; non riuscendo, manda Ferrante Gonzaga onde adoperi la forza; l'adopera. I noveschi tornano a prevalere; si armano; tumulto dove il popolo si conduce in parte da esserci oppresso: questo consiglia il capitano Borghese, ma non gli danno retta, ond'ei se ne va con Dio. — Nuovo tumulto, dove i noveschi vengono abbattuti; ne arrovella il Gonzaga, minacce e pretensioni: — Ardire di Mario Bandino e di Achille Salvi. — I Sanesi attendono risoluti a difenderli. — Lo imperatore richiama il Gonzaga e il Lopez e viene a patti. I noveschi rimangono abbassati. — Il duca Alfonso Piccolomini di Amalfi surrogato al Lopez si mangia le paghe di 300 fanti. — Noveschi più volte si adoperano ai danni del popolo, il quale avutone odore, combatte i noveschi, e non li perde a patto che, inquisita la cosa, si puniscano i rei. — Alfonso di Pietro paga per tutti. — Sorge la tirannide dei Salvi venuta su per favore di popolo, poi avversa al popolo ed a tutti. — Miseria universale. — Comparisce l'Occhino; qualità di lui. — Congiura con i Salvi; questi pigliano il dinanzi mettendo mano alle armi. — Il duca Alfonso seda il tumulto. I Salvi perdono riputazione; ricercati a seguitare le parti di Francia per danari e promesse, si lasciano corrompere: gl'imperiali scoprono il trattato; Giulio Salvi prima fa scappare il negoziatore francese, poi lo arresta e lo consegna a Cosimo duca di Toscana. — Nuovi sospetti per parte degl'imperiali. — Il duca di Amalfi è rimosso da Siena. — Monsignore Granvela preposto alla riforma di Siena manda innanzi lo Sfondrato a scoprire marina. — Riforma del Granvela in che consistesse ed a qual fine preordinata. — I noveschi tornano a galla: cominciansi le persecuzioni contro i Salvi e i popolari, che vengono interrotte per la notizia del naufragio della flotta imperiale ad Algeri. — La balía entra in carica; sue provvisioni in parte ottime e in parte strane: se la piglia con le donne, mentre tutto il male viene dagli uomini. — Giulio Salvi scade di credito, chiamato in Fiandra è messo prigione, più tardi lo liberano: della sua prigionia come della sua libertà non se ne danno per intesi i Sanesi. — Lo Sfondrato finchè promuove i noveschi lasciasi fare; più tardi, scoperto ch'egli favorisce il papa, è licenziato. — Gli subentra don Giovanni De Luna, che pure parteggia pei noveschi. — I Farnesi molestano Siena, per interposizione dello imperatore, lascianla stare. — don Giovanni con la opera dei noveschi trama insignorirsi di Siena: tracotanza dei noveschi; il Tondi novesco ammazza il Bianchino plebeo e ne sorge tumulto. — Eccitamenti a romperla; capestri appiccati agli usci delle botteghe del popolo. — Apparecchi di nozze della figlia di don Giovanni sono argomento di sospetto. — I noveschi confidano fare eleggere capitano del popolo uno di loro, ed invece esce un popolesco; lacci tesi al popolo perchè concorra alle feste e quivi a mano salva opprimerlo; avvisato ei gli evita. — I noveschi primi a rompere la guerra; battaglia cittadina descritta; vari casi di quella. — Cosimo duca di Firenze accosta le sue bande ai confini. — Milizie del contado in città; don Giovanni fa che le bande del duca si ritirino. — I popoleschi mandano oratore al marchese del Vasto perchè tenga bene edificato lo imperatore. — Consulta popolesca intorno il da farsi: diversi pareri; prevale quello di Antonio dei Vecchi. — Noveschi cacciati dal reggimento. Don Giovanni lascia Siena e cita a comparire in corte imperiale parecchi cittadini. — Guardia spagnuola cassata. — Città ripartita in tre soli ordini. — Luna manda oratori a congratularsi in Siena. — Baldanza dei popoleschi fondata sopra gl'imbarazzi di Carlo e su la protezione del marchese del Vasto, il quale mentre sta in Vigevano su le mosse per Siena di un tratto muore; dicesi per veleno propinatogli da Cosimo dei Medici. — Per la costui morte mutano di cima in fondo le condizioni di Siena; da capo torna la pratica in mano al Granvela nemico a vita tagliata del popolo. — I noveschi di nuovo a galla. — I cittadini citati da don Giovanni a corte inesorabilmente confinati parte in Lucca e parte in Milano; il Savini confinato comunque capitano di popolo per cordoglio ne muore; i cittadini gli surrogano nell'ufficio Enea suo figliuolo venticinquenne. — La città restaurata al governo dei Quattro Monti. — Guardia spagnuola prima di 400 Spagnuoli, poi a cagione del rammarichio dei cittadini cresciuta fino a 500. — Si mulina la fabbrica di un castello. — Sanesi frementi della novella tirannide e smaniosi di gittarsela giù dal collo. CAPITOLO IV. Pag. 113. Stato di Lucca nei tempi medii pari a quello delle altre terre toscane: i servi si ribellano contro i feudatari e costituscono il comune. — Imperatore e papa, considerati fonte di autorità nel mondo, talora facevano approvare dallo imperatore gli eletti dal popolo, talora no. — A Lucca i supremi magistrati appellavansi anziani: potestà, capitano del popolo e sindaco che fossero, che facessero, quanto durassero, donde si traessero. — Se ai consigli partecipasse il popolo intero. — I consigli erano due in Lucca e da cui presieduti. — Consiglio di credenza che fosse. — Le tasche dove s'imborsavano i cittadini eligendi quante fossero, e chi vi mettessero. — Agl'imperatori non cale la cessazione dei feudatari a patto di redarne i diritti a carico del popolo. — Lo impero sostenne fino all'ultimo feudi imperiali le repubbliche toscane. — Uguccione della Faggiuola e Castruccio Castracani vicarii imperiali a Lucca. — Motto acerbo dell'Alighieri, contro Uguccione. — Digressione intorno a Castruccio, e quante miserie nella sua prosperità apparecchia alla sua patria ed alla sua discendenza. — I Tedeschi lasciati da Ludovico il Bavaro mettono Lucca allo incanto: la compra lo Spinola mercante genovese, che la tiene poco e male; subentrano al dominio di Lucca uno dopo l'altro Giovanni di Boemia, i Rossi di Parma e gli Scaligeri, finalmente i Pisani nemici acerbissimi ai Lucchesi. — I Fiorentini si vendicano su Lucca delle ingiurie di Castruccio: in mezzo a questi tramestii le forme repubblicane non mutano: forme politiche non rilevano se manchi la sostanza della libertà. — Carlo IV vende la libertà ai Lucchesi; a quali patti ed a che prezzo. — I Lucchesi diventano fittaioli dello impero; poi con diuturna industria anco vicarii. — I nobili non vonno compagnia nel governo della repubblica, e il popolo li caccia via dai maestrati non già dalla città: rimedio unico per purgare gli stati dalle consorterie. — Legge proposta da Francesco Guinigi buona o trista secondo i tempi e gli uomini, e tuttavia necessaria. — Giovanni degli Obizzi e come rintuzza la improntitudine sua. — Statuto del 1372 nè libero nè tiranno, e seme di rancori. — Il maestrato dei conservatori della libertà prima si riforma, poi per la morte del Guinigi si cassa; gli surrogano l'ufficio dei Commissari di Palazzo, ma ad altro fine. Principia lo screzio fra i Forteguerra ed i Guinigi; moto dell'Obizzi spento nel sangue. — I Forteguerra esclusi dai maestrati. — Il senato s'industria rimediarci e come. — Bartolomeo Forteguerra viene alla prova delle armi; è vinto. — Il gonfaloniere Forteguerra da Forteguerra messo alle coltella. — Lazaro Guinigi si fa tiranno: instituisce una maniera di governo oligarchico d'interessi materiali. — Lazaro è ammazzato dal nipote di Bartolomeo Forteguerra, ma i Guinigi non cascano, anzi Paolo Guinigi si fa tiranno assoluto; sua viltà e sua avarizia; pure ha la Rosa di oro da Roma. — I Lucchesi lo combattono, lo vincono, lo condannano a morte; poi lo mandano prigione a Pavia, dove muore. — Riforma dello stato. — Pietro Cenami gonfaloniere, procedendo rigido più che non conveniva, è ammazzato: vendetta che ne pigliano i Lucchesi. — Nuove congiure. — Michele Guerrucci per non avere con che pagare le multe è decapitato. — Legge del discolato che fosse: ragione dei provvedimenti straordinari che gli stati pigliano nelle vere o credute necessità; e quando giovino, e quando no. — Condizioni della signoria di Lucca di faccia allo impero: privilegio di Carlo IV, impronta pitoccheria di Massimiliano I in contrasto con l'avara tenacità dei Lucchesi; per ultimo Massimiliano sbracia privilegi; Luigi XII anch'egli vuole quattrini per non far male. — Carlo V, e nuovo mercato per Lucca dovendo le concessioni imperiali finire con la persona che le fa. — Caso festevole avvenuto fra Massimiliano ed i Lucchesi per cagione di 1000 scudi. — Lucca reputata sempre feudo imperiale. — Nuovi tumulti provocati dai Poggi: origine prima del tumulto il benefizio di Santa Giulia; l'Orafo creatura dei Poggi malmena la famiglia del vescovo. — I Poggi ammazzano il gonfaloniere Vellutelli; feriscono Piero e Lazaro Arnolfini: vogliono imporre gonfaloniere Stefano da Poggio, gli anziani rifiutano. — Cittadini armansi a sostenere gli anziani; questi, per tôrre i capi ai sediziosi, li perdonano, contro gli altri procedono: diversità tra Genova e Lucca in proposito, se e quanto meriti lode per questo. — Tumulto degli Straccioni e perchè chiamato così. — Cause del tumulto. — Oligarchia borghese e suo scopi miserrimi; esclusione dei cittadini dalle magistrature; riforme intorno allo statuto dell'arte della seta ed angherie ai tessitori; comincia il subbuglio: gli anziani, come suole, non cedono poco in tempo per cedere troppo inopportunamente. — Adunanza popolare nel convento di S. Lucia; e quello che ci si discorse: che cosa si deliberasse di domandare. — Cenami gonfaloniere ben disposto a concedere le cose richieste. — Feroci parole di Fabbrizio dei Nobili rimettono in compromesso la pace. — Di nuovo il popolo si aduna, ma non ingiuria persona. — Anziani mandano pacieri, e sono accolti male, i tumultuanti domandano pane; pure si viene a patti, e sembra composto lo screzio. Chi soffia dentro perchè lo incendio rinfocoli. — Cagioni di querele manifestate. — Si riforma il reggimento, nuove concessioni al popolo, e non si conchiude nulla: ne sono cagione i giovani scapestrati, principalmente quelli che avevano cessato il mestiero delle armi. — Malefizi dei giovani insofferenti di ogni freno. — Partiti larghi sono vinti dal consiglio per calmare gli spiriti, che non si quietano, ormai ostinati a vivere licenziosamente. — Congiura di cittadini a Forci presso i Buonvisi per occupare la città alla sprovvista e restituirci, come oggi si direbbe, l'ordine, e non riesce. — Pericolo che corre la città: i popolani spartisconsi; chi vuole sangue, chi no: nel contrasto non si fa niente, pure bisogna piegare davanti la volontà dei popolani, provvisioni su le chiavi della città. — Guardia alle porte dei più avventati. — I cittadini abbandonano la città: bandi per impedirli; i popolani pigliano le merci e i beni che tentano scansare dalla città. — Il maestrato propone uscire di palazzo e abbandonare lo stato: pietà di siffatto partito; un popolano si oppone, e rimette il cuore in corpo agli anziani profferendosi difenderli a tutt'uomo. — Preci solenni e processione statuita per ricondurre gli animi alla concordia; singolarità della processione; i preti tirano l'acqua al loro mulino. — Dio pei preti è _trino_ in cielo e _quattrino_ in terra; gli aiuti divini o si fanno aspettare troppo o non giovano. — Signoria nuova, di cui fa parte Francesco Burlamacchi; partiti risoluti che piglia. — Festa della _Libertà_; la manda all'aria un popolano: conseguenze di cotesto scompiglio. — Nuove risoluzioni della Signoria proposte dal Burlamacchi; la plebe si ribella, che di un tratto si avventa alle case dei Buonvisi per abbatterle; parte di plebe contrasta, ne seguita una terribile zuffa: prevalgono i demolitori, che vanno per le artiglierie; i Buonvisi mostrano i denti alla bordaglia, che li lascia stare; nella notte però essi lasciano la città. — Assemblea universale per provvedere ai bisogni presenti; donde venga che pii uomini talvolta sono sapienti e animosi stando da sè soli, messi in mucchio diventano stolti e codardi: deliberazioni gravissime dell'assemblea vinte per virtù di popolani appartatisi dai licenziosi. — I partigiani dei ribelli, impediti di uscire dalle porte gittansi dalle finestre per avvisare gli amici, i quali corrono alle armi e tornano ad assediare il palazzo. — Gli assediati resistono. — Le leggi contro i sediziosi sono vinte. — Alberto da Castelnuovo vuol mandare all'aria il palazzo e non riesce per miracolo. — Gli assediati inviano a sonare a stormo perchè le compagnie delle bande cittadine traggano a liberarli; ma prima che vengano ingaggiano battaglia con quei del cortile; li finivano tutti, dove i sediziosi per tema di essere presi tra due fuochi non uscivano a guardare gli sbocchi delle strade. — I sediziosi cacciati dagli sbocchi, i difensori della Signoria si sparpagliano per la città; di ciò i sediziosi accortisi, fanno testa e tornano ad occupare il cortile: trista condizione degli anziani rimasti in palazzo: i Buonvisi fanno massa a monte San Quilico, ma gli anziani non sanno come avvisarlo; per devozione di Lunardo Pagnini sono avvertiti i Buonvisi; il difficile sta nello introdurli a Lucca. — Fede di prete Bastiano da Colle che si profferisce portare la chiave di porta San Donato affinchè sieno intromessi: avventure e disdette di prete Bastiano; finalmente trova Taddeo Pippi e si apre con lui: favore del Pippi, che si acconta col Dini, e per diverse vie si accordano di far capo a porta San Donato. — Orazione di Martino Buonvisi prima di muovere per Lucca. — Casi che ritardano e imbrogliano il cammino: il fiume con non poco travaglio è guazzato. — Consigli diversi di scalare le mura, o di ardere le porte: vanno a pigliare lingua a porta San Pietro, tornano assicurati si aprirà, tantosto la porta san Donato. — Prestanza di Vincenzo da Puccio; finalmente schiusa la porta, il Buonvisi co' seguaci suoi sono intromessi. — Modestia del Buonvisi. — Descrizione dello ingresso. — Argutezze di Meuccio cuoiaio. — La sedizione vinta. — Fuga di alcuni sediziosi e morte di altri. — Acclamazioni al Buonviso; e grave riprensione del gonfaloniere, a cui egli risponde umanamente. — Crudeltà esercitate dai vincitori: condanne di morte, carceri ed esilii. — Il commissario imperiale tradisce i commessi alla sua fede. — Due preti giustiziati. — I poggeschi di nuovo perseguiti; altri preti più avventurati scappano. — Nuove vendette patrizie. Parallelo fra i rivolgimenti di Lucca e di Siena, e si adducono le ragioni per le quali compariscono diversi fra loro. — È mortale la paura che fai al potente comechè in suo benefizio. — Leggi predisposte a instituire la oligarchia lucchese. — Congiura del Fatinelli e del Baccigalupo: loro supplizio. — Stato degli animi di Lucca inchinevoli a novità, epperò a favorire il moto del Burlamacchi. CAPITOLO V. Pag. 189. La Riforma in Italia fa progressi e minaccia sopraffare il cattolicesimo. — Cause che la provocano. — Spettacolo quotidiano dei vizi del clero. — Santi padri, poeti, storici e letterati grandi tutti addosso a Roma. — Valdesi e albigesi se fossero in Italia e quanto durassero. — Benveduti dal clero nella Calabria e perchè. — Paganesimo della corte romana, da questo rimane indebolita la fede. — Imposture dei chierici e documenti falsi per la goffaggine loro di leggieri scoperti. — Lorenzo Valla e donazione di Costantino. — Versi di Battista Mantovano. — Lione X morendo non potè avere i sacramenti perchè gli aveva venduti. — Studi biblici: traduzioni, chiose e commentari. — Savonarola se possa considerarsi precursore di Lutero. — Cesare Cantù e suo perfido libro degli _Eretici in Italia_; sue strane difese della chiesa romana. — Versioni italiane della Bibbia. — Smania di leggere libri dei riformatori. — Opinione stramba di fra Iacopo Passavanti su la traduzione volgare della Bibbia; così non la pensa Sisto V; al fine Roma approva la traduzione italiana della Bibbia, ma come. — Libri proibiti sotto nomi diversi dei loro autori penetrano nel Vaticano. — Curiosa avventura narrata dal cardinale Serafino circa Melantone che si rinnuova per altri. — Copie di libri proibiti; guadagno e pericolo allettamenti per i librai ed i pirati. — Scoperte, viaggi e commerci nocciono alla soperchianza romana; nocciono altresì le guerre e il mescersi delle nazioni fra loro. — Improperi che si avvicendano. — Imperatore e papa. — Sacco di Roma; maraviglia dei Tedeschi di vedere gl'Italiani sopportare il dominio dei preti. — Spagnuoli ladri e cattolici superlativi. — Tedeschi ladri un po' meno e cattolici punto. — Scede al papato. — Scena accaduta sotto Castello Sant'Angiolo. — Giorgo di Furstemberg venuto dal fondo di Germania per impiccare il papa e i cardinali. — Arringa del vescovo di Bari agli auditori della Ruota Romana. — Ferrara. — Renata. — Modena i Grillenzoni, Ludovico Castelvetro ed altri: in Modena la Riforma si allarga. — Bologna: casi del frate Mollio. — Sparata dello Altieri. Commissione romana per la riforma dei costumi creata da Paolo III, e caso che ne fanno i preti, anzi quei dessi, che la composero. — Le città del patrimonio di San Pietro: disputa ad Imola tra un frate ed un laico. — Venezia mercanteggia di eresia come di droghe. — Progressi della Riforma costà. — I luterani per poco non professano la religione loro pubblicamente; provincie di terraferma in quale stato si trovino. — Milano giudicato da Paolo III. — Vita ed avventure di Curio Secondo. — Valdesio spagnuolo a Napoli svia l'Ochino dal cammino della Chiesa. — Siena città dei santi e degli eretici. — Ochino e donde il suo nome; sue vicende, peripezie e dottrine. — Pietro Aretino e l'Ochino. — La devozione delle Quarant'ore inventata dall'Ochino. — Smancerie del cardinal teatino all'Ochino. — La riforma a Pisa, a Mantova, a Locarno. — Digressione intorno al fanatismo religioso e politico. — Odio contro il papato nella universa Italia. — Donne eretiche in Italia. — Si parla della riforma nella città di Lucca: e cause per aborrire Roma in Lucca antichissime. — Pietro Martire, donde il nome e la patria; suoi studi; predica sul purgatorio. — Vicario di San Frediano a Lucca: suo apostolato costà; amici e studi suoi. — Paolo III a Lucca non molesta il Martire, e perchè. — Cardinale Contarini amico del Martire e tinto di eresia. Carlo V tiene al fonte Carlo padre di Giovanni Diodati volgarizzatore della Bibbia, e papa Paolo lo battezza. — Oscena guerra contro il Martire: perfidissime lettere del cardinale Guidiccioni lucchese alla Signoria di Lucca. — Disegno di Carlo V circa a tôrre la libertà a Lucca riportato dal Luito Balbani non è creduto dal Tommasi, e con poco fondamento. — Un frate è preso; a forza liberato dal carcere, nella fuga si rompe una gamba ed è ripreso. — Il Martire e l'Ochino lasciano la Italia; il primo è eletto professore a Strasburgo. — Chiesa luterana di Lucca percossa non dispersa: che cose le scrivesse il Martire tredici anni dopo la sua fuga. — Lucca donde cava il nome: cause per le quali a Lucca la Riforma più presto che altrove attecchì e più lungo durò. — La Riforma in onta alle apparenze di esito certo e alle paure di Roma venne meno in Italia. — Se ne indagano sommariamente le cause. — Inquisizione; Roma da prima osteggia la inquisizione, e perchè. — Persecuzioni a Modena. — Del Castelvetro e della infamia del Caro buon letterato ed uomo pessimo: nè chi vive in corte di Roma può essere diverso. — Sonetto del Caro contro il Castelvetro mandato a memoria per virtù dei reverendi padri barnabiti. — Confronto delle lapidi sepolcrali di ambedue. — Feroce e moltiplice persecuzione a Ferrara: Olimpia Morato fuggendo scampa. — Commissione del re di Francia alla zia Renata duchessa di Ferrara; sue angustie; messa in carcere, divisa dai suoi: il figlio Alfonso la manda via. — Questi il _magnanimo_ Alfonso di cui canta il Tasso: in che pregio il _magnanimo_ tenesse il Tasso. — Grandezza d'animo di Renata; sue figliuole. — Venezia tira partito dalla libertà di coscienza come da ogni altra cosa; ma poi spaventala dalle minacce di Roma piega: persecuzioni costà. — Terrore cattolico nell'Istria. — I Vergeri. — Caso miserabile di esuli veneziani dannati a morte per eresia. — Quali i supplizi veneziani. — Improntitudine dello inquisitore contro il duca di Mantova. — Ferocie clericali a Faenza ed a Parma; a Faenza il popolo dà di fuori e si sfoga. — Falsità pretine a Locarno; miserie dei Locarnesi spatriati. — Disputa tra il nunzio e le donne di Locarno. — Avventura di Barbara Montalto. — Altre atrocità pretine da clericali moderni, massime dal Cantù, non pure scusate, ma quasi lodate. — Roma avversa a Napoli la Inquisizione di Spagna perchè intende esercitarla da sè. — Lamentabili casi avvenuti in Calabria. — Sansisto e la Guardia colonne infami per Roma. — Corrispondenza tra Roma ed Austria, e poi tra Austria e Francia; digressione intorno alle condizioni presenti d'Italia. Testimonianze cattoliche intorno alle crudeltà sacerdotali da mettere non che ad altri pietà a Nerone. — Bartolomeo Fonzio mazzerato nel Tevere. — Paolo IV invaso da libidine di sangue: popolo romano rompe le statue di lui morto, mentre avrebbe dovuto rompere la testa di lui vivo. — I parziali di Pompeo Di Negri mercè settemila ducati ottengono che prima di bruciarlo lo strangolino: questo il Cantù afferma che i preti facessero senza quattrini; ma per essere creduti dal Cantù bisogna essere preti e carnefici. — Pio V più feroce di tutti: varie stragi a Como, a Torino, a Roma. — Paschali strangolato ed arso alla presenza del papa. — Altre persecuzioni. — Si torna a Lucca: diligenze per estirpare in cotesta repubblica l'eresie. — Lucchesi sciamano a frotte, massime i Burlamacchi: dove si rifuggissero; discendenza ed estinzione della linea di Francesco Burlamacchi. CONTINUAZIONE DEL CAPITOLO V. Pag. 5. CAPITOLO VI. Pag. 97. I moderati del 1859 erigono al Burlamacchi una statua, ma non ne dettano la vita, e perchè. — Concetto del Burlamacchi repubblicano e avverso al potere temporale. — Sua prudenza ed arti adoperate a procacciarsi compagni nella impresa. Sebastiano Carletti chi fosse; prima operaio nel fondaco Burlamacchi, poi soldato sopra le galere di Lione Strozzi; viene a Lucca, va a Marsiglia per tirare lo Strozzi nella congiura. — Cesare Benedino è messo a parte della impresa: chi fosse; come lo adoperasse il Burlamacchi, che lo tratta più largamente di quello che la Repubblica fiorentina non trattasse il Machiavelli. — Generosità del Burlamacchi. — Gli Strozzi e l'indole loro; Bastiano Carletti va a Marsiglia per conferire col priore; non ce lo trovando, lo raggiunge a Parigi. — Ragioni diverse delle congiure. — Bastiano va in Iscozia ed in Inghilterra col priore, e succede una sosta alla congiura: gesti del priore costà. — Favorito da Francesco I, ma poco accetto ad Enrico II, e perchè. — Lo pospone nel comando dell'armata ad altro capitano meno degno; non per questo si ribella, come il Doria, e perchè. — Lione Strozzi, priore di Capua come il padre suo Filippo, si giudica fosse ateo. — Il Carletto, tornato a Lucca, ferma una posta fra Lione Strozzi e Francesco Burlamacchi a Lucca; ma Lione balena; pure va a Venezia per aspettarlo. — Il Burlamacchi è eletto commissario delle milizie di montagna: quando queste milizie venissero instituite: reputazione di questo ufficio e vantaggi che porge ai disegni del Burlamacchi. — Va a mettere pace tra San Quirico e Castelvecchio, ma è pretesto; messa da banda la pace, schizza a Bologna: quivi lasciato il servo, va a Ferrara, dove conferisce co' riformati: poi s'incammina a Venezia dopo avere da capo lasciato il servo Bati a Francolino, ma poi ce lo raggiunge; motivi presunti onde così costumasse il Burlamacchi. — Quello che avvenisse a Venezia secondo che depose con giuramento in giudizio Bartolomeo da Pontito detto il Bati. — Differenza di forma e d'ingegno fra il Burlamacchi e lo Strozzi. — Conferenza fra questi due. — Il Burlamacchi espone a parte a parte l'ordine della congiura e il modo di riuscirvi: Lione approva, ma piglia tempo per la esecuzione della impresa: pericoli e vantaggi dello aspettare, e per converso dello affrettarsi. — Il Burlamacchi torna a Lucca, dove attende a confermare gli amici ed a crescere il numero dei suoi seguaci; esce degli anziani: subito dopo lo eleggono gonfaloniere con universale soddisfazione. — Manda più volte il Benedino a Venezia sotto pretesto di comprare tinte, per sollecitare lo Strozzi, che gingilla senza prendere nè lasciare. — CAPITOLO VII. Pag. 125. Le passioni umane di che ragione sieno. — Chi fosse Andrea Pessini, e suo carattere morale. — Cagione per la quale il Pessini si consiglia di nocere al Burlamacchi. — Imprudenza del Benedino, che in lui si confida; il Pessino cavalca a Firenze; tradisce patria ed amico rivelando tutta la congiura al duca Cosimo, che ha paura e dissimula. — Tristizia dei tempi, ai quali possono solo paragonarsi i nostri. — Se possa essere vero che il Pessino confessasse al Benedino il suo tradimento; com'è verosimile se ne accorgesse il tradito; il Benedino ne porge notizia al Burlamacchi: quali le parole e le deliberazioni di lui; è statuita la fuga e il modo per eseguirla. — Scrive lettera alla Signoria con la quale purga da ogni complicità amici e parenti; se solo accusa: generosità adoperata verso l'Umidi sanese, e codardia del medesimo. — I magnanimi sensi del Burlamacchi derisi dai bracchi del principato. — L'Umidi svela la congiura a Bonaventura Barili cancelliere della Signoria. — Provvisioni del Burlamacchi per accertare la fuga, ed ordini che dà a Baccio donzello. — Il Burlamacchi tarda a presentarsi alla porta San Pietro, e discorsi che ne hanno fra loro Baccio e il Benedino. — Preteso imbroglio dei preposti alla custodia delle porte se verosimile. — Francesco esce di palazzo a sera, aspetta nel cortile il cugino Garzoni, che venuto esce con esso: racconto del Burlamacchi inverosimile, ma fatto a posta per salvare il cugino Garzoni: come si può supporre che accadesse il caso. — Il Burlamacchi, trovando impedita alla fuga la via, torna indietro; va a casa sua; consulta di parenti, che lo consigliano rientrare in palazzo. — La Signoria manda per esso, ed egli va: terrore e viltà dei Signori non intesi della congiura; smanie paurose dei compiici; tutte si appuntano a danno del Burlamacchi. — Magnanimità di questo, che dichiarava ignari tutti della sua trama, egli solo colpevole; dopo molte ambagi gli anziani lo fanno condurre alle sue stanze e guardarlo a vista; distrugge carte e ogni altro testimonio della sua impresa. — Consulta del consiglio, dove si propone sostenere prigione il Burlamacchi; esquisite cautele che si adoperano perchè non fugga e non si ammazzi. — Giusti timori degli anziani esposti; mandansi oratori ai diversi principi ed al concilio di Trento; a Cosimo spediscono il più astuto dei cancellieri. — Raccomandazione ai cittadini lucchesi stanziati in paesi stranieri di difendere dalle accuse la Repubblica. — Colloquio fra il cancelliere lucchese e il duca Cosimo; la batte tra pirata e corsaro: non si conchiude nulla. — Il duca per isgarrarla invia alla Repubblica oratore messere Agnolo Niccolini, e si conchiude anco meno. CAPITOLO VIII. Pag 149. Lucchesi, paurosi che il caso del Burlamacchi possa danneggiarli, fanno profferte vilissime a cesare. — Due volte mandansi oratori ai principi per tenerseli bene edificati. — Manoscritto originale del processo si conserva negli archivi di Lucca. — Quali le aderenze del Burlamacchi nelle città toscane. — Corrispondenze co' Sanesi quali. — Sua virtù a scolpare l'Umidi, che pure lo aveva tradito. — Confessa lui essere buono cattolico, e non ci si crede. — Testimonianze soppresse ed ora restituite. — E messo al tormento, altezza di animo dimostrata da lui in cotesto frangente. — Scrive allo imperatore ed al gonfaloniere di Lucca: della prima lettera non trovammo traccia; forse conservasi negli archivi di Vienna; pure se ne conosce il contenuto e si dichiara: si riporta la lettera del Burlamacchi al gonfaloniere. — Che cosa egli e gli Strozzi intendessero fare di Cosimo duca di Firenze. — Torturato da capo. — Smanie di Cosimo per avere nelle mani il Burlamacchi. — Lettera del duca Cosimo in corte allo imperatore per ottenere il suo intento. — Ferrante Gonzaga governatore di Milano manda un commissario imperiale per rinnovare gli esami del Burlamacchi. — Martoriato da capo: da sè spogliasi e si adatta alla corda. — Minacciato della prova del fuoco, da cui per pietà il commissario si rimane. — Terminato il processo, il commissario torna a Milano con due istanze contrarie: il duca voleva il Burlamacchi, e la Repubblica non glielo voleva dare. — Richiesto a Milano: squisite diligenze per custodirlo e perchè: si consegna con pubblico contratto: è messo in prigione onesta, ma dopo pochi giorni condannato a morte. — Tentativi degli amici e dei parenti del Burlamacchi per liberarlo. — Il Gonzaga dà buone parole; memoriali allo imperatore. — Andrea Doria raccomanda il Burlamacchi allo imperatore. — Per salvare Francesco, spendono in corte i parenti più di 36m. ff. — La moglie del Burlamacchi, la madre e l'amica di Cosimo pregano costui per la salvezza di Francesco, e risposta del duca. — Tentasi la fuga: disdetta onde non potè avere luogo: se vero o verosimile il caso. — Compagni di prigionia; chi fosse il marchese Giulio Cibo Malaspina. — Vengono per la tirannide le vendemmie di sangue: quali le cause che mossero cesare a incrudelire, e tra queste le principali. — Ultimi particolari della vita di Francesco Burlamacchi. — Sua sepoltura; potrebbero rinvenirsene le ossa. — Sebastiano Carletti si salva. — Fine miserabile di Cesare Benedino decapitato 14 anni dopo la congiura. — Commiato dello Autore. APPENDICE Pag. 183. [Illustrazione: ALBERO DELLA FAMIGLIA BURLAMACCHI] Edizioni della Casa Editrice di M. Guigoni VITA DI FRANCESCO BURLAMACCHI PER F. D. GUERRAZZI Un bel volume in-4º Lire 12 VITA DI SAMPIERO D'ORNANO PER F. D. GUERRAZZI Un bel volume in-4º L. 16 DIZIONARIO BIOGRAFICO UNIVERSALE COMPILATO PER CURA DI FRANCESCO PREDARI Due volumi in-16 italiane Lire 12 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (morìa/moría e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of the Project Gutenberg EBook of Vita di Francesco Burlamacchi, by Francesco Domenico Guerrazzi *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK VITA DI FRANCESCO BURLAMACCHI *** ***** This file should be named 48267-0.txt or 48267-0.zip ***** This and all associated files of various formats will be found in: http://www.gutenberg.org/4/8/2/6/48267/ Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. Creating the works from public domain print editions means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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