The Project Gutenberg EBook of Il secolo che muore, vol. II, by 
Francesco Domenico Guerrazzi

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Title: Il secolo che muore, vol. II

Author: Francesco Domenico Guerrazzi

Release Date: May 23, 2013 [EBook #42776]

Language: Italian

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*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL SECOLO CHE MUORE, VOL. II ***




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Copertina

F. D. GUERRAZZI

IL SECOLO
CHE
MUORE


VOLUME II.


ROMA
Casa Editrice Carlo Verdesi e C.
Via del Mortaro, 17

1885


PROPRIETÀ LETTERARIA

Roma, Tipografia Nazionale.


INDICE DEL SECONDO VOLUME

Capitolo X. pag. 7
Capitolo XI. 99
Capitolo XII. 183
Capitolo XIII. 257
Capitolo XIV. 327

[7]

Capitolo X.
CUSTOZA E MONTESUELLO.

Garibaldi! La gioventù italiana si rimescola a questo nome, più che non faccia il cavallo di battaglia al suono della tromba guerriera; a questo nome drizzano spaventati le orecchie il destriere di Sileno e il capitano La Marmora. Forse al solo sentirmi rammentare Garibaldi, Euterpe e Clio hanno a quest'ora preso la mantiglia per venirmi a susurrare nelle orecchie un cantico nuovo ad esaltazione dell'eroe. Non vi scomodate, o Muse, chè quello che col vostro aiuto poteva dire di lui, io l'ho già detto, nè ci potrei aggiungere parola. Quando mai le tenebre avessero ad inviluppare la terra, così che la umanità, perduta ogni idea del giusto e dell'onesto, si fosse ridotta a camminare a [8] tastoni, ella si volga al luogo in cui Garibaldi vive, ovvero a quello in cui le sue ossa riposeranno: ritroverà sempre la via della virtù.

Enrico IV, sul punto d'ingaggiar battaglia, ammoniva i suoi soldati: «Raccoglietevi dove vedrete sventolare il mio pennoncello bianco, perchè voi lo troverete sempre sulla via dell'onore.» Pei re, il sentiero dell'onore è quello del trono, traverso la strage di creature viventi, e poco preme se conterranee, o straniere; pel figlio del popolo, il sentiero dell'onore è quello della pace: nati tutti da un medesimo padre, perchè gli uomini non si dovranno alfine sovvenire come fratelli? Solo una guerra è giusta, quella contro l'aggressore di casa tua.

Un dì il Garibaldi, per questo nostro cielo italiano, comparve circondato da altri luminari; noi li credemmo stelle ed erano lacrime di San Lorenzo;[1] esse furono piante; in cielo ci è rimasto Garibaldi, che di stella diventò sole: tramonterà [9] la sua vita mortale, ma la fama della sua virtù durerà, finchè si trovi una bocca per magnificarla ed un cuore per benedirla.

Pregusti pertanto, egli mortale, la immortalità: esulti nell'altissima gioia di aver vinto la morte; dacchè da questo premio in fuori altro non gliene diedero gli uomini, nè egli lo avrebbe voluto.

Però insieme col Garibaldi una schiera di generosi si affaticò in altra guisa per le fortune della patria: operò meno con le armi, più col consiglio: più parca gloria acquistava, forse veruna, ma durò pari i patimenti, e a paragone di lui concorse al risorgimento dell'Italia.

Molti anni si sono accumulati sul capo di questi incliti cittadini; la loro vita non vediamo arrivata presso al verde, sicchè importa per tutti che noi la liquidiamo, senza ambagi, prima di depositarla, a mo' di bilancio, nella cancelleria della morte.

Repubblicani tutti fummo e siamo. Educazione, genio, carità patria e necessità ci fecero tali, ed anco, mirabile a dirsi, i frati, i quali insegnandoci a leggere il latino sopra Tacito, e il greco sopra Tucidide, credevano mostrarceli come mummie di Egitto, mentre essi accendevano nel nostro cuore inestinguibile l'amore per la repubblica. Come Sansone cavò il miele dalla gola del leone, la schietta tirannide ci fu maestra di libertà; imperciocchè in verità vi dico ch'è più sana la tirannide netta, [10] che la libertà menzognera: la tirannide schietta ha virtù di rinnovare nelle vene degli oppressi il sangue coll'odio; la libertà menzognera abietta i redenti con la corruzione; non noi lo diciamo, bensì la storia dei secoli ci mette davanti agli occhi come le monarchie precipitino i popoli nella viltà e nella inopia; la repubblica invece li feliciti con la generosità e l'agiatezza.

E poi, proponendoci a scopo di vita affrancare la patria dalla dominazione straniera, non avevamo potestà di scelta; imperciocchè l'Austria, oltre il terrore delle armi proprie, si facesse strumento di impero le tirannidi di seconda mano e le paure sacerdotali intese ad imbestialire la gente sotto sembianza di religione. E l'anima del popolo allora, ahimè! giaceva morta dentro il corpo vivo, al contrario di quanto narra la leggenda di Merlino, il Savio mago, di cui lo spirito viveva dentro il corpo sepolto.

Tutti i camposanti, io l'ho provato, possiedono un'eco; chiama là dentro, e qualcheduno ti risponderà, ma nelle città fatte cimiteri di anime vive dentro corpi morti, non affaticarti a gridare; tu perderai la voce: quivi è ineccitabile il silenzio. Come hai tu cuore di chiamarle camposanto? Lo infesto e infinito e infame gracidare dei ranocchi nelle curie, nelle cattedre e nei diari ti fanno fede che le città italiche non diventarono camposanto, bensì pantano.

[11] No, non è così; camposanto ad un punto, e pantano; camposanto per ogni voce di virtù e di gloria, pantano agli stridi ribaldi e servili. Oh! questi odierni saturnali di abiettezza durano troppo; almeno nei saturnali antichi i servi comandavano un giorno; adesso corrono anni che il padrone sopporta la pessima delle signorie, quella degli schiavi.

Tre per tanto le tirannidi di allora, ed una servitù sola. In quale dei principi potevamo confidare? Aspidi tutti, uno peggiore degli altri; il casereccio, supremo in malignità. Due traditi testimoniarono di lui: uno, il Santarosa, morendo pose un libro per puntello tra la lapide e la bocca del suo sepolcro, onde questo aperto perpetuamente raccontasse la truce storia di colui che lo tradì; l'altro, che fu poeta, insegnò alle crescenti generazioni l'orrore di quel nome; infelice! Egli, sopravvissuto alla sua fierezza, disdisse l'ire; ma fece di più, il Berchet chiese perdono delle sue colpe e l'ebbe: a sè tolse la fama e non la diede altrui. Benedetta la morte! Deh! lascia, o morte, ch'io ti baci le mani quante volte chiudi il libro della vita di un uomo, e dopo avervi scritto in fondo Ne varietur lo consegni all'eternità. Dio mi guardi da turbare le ceneri nel sepolcro, fossero anche quelle di un re: la Espiazione pose custode di cotesta tomba la Pietà. Dove il gran Giustiziere ha percosso, l'uomo deve chinare [12] la testa, ed io la chino; solo ricordo che noi avevamo buono in mano per non ci fidare del principe domestico.

Quanto patimmo altri racconterà: intanto il mondo conosce che l'ardua lampada per alimentare la fiamma della libertà chiedeva sangue non olio, e sangue fu dato. E tuttavia non fu questo il più grave dei sagrifizi; l'amore, o piuttosto il furore della libertà impose che ogni altro affetto, che non fosse il suo, gli si immolasse in olocausto, e noi li strozzammo tutti come Ercole fanciullo i serpenti entrati dentro la sua culla. Pane nostro quotidiano lo scherno; bevanda le lacrime; e ciò nonostante ci consolavamo pensando che anche degli Apostoli di Cristo fu detto: — E' sono pieni di vino dolce; — che le lacrime sono la migliore delle preghiere; e che quello che in terra si chiama martirio, gloria si appella in cielo.

Ecco l'ora in cui i lamenti diventano strepito di cascata e lo superano; ecco i sospiri si fanno uragano, che abbatte travi secolari e travolge per le terre d'Italia scettri e corone, come polvere dei campi; ecco sorgere un prete fra noi, il quale, o illuminato dall'ultimo raggio dello spirito di Dio, che lo abbandonava, ovvero intenebrito dalla prima ombra che gettava su lui lo spirito del male (e questo dicevano i preti) bandisce alle genti: voce di Dio la procella contro di cui argomento umano [13] non basta; venuti i tempi di rendere al popolo le sue giustizie. I principi atterriti promettono cessare i costumi di belva, umanarsi; e i popoli credono ai sacerdoti ed ai re; a cui non credono, e che cosa non credono le moltitudini?

Ma la caterva dei preti si attacca smaniosa alle fimbrie del piviale del gran prete pigolando: — O papa, che armeggi? Tu mandi a soqquadro la ciurma e la galera: o che non sai che il nostro giorno è la notte? Noi figli del mistero, noi creatori del domma, che non ammette discussione, noi fabbricanti della regola dell'infallibilità, consentendo libero l'arbitrio di pensare, ci avveleniamo da noi. Stentammo secoli e secoli a pigliarci la croce ed avvolgerla dentro una caligine di superstizione, ed ora, tremenda nella sua divina nudità, ti avvisi restituirla nelle mani del popolo? Poni mente al vaticinio che noi ti mandiamo: i preti un giorno conficcarono Cristo sopra la croce; il popolo, appena impadronitosi della croce, c'inchioderà il prete.

Il prete magno non intese a sordo, e la parola che egli aveva incominciato con la faccia di benedizione terminò in coda di maledizione; e da quel giorno non cessa procederci infesto, e a diritto, imperciocchè non mica la sola Compagnia di Gesù, bensì tutto il sacerdozio bisogna che sia qual è, o che non sia: ogni argomento torna inane per necessità, imperciocchè egli non voglia e non possa essere [14] esaminato; o che vorreste che il prete pigliasse il suo male per medicina?

Oh! no. Queste cose costumano i preti con gli altri; invero non furono essi che fecero portare al Nazareno la croce per inchiodarcelo sopra?

La più parte dei nostri andava convinta che dal tenere dietro a coteste girandole cattoliche non poteva uscirne altro che danno; alla meno trista, perdita di tempo, come a chi sbaglia cammino, e pure taluno di noi tacque, altri si spencolò fino a confortare il prete nella magnanima impresa, profferendogli le lodi serbate ai redentori della patria. Tanto potè nei petti italiani la paura di sperdere le forze, che unite dovevano appuntarsi contro lo straniero! Ci volle anco un'altra prova per persuadere la gente che se le chiavi in mano al prete non ponno stare come segno della sua facoltà di aprire le porte del paradiso, molto acconciamente ci stanno per significare il suo intento di schiudere le porte della Italia ai barbari, quantunque volte ci trovi il suo pro.

Rispetto a principi, tutti ci accordammo di sostenerli nello assunto loro; gli antichi sospetti furono messi da parte; ci parve bello il trovato di distinguere la libertà in libertà ed in indipendenza, mostrando come la prima consistesse principalmente negli ordini civili interni, la seconda nell'affrancazione della patria dalla servitù straniera; prestammo [15] impertanto la opera nostra nei consigli e sui campi. Prima dicevamo: attendiamo ad essere, che al modo di vivere provvederanno poi il tempo, i costumi e la buona fortuna. Tra noi non si conobbe Giuda; più tardi taluno dei principi, per onestare il proprio tradimento, trascorse fino ad accusare altrui di traditore: sciagurato! Si aguzzò il cavicchio sul ginocchio, e ben gli stette. Pare impossibile, ma io ho provato che la cosa, la quale a lungo andare maggiormente si vendica nel mondo, è il pudore offeso. Magistrati che spolverizzassero la cosa con la cenere di giustizia, non fecero difetto: suprema ancora della società pericolante, la magistratura! Lo dicono tutti i libri stampati.

Le armi al cimento inferme, e forse altra causa più rea, prostrarono le fortune italiche a Novara: allora principi e preti imbandirono la mensa sopra il cataletto della libertà, e vi si ubbriacarono col sangue dei martiri: ogni coniglio fatto sicuro della impunità, diventò gatto; ma la libertà vive anche nel sepolcro, e chiamato a sè l'odio ella gli disse: — Ripiglia a ordire la trama della vendetta! E l'odio così bene fece il compito, che indi a dieci anni in ogni villa fu udito suonare a stormo per la riscossa: cotesti pusilli feroci cascarono come croste secche di lebbra guarita. Il principe casalingo era rientrato nell'ombra, dalla quale sarebbe stato meglio non fosse uscito mai: gli subentrava il figliuolo; [16] senno fosse, o vaghezza, avendo egli tenuto in alto la bandiera del risorgimento italiano (comecchè improntata della sua marca, quasi cavallo delle regie mandrie), successe, che a lui il popolo incerto dei propri destini si voltasse, chiamandolo a parte dei pericoli e della gloria.

Sarebbe riuscito a noi repubblicani sviare il popolo da cotesto sdrucciolo, gridandogli dietro: — Mala via tieni! — non so; fatto sta che ce ne astenemmo, anzi crescemmo il moto alla corrente, sempre fermi nello intento di raccogliere tutte le forze in un braccio solo per la redenzione della patria. Ci furono pegno di sicurezza il principe di stirpe domestica, la eredità delle offese, la vendetta delle ingiurie proprie, il premio maggiore del desiderio, ed anco la voluttà dell'opera veramente grande.

Questo eccelso mandato, noi istando, noi sovvenendo, noi minacciando, noi con ogni estremo conato eccitando, a stento, a pezzi e a bocconi, a spizzico, a miccino, a male in corpo, a spilluzzico, che peggio non va biscia allo incanto, fra bene e male, tentennando, cincischiando e ciondolando, fu nella massima parte conseguito. La monarchia senza noi non seppe fare, e fare repugnava con noi: s'ingegnò staccare quanti più potesse raggi dal capo della democrazia, per fregiarne il suo, ma le si spensero in mano, onde scemò la democrazia di [17] splendore, e a sè non lo crebbe: se io dicessi che ella ci volle bene come il fumo agli occhi, non direi mezzo del vero; però il nostro aiuto accettato e ad un punto aborrito; le vittorie della Italia meridionale astiate e temute, quantunque i frutti di quelle non con due, con quattro mani agguantati; le armi volontarie per sospetto congiunte alle stanziali e a disegno avvilite: le nuove imprese attraversate, comecchè conoscesse i promotori di quelle non ribelli a lei nel concetto, nè nel modo; al contrario avessero sempre depositato gli acquisti fatti nelle mani della monarchia, con l'amore col quale l'uccello porta al nido il cibo ai suoi nati.

Tali e tanti e così manifesti gli smacchi contro i volontari, che taluno ebbe a pensare, nè lo pensò solo, ma lo disse, che venissero mandati in campo per levarli dalle città onde non le mettessero a rumore, e le cimentassero in fortune pericolose pel principato: insomma fra la monarchia e la democrazia rinnovata la storia antica di Euristeo e di Ercole.

I posteri stupiranno della inaudita costanza della democrazia a promuovere la monarchia, nonostante gli strazi, le prigionie, le ferite e le morti; più della costanza maraviglieranno della fede per virtù della quale, in onta alle ingiurie atrocissime, persistesse nel suo proposito: forse non le capiranno neppure, però che nati liberi, essi non potranno [18] formarsi idea dello spasimo che mette in cuore ai cittadini la vista della povera patria lacerata dagli oppressori stranieri. Se i posteri mediteranno le parole, che certe volte disse l'antico Alberti, cioè, — ch'egli per la patria avrebbe dato anco l'anima — intenderanno la nostra pazienza e la dura necessità.

Rammentatevi San Filippo Neri chiedente a due gentiluomini romani un po' di carità per sollevare una famiglia ridotta in estrema miseria: mandato con Dio, insisteva; di nuovo dimesso, improntava finchè ad uno dei gentiluomini saltata la muffa al naso gli affibbiò tale un ceffone, che per poco il muro non gliene diede un altro: il Santo, tuttochè Santo fosse, strabuzzò gli occhi, e si sentì le mani chiuse a pugno, pure si tenne, e umile proseguì: «Questo è per me, ma la povera famiglia aspetta pane.» Noi per amore di patria abbiamo durato la pazienza del Santo; e Cristo sa se abbiamo sofferto, e Cristo sa se la pazienza ci costi!

Giunti a questo orlo della nostra vita ci volgiamo indietro ed esultanti consideriamo scomparso dai nostri occhi il punto donde prima movemmo. La Italia è quasi compita; l'upas[2] sacerdotale è quasi abbattuto. Ora la filosofia giova più della scure; e [19] tuttavia vivete tranquilli, il filo della filosofia non taglia meno di quello dell'acciaio: benigno è il fuoco, che emana da lei, però non si acqueta se prima non abbia incenerito l'errore. Se lo stormo dei preti continua a schiamazzare, non vogliate temerne; quando scendete in una grotta con la torcia accesa, i pipistrelli accecati fuggono via stridendo e battendovi l'ale in faccia. Voltate un'altra pagina; questa del papato è letta.

Noi non ci lamentiamo del popolo, nè ripeteremo per lui il lagno che messer Francesco Petrarca moveva contro l'amore:

Ho servito un Signor crudele e scarso;

grande, anzi maravigliosa noi abbiamo ricevuto mercede nello esercitarci per tutta la vita in nobilissimo intento, e nel vederlo conseguito: forse non moriremo interi; e tanto basta; molto meno accuseremo la monarchia d'ingratitudine, perchè veramente noi tutto operammo per la patria; nulla per lei: fino al riscatto d'Italia abbiamo potuto andar con essa d'accordo; dopo no: non ce n'era punto mestieri; pure esempi nuovi vennero a confermare la esperienza vecchia, che i fini della monarchia e della democrazia sono essenzialmente diversi, naturalmente contrari. Chi di noi, o esperto poco, o fiducioso troppo, s'industriò conciliarle, perse l'opera e il consiglio, e si attortigliò involontario viticchio alle gambe della umanità, la quale nel suo indefesso [20] cammino ha bisogno di procedere senza impacci.

Orsù, — è dolorosa l'ora dell'addio; l'orgoglio nostro repugna a condannarci alla inerzia, mentre il sangue ci pulsa sempre nelle arterie, ma confessiamolo aperto, il nostro cômpito è fornito. Anco ai Romani entrati nel senio concedevasi che dalle faccende pubbliche si appartassero: dopo i sessanta anni le domande dell'ufficio di giudice vietate; e ci era una legge a posta[3]. La gente non lodava, all'opposto tentennando il capo, deplorava Mario, il quale fatto vecchio si mesceva fra i giovani ad armeggiare[4]. Noi abbiamo respirato un'ora l'aria benedetta della libertà; noi lavata la patria col sangue dei martiri dalla secolare contaminazione, ella adesso può inalzare con animo sereno la sua preghiera al padre delle cose, e comparire con dignità nel concilio dei popoli. Riposiamo; altre menti, altri cuori desiderano le sorti future. A modo che Giacobbe usciva dal seno di Rebecca, tenendo agguantato pel calcagno Esaù, così dalla nostr'anima proruppero gemelli l'odio e l'amore. La nostra voce di troppo ingrossò nel concitato impero e nella smaniosa maledizione, onde da un punto all'altro diventi blanda per benedire e per pregare: sovente nelle nostre pupille balenò il raggio del genio della umanità, [21] ma più spesso parve che le furie vi agitassero le loro fiaccole: un dì premeva che sopra la bandiera degli antesignani si leggesse: Odio, Forza; oggi deve portare lo scritto: Amore, Scienza. Riposiamo, riposiamo: è dolce il sonno sopra l'avello, che chiude la tirannide sacerdotale; giova addormentarci sotto l'arbore glorioso di cui le fronde ventilate pare che mormorino: — Salute all'Italia redenta dal pensiero e dal sangue dei suoi figliuoli!

*

— E ora, via, torni al soggetto, mi ammonisce un lettore.

— Torniamoci pure, rispondo io.

— E tanto più presto ci torni, soggiunge egli, inquantochè a lei non mancarono i buoni consigli fino dalla gioventù sua prima[5].

— Ella ha ragione da vendere, ma ormai il vizio mi si è fitto nelle ossa, e rinfacciarmelo adesso che sono vecchio non mi pare discrezione. I vecchi nestoreggiano, mio caro signore, ed ella sa che essi acquistano in lingua, quanto persero in denti.

— Certo non si può negare, il vizio da lei fu sempre confessato, ma senza attrizione, nè contrizione, imperciocchè tornasse sempre a fare peggio di prima: pensi, che se è suo il peccato, la penitenza è nostra, e si ravveda una volta.

[22] — Ebbene, signor lettore, senta un po' me: se un giorno, per non bisticciarmi co' miei critici, e per amore di menare buono per la pace, convenni con essi, che nei romanzi si ha da ragionare poco, e se punto, meglio che mai: i drammi senza impaccio devono precipitare al fine; lo scrittore flagellare il sangue di chi legge, come il fantino il cavallo che ha sotto se vuol vincere il palio, per poi gelarglielo a un tratto con la catastrofe inopinata; se un giorno, dico, consentii così, non per questo affermai cosa giusta, nè vera: parlai a modo degli altri, a patto che mi lasciassero fare a modo mio.

E primamente, consideri di grazia, le digressioni posi sul principio dei capitoli, onde a cui piace possa metterle da parte, e proseguire nella lettura del racconto; come appunto fece l'Ariosto:

Lasciate questo canto, che senz'esso

Può star la storia, e non sarà men chiara.

E noti poi la diversità grande che passa fra il dramma e il romanzo; in quello concorrono le arti del musico, del pittore, del coreografo, del sarto, del macchinista, e via discorrendo; anzi, si avvantaggia fino dell'arte di coloro che fanno da mare[6]; [23] mentre il romanziere bisogna che a tutto provveda da sè. Nè il dramma stesso procede scevro da digressioni, a mo' di esempio dei soliloqui, i quali se levi, co' sogni e le descrizioni, il dramma ti apparirà un ombrello senza seta. O pensi un po', che sia benedetto, al Byron e al Balzac per tacere degli altri; dai sedici canti del Don Giovanni, del primo, se levi le digressioni, gli è bazza se te ne resta in mano la materia di otto; e se il Balzac non menava il can per l'aia, o come avrebbe potuto fornirti quelle sue maravigliose e ad un punto desolanti analisi del cuore umano?

La censura della frequente allusione alle vicende della propria vita, ai suoi nemici, a se stesso per me giudico più che di giustizia priva di carità; chi reputa nello scrittore elettiva la qualità di obiettivo e di soggettivo, s'inganna: ella viene di natura, che il Dante, l'Alfieri e il Byron non potevano essere diversi da quello che furono; e obiettivo fra i germani fu il Goëthe, non già lo Schiller; nei primi prevale il cuore, nei secondi il cervello: a chi pertanto sortì da natura prevalenza soggettiva, la rampogna dell'uso di quella equivale a criticare l'aquila perchè adopera l'ale. — E perchè redarguite l'offeso, se di tratto in tratto si lamenta? Voi dite: Le sono piaghe antiche: ma io vi rispondo che le piaghe dell'anima non sanano mai:

Piaga per allentar d'arco non sana

[24] Il cuore che non sente più il dolore, è pari alla sorgente inaridita. Da questa sensibilità squisita scaturiscono le immagini, le fantasie e i pensieri; malavvisati! non desiderate che cessi; sarebbe lo stesso che spegnere la candela, voi rimarreste al buio. Il pittore manda dal droghiere per la varia ragione delle tinte, che stempera poi sopra la sua tavolozza, ma lo scrittore ci stempera sempre la propria anima, comecchè ella abbia a somministrargli i moltiplici colori per dipingere la sua opera. Gl'impedirete che ei si sfoghi? Gl'imporrete che egli, come il barbiere di Mida, scavi una fossa e ci confidi il segreto che il re Mida ha gli orecchi di asino? Imbestino nei volgari diletti i suoi nemici la vita; di tristo padrone durino schiavi peggiori; levando il muso insanguinato dalla carcassa dello Stato, mostrino i denti, sieno quanto vogliono adesso codardi, persecutori, astiosi e ignoranti, ma sentano che noi possiamo inchiodare i loro nomi in cima al patibolo. Noi vogliamo che i figliuoli si abbiano a vergognare dei loro padri: altre volte i fiorentini per causa meno dura cambiarono di casato. Il nostro Dio non ci consentiva altre frecce che quelle con la punta d'infamia; e noi ne saettiamo i nostri nemici: la vendetta del poeta è la provvidenza di Dio sopra questa terra.

Il solo diletto non ha offerto mai scopo degno agli scrittori; la natura ed i maestri insegnano loro [25] a mescere l'utile col dolce; ed io secondo le mie povere forze mi sono industriato sempre di seguitare questo precetto: però mi piacque stringere co' miei lettori quasi un patto dicendo: Io vi diletterò due ore, e tre se volete, ma durante un'ora state a udire le mie lamentazioni e le mie dottrine: che se vi duole udirle, lasciatemi significarle, e voi non ci badate.

Ed anco penso: la nuova generazione, nella quale mi affido, ha smesso il convulso che travagliò la generazione antecedente; ella sospira i negletti studi; ella ricorda come i grandi capitani dell'antichità fossero discepoli di filosofi, e filosofi eglino stessi; grande si manifesta nella presente generazione l'ardore di meditare intorno la ragione delle cose: certo piace a me, ed alla patria giova, che ella mediti con le mani appoggiate al pomo della spada, — ma mediti.

Per le quali cose il retto giudizio delle digressioni nei romanzi e nei poemi si riduce come ogni altro nodo a questo pettine: se ti garbano e t'istruiscono, e tu tienle care e fanne tuo pro, ovvero ti riescono sazievoli, e tu, o butta via il libro, o meglio, va' dal libraio a farti restituire il prezzo pagato per comprarlo, ch'io so di certo ch'ei te lo renderà con gl'interessi.

*

Antichissimo, noto a tutti, e insopportabilmente avvantaggiato lo scopo della Francia: più che non [26] sentirsi oppressa in casa, a lei piacque mai sempre opprimere altrui: tutti i popoli, anzi tutti gli uomini la natura dotò di ugnoli e di denti canini; ai francesi la natura in questo, o si mostrò parziale, o fu superata dal costume. Per fortuna assai, e più per delitti, la Francia costituitasi in arnese gagliardissimo da guerra, remuove i Pirenei e si attacca alla cintura la Spagna, con una catena di Borboni; poi per virtù di arme e di astutezza frantuma intorno a sè Italia e Germania; così le ammannisce a diventare, a seconda della occasione, o facile preda, o facile satellizio.

A parere mio Napoleone III troppo fu esaltato e depresso anche troppo, massime da noi altri italiani, che dovremmo pure considerare, se avessimo fior d'intelletto, com'ei promovendo i nostri negozi, non potesse mandar male i suoi: e questo, bene inteso, io dico per ciò che concerne il suo contegno verso l'Italia, imperciocchè quanto al modo col quale s'impose principe, non credo che per molto maledirlo che si faccia, non possa, e a diritto, essere esecrato assai più. Però, non a scusa di lui, bensì per tuo governo, lettore, avverti che difficilmente troverai per le storie un trono, il quale non sia stato murato con calcina di frode, spenta nel sangue del popolo. Uomo non volgare pertanto fu codesto Napoleonide, e per essersi a lungo riparato in Italia, egli conobbe i nostri incliti patriotti, [27] e con taluni di loro usò con familiare domestichezza; dei nostri indomati proponimenti egli ebbe non solo notizia, ma ci prese parte; combattè per questi; pianse... (chiedo perdono al lettore: uomini cavati dalla creta ond'era tratto Napoleone non piangono; quindi correggi: perse) un fratello morto per noi. Che se diventato imperatore si scappucciava e si genufletteva al prete, pensa che gli era forza armeggiare con la Francia, nel secolo scorso ferro arroventato nella fucina del diavolo, in questo, baccalà messo in molle nell'acqua benedetta. In Francia tutto si muta, ma non si smette nulla, nè Gesù bambini miniati, nè disegni da postribolo, nè enormezze da far drizzare i capelli, nè cipria per impolverarli. In ogni secolo pari la violenza, onde altri la segua nei suoi mostruosi trabalzi[7]; però se il Bonaparte e i preti si facevano le forche, va' sicuro che l'uno conosceva l'altro; si sorridevano per mostrarsi i denti; la passava proprio fra corsaro e pirata. Il Bonaparte, più che altri, era uomo da sapere che il pensiero si converte in trapano capace da forare il porfido; e neppure ignorava la natura implacabile di quelli che lo adoperavano; aveva tocco con mano come la barbarie e la sventura, i preti del pari che i tiranni a [28] masticare la Italia ci lasciarono i denti; il macinato macinò la macina; un popolo che non intende morire, che non si può far morire, gli è pure di necessità che tosto o tardi rifiorisca nella sua potenza vitale.

A questi giorni saltò su un Pallavicini sindaco di Roma; a lui non fu amica la fama, ma s'ella porgesse il vero, o piuttosto il falso, ignoro; questo so, che avendo egli mandato fuori una grida, alla libera ci affermava: gli uomini d'ingegno essere stati quelli che hanno ristorato la fortuna italica; dopo tra i fattori della unità nostra, mette ancora la monarchia: si sa, questa finchè lo Stato nostro duri monarchico, ha da incastrare dentro tutti gli atti officiali, come il gloria in fondo ai salmi, e l'amen ai piedi degli oremus; nel manifesto del sindaco Pallavicini bandito in occasione

del balenar che fece il rege a Roma

ci cascava come una rima obbligata. Pertanto il Napoleonide giudicò oggimai fatale la ricostruzione della Italia a Stato uno e potente.

Nè diverso egli ebbe a giudicare della Germania, tenace anch'essa nei suoi propositi ed irrequieta per ricuperare potenza da lei più che dall'Italia prossimamente goduta e perduta. Da parecchio tempo si faceva palese come o l'Austria, o la Prussia sarebbe spinta dai casi a formare lo impero germanico, e poichè l'una inciampava l'altra, una delle [29] due doveva uscire dal campo. L'Austria volle forse, ma certo non potè pigliare il sopravvento; il suo stato disforme glielo vietò: difatti, o come un'accozzaglia di gente in tutto e per tutto diversa sentirebbe o bisogno o vaghezza della nazionalità? L'Austria è una bottega di pellicciaio; una somma di popoli oppressi: intento ed opera incoerenti alla sua essenza. Per converso il cômpito della unità germanica, quanto sconvenevole all'Austria, altrettanto si addice alla Prussia; difatti non solo i prussiani, bensì i tedeschi degli altri Stati emuli o avversi, convennero seco lei nel fine comune; e non una classe, ma tutte, così feudale, come democratica e borghese.

La vecchia politica della Francia, comecchè a lei sommamente garbasse e ai suoi rettori (qualunque essi fossero) non dispiacesse, ormai cascava a pezzi; allora il Bonaparte si avvisò astutamente di mettere perpetuo screzio fra l'Austria e la Prussia, esacerbarle una contro l'altra, intrigare affinchè la formazione dello impero germanico, poichè impedire non si poteva, riescisse dopo molto travaglio erachidinosa. Dall'altra parte, dacchè comprende che in Ispagna la sua dominazione non cestirebbe, nè quella di verun membro della propria famiglia, osteggia la candidatura orleanese, si arruffa per la prussiana, e nel concetto di rendersi mancipio il fanciullo delle Asturie, questo favorisce. Suo [30] principale fondamento la Italia, onde per un lato bastasse a porgergli alla occorrenza efficace sussidio, dall'altro non diventasse potente per guisa da abilitarla a procedere da sè sola, ovvero diversa, peggio poi contraria ai suoi disegni. E tu, lettore, considera com'egli scendendo primamente in Italia, allorchè bandiva volerla libera dalle Alpi all'Adriatico, significasse l'animo suo con bastevole chiarezza; se noi volemmo intenderlo in altro modo, fu peccato nostro, non già sua perfidia; se egli avesse voluto intendere della universa Italia, egli, che di geografia sa di certo, avrebbe detto dalle Alpi al Lilibeo, ovvero a Girgenti; e ciò chiarisce come il Bonaparte non mirasse mica a ricostruire intera la nostra patria, bensì a fabbricare pei suoi servizi un braccio col Piemonte, la Lombardia e la Venezia, capace a contenere, e, alla occasione, a stringere la Germania. Di vero anche i prussiani la intesero così, e ne dà prova la repugnanza loro, prima e dopo la guerra del 1866, alla occupazione del Tirolo meridionale per parte degli italiani. Se la Italia si trova ridotta oggi nei termini in cui la vediamo, certo non fu per volontà di Napoleone, il quale si industriò con ogni maniera accorgimenti innestare sul tronco lorenese della Toscana un principe della sua famiglia; sperò che il Borbone di Napoli non venisse schiantato da procella domestica, ed ebbe per certo che l'ancora della barca [31] di san Pietro non si potesse, nè si dovesse sgrappare dallo scoglio, dove la tengono fissa la ignoranza dei popoli e lo interesse dei principi, e si ingannò; imperciocchè sia ben folle chi crede che i consigli umani commessi in balìa della fortuna si scorgano meno sbattuti in terra, che in cielo un foglio attaccato alla zampina della rondine.

Che la Francia provocasse sotto mano, o per lo meno consentisse alla Italia la guerra contro l'Austria, nel 1866, parmi cosa da non potersi negare; certo la Italia pigliava più vigore di quello che la Francia avesse presagito, o che avrebbe sul principio sofferto; ma adesso per la potenza superlativa nella quale ad un tratto era sorta la Prussia, ella abbisognava di ausilio più valido, e che stringesse più da vicino la Germania. Grande spasimo per la Francia Sadowa! Al doppio scopo di tenersi bene edificati i cattolici in casa e fuori, e la Italia devota, il Bonaparte giudicò bastevole il ripiego di avere, in virtù di nuove convenzioni, confermato il papa portinaio preposto all'ufficio di aprirgli le porte del nostro paese quante volte ne avesse talento.

Il papato ormai sa da parecchi anni e sente essere arnese di governo in mano ai principi, e ci si adatta; imperciocchè, oggi, malgrado la molta sua improntitudine, si periti a contendere con gli Stati per soperchiarli, mentre all'opposto lo miriamo [32] spencolarsi fuori di finestra per dire: — O principi! o principi! se la mia corda sfilaccica, la vostra si disfà: oramai siamo diventati due debolezze, attortigliamole insieme, e vediamo se unite formeranno una forza capace a tenere legato per le mani e pei piedi anco un secolo il genere umano. — Non gli danno retta, ed a ragione, perchè promise sempre e sempre tradì; ed avendo i principi oramai ridotto il prete in servitù, non lo accettano socio: chi potendo comandare allo sbirro e al prete li patirebbe compagni? Chi con chierco si confida, come chierco è senza guida, dicevano i nostri vecchi. Tanto, in comunella co' preti, si corre sicuro il rischio di romperci il collo più presto; meglio vale perderci soli. Così la pensano parecchi coronati e, a parere mio, con giudizio, per questa volta.

Lo imperatore di Francia da tutte queste sottilità si aspettava un solenne sconquasso della intera Germania: era da sperarsi che la Baviera e gli altri Stati cattolici aborrissero la lega dei protestanti; la Danimarca cogliesse il destro per vendicare le patite ingiurie; il re di Annover con gli altri principi spodestati rimuginassero novità per tornarsene a casa; e pure veruna di queste previsioni si verificò, perchè, camminando sui trabiccoli, l'uomo finisce quasi sempre col fiaccarsi le gambe: cotesta politica dura, che fa suo fondamento la naturale necessità delle cose, governando la logica [33] non i raziocini soltanto, ma sì e più i successi umani, nei primi si comprende; nei secondi si sente: in quelli persuade, in questi costringe, e se il concetto della unità italica ha potuto allignare in onta agli errori e ad ogni sorte contrarietà, egli è perchè cotesto fatto si palesava necessario nell'ordine morale e politico, quanto nel fisico la tendenza dei pesi al centro di gravità. Quanto poi la necessità del concetto possa sopra il suo buono esito, di leggieri se ne persuaderà chiunque consideri la Italia conseguisse il fine della sua unità al pari della Germania, questa vincendo, e l'altra perdendo battaglie: la necessità del fatto vinse la sventura: che se tu mi opporrai non essere riscattata tutta la terra italiana, io ti risponderò, che nè anche la Germania potè fino ad ora costituirsi in uno Stato solo: però quanti sono tedeschi si sentono inevitabilmente attratti alla unità germanica come l'ago della bussola al polo, e gli abbracciari, che adesso la fama racconta, dei due imperatori di Germania e di Austria non sono mica bugiardi; all'opposto sincerissimi, perchè l'uno tasta l'altro per conoscere dove l'avrà a stringere, per soffocarlo più presto.

Volete voi vedere qual sia la mente del prete verso la Italia? Il papa prega Dio, e confida in lui, onde non si riuniscano al capo della patria le parti, che ne durano avulse! Volete voi chiarirvi [34] che la politica astiosa della Francia contro noi procede meno dall'uomo che dalla nazione? Mirate! Cotesta politica sopravvive ai funerali dello impero: non essa la ereditò da Napoleone, bensì Napoleone l'ebbe a provare parte della corona che s'imponeva. Dicasi quello che sentiamo, e quello che è vero: la Francia ustolò la guerra contro la Prussia, quasi esorcismo, il quale scongiurasse il fantasma di Sadowa, che le rimescolava le viscere della vanità, poi, ingenerosa, pretese lavarsene le mani a mo' di Pilato, ed ora più spasimante che mai ne arrovella, forse provocando i suoi ultimi fati, e certo tenendo in sussulto il mondo per presentimento di future guerre. Nizza e Savoia l'impero ingordo e fraudolento arraffò: forse la repubblica magnanima e leale le restituisce? Lo impero per libidine di dominio ci calcò nel cranio il triregno papale armato di punte; la repubblica si morde il dito, perchè abbiamo gettato da noi cotesto supplizio; e di più pigliasi cura di farci sapere che se non viene a rificcarcelo in capo non è per manco di volontà, bensì di potestà; rifatte appena le forze, tornerà allo esercizio dell'antica tirannide: ricresciuti gli ugnoli, ripiglierà a lacerare... e allora, qual cuore di uomo presumi che possa desiderare la cessazione dello avvilimento di Francia? Tu conduci il senno e costringi la pietà a invocare da Dio che colmi la misura della tua miseria, che ti cancelli dal libro dei popoli... [35] Non maledite ancora, non vi sconfortate, il verme del passato rotto su la schiena si agita, ma non vive; pare che scontorcendosi minacci, e lo attortiglia lo spasimo dell'agonia... pensate a scavargli la fossa. La Francia adesso è in istato di crisalide, in breve (per quanto ci voglia fede robusta, nondimeno ardisco sperarlo) rotto lo involucro dell'ira, del cordoglio, della superbia offesa e della febbre di fastidire il vicino, volerà farfalla, simbolo della parte divina infusa nell'uomo dal suo Creatore.

*

— Bene sarebbe stato non nascere, ma poichè venni al mondo, il meglio sta nell'uscirne presto. — Così favellava Curio, e provveduto in fretta quanto gli parve necessario al bisogno, s'incamminò verso Brescia. Tanto la passione lo teneva legato, che in andando egli non pose mente ai mesti volti, nè alle parole dolorose delle persone nelle quali occorreva: appena giunto a Brescia ei si fece a casa Cammilli amica vecchia della sua famiglia, e non v'incontrò anima viva; allora si avvisava recarsi alla dimora della baronessa Olfridi, vedova attempata, ma per patrii spiriti e per solerte benevolenza sul fiore della vita, ed anche lì tutto deserto; sceso daccapo sulla pubblica via, considera i passanti e mira quello reggersi colla mano la fronte, [36] questo con ambedue farsi visiera agli occhi, uno desolato guarda il cielo, l'altro non ha balìa di levare la faccia da terra; lamentevoli le madri, dolorose le fanciulle; spirava da ogni lato un'aura di desolazione: un lutto grave opprimeva di certo la città.

Curio si accosta a tale, che giudicò alla sembianza cortese, per domandargli qual fosse la causa di tanto cordoglio; costui non lo badò neppure, e così gli accadde con altro e con altro fino a cinque, sicchè ne stava per rinnegare la pazienza; non lo sovvenendo partito migliore, si lascia trasportare dalla piena, la quale come fu arrivata sopra certa piazza si biforcò, parte continuando a camminare pel medesimo tramite, e parte volgendo ad altro lato: di vero taluni andavano alle porte per accogliere i sorvegnenti, mentre altri si affrettano a soccorrere gli arrivati all'ospedale. Curio fu co' secondi, e intantochè scorreva la via, riunite varie frasi tronche, costruiva la fiera notizia della rotta di Custoza, e quasi fosse poco, ecco aggiungergli trafitte all'anima le voci dello esercito sbandato; Garibaldi respinto, ferito... taluno accertava ucciso; immensa la strage degli italiani sopra le sponde fatali del Mincio. Nel salire le scale, Curio si sentiva sotto mancare le gambe, tantochè, per non cadere, ebbe ad aggrapparsi al muro; pure, innanzi di entrare nello spedale dove giacevano i feriti, i [37] moribondi e, ahimè! anco i morti, ricuperò il coraggio, pensando al debito sacro che gli correva di frugare se fra quei miseri si trovasse parente od amico, e, trovatolo, sovvenire.

Stupendo colà l'andare, il tornare, lo strepito dei passi, la polvere continua sagliente dallo ammattonato al palco, l'afa degli aneliti fumosi; chi portava materassi, chi biancherie, spugne, secchi, di ogni maniera arnesi, scansandosi e urtandosi, — pietà ad un punto e maraviglia a vedere. La schiera delle formiche, arrovellata a riporre la raccolta nel granaio, quando l'urge lo inverno, non sarebbe similitudine capace a ritrarre cotesto, più che solerzia, spasimo di solerzia; e tuttavia non vi notavi confusione; comando e obbedienza, lampi pari; non pace mai, nè tregua; i chirurghi nonchè il sudore non si asciugavano il sangue; più prestanti di ogni altro le donne, massime le fanciulle, che con la intera anima riversata negli occhi attendevano ad adattare faldelle, a fasciare, a forbire.... La Carità supplice accennava al Pudore, che pel momento acconsentisse a starsi un po' indietro; ed il Pudore se ne andava adagio adagio alla porta ad aspettare le fanciulle quando sarebbero passate per tornarsene a casa.

Curio dardeggiava con gli occhi la faccia dei giacenti in cerca di persona amica, nè stette un pezzo ch'egli ebbe riconosciuto il maggiore Mainieri, [38] soldato bravo quanto piacevole e arguto, amico grande di casa, quasi parente diletto; gli fu accanto di un salto; già lo avevano medicato; adesso se ne stava come assopito, eccettochè il dolore lo costringeva di tratto in tratto a far greppo con le labbra, donde però non usciva gemito alcuno. Vistolo in cotale stato, Curio maledisse alla sua avventatezza, e per tema di sturbarlo rimase immobile così, che la moglie di Lot, quando diventò di sale, a petto a lui non ci sarebbe stata per nulla. Ora a poco a poco due grosse lacrime formatesi nel cavo degli occhi del maggiore, sgorgano fuori, e dopo essere rimaste per alcuno spazio di tempo penzole alle sue palpebre come diaccioli ai merli di una rocca, gli cascano giù per le gote; e sembra che il maggiore se ne spaventasse, perchè di subito spalancò gli occhi quasi per trattenerle e per impedire che altri le vedesse, ma nè ei le trattenne, nè potè impedire che altri le vedesse, e Curio accostando il suo volto al volto del soldato con due baci gliele bevve, mentre vinto dalla passione, egli stesso proruppe in pianto, e lo bagnò con le sue.

— Non piango per me, sai; quantunque io senta che non ce la caverò liscia...

— O Dio, non me lo dite! Come state? Dove siete ferito?

— Una scheggia di mitraglia mi ha fracassato il braccio; ma con un braccio di meno si vive; si [39] resta soldati con la tara del cinquanta per cento, ma sempre soldato; la ferita mortale ho ricevuta qui nel cuore... io ne morrò... e mi piace morire.

— No, voi dovete vivere per gli amici, per la patria...

— Per la patria? Rammenta Curio, che io t'ho detto ch'io non piangeva per me. In vero io piansi per l'onore militare perduto, per la patria, dopo tanta speranza, scaraventata nella ignominia; piansi sopra tanto lume d'intelletti divini diffuso invano; piansi sul sangue di tanta brava gente sparso per ribattezzare l'antica servitù... Ah!

— Ma che sia proprio vero, ch'io abbia a vedere la fine della mia povera Italia?

Il maggiore chiuse gli occhi, e singhiozzò; Curio continuava:

— Il popolo non ha dato vite, danaro e tutto quello che aveva? Il popolo non diede armi, navi, provincie?... Chi è lo sciagurato che si è preso tutti questi tesori e li ha buttati via, come fanno i ragazzi con le piastrelle sull'acqua... tre, quattro guizzi per gioco, e poi giù in fondo per sempre.

— Cause occulte e rimote, onde accadde questo, figliuolo mio, ci hanno ad essere, anzi ci sono, ma a me non è dato indagarle, nè mi gioverebbe esporre; le prossime sì, e te le dirò, perchè tu ne faccia senno. Voi giovani veniste al mondo in tempi brutti; la urgenza del male non lascia campo ai [40] propri esperimenti; approfittatevi degli altrui. Causa prima dei nostri disastri io metto la presenza del re alla guerra: i principi stanno d'incanto a capo degli eserciti, quando si chiamano od Alessandro Magno, o Federigo II, o Gustavo Adolfo, o Napoleone I, perchè allora all'autorità del grado aggiungendo la maggiore autorità della molta perizia, maneggiano gli eserciti come macchine e li avventano come leoni; diversamente ti riusciranno sempre di impaccio e di pericolo. Di vero, o concedono che il supremo comandante non li consulti, e allora faranno meglio a starsene a casa; si vince anche in poltrona, e se non è vero non importa; per la reputazione del principe basta che il popolo lo creda; o all'opposto pretendono essi mettere il becco in molle, e allora, o diranno cose che saranno come portare ghiande alle querce, e perderai tempo, o come è da supporsi diranno svarioni, e allora il povero capitano bisogna che procuri renderli capaci, pigliandola alla larga e con un sacco di precauzioni, le quali, se stanno poco bene in Corte, in campo poi stanno malissimo, scompigliando i consigli e ritardando l'azione: ancora il capitano, quando il principe gli cammina dietro ai calcagni, più che a vincere il nemico, deve attendere a preservare costui incolume da ogni stroppio: però, senti me, che parlo schietto, se avessi ad essere capitano supremo, io preferirei avere una veste di fiasco [41] avviticchiata alle gambe quando cammino, che un principe per compagno quando combatto. La seconda (ho fatto male a non metterla prima) sperpetua, il La Marmora; cocomero ingrossato dalle piogge moderate; imperito costui non si potrebbe dire, se non che, invece di riporre la scienza nel cranio, la porta sul groppone: e qui se vuoi ch'ei ce la porti a ceste, a ceste volentieri accorderò che ei ce la porti. Non ci è numero, non misura, non stadera, che valgano a calcolare, misurare o pesare la sterminata presunzione di cotesto uomo: ei farebbe la barba a Carlo Magno, e piglierebbe ad allattare Annibale e Giulio Cesare, se avesse le poppe: lo hanno abbaiato in tutte le cinque parti del mondo, in tutte le lingue gli hanno detto che ei vada a fare il capotamburo, ma egli duro; oramai ei si è ciurmato da sè gran capitano, e non ci ha più rimedio, però tentenna il capo, e compassionando leva gli occhi ed esclama: — Sciagurati! non sanno quello ch'ei si dicano. — Anco la presenza gli nuoce, dacchè egli si muova come un ragnatelo spaventato: io non so per quale sua disgrazia quanti disegnatori, illustrando il maggiore romanzo del Cervantes, presero ad effigiare il Cavaliere della trista figura, sembra che si sieno dati la intesa di pigliare a modello il La Marmora. Non ci è Cristi: guarda bene il gran capitano di Biella, e ti parrà don Chisciotte nato e sputato. L'aspetto dell'uomo [42] impressiona più che tu non pensi: mira la testa di Napoleone primo console, e provati a negarmi che egli sia eroe: che cosa ti parrà di La Marmora col suo capo a pane di zucchero, e gli occhiali a cavallo sul promontorio che gli tiene le veci di naso? Io non lo dirò, se prima non gli avrai messo un filo sotto, facendogli, col tirarlo, muovere le mani e i piedi a sêsta[8]. Improvvido negli apparecchi, nè strategico, nè tattico, povero di partiti, nei consigli incerto, impacciato nei moti; in mal punto sta ed in mal punto corre: flagello vero della milizia italiana; avrei detto di Dio, ma Attila gli ha preso il posto. La reputazione di servitore umilissimo, devotissimo e obbedientissimo di casa Savoia gli procacciò favore inestimabile in Corte, e per mio avviso a torto, perchè nè prudente assume sopra di sè gli errori altrui, nè animoso li riversa sopra chi tocca; in somma nè Strafford, il quale si lasciò decapitare per Carlo I, nè Bava, che scrisse addirittura il disastro del 1848 doversi attribuire a Carlo Alberto: della famiglia dei servi per certo egli è, ma spetta più particolarmente alla specie dei servi insolenti: difatti per iscusarsi egli va [43] sussurrando lui non esser capitano comandante, bensì capo di stato maggiore: scusa come ingenerosa fallace, perchè se conosceva i comandi infelici, dovesse opporsi a spada tratta, o inascoltato risegnare lo ufficio: ed ho sentito anche spandersi la voce di poca connessione nello esercito, di salmerie disordinate e confuse, i quali difetti se furono, e taluni furono, non si dovessero attribuire a lui per lungo tempo ministro della guerra.

Quanto valga il suo emulo Cialdini ignoro, ma del La Marmora so tanto, che sul conto loro io posso in buona coscienza profferire il giudizio di colui, che avendo a scegliere fra due sonetti, lettone uno disse: stampate l'altro, che peggio non può essere. La emulazione di questi due soldati forse necessitò il comando supremo del re, onde in lui si smussassero i puntigli, e, se così fu, anco questo si ha da deplorare come sciagura.

Pareva dovesse essere studiato con diligenza il campo delle battaglie imminenti, però che sia naturale guardare bene il luogo dove abbiamo una volta battuto il naso; ma non fu così: procedemmo a casaccio sul terreno che intendevamo ricuperare; i tedeschi che non n'erano padroni lo conoscevano palmo a palmo, noi non avevamo imparato niente; l'esperienza delle patite sconfitte era trascorsa via per le teste dei nostri condottieri, come l'acqua piovana per le doccionate, senza lasciarvi posatura. [44] Tre modi ci si presentavano per condurre la guerra offensiva: espugnare una per volta o tutte assieme le fortezze, ovvero introdursi nel mezzo di queste, isolare l'una dall'altra, distruggendo per siffatta guisa la ragione strategica del quadrilatero; finalmente, irrompere nell'Austria pel Friuli da un lato e pel Tirolo dall'altro, occupare Vienna e buttare all'aria la Ungheria: qui grande l'acquisto, pari al pericolo; ma per concepire e mandare a compimento simili partiti audacissimi, ci vogliono capitani che si chiamino Scipioni, ed eserciti composti di romani; e poi alle monarchie non garba sollevare la polvere delle rivoluzioni, memori sempre che chi semina il vento raccoglie la tempesta: il disegno di espugnare le fortezze, lungo, pieno di accidenti, spegnitoio di militare entusiasmo; riprovato dai maestri di guerra, massime se il nemico tenga con un esercito potente la campagna. Dei tre concetti elessero il secondo. Pertanto il presidente dei ministri Ricasoli, il venti del passato mese, lesse alle Camere il manifesto di guerra contro l'Austria[9].

[45] Nel giorno stesso il capitano La Marmora faceva sapere all'arciduca Alberto, che avrebbe messo mano alle armi tre giorni dopo la data del manifesto, lasciando in dubbio se il 23 o il 24: difatti doveva intendersi il 24, perchè il giorno che incomincia il termine non si comprende nel termine; invece egli principiò il 23, e questi mi paiono ganci diritti e gherminelle a uso Oudinot, cosicchè il capo di stato maggiore John rilevò il tiro quasi per uccellare il capitano La Marmora. Il fine della battaglia di Custoza certo fu dare comodità al Cialdini di traghettare il Po e stabilirsi sopra la sinistra sponda di quello: ora considera se si poteva far peggio; il Cialdini prima del 26, per quanti sforzi ci adoperasse, non poteva essere pronto a [46] passare il fiume; le ostilità si ruppero il 23, la battaglia s'ingaggiò il 24; dunque vi era tempo sufficiente per l'arciduca Alberto di prostrare La Marmora diviso dal Cialdini; ma il capitano La Marmora si era fitto in testa che il nemico rifuggisse dalle difese del territorio fra il Mincio e l'Adige; fisima proprio non vera, nè verosimile, essendo stato munito cotesto territorio, dopo il 1848, da un semicerchio di fortilizi tra Chievo e Tomba; ma, che vuoi tu? Come madre natura fabbricò i gamberi, così fece il cervello del capitano La Marmora, perchè entrambi camminassero alla rovescia. All'opposto l'arciduca Alberto, ottimamente informato, si avvisa batterci sul terreno che il capitano La Marmora suppone deserto, ributtarci in Lombardia, poi voltarsi celere e baldanzoso per la vittoria contro il Cialdini; ed in conformità della presa deliberazione, lasciate di cheto le stanze lungo l'Adige, ordina ai suoi si facciano avanti, per occupare le colline tra Salionze e Sommacampagna. Il capitano La Marmora, che di ciò sa niente, comanda al Della Rocca si atteli col suo corpo di esercito tra Sommacampagna e Villafranca; al Cucchiari tenga in soggezione il presidio di Mantova; ai generali Longoni e Angioletti s'inoltrino fino a Marmirolo, e quivi stieno per riserva. Durando passi il Mincio, ma la divisione Pianell rimanga sopra la sponda destra; sulla sinistra il Cerale osservi [47] Peschiera. Il Sirtori e il Brignone occupino le alture verso Sona. Ormai incaponiti nel supporre sgombro il paese, in mezzo del quale si avventuravano, comecchè prossimi ed in vista di due fortezze, procedono senza provvedimento di possibile battaglia, anzi senza neppure confortare i soldati di cibo e di bevanda, sicchè parvero padri scolopi che menassero alla prima comunione gli scolari da ventiquattro ore digiuni, non già capitani soldati alla battaglia[10]: seguivano le salmerie condotte da gentame di scarriera, che stava al soldo degli impresari, capace di mettere lo scompiglio in casa del diavolo. Anche nelle passate guerre si ebbe a deplorare simile disordine; parecchi generali, e il capitano La Marmora in particolare, lo seppero, lo videro, e non ci rimediarono.

A questo modo procedendo, c'imbattemmo alla sprovvista nel nemico, col quale, appena visto, ci azzuffammo senza concetto di guerra, d'onde nacque un accapigliamento alla rinfusa, che di mano in mano ingrossando, per la strage diventò battaglia, per arte militare una baruffa: fu combattuto in tre gruppi, perchè in tre punti ci percossero gli austriaci con mosse di fianco; il primo sotto Villafranca, dove si trovarono il principe Umberto, Bixio [48] e Cugia, credo anche il Govone: sfolgorati dalle artiglierie, urtati dall'impeto dei cavalli, cotesti uomini prodi tennero fermo disposti in quadrati, in uno dei quali ebbe a ricoverarsi il principe Umberto, che, a detta de' suoi commilitoni, in cotesto giorno fece il debito di soldato italiano: tutta la giornata essi contennero il nemico: vi ha chi assottiglia, anzi nega addirittura il merito a quei valorosi, perchè non fecero di più; ma a parere mio fu grande onore per loro tenere testa finchè durò la battaglia contro un nemico potente di cavalli e di artiglierie, proteggere la ritirata del nostro esercito a sera, ributtando in atto di vincitore, piuttostochè di vinto, due volte gli austriaci, una volta a furia di cannonate, ed un'altra per isforzo di cariche di cavalleria.

Il corpo del generale Durando s'incamminò mattiniero verso le colline di Sona; la sua via doveva essere diritta fra Monzambano e Castelnuovo, senonchè il Cerale, che comandava la prima brigata, temendo dei cannoni di Peschiera, invece di andare in su, scese per la sponda del Mincio fino al Borghetto, dove incontrato il traino mosso per la medesima strada, lo fa ripiegare sopra sè stesso mandandolo sottosopra; nè qui cessano gli errori del Cerale, che ripigliando la via per Castelnuovo s'inferra dentro certa via stretta e incassata, senza pigliare alcuna delle precauzioni che si costumano quando [49] si cammina per paese nemico; quanto a intrepidezza a tutta prova io tengo dal Cerale, ma per accorgimento, bisognerebbe si facesse ristagnare il cervello: provata che egli ebbe la dura batosta, pretese schermirsi dicendo che senza rompere uova non si fanno frittate; pur troppo non si combattono battaglie senza sperpero di vite umane, ma bisogna evitare le frittate. Io era con lui, e per lui mi trovo lacero questo mio povero braccio, ma ciò non dico per rancore, bensì per verità: verun sottotenente di volontari avrebbe proceduto con sì poca considerazione, ed egli può bene disprezzare la propria vita, ma come capitano deve pigliarsi cura della vita altrui.

Le disgrazie nascono sempre gemelle, però il generale Villermosa, condottiero dell'antiguardia della divisione Sirtori, nell'uscire da Valleggio, invece di svoltare a destra per Santa Giustina, tira su per la via di Castelnuovo, e così raddoppia la vanguardia della divisione del Cerale, e la leva a quella del Sirtori, il quale non addandosi dello abbandono del Villermosa, quando se lo aspetta meno dà di capo nel nemico, che lo riceve a suono di cannonate ottimamente disposte su le alture, e per le strette dei colli[11]: ormai la vittoria impossibile, [50] e la ritirata rischiosa: vi rimasero feriti Durando, Dho e il Cerale, il generale Villarey ucciso, ed altri non pochi: i soldati sgomenti di vedersi condotti al macello, imprecando la stoltezza dei capitani, sbandaronsi; sì, che serve celarlo? fuggirono. Ciò accadde ai più famosi soldati, dai romani ai francesi, ed accadrà sempre, quando avvenga che per errori continuati perdano ogni fiducia nei loro condottieri; se il generale Pianell non era, al quale sovvenne la ispirazione di varcare il Mincio, respingere gli assalti nemici, e proteggere la nostra ritirata, o fuga, prigioni o morti noi ci restavamo tutti. Degli altri gruppi io non so darti distinta notizia, però anche là e' fu una matassa arruffata; bastonate da ciechi.

*

Pur troppo le parole del soldato ferito erano vangelo: giusta quello che ne sparse la fama, il La Marmora fino dalle ore mattutine se ne andava a Gherla, e nel cammino imbattendosi nella divisione Brignone, la mena seco ad occupare le alture di Custoza, donde mira come gli austriaci abbiano fatto lo stesso su le colline della Berrettara: ciò [51] nonostante egli ingiunge al Brignone si spinga innanzi, e questi lo fa inoltrandosi fino a Monte Godio: allora il La Marmora lo pianta lì, e galoppando solo verso Villafranca, va a vedere come le cose procedano da questa parte, ed anche per condurre rinforzi al Brignone; di vero torna, ma trova il Brignone a mal ridotto dallo sforzo degli austriaci incalzanti, e costretto a ripiegarsi sopra Monte Godio: il terreno compariva ingombro di morti; si contavano tra i feriti il generale Gozzani e il principe Amedeo. A Custoza i nostri tentarono resistere, ma neanche in questo punto la fortuna volle arridere al valore scompagnato dalla perizia; fummo respinti. Il re, il quale se ne stava a contemplare la battaglia fra Villafranca e Custoza, visto retrocedere la divisione Brignone, corre via a Valleggio, di là varca il Mincio e si conduce a Goito: per questa guisa, se mai ci era stato sul campo di battaglia un comando supremo, venne affatto a sparire. Il La Marmora, per onestare la cosa, disse più tardi essere stato suo intendimento sgarrare la prova sopra le alture di Custoza con le divisioni del secondo corpo, mentre il Bixio e il principe Umberto sostenevano il terzo corpo nella pianura; sproposito o bugia che il Rustow gli rimbecca, dichiarando: — dal suo stesso rapporto si fa manifesto, come ciò non fosse per nulla il caso, o dimostra la sua testa in balìa [52] di deplorabile confusione[12]. — La verità è, che il La Marmora, perduto il lume degli occhi, povero di partiti, di animo volgare, giudicando i successi non secondo la realtà, bensì a norma della sua dabbenaggine, tenne per disperata la fortuna della guerra, e mandò subito dopo la battaglia di Custoza i due famosi telegrammi; uno al Garibaldi del tenore: «Disastro irreparabile! Coprite la ritirata e Brescia;» l'altro al Cialdini concepito così: «Disastro irreparabile! Coprite la capitale (Firenze).» Da tanto poi che erano disperate le fortune della guerra, gli austriaci non pensarono manco per ombra a traghettare il Mincio e ad inseguirci: e questo afferma eziandio il La Marmora; nondimanco l'esercito intero fu addossato all'Oglio, e il re pose tranquille le stanze a Torre Malamberti presso Pescarolo.

I giornali italiani tacquero quasi due giorni, e in questo frattempo i devotissimi, avendo ripreso fiato, incominciarono a sussurrare che la battaglia veramente perduta non si poteva dire, sì piuttosto non vinta; con inezia e parola francesi la battezzarono insuccesso, e a torto, imperciocchè perduta la facessero lo scopo mancato della medesima, che fu mettersi in mezzo alle fortezze del quadrilatero, e il campo abbandonato; più che tutto, i due telegrammi, non mai abbastanza deplorabili. [53] Se non che qui vennero fuori i devotissimi del La Marmora, ed a posta loro andarono bisbigliando ch'egli li sconfessava, e parve bruttissimo tiro, perchè, se non furono sua fattura, non si rimanga a mormorarlo sottovoce; lo dica chiaro ed aperto; ma vorrà disdire forse anco il suo rapporto dove significa: «non avendo avuto buon successo il nostro tentativo di stabilirci tra il Mincio e l'Adige per separare le fortezze le une dalle altre, la posizione da noi presa lungo il Mincio diveniva senza scopo.»? Gli intendenti della milizia, nei giudizi loro discreti, a queste insanie non possono reggersi tanto, che non siano costretti ad esclamare: Da quando in qua il condottiero, se non riesce al primo tratto nella sua impresa, l'abbandona? Costumò così Napoleone a Marengo? Fino alle quattro pom. è fama lo avesse respinto il vecchio Melas; a codesta ora sopraggiunse il Desaix, il quale, interrogato, disse sè essere giunto tardo per impedire che una battaglia si perdesse, sempre a tempo perchè un'altra se ne guadagnasse, e così fece. Forse era cessato lo scopo di porgere la mano al Cialdini, varcato che avesse il Po? Da quando in qua si mettono due fiumi in mezzo tra voi e il nemico che non v'insegue? Il Rustow, per trovare un'aurora boreale di senso comune in tutto questo garbuglio, immagina che l'esercito si versasse in disordine maggiore di quello che si supponesse, e [54] certo tacquesi allora e non si dice neanche adesso, ma è vero, come il maggiore Mainieri narrava a Curio, che non pochi soldati fuggirono, gittate le armi, maledicendo gli stolti capitani: però in breve ripresero animo, e desiderarono ritentare la prova sotto guida migliore: moltissimi all'incontro durarono ordinati e pugnaci come quelli del Pianell e gli altri del Bixio; le due divisioni Angioletti e Longoni intatte, non avendo preso parte al combattimento: inoltre, o il Cialdini sul Po che ci stava egli a fare?

Eppure comandava a ben quattordici divisioni, esercito più numeroso di quello del Mincio. Intorno a Custoza furono i nostri centoquarantaseimila, e di questi combatterono soltanto sessantaseimila. Settecentoventi ne caddero morti, tremilacentododici si noverarono i feriti; tra le nostre e quelle del nemico, le perdite si bilanciarono: perchè dunque ci demmo per vinti? Al fatto di Marengo, di già riportato, il Rustow aggiunge con legittimo orgoglio l'altro di Ligny, dove i prussiani sbaragliati poterono in due giorni riordinarsi e battere Napoleone con la famosa percossa di Waterloo.

Non si volle vincere, proruppe un giorno quel fiero uomo che è Nino Bixio: però io non mi accosto alla terribile sentenza di lui, che è naturale cosa desiderarsi la vittoria con maggiore anelito da quelli che si sentono meno capaci ad acquistarla [55] per virtù; ed ella ci viene sempre feconda di utili resultati: di rado l'uomo renunzia alle sue comodità, e più di rado alle lusinghe dell'amor proprio appagato; quando poi l'agonia dell'utile e l'agonia della vanità s'intrecciano in uno interesse solo, allora poi giudico impossibile che ci renunzi l'uomo: questo parmi più vero, che tra la speranza generosa, ma piena del pericolo di perdere, e la ghiottoneria di guadagnare con sicurezza, prevalse nei nostri guidaioli la ghiottoneria; non si contò la vergogna. Il capitano La Marmora rinfoderò il brando sul fianco sinistro, e diventato Scriba cavò fuori dal destro il pennajolo: nelle sue mani l'uno e l'altro del pari infelici: arduo è sgarrare col calamaio colà dove fece fallo la spada: non ci fu altri che Lutero, al quale riuscì vincere col calamaio: e vinse nientemeno che il diavolo in persona, ma glielo scaraventò nella testa. Ora il La Marmora, professandosi cattolico, non ha fede che nell'acqua benedetta. In verità di Dio, io per me penso che quando la monarchia ci schiera davanti agli occhi i suoi capitani, i suoi ammiragli, i suoi ministri, lo faccia pel medesimo spirito onde i giocolieri ti mostrano, sopra l'avversa parete, le figure grottesche della lanterna magica, per tenere allegra la brigata divertendola dal senso dei mali presenti e dalle apprensioni del futuro.

[56]

*

— Oh! sia ringraziato Dio, che ci ha concesso la morte: adesso, se ci condannassero a vivere, quale strazio sarebbe pari al dolor nostro?

Così lamentava Curio, e il buon maggiore percosso dalla desolazione del giovane avrebbe volentieri rinnegato le sue parole: pure, voglioso di rimediare come meglio poteva al mal fatto, soggiunse:

— Coraggio, Curio, sempre coraggio, che tutto quello che ciondola non casca: ora fa' una cosa, va' fuori, e procura raccogliere qualche notizia per te ed anche per me.

— Ho paura.

— Paura! E di che?

— Sì, paura da non potersi dire: io tremo tutto nel presagio di sentirmene contare delle peggio: le forze italiane mi fanno l'effetto dei birilli del biliardo, che si mettono ritti per essere buttati giù.

— Or via, Curio, pensa che il diavolo non è mai brutto come si dipinge: va', torna, e fa' presto; rammenta ch'io sto sulle spine, e alla disgrazia sono uso opporre cuore di rocca: la incertezza mi ammazza.

*

Curio andava per le vie di Brescia speculando onde trovare persona, la quale dal sembiante gli [57] promettesse accoglienza cortese, allorchè di un tratto gli si presenta davanti un gruppo, che trasse a sè la sua intera attenzione: un uomo aitante della persona, di barba e di capelli grigio, con la camicia rossa dei garibaldini, si portava in collo un altro soldato del pari garibaldino, di cui il capo gli penzolava sopra la sinistra spalla: il vecchio tirava innanzi a stento, appoggiandosi con la destra mano al muro, che non si attentava di abbandonare. La gente passava senza badarlo, non per mancanza di cuore, figurarsi se questo può mai avvenire a Brescia! ma perchè si sentiva da più dolenti cure compresa, e le grandi angosce strozzano le piccole. Curio, nella speranza di spillare dal soldato qualche novella che facesse al suo caso, gli si accosta bel bello per profferirglisi, ma appena gli ebbe sbirciato la faccia, che esclamò:

— Gua'! Filippo, sei tu? Come diavolo ti trovo qui?

E Filippo: — Curio, proprio mi ti manda Dio: dammi una mano per adagiare su questo muricciolo il poverino che porto.

— Fatti in là, Filippo, che basto solo, e tu barelli: a sorte non saresti ferito?

— No, grazie a Dio, ma le forze pur troppo mi mancano — e così dicendo casca giù ginocchioni con le mani in avanti. Curio, aiutato da un cittadino che di là passava, mise Filippo a sedere accanto [58] all'altro; poi prese una rincorsa piantando ambidue, e in meno che non si dice un credo, mentre Filippo pur troppo sospettava essere abbandonato (la sventura, quando si maritò col bisogno, per primogenito partorì il sospetto) rideccoti comparirgli dinanzi Curio con un palmo di lingua fuori, carico di berlingozzi, bocce di liquori e di due fiaschi di vino.

Però Curio, andando alla volta di Filippo, mirò da lontano una cosa, che gli mise la pulce dentro l'orecchio, senza che ei potesse rendersene ragione. Filippo si era tirato in grembo il soldato, e sciorinando su lui il fazzoletto olim bianco, gli rinfrescava il capo riarso, gli cacciava le mosche, e di ora in ora lo andava dolcissimamente baciando. Il bene è sempre bene, diceva Curio fra sè, ma i troppi amen guastano le messe. Filippo stese ansioso le mani a ciò che Curio gli porgeva, ma non sì tosto lo ebbe guardato, esclamò:

— Ohimè! Curio, che è questo che tu hai portato? acqua, acqua... tu me la vuoi far morire?

— Hai ragione, soggiunse Curio, e via da capo a precipizio; tornò in un attimo coll'occorrente, ma anco per questa volta riuscì il sussidio inefficace, però che il giovanetto vagellando sbattesse smanioso di qua e di là la testa. Filippo mandava giù dalla fronte a quattro a quattro le gocciole del sudore; in cotesto punto, non sapendo che fare di [59] meglio, diede di piglio alla boccia dell'acquavite, e sia lode al vero, ne mandò giù un gran sorso.

— Ah! mi sentivo proprio morire, sospirò restituendo la boccia a Curio: rinfrancato così, riprese:

— Curio, piglia il capo al ragazzo e tienglielo fermo con più grazia che puoi: ecco, adesso m'ingegnerò aprirgli le labbra e versarvi un po' di acqua.... sta' attento.... e fa' adagio.

Certo fu più quella che gli versò sul petto, che nella bocca; pure cotesto refrigerio di acqua valse per fare aprire gli occhi all'infermo: e Curio allora, secondo l'usato costume, precipitoso interrogava Filippo.

— E adesso che almanacchi qui, con questo povero ragazzo?

— Vengo da Montesuello....

— Da Montesuello! Là dove è caduto morto il Garibaldi?

— Che morto! Accidenti a chi lo crede e a chi lo dice. Per Dio! non mi stringere il collo... Curio, non mi strozzare!

Difatti Curio gli si era avventato al collo, scaricando sopra di lui un turbine di baci.

— Neanche ferito? Assicurami che non è stato nemmeno ferito.

— Ferito sì, ma gli è un nonnulla... povero uomo! Ogni battaglia a cui si trova gli lascia il ricordo [60] sul corpo; però egli ha bene altro per il capo che pensare alle sue ferite; ha bisogno di sentirsi sano, e sano è; egli ha già ripreso a menare le mani contro i tedeschi.... a quest'ora si batte.... a quest'ora vince.

— Come, tu credi che costà si combatta e tu stai qui?

— Il generale Garibaldi in persona, saltò su a gridare Filippo avvampato nel viso... mi ordinò, mi pregò di condurre subito via questo fanciullo ed acconciarlo in qualche casa perchè si curi....

— È ferito?

— No, travagliato fieramente dalla terzana a cagione delle intemperie e della soverchia fatica; forse ci ha miscuglio di qualche altro malanno: almeno il medico del reggimento ne dubita.

— E s'è così, che ci stiamo a gingillare? Su, portiamolo all'ospedale.

— Gli è appunto allo spedale che io non lo voglio portare.

— E perchè?

— Perchè negli spedali è forza vedere e udire cose, delle quali la verecondia si offende.

— Filippo, che diavolo arzigogoli? Ai giorni nostri un giovanotto di diciassette anni ha da scandalizzarsi di quanto possa vedere o udire nello spedale, dopo esser passato per la trafila delle caserme e dei campi?

[61] — Un giovane forse no, ma una fanciulla di certo sì, e questa è una fanciulla.

— E, tôcco di disgraziato, in mezzo di strada la baciavi?....

— Silenzio, Curio, ella è mia figlia.

— Oh! tua figlia! E da quando in qua? Io non seppi mai che tu avessi moglie.

— E che bisogno ci era che tu lo sapessi? Quanto più preziosi i tesori, più si tengono nascosti. Adesso, ella mi ha abbandonato per vita migliore, almeno così mi giova sperare; però non le bastò il cuore di lasciarmi solo, e innanzi di morire mi pose sopra le braccia questa figliuola.

— Dimmi, Filippo, ed era bella cotesta tua moglie?

— Ella mi amava.

— Donde nasceva, dal popolo? dalla borghesia? Era gentilesca nei modi?

— Ella mi amava: l'amore ch'ella mi portava finchè visse, e che io portava e porto a lei, non ci lasciarono attendere ad altro. In vita, io la guardai traverso una contentezza che non era terrena, in morte traverso un pianto, che pur troppo è terreno: per indole, per sembianza, per affetto, questa mia creatura è tutta lei.

Curio mirò curiosamente la fanciulla e gli parve che non ci fossero sfoggi; allo improvviso, come vergognando degli inani propositi, uscì fuori dicendo:

[62] — Dacchè sei qui, e qui rimanti fintantochè io torni, che spero avere trovato il fatto tuo.

E via di corsa daccapo: questa volta il suo cammino era indirizzato al palazzo della egregia donna, la baronessa Olfridi: anco adesso cercò invano il portinaio; salite le scale a tre scalini per volta, si attacca al cordone del campanello, e tira giù, che pareva il diluvio.

— Furia! Furia! si sentì gridare per di dentro, date tempo al tempo! Discrezione, se ce n'è!

Si spalanca la porta.

— Oh, signora baronessa! E come diamine viene ella ad aprire in persona? La mi scusi, se....

— Curio! Come ti sei fatto grande! E chi vuoi che ti venga ad aprire se non io? Mi trovo in casa sola: Nisio, il cocchiere, e Bertino, il cameriere, se ne sono andati col Garibaldi, menando seco i cavalli; Gaspero, il portinaio, si attaccò alle falde loro ed anch'egli volò via. Eleuteria, la mia figliuola, guarda a vista suo marito, e dei cinque figliuoli si serve come di altrettanti uncini per trattenerlo, onde non pigli insieme con gli altri il cammino verso il Garibaldi: delle mie quattro donne non posso far capitale; sono a curare gli infermi ed i feriti per le case, alla stazione, per gli ospizi; appena ne ho il comodo, una scappata ce la do ancor io; ed ecco perchè ti vengo ad aprire l'uscio.

— Meglio così!

[63] — Come? No davvero, che non è meglio così: non è meglio per la ragione che alla vista di quei bravi figliuoli, così malconci dalla rabbia dei nostri nemici, mi piglia una passione al cuore, che non ti so dire; non è meglio per me, perchè la vecchiaia è trista e la solitudine mi uggisce; io sento bisogno, più che del pane quotidiano, vedermi ogni dì attorno i miei nipotini.... io sono di levata, Curio mio; nella mia famiglia vivo, e finchè duro me la voglio godere... hai capito?

— Sì, signora; ella parla unicamente, ma io non lo diceva per questo, avendo il pensiero rivolto a Filippo: lo conosce, signora, Filippo?

— E chi è questo signore? Lo sento per la prima volta nominare adesso.

— Ebbene, vostra signoria sappia ch'egli è un sergente....

— E che me ne importa?

— Ma lasci dire; un sergente, bravo a prova di bomba; nella guardia nazionale di Milano egli tenne uffizio di sergente istruttore, e di giunta era maestro d'arme, onde egli ha potuto per questa via insegnare a tutti i giovanotti di Milano, me inclusivo, il maneggio della carabina, della spada e della sciabola. Filippo, oltre l'ufficio di sergente maggiore e di maestro d'arme, teneva eziandio una moglie, che egli amava, e però non faceva vedere a nessuno: il sergente racconta che la [64] donna a fare da lampana sotto il moggio ci aveva piacere.

— Male; un tiranno, secondo il solito.

— No, signora, il prelodato sergente afferma sopra la sua coscienza, e badi ch'egli è galantuomo, questa essere stata la volontà espressa della moglie, la quale si sentiva contenta dello amore del marito, come il marito arcicontento dello amore della moglie.

— Allora muta specie e dirò: benissimo.

— La buona donna, sul più bello, essendosi infermata, venne a morte.

— Tribolazioni quotidiane di questo nostro pellegrinaggio sopra la terra.

— Prima però di chiudere gli occhi, ella gli pose una bambina sopra le braccia dicendogli: Ecco, ti lascio questa in ricordo di me! La bimba crebbe e adesso annovera sedici anni. Ora ha da sapere come Filippo alla chiamata del Garibaldi ha fatto a modo del suo cocchiere, del suo cameriere e del suo portinaio.... come vorrebbe fare il suo signor genero, e come avrebbero fatto tutti i suoi figli, se il cielo gliene avesse concesso.

— Certamente.... che dubbio?

— Veruno. Il pover'uomo, con cotesta figliuola sulle braccia, non sapeva a qual santo votarsi, un piede aveva fuori dell'uscio e l'altro dentro per amore della ragazza, cui non gli bastava l'animo abbandonare, e la figliuola a sua posta non intendeva [65] separarsi dal padre. Allora, senta che cosa mi stilla Filippo. Nella divina asinità del suo cuore... avverta, signora baronessa, questo concetto è di mia particolare invenzione, e come mi esce dalla mente, io, caldo caldo, lo servo a lei... dunque Filippo, nella divina asinità del suo cuore, trasforma la figliuola in giovanetto, la veste da garibaldino, e, senza punto badare alla tenera età, nè alla delicata complessione, la conduce seco a durare fatiche alle quali anco i più robusti vengono meno, e a cimentarsi in pericoli che mettono i brividi addosso ai meglio animosi. La giovanetta ha preso la febbre, e il padre teme di peggio. Il Garibaldi ha comandato al padre la meni subito qua, e stia a custodirla finchè non risani; Filippo non la intende così; allo spedale non ce la vuole mettere, e dalla guerra non si vuole allontanare: io l'ho incontrato testè più morto che vivo, colla sua figliuola in collo, vagare per la città in traccia di un asilo fidato dove deporre cotesta parte dell'anima sua, ed una volta sicuro che le useranno carità di patriotti e di cristiani, se ne torna al fianco del generale. Sentito appena il suo bisogno, io ho pensato subito a lei, e ho detto a lui, cioè a Filippo: — Tu sei nato vestito; non moverti di lì, che ho il fatto tuo: per la qual cosa udendo adesso come la signoria vostra abbia tutta la sua gente fuori di casa, ho pensato: tanto meglio così, la signora non [66] si troverà in imbarazzo a dare un po' di ricovero alla poverina.

— Curio, voi dovevate sapere che quando non avessi avuto libere altre camere, ci sarebbe stata la mia. Orsù, andate per la ragazza; e intanto io allestirò alla meglio quello che fa bisogno.

Curio si rovescia, proprio così, verso la baronessa, le bacia e le ribacia le mani, poi senz'altre parole scappa via: giunto colà dove lo aspettava Filippo:

— Su, sorgi et ambula, e non aggiungo: tolle grabatum tuum, perchè ti toccherebbe a schiantare il muricciolo...

— E dove andiamo?

— Andiamo da mia madre, vale a dire da una santissima donna, che come madre reverisco ed amo, dalla baronessa Olfridi.

— Dio te ne renda merito; ma ora a trasportare questa figliuola come si fa?

— Ecco come si fa: con la tua destra agguantati il braccio sinistro, con la mano sinistra stringimi il braccio destro; così, bravo; ecco fatta la seggiola; qui sopra adageremo la ragazza; ora bisognerebbe che anch'essa si aiutasse passandoci le braccia al collo ed agguantandocisi bene per non cadere all'indietro; a questo modo la porteremo pari come una sposa.

E come disse fecero; se non che la fanciulla non [67] potè, siccome avevano sperato, aiutarsi, ond'ella ad ogni momento per difetto di spalliera minacciava cadere riversa: sudavano entrambi dalla fatica, e più per la pena; allora Curio soffiando osservò:

— Non ci è rimedio; qui ci vuole proprio una seggiola. E sbirciato d'intorno, mira un carbonaio seduto sopra lo sporto della sua bottega: il carbonaio e la sedia parevano ricavati dal medesimo pezzo di ebano, tanto essi erano neri. Curio gli si accosta e gli dice: Alzati.

— E se non mi volessi alzare?

— Che m'importa che tu non voglia; basta che tu ti alzi e mi dia la seggiola.

— È matto.

— Senti, carbonaio, io non sono matto; ho bisogno della tua seggiola per trasportare quel povero garibaldino infermo, che miri là; lo portavamo a braccia, ma non si potendo attaccare a noi, ogni momento stava in procinto di cascare per di dietro; molto più che anche suo padre si regge a mala pena in piedi.

— Come così è, vengo io, rispose il carbonaio, saltando su e tirandosi dietro la seggiola, dove tosto riassettata la ragazza continuarono la via.

Filippo aveva contrastato per non cedere ad altri il trasporto della figliuola, ma poi ci si adattò dietro la osservazione di Curio, che reggendo lievemente il capo della figliuola per la nuca, le avrebbe impedito [68] di ciondolarlo sul petto da una parte all'altra.

Il carbonaio, nello ardore della sua benevolenza, non aveva posto mente alla polvere di carbone onde egli e la sua seggiola andavano imbrattati, e molto meno ce l'avevano posta gli altri; sicchè Curio, essendosi asciugato più volte con le mani il sudore, ed avendo anco reso più volte lo stesso servizio alla inferma che grondava, in breve venne a fare di sè e di lei un tutto uguale al carbonaio: però giunti che furono al palazzo Olfridi, la baronessa, che li aspettava a gloria in capo di scala, al vederli non sapeva più in che mondo si fosse; erano tre cafri in un gomitolo: già stava per dare di volta, chiudere l'uscio e tirare i chiavistelli, quando valse a trattenerla la voce di Curio, il quale si mise a gridare:

— O che scappa, baronessa?

— Aspetto bianchi, e voi mi venite neri.

Nonostante le apprensioni di cui i nostri personaggi andavano compresi, di tanto non poterono trattenersi che non prorompessero tutti in uno scoppio di risa; fino la fanciulla, poco prima risentita, rise. Il carbonaio, che si sentiva in colpa di cotesto caso, si confondeva in scuse al mal fatto, chiamandosi pronto a sopperire alle spese di ranno e di sapone; onde le risa crescevano vie più: impertanto appena gli parve poterlo fare, se la svignò lasciando [69] la seggiola, la quale indi a un'ora gli fu riportata da parte della baronessa, con cinque lire di mancia, cui egli da principio rifiutò ferocemente, ma la moglie a poco a poco lo ammollì, e all'ultimo con una stretta lo vinse, dicendo: «Pigliale, serviranno a rinnovare la provvisione di polvere e palle, caso mai quei cani avessero a tornare.» La guerra essendo durata poco, e così remosso ogni pericolo d'invasione, il carbonaio e la carbonaia, messo in consulta il da farsi delle cinque lire, deliberarono all'unanimità di comprare tanto vino e beverlo alla salute del generale Garibaldi.

La baronessa, poichè le fu recata in camera la fanciulla, voltasi agli astanti piacevolmente lor favellò:

— Ed ora voi altri ve ne potete andare. Curio, tu conosci la casa, al camino la pentola bolle, in dispensa troverai il bisogno: apparecchiate da voi, e mangiate. Tu, Curio, a quanto sembra, hai maggiore necessità di lavarti che di mangiare, il signor Filippo forse più di mangiare che di lavarsi, ma di ambedue le cose l'uno e l'altro di voi ha certamente bisogno.

— Grazie, signora mia, grazie, ma veda, se non le fosse d'incomodo, le darei aiuto a spogliare ed a lavare la ragazza.

— Signor no, la decenza lo vieta.

— O se l'ho fatto tante volte?

[70] — E che rileva cotesto? Quando costringe la necessità, allora va bene che il padre riunisca alle sue anco le prerogative della madre, a patto però che tornino a separarsi subito dopo che la madre, od altra donna la quale ne tenga le veci, soppraggiunga a ripigliarle; e ora ci sono io a fare da madre.

Filippo chinò il capo, e sospirando soggiunse:

— E quando potrò tornare?

— A suo tempo sarà avvisato: per ora, reverisco; e presolo per mano lo scortava fino al limitare della porta; voltandosi poi vide come Curio non si fosse mosso: E lei che fa?

— Aspettava la intimazione di sfratto. Ecco la intimazione, disse sorridendo la baronessa; e, messagli la mano sopra una spalla, lo cacciò fuori chiudendogli l'uscio in faccia.

Filippo e Curio lavaronsi e si misero a mensa; se non che Filippo quasi ad ogni boccone si levava, e con le nocche battuto alla porta della camera della baronessa, chiedeva con la voce del mendicante:

— Si può entrare?

— No, signore.

Ed egli tutto umile rifaceva i passi: all'ultimo la baronessa un po' spazientita lo ammonì:

— Senta, non stia a disturbarsi più oltre: sarà chiamato.

[71] La egregia donna, spogliata la giovane, adoperò verso quella le più delicate mondizie di cui meritamente sono vaghe le gentildonne, e mentre l'allindiva, secondochè la femminile curiosità la persuadeva, di tratto in tratto la guardava e viepiù sempre stupiva.

— O Dio! O Dio! ella non rifiniva di esclamare, come sei bella; che volto! che capo! E come ti chiami, carina mia?

E la fanciulla, fattasi in faccia color di rosa imbalconata, rispondeva:

— Mi chiamo Eufrosina.

— Il nome di una Grazia, e ti sta bene.

Le sciolse i capelli folti e nerissimi, glieli forbì, glieli profumò con olio lievemente odoroso di ireos, e infine glieli compose a benda lungo le tempie; non si saziando contemplarla e baciarla. La contentezza della buona signora superava di mille doppi quella del restauratore di quadri, al quale fu data a ripulire la rozza tavola dove Leonardo da Vinci aveva dipinto l'Angiolo: narrasi come l'artefice mano a mano che lavando la lordura scopriva cotesto miracolo dell'arte, si sentisse conquidere dentro, finchè avendolo disvelato tutto, tanta dolcezza lo vinse, che si lasciò cadere in ginocchioni per adorarlo. Suprema forza della natura, bellezza.

In effetto, la baronessa infervorata dall'entusiasmo, andava ripetendo:

[72] — Ma tu sei creatura modellata da Dio, con le sue sante mani: Eufrosina, vedi, la mia figliuola Eleuteria, che pure è in fama di bella, in faccia a te parrebbe un moccolo in paragone del sole.

E non cessava stazzonarla: la vestì di finissima camicia di tela batista, e in capo le pose la più preziosa delle sue cuffiette; la ricreò con un cordiale, tornò a guardarla, tornò a baciarla, e poi, lieta così che non capiva nella pelle, spalanca la porta e grida:

— Sor Filippo... o sor Filippo, adesso, se vuole, può venire.

E quegli non aspettò si rinnovasse l'invito. Curio, che gli veniva dietro, a posta sua domandò peritoso:

— E a me non sarebbe permesso?

— O chi ti para?

Vieni amore a veder la gloria nostra,

Beltà sopra natura altera e nuova.

Il padre, comecchè uso a contemplare quel caro sembiante, rimase estatico a vederla così trasformata, e come i devoti costumano recitare le orazioni, egli sussurrava sommesso:

— Che maraviglia! quanto bella! quanto buona!

E la baronessa osservava a Curio:

— Ma lo credo io, che il sor Filippo repugnava a metterla allo spedale; coteste creature si custodiscono, Dio mi perdoni, nel ciborio; Curio, ma guarda quegli occhi, fammi il piacere di guardarmeli [73] bene, e dimmi poi se non ti paiono fatti di filo di rasoi; perchè gli occhi tagliano, e di che tinta!

Non ci era mestieri tanta fiamma per accendere il cuore di Curio, ma ciò che lo fece andare in visibilio, fu quando la fanciulla in sembianza umile lo pregò:

— Signor Curio, vorrebbe accostarsi più presso a me...

Non se lo fece dire due volte, ed ella, presolo per la mano, gliela strinse con immenso affetto dicendo:

— Anche lei il Signore Dio rimeriti della sua carità.

Curio non ebbe balìa di aprire bocca; un formicolio dalla mano stretta gli corse su pel braccio, e dal braccio gli salì negli occhi, che in un attimo rimasero assorti in un mare di fuoco: essendosi poi provato ad articolare parola, dalla gola stretta non valse a cavarne altro che un singulto; e il poveretto, il quale non sapeva ancora che fosse amore, credè che gli ci fosse rimasto un ossetto della braciola mangiata poc'anzi.

Dopo alcuna dimora, la baronessa riprese:

— Ho mandato pel medico, ma, signor Filippo, stia allegro, che non sarà nulla; alla peggio una terzana, e voi lo sapete il proverbio che dice: «i vecchi ammazza e i giovani risana.» Se non fossi per passare da presuntuosa, io piglierei a guarirla [74] da me; giuoco che tra otto giorni o dieci ella vi torna in fiore, più che non sia mai stata. Adesso poi bisogna che riposi: vedete come la si sforza a tenere gli occhi aperti; andate a dormire, a passeggiare: a rivederci a pranzo.

Filippo si china, e, preso un lembo della vesta alla baronessa, glielo bacia dicendo:

— Signora, voi siete una santa...

E Curio, con quel suo fare avventato, lo interrompe, esclamando:

— Non ci è bisogno di stupirne; qui in Brescia tutte le donne sono così...

— Non tutte, adulatore, non tutte, riprese la baronessa sorridendo, però non nego, la massima parte.

*

— E adesso che facciamo?

— A parer mio, il meglio sarà andarcene a dormire, rispose Curio; se non che subito dandosi un picchio al capo esclamò:

— Ignorante che sono! E il povero maggiore mi era già uscito di mente! Addio, Filippo, addio; va' a dormire, che a me tocca andare fino allo spedale a rivedere il maggiore; un bravo uomo, sai? Credendo egli perduta la guerra, si era dato alla disperazione; io gli ho promesso portargli notizie [75] fresche, e poichè son liete, giudico crudeltà ritardargliele; dunque a rivederci.

— Aspetta, Curio, che vo' venire anch'io.

— O la fatica? O il sonno?

— Vedere un patriotta di cuore, e parlare con lui di battaglie, mi fa più pro che dormire.

Andarono; però, nonostante i bei propositi di Filippo, egli sentendosi debole di forze, si appoggiò al braccio di Curio, e per un buon tratto di cammino procederono a maraviglia; di repente Curio si svincolava da Filippo con tanto buon garbo, che per poco non lo mandò riverso per la terra; la cagione ne fu lo aver visto Curio una corba di limoni, i quali pensando potessero essere accetti al maggiore, corse a comprarli alla sua maniera, cioè a pigliarli per pagarli poi quello che chiedevano. Di nuovo si rimettono in via, e Filippo di nuovo si regge al braccio di Curio, finchè a questo non gli frulla pel capo la fantasia che forse il maggiore mancava di zucchero, e allora i limoni soli a che buoni, se non che alleghire i denti? Di qui un secondo sbalzo e un altro squasso, che per questa volta avrebbe di certo stramazzato Filippo, se non dava in pieno nella pancia ad una massaia, che pareva un pagliaio.

— Buona grazia vinse il palio! gridò la donna stizzita, rendendogli la spinta col cambio, onde Filippo potè, quantunque traballando, reggersi in [76] piedi e dirle grazie di cuore. Per la quale cosa la massaia reputandosi uccellata, piena di rovello si allontanò brontolando un carro di villanie. Curio intanto, lieto del fatto suo, profferiva il braccio a Filippo, ma questi respingendolo disse:

— Va' al diavolo, ch'io torrei mettermi in una tasca la tramontana e in un'altra il grecale, piuttostochè venire a braccetto con te.

*

Accostaronsi al letto del maggiore, dov'egli se ne stava appisolato, senonchè, udito appena il rumore dei passi che gli si avvicinavano, aperse gli occhi sospirando:

— Quanto ti sei fatto aspettare!

— Maggiore, non una ma venti scuse potrei addurvi una migliore dell'altra: ma a che pro? Ecco: io vi ho condotto un'anima di leccio, che viene adesso dal quartiere del generale Garibaldi.

— Viene! E perchè torna?

— Non istate a farvi il sangue verde, maggiore, questo vi basti, che stoppa ce ne avanza, nè Garibaldi si rimane da torcerla.

— Sì? Su presto, racconta.

— Il sergente Filippo ve lo racconterà per filo e per segno.

— Se permette, signor maggiore, disse Filippo, [77] salutando coll'alzare della mano verso il berretto, le domanderò innanzi tratto se sappia dove diavolo ci abbiano cacciato?

— Dillo a me, che lo conosco a mena dito! Gioghi, che per vederne la cima bisogna metterci addirittura a pancia all'aria; rupi a strappi appuntate come le guglie del duomo di Milano: nevi da un anno all'altro, ghiacciaie eterne, e a giorni per ore e ore un fiato di bocca di forno: calli poi dove la camozza, dopo averci steso il piede, lo tiene in alto quasi per deliberare se debba o no avventurarcisi, e all'ultimo non ne fa niente; fiumi, che menano a rotta di collo macigni come fossero rena, sempre a guadarli pericolosi, sovente impossibili; dai fianchi del monte, di sul capo da mille ripari naturali, o condotti ad arte, ti fioccano palle senza sapere chi ringraziarne: sembra che i demoni del luogo, impietriti in coteste rocce, sparino a man salva: in mezzo al terribile laberinto, ai tempi di Andrea Hofer, si dice che ci restassero morti non meno di quarantamila uomini fra bavari e franchi.

— Proprio così, ed anco adesso, dopo cinquantasette anni, tu miri biancheggiare di ossa certa valle, che ha nome il burrone dei morti: però al presente è troppo peggio del 1809 e del 1848, perchè da quest'ultimo anno gli austriaci, in capo ad ogni svolta dei monti, hanno fabbricato un fortino armato di tutto punto. Cotesti fortilizi, posti là a [78] sbarrare la strada, paiono mastini che ti mostrino i denti... da un punto all'altro ti sembra che abbiano a pigliare la rincorsa per saltarti alla gola. Glielo avevano avvisato a quel coso del La Marmora: «Generale, badi al Caffaro, al Tonale e allo Stelvio, che da coteste parti gli austriaci sbucarono sempre.»

Ma ei non la volle capire.

Il Clementi, che è un macellaio di Bormio, mio amico, sulla fine di maggio si raccomandava, con le braccia in croce, mandassero gente a guardare i passi; facile impresa presidiando il Giogo, il Casino dei rottieri, le cantoniere, la chiesa e la casa del cappellano; più tardi impossibile; non gli si diede ascolto; precipitando gli eventi, il Clementi implora: forniteci armi e munizioni che ci difenderemo da noi: se il governo frigge con l'acqua e non le vuol dare a ufo, ce le metta a debito, e, se non si fida, da una mano gli schioppi, dall'altra i quattrini: e' fu predicare ai porri: il dì veniente i tedeschi dallo Stelvio e dal Tonale irruppero sopra le terre lombarde. Così, un macellaio alla prova si mostrò più esperto di strategia del capitano La Marmora. Adesso il Generale ha spedito in fretta e in furia da quelle parti i colonnelli Guicciardi e Cadolini, e staremo a vedere ciò che sapranno fare.

— Ma sicuro che bisognava tenere l'occhio sul Tirolo, perchè ecco qua come i tedeschi possono scendere da codesto lato in Lombardia, e minacciarci [79] di fianco e alle spalle, intanto che noi c'inoltriamo nel Veneto; così noi potremmo, a volta nostra, speculandoli in coteste posizioni, assalirli a tergo ed occupare il Tirolo.

In questa opinione mi conferma l'ottimo sistema immaginato dagli ingegneri tedeschi, i quali, avendo fatto il castello di Toblino chiave della vôlta, partirono in due le linee della difesa, di cui la prima piglia da mezzogiorno scendendo dalla valle inferiore della Sacca verso la estremità settentrionale del lago di Garda; l'altra dopo avere rimontato la medesima valle per le Giudicarie conduce al lago d'Idro; anco da Toblino a Trento, il terreno è munito di forti arnesi di guerra, che si collegano col quadrilatero e con le altre difese. E a uomini come state, sergente?

— Io non saprei; chi ne dice una e chi ne conta un'altra. Ella sa quanto me, come l'arrolamento dei volontari prima fosse aperto, poi chiuso, all'ultimo riaperto: senza aggravarmi la coscienza, mi è concesso sospettare che il governo barcamenasse nella speranza di non chiamarli mai, o, chiamati, rimandarli subito: basta, io credo che da principio, a farla grassa, saremo giunti a quindicimila; adesso ogni giorno ne arriva[13]; ma, o [80] signore, che gente! Chi in giacchetta, chi in falda, taluni persino in manica di camicia; chi con le scarpe, chi scalzo; quale usa il cappello alto, quale basso; la più parte in berretta, e queste di tante fogge, stoffa e colori da destare le convulsioni al capitano La Marmora; giovani imberbi, barbe bianche, maestri con gli scolari, capi di bottega co' garzoni; e donne in copia travestite da uomo, o no: breve, immensa e pittoresca disformità, la quale, se mette tanto di cuore nel patriotta, lo fa diventare vizzo al soldato che sa chi abbiamo a combattere, ed in quali luoghi.[14]

— Ma intanto che viaggiano, il governo penserà a vestirli e ad armarli a dovere.

— E che dice ella mai, signor maggiore? È proprio una pietà. Le camicie rosse non bastano, e la stoffa n'è rada così, che sembra straccio servito a passare pomidoro; se vuole sincerarsene; consideri la mia, ch'è delle meglio; la si stinge subito pigliando mille colori, veruno dei quali si trova nell'arcobaleno: aggiungono una coperta leggera tanto da disgradarne le frittate fiorentine: solo a vederle viene il freddo addosso. Le munizioni tali, che se toccasse al nemico provvedercele, in verità di Dio, [81] ce le manderebbe migliori; il vino, una maniera di minestra mora composta di acido tartarico, miele e campeggio: per me giuro che lo attingono a brocche a qualche pozzo infernale; di qui coliche, dissenterie, un rotolarsi bestemmiando per la terra e morire: fuori del campo gli avvelenatori si condannano in galera; in campo si pagano, anzi si fanno cavalieri. E bada, che le più volte muoiono di fame: ho visto io, con questi occhi veggenti, volontari, ai quali toccò nel corso di 28 ore mezza galletta ammuffita per uno, sicchè sovente fummo costretti a frugare sotto terra come bestie per trovare radica o patata, e con queste attutire la fame canina!!![15]

— Eh! caro mio, se Messene piange, Sparta non ride: in questa parte anco l'esercito stanziale ne ha da contare delle belle: le armi sono buone?

— Qui poi esco dai gangheri; contro le carabine tirolesi, che ti spaccano il cranio con la palla alla distanza di 1800 metri, ci hanno mandato catenacci che non piglian fuoco dentro una fornace; sicchè, senza difesa, noi per un miglio e più siamo esposti alla morte[16]; di ciò porgono testimonianza molte rocce di coteste alpi, ahimè! vermiglie di sangue italiano, e invendicato. Di promesse un sacco ma, [82] le carabine di precisione le hanno di là da venire. Quanto a istruzione, gliene dirò una e basta: stavamo in procinto di azzuffarci, gli uffiziali avevano comandato di caricare le armi, quando io mi accorsi, dall'imbarazzo dimostrato da alcuni volontari, com'essi non sapessero da che parte cacciare la cartuccia dentro lo schioppo; e se io non glielo insegnava, mettevano prima la palla e poi la polvere.[17]

— O gli uffiziali che ci stanno a fare?

— Signor maggiore, rispose il sergente, rinnuovando il saluto militare della mano levata verso la berretta, voglia dispensarmi: ella m'insegna che i superiori hanno sempre ragione, e se torto, ragione al doppio: al soldato non è concesso neanco lodare, la si figuri se riprendere!

— Eh! via, smetti di fare il gesuita, come se non sapessi che voialtri siete più mormoratori e brontoloni degli ebrei menati da Mosè nel deserto: al solo guardarti in faccia conosco che ti struggi di voglia per dirne male. Su via, sbotta, o che hai paura ch'io ti faccia la spia?

— Allora per santa obbedienza le dirò, che, eccetto pochi, i quali meriterebbero davvero gli si accendessero i moccoli ai piedi, gli altri mi paiono, anzi sono, una mano d'intriganti, queruli e ciarlieri: [83] l'uno astia l'altro: periti di milizia quanto io di turco: ignoranti dei luoghi, procedono a vanvera avanti e da parte: nelle aule politiche, granatieri; in campo, predicatori: generali di pentecoste, vo' dire per virtù dello Spirito Santo, come gli apostoli. A vederli a cavallo tutti lustranti d'oro, gli è proprio un desio.....

— E ti peritavi a dire? Dio ci scampi, se ne avevi voglia!

— Ormai che ci sono mi vo' sfogare: la si figuri: ci è tale, che per comparire mirabile con divisa indorata accattò a usura lire 500, per renderne in capo ad un mese mille; il che fa il ninnolo del 1400 per cento. Corse fama in quel tempo che la regia università degli usurai volesse collettarsi, per edificare una cappella e consacrarci la sua immagine, perchè nel calendario della sgozzatura costui può tenere le parti di pontefice massimo, e lo avrebbero fatto; ma trovandosi gli ebrei nel collegio in maggioranza, imbiancarono il partito col pretesto che la religione mosaica vieta il culto delle immagini. Però è giusto dire che a repentaglio ci stanno, e questo me li fa sopportare, altrimenti li avrei in uggia più della quaresima: vero è però che una volta parve supremo vanto fra noi menare le mani, e fu quando quei curiosi dei francesi sentenziarono che gl'italiani non si battono, ma oggi ch'essi hanno mostrato che si [84] battono anche troppo, i giovani dovrebbero imparare, e se non lo imparano da per loro glielo insegneremo noi altri vecchi, come la minima delle virtù militari sia fare il proprio dovere in campo. Rispetto ai soldati gregari, o bassa forza, come la abbia a chiamare, colpa prima del governo, che niente lasciò intentato per iscreditarli, poi delle Commissioni, che, ravvisando negli arrolamenti un cauterio onde purgare la città, ci travasarono il meglio delle galere e dei penitenziari; per ultimo valga il vero, del Generale...

— Chi Generale?

— Quando si dice generale, o di chi altri può intendersi se non del Garibaldi?...

— E ti attenti accusarlo?

— E perchè no? I credenti stimano solo Dio perfetto, i miscredenti nemmanco lui. Garibaldi poi vuol essere benvoluto non già adorato; difatti se gli si presenta un facinoroso in sembianza compunta e gli dichiara sentirsi infastidito della infame vita tratta fin lì e volersi fare ammazzare per la patria, il Garibaldi gli metterà una mano sulla spalla e con voce soavissima gli dirà: «Sì, caro, fatti ammazzare alla prima occasione, e procura con la bella morte espiare la tua scellerata vita; così adoperando ci è caso che tu ritorni in grazia di Dio e della patria!» Io ho veduto per esperienza simili tratti riuscire, allorchè ci troviamo [85] in procinto di battaglia, perchè la passione che mosse il facinoroso si mantiene rovente, anzi cresce fra lo strepito delle armi e il furore dei cannoni, onde, prima ch'egli si sboglientisca, casca morto: nel parapiglia i buoni soldati non si accorgono chi sia loro caduto allato: morì per la patria, e qual sarà il tristo che gli laverà la faccia intrisa di sangue per ravvisare un furfante? Ma incastrarli permanentemente nello esercito, gli è un'altra faccenda; scaccia la mala natura, e ti ritorna più impronta che la mosca sul naso; le costoro riotte e rapine e male parole e peggiori fatti ti manderanno a soqquadro ogni cosa: più volte vedemmo venire i gendarmi fra noi e levarne una funata, e con quanta umiliazione dei buoni e discredito del corpo, ella, signor maggiore, immagini. Quanto all'artiglieria, a levarla su in cielo, in coscienza, non sarebbe metterla in alto quanto si merita...

— E' ci è di già, Filippo, e' ci è, e te ne dovresti essere accorto! Ormai la costellazione del cannone governa il mondo...

— Insomma, Curio, più buona gente dei nostri artiglieri io non ho mai visto al mondo. Il maggiore Dogliotti, solo, vale un Perù.

— Allora non può essere a meno che alla fine della campagna non lo eleggano capitano...

— Che diavolo spropositi? Volevi dire colonnello...

— No, Filippo, non erro; poichè quanto vi ha [86] di codardo, d'ignorante e di birbone, è spinto innanzi; non resta per mercede ai buoni che mandarli indietro....

— Lasciamo i morsi ai cani, interruppe il maggiore. Ditemi, sergente, dalle mosse del Generale si argomenta dov'egli intenda venire?

— Non si argomenta, signor maggiore, si legge espresso, perchè nelle giravolte di coteste giogaie non ci è da sciegliere; egli può bene tenere segreto il modo di penetrarci, ma, quanto alla strada, essa fu tracciata dalla natura: certo più facile sarebbe stato per le valli del Non e del Sol investire Trento, ma il capitano La Marmora non volle che il Garibaldi sforzasse i passi dello Stelvio e del Tonale; però non avanza altro che il Caffaro.

Ora non ci è mulattiere, il quale non sappia che tenendo questo sentiero si arriva al lago d'Idro, donde per le Giudicarie bisogna andare al ponte del Chiese: di qui si sale sul Bondo, fra Agrone e Tione, per discendere alla valle del Sacca; da questa poi, per Vezzano e Stenico, a Trento. Come già le ho detto, furono spedite due colonne al Tonale ed allo Stelvio per tenere in rispetto i tedeschi, onde non irrompano un'altra volta. Tuttavia, ecco, maggiore, glielo confesso col cuore in mano, belle cose noi non facciamo: la si figuri un gruppo di nodi che ci bisogni sciogliere uno per volta. I tirolesi con la palla delle loro carabine spaccano una [87] palanca a mille e più metri di distanza, e gli austriaci, serve assai, al fuoco ci stanno al pari di ogni altro soldato del mondo.

— È vero; ne buscano in buona fede: ma i montanari, come ci si mostrano? Furono un dì amici.

— Dia retta a me, maggiore: che la gente culta un giorno ci si professasse amica, può darsi, ma ora, ecco, non mi pare. La bandiera italiana, col vescicante savoiardo in mezzo (come cotesti sboccati sbottonano senza ombra di reverenza) non attecchisce; la età appaltona non comprende la grande anima del Garibaldi, il quale quanto più bistrattato più si ostina, amatore malgradito ed importuno, ad affaticarsi per la monarchia; di fatto ciò non può procedere che da somma abiezione o da somma generosità, e voi sapete che ai tempi nostri gli eroi sarebbero centauri. I montanari poi io giudico addirittura contrari, e ciò perchè, quando l'anima umana piglia la ruggine della servitù, ci vuole il diavolo a ripulirla, e dobbiamo anche ringraziare i preti, i quali vanno predicando noi essere nemici mortali della religione, ed amici parimente mortali delle galline..... e delle donne...

— E se non sarà lì, sarà all'uscio accanto; ma veniamo al grano, sergente, fin qui ne avete date, o ne avete buscate?

— Date, per Dio, date, e ne daremo sempre; ma adagio a gonfiare i palloni: per me, dopo la taccia [88] di vile, quella che più rincresce è di millantatore: la vanteria è il sole della Francia, lasciamo che a cotesta fascina si scaldino i francesi. Ascolti: dopo essersi fatto aspettare un pezzo, il raggio della luce dall'alto dei colli si versò giù per le valli, e la faccia del Garibaldi splendeva come quella del sole. Inoltriamo i nostri passi sulla terra italiana, egli disse, e senz'altre parole spinse una colonna comandata dal maggiore Castellini al ponte del Caffaro, allora confine fra la Lombardia ed il Tirolo: bello di speranza e di generosità, egli bandiva ai volontari la virtù dello esercito, la prodezza del re; la vittoria già conquistata nelle contrade venete; la necessità di correre traverso le armi austriache, per giungere in tempo a stringere la mano dei fratelli sopra i campi gloriosi di battaglia[18], e precisamente in quel punto l'austriaco ricacciava, voi lo sapete, il nostro esercito di qua dal Mincio, e il re, prudentissimo guerriero, si serbava a migliori fortune affidato alle groppe del suo cavallo.

Non così il Garibaldi; e quantunque gli austriaci ci bersagliassero quasi a man salva da luoghi da [89] lunga pezza ammanniti, bene poterono renderci sanguinosa la vittoria, non impedircela: sgarrammo la puntaglia ed inseguimmo fino a Storo il nemico, con la baionetta nelle reni. Qui accadde un fatto degnissimo di poema e di storia, e fu, che certo capitano austriaco sfidò a singolare tenzone il tenente Cella friulano: entrambi valorosi davvero, e l'uno competente all'altro; però o la maggior perizia, o piuttosto la fortuna sovvenisse il tenente, fatto sta che il capitano, rilevate diciassette ferite, si ebbe a rendere: finchè durò il duello cessammo di tirare da una parte e dall'altra; e il vincitore con parole blande consolò il vinto, che a questo modo deve costumare chiunque abbia voglia che la vittoria gli frutti lode e non biasimo. Con tali presagi e con tali successi il capo ci fumava come un camino, e il terreno ci scottava sotto i piedi impazienti di sosta: stavamo per metterci in marcia su Storo, valicando il Chiese, quando il capitano La Marmora ci arrandellò tra capo e collo il telegramma: «Disastro irreparabile! Coprite Brescia.» Ci parve che ci tagliassero i garretti: mogi mogi, scorati rifacemmo i passi; parevamo tanti fratelli della Misericordia che tornassero da associare un morto. Fermi a Lonato, a contemplare gli austriaci imperversanti senza sospetto per la valle del Chiese, noi ci mordevamo le mani; il Garibaldi pareva in vista una statua di marmo; chi gli era vicino, dal [90] continuo torcere della bocca, che peggio non poteva fare se avesse mangiato fette di limone, si chiariva com'egli ci patisse più di noi; all'ultimo non potemmo più stare al canapo, e il Generale di punto in bianco ordinò andassimo a ripigliare le posizioni abbandonate, cacciassimo via il nemico da Montesuello. Gli austriaci ci attesero a piè fermo, ed a ragione, chè chi sta bene non si ha da movere, ma, appena ci scorsero alla lontana, presero a bersagliarci dalle trincee di Sant'Antonio. Che cosa potevamo opporre noi? I migliori alleati dei nostri nemici erano i nostri schioppi; oltre alla meschina portata, nello spararli correvamo il rischio di ammazzarci da noi, così li provavamo logori ed arrugginiti. Per maggiore disdetta ecco annuvolarsi il cielo, e fra lampi e tuoni rovesciare giù acqua a catinelle. Dunque, mano alla baionetta e addosso. Pareva che la morte bacchiasse le noci; ma invece di noci erano giovani prestanti e belli ed italiani tutti: ad ogni passo giù un morto, od un ferito; ma dai dai, sopra il nemico ci siamo, e la superiorità delle armi ora non gli giova; primo moto di lui, la fuga, indi a poco, infervorato dagli ufficiali, volta faccia e ripiglia le offese: cozzavamo peggio dei montoni, un po' indietreggiando essi, un po' noi; alfine, noi altri chiusi e stretti in un gomitolo ci avventammo, e lo incalzammo a piè del Montesuello. Molto sangue grondava la nostra persona, ma più [91] sudore; credevamo vinto ogni intoppo, e ci ingannammo; però che là, dove il monte svoltando a levante sembra che chiuda ogni adito al passeggiero, ci attendessero gli austriaci riparati da formidabili ridotti; se gl'istrumenti erano pronti a sonare, e noi non meno vogliosi di ballare. Qui dicemmo: aut, aut, o l'audacia e la celerità ci salvano, o nulla ci salva; si avventa un battaglione come un maroso, e come un maroso respinto dalla scogliera si ripiega lacero e fremente; ne subentra un altro, un altro poi, sempre con valore ed infortunio pari; si sdrucciolava nel sangue; l'anelito fumoso dei petti lacerati impregnava l'aria, sicchè respiravamo una nebbia sanguigna. Il Garibaldi, tutto avvampato nel sembiante, si tuffa dentro la mischia, più che da capitano, da soldato: di repente balena e sparisce, che una palla lo ha ferito in una coscia. Un urlo spaventoso si mescolò al ruggito del tuono, allo strepito delle armi da fuoco, e tutto vinse; ma il Garibaldi, tocca appena la terra, si leva, e fasciato alla meglio, si adagia sopra una barella e sta nel mezzo della battaglia. Il Garibaldi non parlava, guardava i volontari, e basta; anzi ce n'era di troppo, però che lo sguardo del Garibaldi tolga all'anima ogni viltà, come l'acqua lava il corpo da ogni sozzura: finchè egli ti guarda, la codardia non si attenta accostarsi a te... finchè il suo sguardo dura, tutti si sentono eroi. Ma egli non poteva trovarsi [92] da per tutto; e i volontari leoni sempre, pure, lo ripeto con dolore, leoni travagliati dalla febbre. Ahimè! la sconfitta di Custoza, la fame, il freddo, i giornalieri disagi, le armi infami, l'odio e lo spregio in cui sembra loro essere tenuti, e sono, ha messo nelle anime loro tale uno sgomento, che li fa desiderare la morte: non importa la vittoria, basta finire la vita: non volsero le spalle.... diedero indietro disperati.... ormai credevano la battaglia perduta. Di poca fede i giovani soldati; per noi vecchi, non è vero, maggiore? finchè ci è fiato ci è speranza. Ed io, vedendo allontanarsi la barella dove giaceva il Garibaldi, dissi fra me: gatta ci cova; ed è chiaro: il Garibaldi non uscì mai dal campo se prima non avessero vinto i suoi: dunque aspettiamo a vederne delle nuove, e mi era apposto: di un tratto, dalle alture di Santo Antonio, quattro cannoni pigliano a seminare la strage nella colonna degli austriaci, la quale non si prova nemmanco a ordinarsi sopra la strada, e spulezza via più che di corsa. Gli austriaci fuggendo speravano ridursi daccapo ai fidati ripari di Montesuello, ma venne loro interdetto, chè le compagnie del maggior Mosto, sopraggiunte alla Berga, li chiamano a morte; onde essi continuano la fuga lasciandoci in potestà nostra le posizioni di Montesuello, del Ponte di Caffaro e di Bagolino. Ed ecco come, non disperando mai, si finisce sempre col vincere; sovente accade che in [93] mezzo al fragore delle armi, allo affanno della zuffa, alla polvere e al fumo, la vittoria cammini a tastoni incerta dove si abbia a posare; tocca al buon capitano ritrovare le orme, agguantarla e incatenarla come schiava fuggitiva al carro del suo trionfo. Di altro non so, perchè mi sono partito dal campo.

— Come partito? Sul più bello si parte?

E il sergente, con un suo ghigno amaro:

— Non dubiti, maggiore, che io sono di quelli che rimangono addietro a chiudere l'uscio; qui venni, per comando espresso del Generale, a curare una mia creatura di sedici anni, che....

— Che mai?

— Che, nel seguitarmi alla guerra, cadde inferma. Ora ritorno.

— E tu, Curio, a che stai?

— Io non istò per niente, me ne vo con lui a prendere il posto della sua figliuola.

— Dunque non perdete tempo, andatevene.... ogni minuto perduto è un delitto, un tradimento.... ma no, aspettate.... voglio venire anch'io.

Immemore dello stato in cui si trovava, il buon maggiore appuntella il braccio ferito per ispingersi fuori del letto: nell'impeto del moto manda in pezzi lo apparecchio e sfascia la piaga, con suo inestimabile spasimo: il sangue scorre a fiume dalle lacere vene, lo invade un freddo sudore, la immagine delle cose circostanti gli si perde dentro una caligine [94] sempre più densa, sviene; ma, prima di svenirsi, tanto potè raccogliere di spirito, che con voce abbastanza sonora esclamò: — Viva Garibaldi!

Quasi scintilla elettrica questa voce penetrò, circolò in un attimo nelle ossa di quanti la udirono ed in ogni angolo più recondito dello spedale: ogni atto, ogni affetto rimasero sospesi; i servigiali, accorrenti con farmachi od altro, arrestaronsi; i cerusici si fermarono da medicare le piaghe; una madre stette a mezzo curva sul figliuolo che si era chinata a baciare; un'amante cessò asciugare il sudore allo amico per angoscia convulso; gli infermi stessi, dimenticato un momento il dolore, come se si fossero dati la intesa, con una voce sola replicarono: «Viva Garibaldi!»

Gran cosa è questa: lo spirito umano esaltato dal divino entusiasmo domina lo stimolo del bisogno e supera perfino le trafitte del dolore. Come avviene ciò? In qual modo una parte della materia acquista virtù di prevalere cotanto sopra l'altra parte? La scienza irride come inane il vostro postulato e si vanta risolverlo in due palate.[19] Per verità io [95] meditai molti dei moderni libri sulla materia, ma non sono giunto a chiarirmi. Se io avessi a dare un consiglio alla scienza, le direi: — Cerca di molto, e afferma poco e tardi; cerca, poichè io non ti possa trattenere, ed anco potendo non te lo impedirei; ma cerca tremando di scoprire che tutta terra siamo: imperciocchè in quel giorno (se fia mai che venga) sarà spenta ogni poesia dell'anima: invidieremo i bruti, che camminando col muso chino a terra non sono costretti a funestarsi la vista con lo immenso inganno del cielo stellato.... le rane dal padule canteranno le glorie dell'uomo, che, uscito dal fango, tornerà intero alla mota materna. Oh! di quanto senno fece prova lo antico sapiente, allorchè disse: «Se tutta la verità mi stesse chiusa nel pugno, aborrirei aprirlo per la paura di fare un tristo dono all'umanità!»

È lecito rinnovare agli scienziati

Che l'anima col corpo morta fanno,

la domanda mossa da Betto Brunelleschi a Guido Cavalcanti, aggirantesi pei sepolcreti: «Quando sarete giunti a trovare che Dio non è, qual profitto ne caverete voi?» Certo confesso infiniti i mali dell'abusata idea di Dio, ma chi può dirmi quelli che usciranno dalla sua negazione? Basta, io mi consolo pensando avere veduto passare più sistemi filosofici sopra questa terra, che nuvoli in cielo.

Poichè il maggiore fu daccapo medicato, Curio [96] e Filippo manifestarono il desiderio di attendere tanto ch'ei rinvenisse, se non che l'infermiere ne li distolse mettendo loro sottocchio che, nello stato di debolezza in cui si trovava, era mestiere risparmiargli ogni subita e gagliarda commozione, la quale non si sarebbe potuto evitare, quando il maggiore, tornato in sè, se li fosse veduti dinanzi. Curio pertanto e Filippo se ne andarono non senza molto raccomandarsi al cerusico, che lo salutasse per loro e confortasse con ogni maniera di affettuose parole.

*

A casa della baronessa ebbero cibo e riposo. Filippo non voleva intendere ragione, e comecchè affranto si apparecchiava a partire subito. Le persuasioni altrui, e più le gambe proprie, misero il veto all'avventato proposito. Sorsero, appena un po' di chiarore apparve in oriente; la baronessa già levata li aspettava e li condusse in camera di Eufrosina, la quale pure seduta sul letto era ansiosa di vederli: appena le furono comparsi davanti stese le braccia, e con la manca strinse la mano a Curio, con la destra al padre, e, questo guardando, con ineffabile affetto gli disse:

— Babbo, ti raccomando il signor Curio.

Poi, rivoltasi a Curio, aggiunse:

[97] — E a voi, signor Curio, raccomando il padre mio; da lui in fuori io non ho altri al mondo....

Non risposero, perchè piangevano; ella no, quantunque le lagrime le stessero in pelle in pelle per traboccarle dagli occhi. Filippo le baciò la mano e il volto, Curio si tenne facoltato a baciarle la mano soltanto; però a lui solo, mentre passava la soglia, riuscì voltarsi indietro a dirle:

— A rivederci, Eufrosina.

— Sì, a rivederci, e Dio vi accompagni.

Il povero Filippo non aveva ancora ricuperato la favella; strinse nelle sue le mani della baronessa e guardò in su; ed ella:

— Ho capito.... Filippo, sono madre anch'io... ed ho provato il dolore di perdere un figliuolo. Anzi, sentite un po': io temo forte che la povera Eufrosina non reggerebbe alla incertezza del vostro stato, quindi vi proporrei imitare lo esempio di quella santissima donna che fu la contessa Teresa Confalonieri, la quale, sentendosi morire, onde la nuova della sua morte non levasse gli ultimi spiriti al marito Federigo, prigione nello Spielberg, scrisse lettere con la data di giorni, mesi ed anni avvenire, affinchè, dopo defunta, via via gliele consegnassero, ed egli, credendola viva, non disperasse. Pietoso inganno! Voi poi vivrete di certo, me lo porge il cuore, che non mi ha tradito mai; pure cento casi possono avvenire, i quali, o vi toglieranno [98] la comodità di scrivere, o la occasione per farmi recapitare le lettere, e allora mi varrò di quelle che mi saranno trasmesse, secondochè vi ho accennato. Intanto fatevi animo, e state sicuro che la vostra figliuola sarà da me tenuta come persona caramente diletta.

[99]

Capitolo XI.
LA BATTAGLIA DI BEZZECCA.

— Ed ora perchè ti fermi? Avanti! avanti! che assai corriamo pericolo di non arrivare a tempo.

— Lasciami stare, Filippo, perchè è bene tu sappia che adesso penso.

— Di grazia, a che pensi?

— Io penso, vedendo innanzi a me questa formidabile barriera delle Alpi, come l'uomo, circondando la sua vigna di siepe, potesse impedire che la volpe ci entrasse; Dio e la natura, con questa muraglia di monti, che lo straniero penetrasse in Italia non poterono. Col prete in corpo non ci ha redenzione in questo mondo, nè nell'altro; il prete non conosce patria, nè famiglia, nè nulla; con tutti sta e con nessuno. Penso a quel sacerdote, forse [100] più animoso assai di Colombo, che si avventurò su cotesto oceano di rupi, di tenebre e di ghiaccio, non già per iscoprire un nuovo mondo, bensì per trovare lo straniero, il quale, scansate le chiuse di Susa, scendesse libero a calpestare le terre italiche e a spartirle col papa[20]. Penso all'altro prete, e questa volta è il maggiore, che per cupidità trae fino in Francia, e quivi, genuflesso nella polvere, supplica Pipino, ai danni della patria, con le medesime smaniose preghiere che Volunnia pagana adoperò già verso Coriolano, affinchè non la guastasse[21]. Non gli bastando una volta, lo chiama la seconda, e dubitando che alla sua voce obbedisse, non repugna dalla brutta impostura di fargli scrivere lettere di esortazione e di minaccia dallo stesso S. Pietro, proprio di paradiso[22]. Ciò dalle Alpi Cozie, dalle Rezie peggio; di qui calò Ottone alla ruina di Berengario re d'Italia, pei conforti del prete dissoluto[23], che il marito oltraggiato scaraventò fuori dalla finestra; su queste rocce i preti, cacciate le aquile di nido, vi educarono una schiatta d'eroi, eroi sì, ma del servaggio: qui seminarono le ceneri di Caino per raccogliervi larga messe di [101] Giuda: per loro queste Alpi diventarono arnie di cagnotti di straniera tirannide: costoro, quante volte accostarono la bocca alle mammelle della Italia, lo hanno fatto per mordere. Altrove nascono i martiri della libertà, qui è vanto generare i martiri della servitù.

Cosa incredibile a dirsi e non pertanto vera, gli stessi scongiuri del padrone non valsero a cessare in queste creature strane la ubriachezza di combattere per le catene; invano la falce della guerra le ha mietute come l'erba dei prati, chè vi ripullularono più infeste e più spesse delle prime; sacerdoti e laici vennero in questi luoghi a gara di sangue; l'oste Hofer ebbe un emulo solo e fu il cappuccino Haspinger. Ma allora potevano addurre a scusa di loro la causa comune dei tirolesi meridionali e di tramontana; non anco risorta la fortuna italica, e gl'italiani combattenti non per la indipendenza propria, sibbene per la grandezza altrui; adesso però italiani siamo tutti; con quale consiglio, o per quale destino dunque gli ostiari d'Italia si votano agli dèi infernali, per tenere aperte al dominatore forestiero le porte della casa comune? In che li offendemmo noi? Quanti i benefizi del tedesco e quali? Forse uno: lo imperatore austriaco li regalò di carabine atte ad ammazzare i fratelli da lontano.

— Curio, hai detto? Allora, favellò Filippo, adesso ascolta un po' me, che queste faccende intesi discutere [102] molto, ed io da me ci ho meditato assai. Curio, quante volte ti disponi ad azioni generose, guidati co' palpiti del cuore unicamente, e con ambedue le mani chiudi gli occhi alla tua ragione, o torna a casa. Noi o agita un genio, o strascina il fato, e se così non fosse, te lo paleso aperto, non saprei trovare la causa che ci spinge a morire in mezzo a questi orrori. Nota qui: tu hai detto che lo imperatore di Austria donò i tirolesi di carabine atte ad uccidere da lontano; or che penserai del nostro governo, il quale non ci ha provvisto di schioppi neanche capaci per nuocere al nemico da vicino? Rammenta che a quei di Bormio il governo si rifiutò a dare armi pei loro danari. Perchè i tirolesi muterebbero padrone? Perchè si daranno alla monarchia piemontese? Forse perchè questa li butti per giunta sulla bilancia ad aggiustare i pesi, come adoperò con Nizza? A che giova farla padrona delle Alpi Carniche? Forse perchè le getti via come adoperò delle Cozie? Certo l'Austria non fu larga mai, ma per pigliare ai tirolesi si mostrò sempre parca; e tu sai che la generosità dei principi consiste nel lasciarti la camicia, o nel non tôrre, come insegnò l'Alfieri. L'Austria, dopo aizzati i popoli a levarsi contro il padrone, non li consegnò legati per rinfresco, quando fece la pace; molto meno punì con le morti e con le carceri le passioni che aveva ella medesima eccitato, quando cessò il bisogno. Ora ti [103] sarai accorto come la monarchia savoiarda, o chi fa per essa, pretenda, a tenore dei suoi vantaggi, che in meno di un anno ora siamo mastini ed ora conigli; ora tagliamo l'orecchio a Malco, ed ora, toccato lo schiaffo, porgiamo la guancia al secondo; increduli a un punto e superstiziosi, persecutori e intolleranti, divoratori e idolatri dei preti; ora ci aizza a lacerarci col ferro, col fuoco e perfino coi morsi; quando poi le fosse piene di morti fumano sangue, impone che traverso cotesta nebbia cerchiamo a tastoni la mano del nemico e la stringiamo come se di fratello. Quel Claudio, che fece nella mattinata ammazzare a legnate la moglie Messalina, e poi mandava la sera ad invitarla a cena, di petto al nostro governo è Salomone. L'Austria non fu larga mai, pure si legge come alla famiglia del Hofer donasse trentamila fiorini, cinquecento alla moglie e dugento per ognuna delle quattro figliuole, di pensione annua; al figlio Giovanni comperò un grosso podere e lo commise alle cure del consigliere di Stato Kugelmayer, onde, come figliuolo, lo allevasse e istruisse. Tu sai la monarchia savoina in qual modo ricompensasse la famiglia del Micca, che si consacrò alla morte per la salvezza di lei? Due razioni di pane; si dà di più ai cani! E al Garibaldi, come si mostrò ella grata? Il Garibaldi le donò due corone, e sovente penuriò di pane; ma che non gli [104] desse niente non si può del tutto dire: in Aspromonte ella lo pagò in moneta di piombo. Rammentati che molti, i quali misero a repentaglio la vita per costruire il trono italiano, sono morti di fame; taluni, per eccesso di miseria, con le proprie mani si finirono[24]. Se invece dell'io, che vuol dire un uomo, tu avesti fatto echeggiare queste balze del noi, che denota popolo, tu avresti veduto squagliare i cuori dei tirolesi come le nevi dei loro monti al tepore di maggio. E, se ti piace di saperla intera, io ti dirò che altre volte fu abbandonato dalle armi nostre il Tirolo, nè si desidera adesso, perchè in Trento un dì fu sciorinata la bandiera rossa, dalla monarchia meritamente odiata, come quella che presente in lei il suo lenzuolo funerario.... sacra sindone nel senso di esecrabile.

Curio stette un bel pezzo con la faccia china, come per aspettare il fine della lotta fra il sì e il no, che si combatteva dentro di lui; per ultimo sospirando disse:

— Ben vedo, Filippo mio, come il mondo morale al pari del mondo fisico si componga di elementi che si accozzano insieme coll'armonia di tante bestie [105] feroci legate ad una medesima catena; necessità li costringe; così quando ognuno ne ha balìa, in mare, in terra, in cielo, dappertutto combatte. Lo spirito di Caino rimugina pel creato... e guarda, Filippo, mentre noi ragionavamo, come apparisce affatto mutato l'aspetto del cielo: le nuvole turbinano pel remolino di venti contrari, poi di corsa ruinano all'assalto dei monti, respinte si ammonticchiano, si rannodano e tornano alle offese; lacerate fuggono, ma indi a poca distanza essendo occorse in un altro grosso battaglione di nugoli neri, si congiungono con quello: ecco di nuovo le tenebre si spandono sul creato; e ricomincia la zuffa: dal cozzo terribile ecco prorompere lampi, tuoni ed acqua a scroscio, appunto come dallo affrontarsi degli eserciti il baleno e lo strepito delle armi abbarbaglia ed introna: anche il fumo delle polveri abbuia ogni cosa, e il sangue piove come acqua ad inondare la terra. Questo lago, dove un'ora fa una fanciulla si sarebbe specchiata per accomodarsi i capelli, comincia a sentirsi agitato dalle furie e si apparecchia ad emulare i furori del cielo. Le onde commosse a qualche poeta parvero cavalli che si urtino in giostra; ad altri diedero immagine di un esercito, il quale, disperato della vittoria, raccolga la sua virtù per trovare morte gloriosa e vendetta, precipitandosi a flagellare la spiaggia: per me in coteste lacere spume, negli spruzzi [106] fischianti, nello irrequieto sollevarsi ed abbassarsi dei sonagli; vedo il fiero gruppo di Laocoonte, dei figli e dei serpenti: capi di uomini, capi di serpi convulsi d'ira, di pietà, di rabbia, scontorcimenti smaniosi ed urli disperati. E tu, o rôcca di Anfo, che comparisti pur dianzi agli occhi miei quasi il genio del luogo qui posto dalla natura a custodire le bellezze severe della Lombardia; fiore dell'Idro aperto ad ospitare nel tuo calice due cuori amanti, che promettevi di essere cortese di brezze vitali, di riposo e di oblio, deh! perchè mai, veduta da presso, mi scuoti dal cervello tutta questa polvere di poesia con la bacchetta di un caporale tedesco? Ecco: tra le tue due porte miro appuntato un grosso cannone; le cento feritoie pei moschetti ti guardano sinistre come gli occhi del basilisco; le artiglierie disposte attorno ai parapetti in cima la ricingono di una fiera ghirlanda... il bel fiore dell'Idro ha preso l'aspetto della morte ornata da nozze...

Mentre Curio andava a quel modo fantasticando (a venti anni possiamo esser poeti, senza incorrere in trasgressione) ecco passare una carrozza in mezzo ad un nugolo di polvere, e trarle dietro una frotta di persone veloce e acclamante:

— Pedranzini! Viva Pedranzini!

— Pedranzini? O che coso egli è? domanda Curio; e Filippo:

— Egli dev'essere una stella apparsa di fresco [107] nel firmamento nostro, e deve smagliare di luce davvero, se giunge a mettere per un istante da parte il grido di viva Garibaldi. Che vuoi tu? Gli eroi su questa terra nascono come funghi.

— Ahi! Sciagurato... dovevi, continuando la metafora, dire come le stelle in cielo, dove una chiama l'altra e pigliansi per mano ad alternare le danze divine... tu non sei nato poeta.

— Invece nacqui curioso e di molto: affretta il passo, che ci sarà dato raggiungere la carrozza a S. Antonio.

Nè s'ingannò, chè il Pedranzini co' compagni erano scesi all'albergo per rinfrescare i cavalli, intantochè una grande adunanza di gente ingrossava davanti l'albergo e con urli che pareva il finimondo gridava:

— Pedranzini! Fuori Pedranzini!

L'acclamato, non per salvatichezza, bensì per senso di soverchia modestia, quanto più si udiva chiamare, più s'ostinava a rimanere dentro: dai compagni, che gli facevano ressa di affacciarsi al balcone e dire quattro parole, si schermiva allegando non sapere parlare in pubblico, vergognarsi, sudare dalla pena, e così via: pure non ci fu rimedio, bisognò mostrarsi: egli compariva al balcone vermiglio come un rosolaccio, e, salutato il popolo, con voce alquanto tremula incominciò:

— Signori, io li ringrazio tutti, e di grandissimo [108] cuore, ma in coscienza, ecco, io non vedo perchè le signorie loro mi facciano così grande onoranza: io ho fatto il debito mio. Grazie da capo, e buona notte a tutti.

E con un solenne inchino si ritirò chiudendo la finestra.

— Ecco un oratore che non ruberà di certo la mano a Marco Tullio, mormorò Curio; e Filippo:

— Ma ci metterei pegno sopra ancora io: o voi che lo sapete, questo signor Pedranzini chi è?

E dei villani, ai quali Filippo indirizzava la domanda, taluno di colta, e tale altro a caso pensato rispondeva:

— Il Pedranzini? Guà! È il Pedranzini.

Filippo non trovò di meglio che ridursi all'osteria e tentare costà di scoprire marina: meglio non gli poteva accadere, chè ivi rinvenne parecchi patriotti, i quali, agguantata la ordinanza del Pedranzini, si sbracciavano a profferirgli vino a boccali, instando presso lui, onde contasse le prodezze del suo capitano; e quegli, che forse aveva più voglia di favellare che gli altri di udire, prese ad esporre:

— Conoscete voi il ponte del Diavolo? Voi non lo conoscete. Cioè; il diavolo sì, il ponte no: immaginate dunque una muraglia, che a guardarne la cima di sotto in su vi farebbe cascare la berretta in terra, e che questa montagna sia spaccata per modo che lo spacco largo in fondo vada restringendosi [109] in punta, da formare due corni; ma, siccome tra corni e corni ci corre e voi me lo potreste insegnare, dichiaro accennare a quelli che arieggiano al primo quarto della luna; or bene, sopra cotesti due corni è gettato il ponte del Diavolo; giù traverso lo spacco l'Adda brontola crucciuso a cagione della piccola uscita che gli concedono le rupi laterali, onde egli si arruffa, e nel suo furore rotola acque rovinose e nevi e macigni per allargarla, e come succede a cui fa le cose per rovello, invece di allargarla la stringe. Già a voi altri non premerà niente sapere la cagione perchè cotesto ponte si chiami del Diavolo, e me ne rincresce perchè davvero la è una bellissima storia.

— E chi vi ha detto che noi non la vogliamo sentire? All'opposto contatela, contatela, che Dio vi mandi la buona pasqua e le buone feste.

— Come così è, porgetemi da bagnare la parola e vengo da voi. — Bevve un tratto, e continuò: — Il ponte è di legno; colui che primo immaginò fabbricarlo fu uno innamorato, il quale bruciava dalla smania di portarsi ogni giorno a mattinare la sua amante a Malga, dall'altro lato del fiume; ammannì le travi, i puntelli per di sotto, le staffe, ogni cosa per bene, ma a metterle traverso alle due cime era il busillis; più ci pensava e meno ci vedeva il verso; si votò ad uno ad uno ai santi, ma non intesero; allora implorava il diavolo, il quale, come ci conta [110] il predicatore, stando sempre alle vedette per rubarci l'anima, gli comparve subito davanti, e gli disse: conosco la polvere e i pensieri della polvere; detesto i discorsi lunghi, per lo che non volli mai accettare la deputazione al Parlamento italiano; patti chiari ed amicizia lunga; dammi la tua anima ed io ti fabbrico il ponte in un bacchio baleno. —

— Ma senta, signor diavolo, si fece a notare il povero innamorato, — e l'altro:

— Qui non ci è diavolo che tenga, o piglia o lascia, chè ho un ritrovo a Firenze per provvedere di tabacco la regìa cointeressata.

— Ebbene, storto il collo, gemè lo interessato, io prometto l'anima di chi primo passerà il ponte. — Chiuse gli occhi, aperse gli occhi, e il ponte era finito.

Il diavolo andò dall'altra parte del ponte aspettando l'innamorato al passo come una lepre, ma questi allora comincia a dare spesa al suo cervello, e pensa a cosa, che neppure era cascata in mente al diavolo: — To', egli diceva, se io passo mi trovo ad avere pescato pel proconsolo, perdo l'anima, e a casa della dama non ci vado. Allora pensa una nuova malizia; va a casa il curato, e grida di strada: oe, oe, ecci il curato? — Che si vuole dal curato? E chi siete voi? — Quegli disse il nome e aggiunse: Presto, venga via che di là dal fiume è in procinto di morte Girolamo d'Andreis [111] e vuole confessarsi a voi. — O come volete che a quest'ora bruciata mi metta giù tra questi scavezzacolli e mi arrischi a guazzare l'Adda di notte? — Se gli è per questo non si rimanga, che qui oltre hanno fabbricato un ponte e vostra reverenza potrà passare da una sponda all'altra, come dalla canonica in chiesa. — O come mai? E chi ce l'ha fatto? Ce l'ha fatto sua maestà l'imperatore Francesco? — Venga e vedrà. — Vengo, vengo; piglio la pipa, l'olio santo e l'ombrello e vengo via. — Andò, maravigliò, e passò; l'innamorato rimase a sbirciare di qua dal fiume: intanto la notte era diventata buia; il diavolo sente il rumore dei passi e dice: Attenti, eccolo il bindolo; ora te la darò io per avermi fatto aspettare tanto. Stende le braccia, acciuffa il curato e gli dà una zannata; per ventura mise il dente sulla scatola dell'olio santo e la stiantò di netto; l'olio santo gli si sparse in bocca. — Puh! che puzzo! questa è roba da preti e questa è anima di prete; sa di salvatico e non mi basterebbe a digerirla un mese, tanto ha il salcigno addosso. — E presi alla rinfusa anima e corpo del curato, pipa, olio santo e ombrello, li scaraventò giù nell'Adda, scappando via scornato tra un nugolo di fuoco e di zolfo. Ecco come il diavolo fu gabbato e il ponte costruito. I superiori ordinarono passassimo il ponte notte tempo e senza fiatare; prima di metterci il piede, chi si fece il segno della croce, chi [112] no; tutti tenevano il dito sul cane dello schioppo alzato; non trovammo inciampi; silenzio perfetto. Avanti con coraggio, ci sussurravano sommesso: gli esploratori hanno percorso fino a Ceppina e non avvisano incontro; rumore di spari non si sente; gli austriaci o non occuparono, o sgombrarono i passi. O va' che la indovinava! Allo improvviso giù sul capo ci si rovescia uno acquazzone di fucilate e di racchette; chi le mandava? Veruno si accorgeva della presenza del nemico: le rupi, le roccie, i macigni, le piante balenavano... e noi? Noi, signori, scappammo. Che cosa vi dirò io? La sorpresa, la notte, il numero, e se voi signori avete in pronto qualche altra scusa, vi prego a prestarmela... ma rimarrà pur sempre posto in sodo che noi scappammo. Ora, signori, tenete bene a mente quello che sono per dirvi: capaci di confessare la fuga sono solo quelli che si sentono forti a ricattarsi, e noi ci ricattammo per virtù del nostro colonnello Guicciardi, una perla di uomo, il quale ci disse: Giovanotti, tutte le ciambelle non riescono col buco; su dunque da bravi, ed a quest'altra bellissima ottava. Puntuali gli ordini, celere la obbedienza; di faccia agli austriaci inseguenti sorge un colle; a questo ripariamo e su questo il colonnello ci postò in due colonne a catena; un po' più indietro le artiglierie col sergente Baiotto, il quale noi diciamo che val per otto; difatti ha il compasso dentro gli [113] occhi. Quando gli austriaci vennero a tiro, pensate se li servimmo a dovere; fortuna anco volle che una nostra granata scoppiasse in mezzo al ponte, giusto allora che essi si affrettavano a traversarlo; cinque o sei ne rimasero infranti, gli altri si sgominarono. Baiotto picchiò e ripicchiò coi cannoni, talchè pareva il maestro di cappella che batte la solfa sul leggìo. Gli austriaci, fatta la prova che ad ostinarsi a rimaner lì, gli era come esporsi alla pioggia senza ombrello, tornarono indietro più presto che non erano venuti avanti; così avemmo tregua; ma questo non bastava.

Il nostro Guicciardi, che è nato capitano calzato e vestito, il giorno innanzi aveva mandato una colonna condotta dal capitano Zambelli e dal nostro Pedranzini, affinchè, girato Bormio, salisse la ghiacciaia del Reit, e quinci tentasse scendere sulle alture soprastanti la strada dello Stelvio, onde tagliare la ritirata agli Austriaci fra la prima cantoniera e la seconda galleria: fatica lunga e piena di pericolo. Una seconda colonna ebbe ordine seguitasse la prima fino alla salita del Reit, lì da lei si partisse, e si conducesse ad agguatarsi nel bosco fra Bormio e i Bagni vecchi. La colonna terza guidava il Rizzardi, il quale fino a Ceppina doveva camminare di conserva con la prima e la seconda colonna; a Ceppina lasciarle per ascendere il monte a sinistra, e girare alle spalle del nemico verso il [114] passo del Fraele, comparendo poi all'improvviso sul sentiero che domina i Bagni vecchi e la strada dello Stelvio. Ancora, furono inviati sessanta uomini di avanguardia, affinchè si appiattassero a Ceppina per tenere d'occhio i movimenti del nemico, e porgerne avviso con velocissimi messi; se assaliti da forze soperchianti, ripiegassero verso le Prese. Quanto restava di forza, cioè il battaglione 44º, alle due del mattino si mise in marcia dalle Prese per rinforzare l'antiguardo; e anche a quello comandarono procedesse più che poteva celato. Intendimento del colonnello era assalire franco i Bagni vecchi pel piano di Bormio, sicuro appena che le colonne si fossero trovate al posto; e questo, a giudizio dei savi, fu un tiro da generale proprio co' fiocchi: però tutte le cose non andarono per filo di sinopia, e bisognava aspettarcelo a cagione dei calli infernali, del buio e del freddo ladro. L'avanguardia dei 60 uomini, invece di fermarsi alla Ceppina, secondo il concertato, volle procedere oltre in compagnia del Rizzardi: il battaglione 44º gingillò un'ora e mezzo a mettersi in marcia. Dopo l'avvisaglia del Ponte del Diavolo, il colonnello pendeva incerto sul da farsi; fin verso il mezzodì non gli giunsero novelle dagli esploratori; le prime che vennero poi piene di paura. Duecento e più austriaci in procinto di mostrarsi sulle alture dal lato della valle di Viola: una colonna di fumo dalle cime dei gioghi opposti era [115] tenuto indizio di altra colonna nemica in procinto di entrare in battaglia: da per tutto sgomento; parecchi uffiziali, e dei buoni, consigliano la ritirata; ma il Guicciardi lì fermo come i suoi monti, e bene avvisò: più tardi informato meglio conobbe: le tre colonne salve e prossime alle posizioni che dovevano occupare: gli austriaci respinti al Ponte del Diavolo ritirarsi alla dirotta: il sospetto di rimanere circondati dal nemico follìa. Scorti appena gli austriaci ai Bagni vecchi, corremmo ad assalirli da quattro lati; gli austriaci disposti a schifare battaglia davano indietro, e per noi era un vero crepacuore a vederceli guizzare di mano così, però che veruna delle tre colonne fosse proprio giunta al posto, ed anco lo Zambelli si trovava alquanto in ritardo. Il nemico per salvarsi dalle molestie appicca il fuoco al ponte della galleria; noi ci corriamo sopra, calpestandolo lo spengiamo, e sempre alle costole dei nemici fino alla prima cantoniera: qui parecchi dei fuggenti voltano faccia, ed avvantaggiati dai luoghi adatti per le difese, prendono a menare le mani, mentre gli altri affrettano il passo. Ecco il capitano Pedranzini con tanto di lingua fuori arriva sul Reit, si affaccia e mira gli austriaci sbucare dalla prima cantoniera per ripararsi nella seconda, e quindi ai gioghi dello Stelvio.

— Ah! mi scappano, urlò, e poi, senza dire nè uno nè due, sdraiato supino si lasciò andare giù a [116] corpo perso per la ghiacciaia soprastante alla posizione del Diroccamento; noi con le mani chiudemmo gli occhi; quando gli riaprimmo mirammo il capitano balzare in piedi, che era giunto in fondo co' calzoni in brandelli, ma col corpo intero, e l'anima ancor più: impugnato il revolver, si slancia dentro la grotta con gran voce esclamando: Giù le armi, o siete morti tutti! — Era solo: una cinquantina dei suoi compagni, vergognando di abbandonarlo, e tratti fuori di sè dallo esempio eroico, giù anch'essi a mo' di muffli dalla ghiacciaia per sovvenirlo. Come Dio volle giunsero prima che gli austriaci, rinvenendo dallo sbalordimento, gli sparassero addosso. Dalla parte opposta i nostri, espugnate le difese della imboccatura, penetrano a volta loro nella cantoniera; il nemico, preso in mezzo a due fuochi, chiede ed ottiene quartiere. Di più non potemmo fare; abbiamo combattuto venti ore senza prendere fiato, e ci fu gloria avere conseguito in un giorno solo quello che cinquemila uomini in due mesi di travaglio non poterono ottenere; e gloria anco maggiore ci fu mostrare al mondo come pochi cittadini sappiano difendere il proprio paese più e meglio delle milizie stanziali, schianta famiglie, scudo di cartone in guerra, grandine di manette di ferro in pace.

Filippo, udendo queste notizie, tutto esaltato proruppe, levato il bicchiere colmo:

[117] — Se queste fossero le guerre della repubblica francese del 1792, anco per noi sarebbe nato un Hoche. — Piaccia alla fortuna non farlo affunghire sotto la religione dei regi capitani.... ad ogni modo bevo per questo animoso; pari in altezza di spiriti all'antico Curzio, ma più avventurato di lui.

Quietatosi lo schiamazzo, Curio a sua volta interrogò:

— E al Tonale non fu combattuto?

— E donde vieni? Dalla China? Saresti a caso uno dei Sette dormienti? Anzi lo sei addirittura.

— Beffatemi quanto vi piace, a patto che vogliate istruirmi: nè a voi, nè a me giova raccontarvi le cagioni, ond'io ignoro tutto quello che fu operato in questi ultimi giorni; vi basti che io lo ignoro, e che brucio saperlo.

— Ebbene, favellò uno della brigata, tu hai da sapere, che ci era una volta un re.... no un Cadolini ciurmato colonnello....

— Ho capito, interruppe Curio, ne abbiamo buscate?

— O che discorso è questo, disse un altro; o che forse il Cadolini è un codardo?

— No davvero: per me sostengo, rispose Curio, che, rispetto a cuore, egli può reggere il confronto con qualunque altro italiano; quanto a cervello poi, sostengo del pari che a riporlo in un guscio di noce, ci ciottolerebbe dentro; per giunta permaloso e testardo, che è uno sfinimento.

[118] — Dunque non vuoi saperne di più?

— Al contrario, parla.

— Ebbene, da' retta. Su le alture di Vezza gli austriaci si mostrano numerosi e pronti alle offese; molti possono essere i loro fini; il più prossimo percotere di fianco la colonna del Guicciardi; colà furono mandati i maggiori Castellini e Caldesi, nel comando uguali, nei concetti e nell'indole dissimili, per non dire contrari, però alieni da soccorrersi a vicenda. Hai da sapere come il Castellini, lasciata solo una compagnia di soldati a Vezza, sotto gli ordini del capitano Malagrida, aveva dato indietro riparandosi nelle linee trincerate. Il Caldesi, considerando come fosse peggio che pericoloso lasciare così allo scoperto cotesta compagnia, comanda al Malagrida che anch'egli si riduca dentro le trincere; il Malagrida ubbidisce: allora il maggiore Castellini pieno di rovello, tal che pareva il diavolo lo portasse via, tempesta il Malagrida affinchè rifaccia i passi e torni ad occupare Vezza; il Malagrida ubbidisce; se non che nel frattempo era accaduto un caso: gli austriaci avevano preso Vezza; però accolsero la compagnia del Malagrida con un nugolo di moschettate a pennello aggiustate: la compagnia rimase scema del tenente Prada ferito a morte. Il Castellini, vista la mala parata, invia a rincalzarlo a destra una compagnia col capitano Adamoli, a sinistra una mezza compagnia condotta [119] dal Travelli; gli austriaci non le aspettano, bensì sortono da Vezza a far giornata; il Castellini piglia seco le tre compagnie e va a gloria contro il nemico, respingendolo nel primo impeto fin sotto Vezza. Qui bisogna confessarlo: se il Castellini fosse stato sovvenuto dal Caldesi, vinceva; lo lasciarono solo. Ne fu cagione il maledetto screzio sorto fra loro di tenere Vezza, ovvero abbandonarla: più sicuro il partito del Caldesi, quello del Castellini più generoso; però il Caldesi con le sue compagnie non si mosse. Per vincere uniti, il Castellini ed il Caldesi non avevano mestieri operare miracoli, e ce ne fosse stato bisogno i garibaldini erano usi a farne. Ed invero il colonnello Cadolini ed il capitano Oliva non bandirono che, se le munizioni non avessero fatto difetto, avrebbe vinto Castellini? dunque perchè il Caldesi non lo aiutò? — I volontari fin lì non balenarono: occhio per occhio, dente per dente; pure il Castellini, non per crescere l'ardore dei suoi, che questo sarebbe stato impossibile, bensì per mantenerlo vivo, ecco, brandita la sciabola si mette alla testa dei soldati, gridando: Avanti! Una palla lo colpisce nel naso: ei se lo fascia alla meglio e continua a gridare: Avanti! Ora una seconda palla gli fora da parte a parte il braccio sinistro, ma non per questo gli viene meno l'ardimento, e insiste a dire: Avanti! Una terza palla lo ferisce in mezzo al petto, ed egli casca per non rilevarsi più, [120] gorgogliando sangue dalla bocca; nel punto stesso gli muore accanto il capitano Frigerio. Onore ai caduti! Lombardi entrambi; il primo padre di quattro figliuoli; l'altro giovane ricco di virtù e di censo: per ora no, che il fumo dei turiboli presi a nolo leva la vista, più tardi il primato del valore sarà deferito alla Lombardia, la quale non so se meriti maggior lode o per quello che ha fatto, o per quello che non ha chiesto. Gli austriaci arrivavano bene a quattromila, e noi non eravamo seicento, ma ci ritirammo; ci dissero per consolarci che la nostra fu ritirata solenne, e aggiunsero altresì che i nemici ci sbraciarono un sacco di lodi: senapismi ai piedi! rettorica stantia! Peggio di tutto quel cavare vanto (come i nostri guidaioli fecero) dallo avere noi ripreso le posizioni che avevamo prima. Bella forza! le ripigliammo perchè gli austriaci se ne andarono via: riacquistammo coi piedi quanto ci tolsero colle braccia...

— Parte il Pedranzini!

Appena fu udita questa voce, la taverna rimase deserta in un attimo: taluni, per troppa fretta di uscire, cozzarono insieme riportandone sconce ammaccature.

Curio e Filippo, presentendo vicino qualche fatto d'arme, tolto a nolo un mulo ed un cavallo si affrettano verso il campo. Di fatti, mentre eglino si trattenevano per via, erano successi scontri terribili [121] con danno ed uccisione dei nostri, dai quali uscimmo sempre vittoriosi mercè la virtù del Garibaldi e degli eroici compagni suoi. Non è scopo nostro raccontarli; dove più, dove meno, esattamente occorrono descritti in parecchi libri; e piacesse a Dio che come molti furono a scriverli, così molti pure fossero a leggerli; ma la più parte degli italiani incuriosa gli ha dimenticati, nè le preme che altri glieli rammenti: bisogna avere il coraggio di confessarlo addirittura: se gli italiani hanno levato una gamba dall'avello, a levarci anco l'altra par loro fatica; morti non sono più, ma neanco vivi.

Però a noi importa accennare come il Garibaldi, avendo giudicato opportuno aprirsi il varco sopra Riva, gli bisognasse impadronirsi di tutta la strada dal Caffaro ad Ampola: ora questa strada va munita di quattro fortilizi, che giova in succinto descrivere. Lardaro, nella valle delle Giudicarie a sinistra del fiume Chiese, armato di sedici cannoni chiude la via di Brescia per a Trento. Tra Condino e Tiane, risalendo il fiume Adana, s'incontra il gruppo di tre fortini chiamato Renegler; il primo detto Vegler è munito di sei cannoni e di un muro bucato di feritoie da cima in fondo, disposto ottimamente pel sicuro trarre della moschetteria; procedere oltre il fortino nella strada pubblica non si può, perchè ella passa appunto nel mezzo del fortino mediante la sua porta maestra: appellano il [122] secondo Dazzolino, il quale presenta una torre con sei grossi cannoni, che guarda la valle delle Giudicarie: il terzo finalmente, nominato Larino, è un ammasso di rocce per altezza formidabile a ponente dell'Adana, donde vigilano la difesa del ponte di Cimego. Fra i monti Fustac e Cecina il forte Ampola chiude la valle; il forte Teodosio sorge nel mezzo della valle di Ledro, sulla via postale che mena a Riva, anche egli munito di gallerie e feritoie, scavate nella roccia, per bersagliare al coperto.

Il generale Garibaldi, nello intento di venire a capo della impresa, inviava gente, la quale, riuscendo dalla parte del monte Nota e di Lamone in val di Ledro, girasse la posizione; ma gli austriaci, accortisi del concetto del Garibaldi, con molta mano di soldati condotti dal generale Kaim assaltano con subite mosse i garibaldini su tutta la linea. Nella notte dal 15 al 16 luglio i cacciatori tirolesi presero a fulminare i nostri da Rocca Pagana e dalle alture di Storo, pur troppo con jattura inestimabile a cagione dell'eccellenza delle armi, altre volte avvertita. Un'altra colonna austriaca non meno gagliarda della prima si industriava avviluppare la sinistra dei volontari fra Condino e Cimego.

I garibaldini, sempre pari a sè stessi, si arrampicano su per le schegge delle pendici a fine di sloggiarne il nemico che riparato, a man salva [123] dalla lontana li ammazza, e tanto sembra lo favorisca la fortuna, da potere in breve rompere la comunicazione fra Storo e Condino. Non volgevano poi sorti migliori alla vanguardia dei volontari venuta a zuffa mortale colla colonna austriaca uscita da Daone sulla destra del Chiese, e co' cacciatori tirolesi, i quali la straziavano con le infallibili carabine dalla sponda sinistra di cotesto fiume.

Accadde qui che uno di quei condottieri piovuti sul capo a Garibaldi, come talora piovono dal cielo ranocchi nel mese di luglio, ordinò a parte dei mal capitati commessi alla sua guida, valicassero il Chiese per combattere gli austriaci attelati sulla opposta sponda; non pochi, prima di agguantare la riva, travolti dalla corrente rovinosa del fiume, perirono; quei che passarono ebbero ad attaccarsi alle crepe delle rupi a mo' di tarantole; per la qual cosa, come il nuovo capitano potesse sperare che contrasterebbero a cui di sopra li bersagliava a piè fermo e con le braccia libere, non si comprende.

Taluni, e non erano i più miserandi, uccisi capitombolavano in molto orribile maniera; davano maggiore affanno i feriti, i quali non potendo aggrapparsi, ruzzolando, rompevansi di scheggia in ischeggia, con istridi da fendere il cuore. Rigagnoli di sangue correvano coteste bricche: non [124] fu possibile mantenersi lassù; costretti a salvarsi, tracollarono giù a corpo perso: infuriava sopra la testa loro una paurosa grandine di palle; alcune di queste, rimbalzando dalle pareti del monte o dai massi del fiume, ferivano orizzontalmente, o di sotto in su: come pesci guizzavano su le acque; come vipere sibilavano per l'aria. Il fiume avaro esigeva pel ritorno maggiore pedaggio di affogati che per l'andata: non ci fu penuria di casi pietosissimi: amici che non vollero abbandonare amici, tuttochè spiranti o morti si fossero; e surti appena alla opposta riva del fiume, percossi da una medesima palla, sparivano nelle onde rovinose. Due fratelli, l'uno dell'altro innamorati, non ebbero altro conforto che annegare abbracciati. Più oltre il buon maggiore Lombardi, salito su di un argine, mentre con voce e con cenni anima i suoi a tenere il piè fermo, rotto nel cuore da palla tirolese, tombola annaspando con le mani e muore senza dire un fiato. Tale il destino della guerra; ma perire così senza costrutto, per colpa di un grullo, è amaro. Per funebre elogio al maggiore Lombardi basti dire che fu di Brescia; ella madre degna di tanto figlio; egli di tale e tanta madre degnissimo.

Trovando questi mal condotti chiusa allo scampo ogni via, tutti quelli che non valsero a traghettare per la seconda volta il fiume si arresero a [125] quartiere. Pareva ormai battaglia perduta, e non fu così, in grazia degli estremi sforzi operati dal Garibaldi e dal maggiore Dogliotti, il quale così bene si valse dei suoi cannoni messi in batteria, che sgominò e costrinse i nemici a ritirarsi oltre a Cologna. Cara vittoria fu quella, ma fra le alpi tirolesi non si vince che a prezzo di sangue; però che sia mestieri col petto scoperto farci contro a nemico riparato da boschi, da rupi e da ogni maniera di difese naturali, ovvero dall'arte di lunga mano allestite.

Intanto chiunque voglia sapere che cosa valgano i nostri artiglieri, e ne tragga auspicî di avvenire meno inglorioso dei tempi passati, dove la insolenza altrui ci chiamasse alle armi, io glielo dirò con le parole di un giovane che fu parte di coteste avventure e le narrò, tacendo per modestia il suo nome:

«Ci sdraiammo su l'erba e raccontammo noi pure le nostre peripezie. Il sole volgeva al tramonto e andava adagio adagio a nascondersi dietro le montagne, le quali si colorivano di una tinta rossastra, pigliando le forme spiccate che vediamo anche noi ne' nostri monti al finire di una serena giornata, e quando il cielo è tutto sgombro di nuvole. Su, su in lontananza, al riflesso degli ultimi raggi del sole, brillavano di luce abbagliante le carabine dei fuggitivi, e si distinguevano anco ad [126] occhio nudo le torme bianche ed azzurre della fanteria e dei tirolesi. Quando ecco, mentre ce ne stiamo là chiacchierando e riposandoci, un frastuono infernale ci fa saltare tutti in piedi, e sentiamo sulle nostre teste il fischio rumoroso di una granata: «Non è nulla!» esclama un garibaldino: «è un cannone puntato qui a venti passi che scarica sopra la nostra testa.» Corremmo tutti nella strada, dove infatti tre o quattro cannoni incominciarono uno dopo l'altro una musica stupenda.

«Fu spettacolo bellissimo. Gli artiglieri stavano impassibili, silenziosi, attenti al comando. Un caporale pigliava la mira, ed ogni volta che vedeva sui monti a 1600 o 2000 metri di distanza un brulichio di tedeschi, si allontanava due passi e gridava: fuoco! Il cannone sparava e la botta era sempre sicura. Si vedeva cotesta massa sbaragliarsi, e saltare in aria tronchi di albero e terra sommossa. Noi maravigliati battevamo fragorosamente le mani.

«A un tratto si sente venire a corsa un cavallo: era un maggiore di artiglieria, che aveva saputo come di là dal fiume, nella chiesina dove stemmo la notte innanzi appiattati noi altri, ci stessero appiattati moltissimi austriaci: per verificarlo ordinò caricassero le artiglierie a palla; poi, voltosi al caporale, gli dice: «Cercate subito di mettere una palla sul lato destro della chiesa: se ci sono hanno da venir fuori.» La distanza era molta, e ci pareva [127] impossibile che il colpo avesse a riuscire per lo appunto come il maggiore voleva.

«Il caporale non pronunzia verbo; si china sul pezzo, lo muove nella direzione indicatagli ed ordina all'artigliere di far fuoco. Lo credereste? La palla andò a battere sul muro di destra della chiesa: per altro non si vedeva uscire nessuno. «Ebbene, disse il maggiore, piantatene un'altra a sinistra, e se vi riesce a cogliere vi prometto la medaglia.»

«Vidi un sorriso di contentezza lampeggiare sul viso abbronzato del caporale; si chinò un'altra volta e studiò più lungamente la mira standosene immobile come il suo cannone. A un tratto si tira indietro e grida all'artigliere: fuoco! e la botta va via. Un applauso fragoroso scoppiò nelle file, ma gli austriaci non si vedevano venir fuori. Allora il caporale si appressa al maggiore, mette la destra al kepì e gli dice: «Signor maggiore, vuole permettere che io faccia un tiro a volontà?» — «Ve lo permetto, rispose il maggiore; vediamo se vi riesce a snidarli.» Allora il caporale infila colle sue mani una granata nel cannone, ripiglia per la terza volta la mira e lascia andare la carica.

«L'effetto fu miracoloso. Il tetto della chiesa venne sollevato in aria come il coperchio di una scatola, e intanto che un grido di approvazione echeggiava fra i volontari, il caporale sorridendo accennava colla mano che si guardasse la chiesa. [128] Se vi siete mai provati a gettare un sasso in un bugno, avrete veduto le api prorompere tutte in folla ronzando. Lo stesso accadeva lassù. Si vedevano scaturire austriaci dalla chiesa, fitti e serrati, voltare a destra e a mancina e correre su per la montagna. Allora non più un solo, ma tutti i pezzi piantati sopra la strada cominciarono a fulminare granate addosso ai fuggenti. Parevano cannoncini di legno, tanta era la rapidità con la quale si voltavano ora da una parte, ora da un'altra. Ogni colpo andava nel bel mezzo ai gruppi dei nemici, come se un demonio raddrizzasse e guidasse per la strada le granate e le palle. Io potrei giurare che non ci fu un tiro solo sprecato.

«Intanto che facevamo le nostre congratulazioni al caporale, sentimmo a qualche distanza un colpo di fuoco e il fischio di una palla. Di lì a mezzo minuto un altro colpo e un altro fischio e poi un terzo ancora. «Ah! Ah! (disse il caporale) io l'ho bell'e visto: ci è lassù un tirolese, che ha una eccellente carabina; ma forse il mio cannone va più lontano di lui.» E una quarta palla di carabina venne a percuotere nella ruota dell'affusto. Il caporale con aria sbadata puntò il suo strumento, e mentre noi ci scostavamo per iscoprire l'effetto, partì la botta e si vide un gran rimescolìo di terra e sassi, appunto là dove il tedesco tirava. Non si sentì più nulla; la medicina aveva operato.»

[129] Fuori di Condino si agita un grande brulichio di gente, la quale di grado in grado quetandosi si ordina in fila, giusta i comandi dei suoi capitani: quanto meglio potevano s'industriavano a ricomporre le compagnie, tanto crudelmente decimate al passo e al ripasso del Chiese. Chi volesse sapere qual tributo di sangue la gioventù italiana pagasse in questa infelice impresa, gli dirò, che di una compagnia di 187 soldati, 90 appena risposero all'appello; la 24ª poi, rimase con un sergente, due caporali ed un tenente. Poco oltre si mirava il loro colonnello a cavallo, tutto inorato che era un desìo; con la sciabola irrequieta egli trinciava l'euro a fette, come il Conte di Culagna nella Secchia rapita, o ci faceva crocioni da disgradarne il papa. Appena Filippo l'ebbe scorto esclamò:

— Ecco il capitano famoso!

E siccome tanto non parlò basso, che altri degli accorsi costà non lo udissero, taluno di loro soggiunse:

— E adesso, che abbaca egli?

— Ha ordinato la rassegna della sua colonna ricomposta, prima di ricondurla alla mazza.

— Zitti:

Stiamo Marte a sentir la gloria nostra,

chè a quanto sembra egli è per mettere fuori un'arringa.

— Udiamo! Udiamo!

[130] — Soldati, cominciò a squittire il capitano dei capitani, l'Europa, anzi il mondo intero vi guarda. A voi spetta restaurare l'onore della milizia italiana manomesso dalle truppe stanziali, che male ordinate e condotte peggio, dal 48 in poi, altro non fanno che toccarne; ed è inutile negarlo! Le lodi a tanto il rigo, che sbraciano loro i giornali officiosi sono pannicelli caldi.... incenso ai morti. Vedete quei monti là? Li vedete? Ebbene, noi li sfonderemo, come nei circhi equestri miriamo un cavaliere sfondare con una capata quattro cerchi e sei coperti di carta straccia. Quando saremo giunti a Trento, se gli austriaci ci offriranno pace, io risponderò loro: non è tempo ancora. E se arrivati a Innspruk, a Salisburgo, a Gratz, a Buda, si attentassero di nuovo a proporcela, interprete degli animi vostri, io la ricuserò daccapo dicendo: non è tempo ancora; gli è a Vienna; proprio nel palazzo imperiale di Schoenbrunn, che io detterò la pace; a voi, che manca per conquistare un tanto scopo? Nulla. In voi costanza, in voi slancio nello assalire ed a piombo per resistere; non fame, non sete, non geli vi abbattono, nè difetto di ambulanze, di vesti, di calzature. Quando i cannoni tonano, i moschetti fischiano, le racchette stridono, a voi pare che incominci la orchestra, ed a quei suoni menate i vostri balli. — Ma ora che io ci penso su, onorevoli signori, devo confessare che quando affermai che nulla vi manca [131] di virtù soldatesca, io dissi una solenne bugiarderia; quanto dichiarai voi possedete, e non mi disdico, ma una cosa vi manca:

. . . . alla virtù latina

O nulla manca, o sol la disciplina.

Sì, signori soldati, vi manca la disciplina. La disciplina che rese tanto illustre e potente il Vecchio della Montagna, il quale avendo ordinato ai suoi assassini di sentinella sull'alto di una torre, che si buttassero di sotto, uno ci si precipitò subito, e gli altri stavano per seguitarlo, se Enrico di Sciampagna, che vi si trovava presente, non lo avesse impedito. A questi patti, cittadini, si viene a capo del mondo; nella milizia obbedienza, nella religione fede, cieche entrambe, passive, aborrenti da qualunque osservazione, aliene da brontolìo, benda agli occhi ed agli orecchi, e allora nella milizia e nella fede voi vedrete rinnovare miracoli. Allora Manlio mozzerà il capo al figliuolo per avere vinto il nemico trasgredendo i suoi ordini; allora con più stupendo esempio lo spartano che aveva già ficcato due dita buone di ferro in corpo ad un ateniese, udita di repente la tromba del richiamo, estrasse la baionetta dal corpo del nemico, la nettò, la rimise nel fodero e fece per andarsene; della quale novità maravigliando l'ateniese che stava per morire, domandò: o perchè non finisci di ammazzarmi? — Ti finirò un'altra volta, rispose lo spartano, adesso [132] mi bisogna andare al quartiere a cucinare il rancio. Capite! Se cotesta perla di spartano vivesse a questi tempi, la croce dei Santi Maurizio e Lazzaro, o quella della Corona d'Italia, o l'altra del valore militare di Savoia non gli poteva mancare. Ci fu una volta un re, e si chiamava Sancio, diverso dallo scudiero di Don Chisciotte, il quale, stando nella sua tenda a letto, udì parecchi soldati venire a lite col capitano loro per cagione della disciplina, ond'egli, tuttochè si trovasse in camicia, uscì fuori con una picca in mano, infilando in men che si dice amen una mezza dozzina dei riottosi; per me sono fantino di comparirvi innanzi anco ignudo. Breve, stringendo le mie parole, io affermo che i soldati possono fare a meno del pane per mesi e per anni, ma della disciplina nè manco un'ora. Quando carichiamo un uomo soldato il suo tic è il pane, il suo tac la disciplina. E adesso esaminiamo un po' come stiamo a camicie ed a mutande.

Curio, il quale all'udire cotesta filastrocca fu sul punto di prorompere in uno scoppio di riso, accostatosi all'orecchio di Filippo, bisbigliò:

— Impaglialo addirittura!

Filippo stringendosi nelle spalle soggiunse: — Ce n'è di peggio.

Intanto i soldati avendo estratto dal sacco le biancherie se le stesero dinanzi ai piedi. Il colonnello, dopo averle con molta gravità considerate, [133] non senza arguzia notò che biancherie coteste si chiamavano così per dire, ma con maggiore proprietà si avevano a chiamare negrerie.

— E questa toppa perchè? dimandava severo ad un volontario.

— Questa toppa! Evidentemente per tappare un buco alla camicia.

— E perchè vi faceste un buco alla camicia?

— Lo domandi alla camicia, o meglio ai macigni del Chiese, dove V. S. facendoci ruzzolare potemmo appena salvarci la pelle.

Il colonnello tacque e tirò di lungo fino alla fila estrema, dove di botto osserva un volontario, il quale invece della borraccia da munizione si portava allato certa fiasca di vetro; allora con mal piglio domanda:

— Ch'è questo mai? Che cosa avete fatto della vostra borraccia?

— L'ho gettata via, perchè l'acqua dentro ci pigliava di cattivo.

Il colonnello allora dando un passo indietro, le braccia al sen conserte, a tutto Napoleone, esclamò:

— E che cosa dirò io al reale Governo, quando mi domanderà conto della vostra borraccia?

— Eh! signor colonnello, se il Governo avesse a chiedere conto di qualche cosa a lei, vada franco che non sarebbe delle borracce!

— E di che dunque, temerario?

[134] — Dei tanti poveri fratelli per colpa sua affogati nel Chiese.

— Agli arresti! Disarmatelo, portatelo subito agli arresti! urlava arrovellato il colonnello, e ne successe un parapiglia da non potersi con parole significare.

Intanto Curio e Filippo curiosamente osservarono un frequente dimenio dei piedi, che i soldati di prima linea facevano gettandosi dietro in fretta le biancherie, le quali i soldati di seconda linea a posta loro co' piedi si stendevano davanti. Attutito il tumulto continuavasi dal colonnello la rivista nella 2ª linea, dove egli, confuso per le insolenze del volontario, procedè meno accurato di prima, non gli parendo vero di condurla a termine senz'altri scappucci. Poco dopo Curio e Filippo seppero dal dicace garibaldino, come egli avendo con la più parte dei compagni suoi venduto, o in altro modo alienato camicie e mutande da munizione, però che avendole provate ne rimanessero conci peggio che se gli avessero strigliati co' pettini da lino, egli avvisò cavarsela netta, facendo per giunta una burla al colonnello, e fu distribuita tutta la biancheria in essere alla prima fila, perchè di mano in mano che il colonnello passava, la spingesse alla seconda fila, e così figurasse due volte. Il tafferuglio poi promosso ad arte, onde l'attenzione del colonnello fosse distolta dagli ultimi soldati di fila, che [135] dove non fossero riusciti a farla liscia tutta di un pezzo, di una pipita ne sarebbe nato un panereccio.

— Certo, aggiungeva il giovane bizzarro, io la pagherò con parecchi giorni di prigione, e mi toccherà per soprassello chiedere scusa, ed io fin d'ora me ne dichiaro contento per quattro precipue ragioni; le altre non si contano. Prima, ed alzò il pollice, perchè se mi avesse trovato senza le camicie, e le mutande da munizione, in carcere ad ogni modo mi toccava ire. Seconda, e spiegò l'indice, perchè mi venne fatto preservare dalla prigione tanti compagni amatissimi. Terza, e sollevò il medio, per la berta che ho dato a codesto zuzzurullone di colonnello. Quarta, e drizzò l'anulare, pel gusto matto che avrò quando, dovendo chiedere scusa, mi fia concesso contemplare a mio agio cotesto.....

— Di grazia, disse Curio, si potrebbe sapere di che paese siete?

— Se foste stato allo inferno lo avreste riconosciuto senza domanda:

. . . . ma fiorentino

Mi sembri veramente quand'i' t'odo.

E Curio sorridendo: — Il proverbio non mente: chi l'ha a fare con tosco non vuole esser losco.

L'altro, mesto, di rimando: — Se arguzia bastasse, beati noi! ma ora la patria mia abbisognerebbe [136] quanto di pane e di aria, di alti propositi, di costanza e di uomini virtuosi; noi toscani forse un dì tutte queste cose abbiamo posseduto; adesso noi le perdemmo...

— Coraggio, fratello, riprese Curio, ponendogli la destra sopra la spalla, colui che si sente cuore per confessarle perdute, ha fatto più che mezzo il cammino per ritrovarle.

*

— O Filippo, dove diavolo mi meni? Questi corridoi bui fra le rupi, di cui non arrivo a scoprire la cima, mi danno immagine del laberinto di Creta, e più del Minotauro, che si avrebbe a trovare nel mezzo; io temo adesso che qualche macigno per acconto mi frani sul capo.

— Vieni oltre; potrebbe anco darsi, ma gli è di qui che bisogna passare.

— Oh! scopro gente..... per avventura sarebbero austriaci?

— No, sono dei nostri; cammina franco, che ad Ampola avremmo ad essere vicini.

Di fatti dietro l'ultima svolta della strada, passato la quale si va diritto ad Ampola, incontrano una compagnia di volontari condotta dal tenente Alasia, il quale avendo seco un cannone si divertiva con esso in pericoloso passatempo; però che dopo averlo fatto con diligenza caricare, sovvenuto da [137] qualche compagno, lo trainasse fuori della svolta allo aperto, proprio nel mezzo della strada che mena diritta ad Ampola, dove gli dava fuoco, e subito dopo lo respingeva dietro il canto per ricominciare da capo.

Allo improvviso Curio ode chiamarsi a nome, e, posta mente, mira un ufficiale corrergli incontro a braccia quadre, che giuntogli dappresso lo abbraccia, lo bacia e co' più dolci appellativi lo careggia:

— O Curio, che miracolo che tu sii qua?

— Miracolo è che ti ci trovi tu, non io.

— E pure ci sono prima di te, e d'ora in poi dobbiamo stare sempre insieme.

— Sarà più facile desiderarlo che poterlo, avendo assunto l'obbligo di condurmi dal colonnello Chiassi, amico grande del padre mio.

— Tu hai ora, come sempre, un santo dalla tua, dacchè per lo appunto io appartenga ad una compagnia del reggimento del Chiassi.

Il lettore avrà di certo notato come Curio non si sia messo in quattro per far festa al tenente Fandibuoni, e ne aveva le sue buone ragioni: innanzi tratto le sue spalle calavano giù a sgrondo da parere un calvario; dinoccolato nella persona, le braccia fuori di misura lunghe, con certe mestole in fondo da legarsi le scarpe senza quasi chinarsi: costumava gli occhiali; se non fossero stati questi, nell'ultima cena del Signore egli [138] avrebbe potuto figurare meglio del Giuda di Lionardo; ma se gli occhiali lo salvarono da rassomigliare Giuda per di fuori, non così per di dentro, dove o senza occhiali o con gli occhiali Giuda ei sempre fu, nato e sputato. Di più Curio si risovvenne come sovente costui con diversi amminicoli gli levasse di sotto assai quattrinelli, che non gli aveva mai reso; peggio poi, lo aizzasse a commettere qualche gherminella di cui egli si pigliava il vantaggio, lasciandolo nelle peste, se pure non comperava la propria impunità col fargli la spia; breve, un di quei funghi che nascono spontanei nei cortili della galera a vita. Ma la gioventù non cura o volentieri perdona; ed i compagni della fanciullezza ritengono in sè qualche cosa della religione dei primi anni, la quale fa sì che ci tornano cari spesso, disgradevoli mai.

— O come va che mi sei uscito ufficiale? disse Curio:

Marte per qual ventura od accidente

Gittò la rete e ti pescò tenente?

— Che accidente? Virtù di penna e valentia di spada.

— Spada! O se di petto a te un lepre si giudicava Achille in persona.

— Già lepre non fui mai, bensì pubblicista e deputato; e poi non son qual fui, morì di me gran parte, della pera mondata è rimasto...

[139] — Il torsolo. Ma dimmi, sapresti col tuo lume di lucciola farmi capire qualche cosa in questo ginepraio?

— Magari! Ma prima ti bisogna affacciarti al canto, e arrivato sopra la strada diritta, quindi considerare per bene quello che ti si presenterà davanti.

— Vado e torno.

— Sei matto! esclamò il Fandibuoni, trattenendo Curio per un braccio, non sai che svoltato il canto occorre la strada diritta un quattrocento metri, che termina ad Ampola, dove i cannoni del forte tirano d'infilata, spazzando via tutto quello che incontrano?

— O quel giovane tenente non ci va col suo cannone?

— E se egli è stufo di vivere, vuoi romperti il collo per fargli la scimmia?

— No, entrò di mezzo Filippo, l'Alasia non è pazzo; egli si muove per senso di dovere; forse un po' dodici once buon peso, ma poichè in tanti la libbra riscontriamo scarsa, se in altri trabocca non guasta; in te poi, o Curio, cimentarti a quel modo sarebbe temerità senza sugo.. ed ora dove vai? Vien qua, per Dio santo!

— Aspettami, che torno in un batter di occhio, rispose quel cervello strambo di Curio, ed intanto correndo aveva svoltato il cantone: avvertito tutto a bell'agio, tornò ridendo e disse:

[140] — Andai, vidi, non vinsi; però avvertii quanto è formidabile Ampola; proprio il Minotauro nel laberinto di Creta, o la Sfinge sopra il cammino di Tebe: in fondo a due rupi, di cui i fianchi paiono tirati coll'archipenzolo, per virtù di scalpello, giace un fortilizio che sbarra da un lato e dall'altro il cammino; per passarlo è mestieri proprio entrare in mezzo al forte che comparisce chiuso da portone, e forse dietro avrà la saracinesca con altri ripari. Passato il fortino, la strada s'inerpica su su pel monte fino ad una spianata, la quale mi sembrò da lontano munita di artiglierie; come possa espugnarsi Ampola, per me in coscienza non saprei.

— Tu hai osservato bene, riprese il Fandibuoni, e se ora mi darai retta ti chiarirò alla lesta; vedi (e levò l'indice) questo è Riva, cardine della difesa in mezzo: questi altri (e stese il pollice e il medio) sono a destra Lardaro, a sinistra Ampola, posti avanzati; nello stesso intervallo di questo triangolo campeggia una brigata austriaca, pronta al soccorso, secondo il bisogno, o di Ampola o di Lardaro; sconfitta a Condino ed a Cimego, per ora non dà noia; ma tu fa' conto che presto riordinata tornerà in ballo. Il nostro generale, per ridurre a partito Ampola, deve innanzi tratto occupare le pendici delle due rupi, che tu hai veduto sorgerle a destra ed a sinistra, e si chiamano Funstach e Santa Croce.

[141] — O come vuoi che si arrampichino lassù? Paiono più aguzze delle aguglie del Duomo...

— E non solo occuparle, ma anco trasportarvi le artiglierie.

— Attaccando le carrucole al cielo per tirarle su....

— Nè le artiglierie minute solo, bensì le grosse da sedici.

— Il capitolo dedicato da Pietro Aretino a Cosimo I dei Medici incomincia:

Nel tempo che volavano i pennati,

ma che volino i cannoni, questo non intesi dire in prosa mai, nè in rima.

— Ebbene, tutto questo fu fatto con qualche cosa di giunta, imperciocchè, dopo trainati i cannoni lassù sul Funstach e sul monte Santa Croce, e' fosse mestieri tramutarli da un luogo all'altro, chè, essendo di portata diversa, quelli piantati a Santa Croce non facevano effetto...

— Allora vorrà dire che dall'altra parte dei monti si trova qualche cammino mulattiero.

— Niente; all'opposto appaiono troppo più scoscesi che da questo lato.

— O dunque?

— Dunque, quando andavamo a scuola tu devi rammentarti avere udito che Filippo...

— O adesso come ci entro io con la vostra scuola? Interruppe il sergente Filippo.

[142] — Non s'inquieti, signor sergente, che io non intendo punto parlare di lei, bensì di Filippo Macedone, padre di Alessandro Magno, col quale probabilmente ella non avrà parentela alcuna nè per linea retta, nè per trasversale.

— Di fatti, non credo esser parente di cotesti signori.

— O lo vede? Filippo dunque, sentendo celebrare come inespugnabile la rocca dell'Acrocorinto, domandò se ci fosse strada bastante per farci entrare un asino, ed avutane risposta affermativa disse:

— Dove entra un asino, non dovrebbe entrare un re? — Invero ei lo prese, perchè con le sue parole volle alludere alle sacchette di oro cavato dalle miniere di Tracia, che egli ci fece portare da un asino per corrompere il comandante. Il Garibaldi non domanda se nelle fortezze dell'Austria ci entri un asino, bensì il sole, e se il sole ci entra, intende entrarci anco lui. I volontari si arrampicano con le mani e co' piedi; ficcano chiodi o pioli; con le ginocchia stringono una scheggia, con le mani calano le corde, tirano su di un tratto a un segno dato: per essi un metro di spianata è piazza di arme; basta ci capisca il carretto, perchè si attentino a montarci la batteria. Il Generale dal dizionario dei volontari ha cancellato la parola impossibile! Già essi hanno occupato la spianata, che hai notato anche tu, munita di artiglierie, di lì hanno [143] rovesciato un acquazzone di piombo e di fuoco sopra Ampola... Aspettati da un momento all'altro alla ripresa delle armi.

Appena egli ebbe finito di favellare, che ecco ricomincia lo strepito dei moschetti e dei cannoni, e continua incessante. L'Alasia, ricaricato il suo pezzo, come tratto fuori di sè dalla ansietà, andava gridando:

— Qua, figliuoli, qua; datemi una mano a muovere il cannone; bisogna cucire i nostri amici tedeschi a filo doppio, di sotto e di sopra.

Corsero cento; il cannone fu tratto con maravigliosa prestezza sopra la strada; spara; ma al punto stesso una scarica di artiglieria scopa dalla strada cotesti animosi; rimasero morti sull'atto l'Alasia e il sergente, ed ahimè! come lacerati! Quaranta altri, qual più qual meno, feriti; la terra diventò di un tratto vermiglia, come quando nella processione del Corpus Domini ci spargono sopra la fiorata di rosolacci.

Commossi dagli urli di dolore, Curio e Filippo, non si potendo reggere, lanciaronsi al soccorso dei compagni. Il Fandibuoni non solo non si mosse, ma vie più si rannicchiò dietro al cantone. Curio si curvò, prese con ambe le sue la mano dell'Alasia e lo tirò a sè come per metterlo seduto.... non lo avesse mai fatto! Che le ferite strizzate gittarono tante fontanelle di sangue, e la faccia non anco [144] priva di ogni sensibilità si contorse tutta in orribile maniera; la mente stette ferma, se non che Curio sentì mancargli sotto il terreno, ond'ebbe ad appoggiarsi al cannone per non cadere.

Una nuova scarica per la parte degli austriaci avrebbe finito di ammazzarli tutti; non venne: all'opposto fu visto levarsi sul forte una bandiera bianca in segno di resa, mentre lo stendardo imperiale svolgeva a stento il suo lembo per ricadere penzolone lungo la stacca; pareva che appenasse nella agonia, e l'aquila grifagna per vergogna dentro le pieghe di quello si nascondesse. Ai morti non si attese più, e nè manco ai feriti; anzi questi stessi di sè non pigliano cura, smettono gli omei per aggiungere la voce loro allo immenso grido, che percosse l'aria dintorno: Viva Italia! Italia per sempre!

Il comandante del forte sortì per la capitolazione: i patti brevi: si rendessero ad arbitrio del vincitore: lasciate agli ufficiali le armi e le robe, per cortesia non per obbligo.

Avendo taluno avvertito il generale Haug perchè facesse al comandante austriaco affermare con parola di onore che il forte non era minato:

— Lo farò, rispose il generale, quantunque per me lo consideri perfettamente inutile.

— Inutile! E non vi trovaste a Roma con noi, generale, dove patimmo tanti e sì strani tradimenti?

[145] — Oh! allora l'avevamo a fare co' francesi.

Il comandante austriaco piangeva, e, recatasi in mano la spada, che generoso l'Haug gli porgeva, si provò spezzarla; impeditone, sospirò:

— Poichè non mi valse per difendere il mio reale ed imperiale padrone, che mi giova adesso?

— Signor comandante, gli rispose l'Haug con voce che si sforzò mantenere benigna, come soldato ella adempì d'avanzo il suo dovere, e veruno può appuntarla in nulla; si consoli e conservi la sua spada, ed accetti lo augurio che Dio le conceda occasioni di adoperarla in cause più giuste. La milizia non deve strozzarci la coscienza, la quale ci ammonisce che la forza non dà diritto; la forza va e viene: siete voi italiani per vivere alle spalle dell'Italia? O combattete per liberare la vostra patria dalla oppressione italiana? Andiamo, andiamo, la milizia non deve strozzarci la coscienza.

Lo austriaco stimò prudente non rispondere verbo; e per fare qualche cosa ripose nel fodero la spada.

Curio e Filippo ottennero la facoltà di visitare Ampola prima di partire, e con maraviglia conobbero il misero stato in cui questo forte si trovava ridotto; egli era aperto come un melagrano; da ogni parte sdrucito dalle palle e dalle granate: la casamatta crivellata dai colpi di cannone non offriva più stazione sicura ed era micidiale l'uscirne. [146] La resa del forte fu deliberata regolarmente da un Consiglio di guerra. Piccola impresa questa di Ampola, e tuttavia a veruna, comecchè grandissima, seconda. Dove le camozze si peritano ad avventurarsi, i volontari garibaldini portarono cannoni grossi e carretti e munizioni. Il monte Giojello fu preso dai bersaglieri, i quali, secondo il solito, si diruparono dalle ripe circostanti del Funstach, sicchè gli austriaci, già sgomenti nel vedere che i loro cannoni puntati di sotto in su non facevano effetto, scorrendo meno che mezzo lo spazio necessario per colpire, sentendosi adesso piovere addosso cotesti demoni dal cielo, si diedero per vinti.[25] Arrogi che altri volontari garibaldini, avendo sbirciato dall'alto una maniera di cornicione di pietra, che ricorreva intorno le alture soperchianti il forte a man dritta, ci si rannicchiarono sopra, scopando a suono di moschettate la piazza del castello e l'uscita dal lato della porta di Tiarno.

Intanto la bandiera imperiale, sciorinato che ebbe un ultimo svolazzo, spirò; tre o quattro colpi di scure vibrati con tutta l'anima, a braccia sciolte, fecero traballare antenna e bandiera, a cui subito con gazzarra grande surrogarono la bandiera tricolore.

[147] Adesso cotesta bandiera non più sventola sulle torri di Ampola; anzi ci spiega da capo alle brezze delle alpi italiche il suo lembo l'aquila imperiale. L'abbattè il popolo, la rialzò la monarchia; quanto di gloria fu scritto col sangue dei patriotti, tanto lo inchiostro obbrobrioso dei negoziatori scancellò: ed è da credersi che il governo regio, trovando fra le spoglie di guerra del Garibaldi la vinta bandiera, per tenersi bene edificato l'imperatore di Austria, gliela restituisse; invano laboraverunt! Vorrei con Fonseca Pimentel ripetere il detto virgiliano: olim meminisse juvabit:

E fie che giovi rimembrarlo un giorno!

Come da un'urna rotta scorre via l'acqua, così io mi sento fuggire l'anima dal corpo stanco, e con amarezza di morte tremo sia la nostra schiatta destinata a disfarsi. Questo pensiero mi perseguita come una tentazione del demonio, dopochè miro lo stato nel quale sono ridotte la Francia, l'Italia e la Spagna; argilla mobile, che ruzzola sopra argilla immobile; terra soprammessa alla terra; fango animato agitantesi sopra fango senz'anima: parte del popolo si chiude gli orecchi per non sentire; parte ha tolto a prezzo di aprirglieli per forza, versandoci dentro parole di veleno; Locuste, Tofane, Brinvilliers, Lafarge spirituali: gli avvelenatori altrove si condannano, qui si pagano e si fregiano. Ai nostri imperanti giova più un giorno di lupercali che un [148] secolo di gloria; parte che pretende condurci alla terra promessa, discorde in sè si strazia, ed offre lo spettacolo di becchini rissanti sull'orlo della fossa, dove hanno deposto il cadavere. Ah! felici gli eroi dell'antichità; operando altamente ciascuno era certo della sua fama. Parevano gemme conservate in cerchi di oro: ora gli spiriti magni e le imprese eccelse sprofondano in un mare di fango....

Perpetuo Geremia, la vuoi tu smettere?.. Compatite, via, per amore di Dio: la lingua batte dove il dente duole; ed a me non è il dente che duole, bensì il cuore.

*

Ed ora a Bezzecca. Ma perchè io metto mano a ripetere quello che occorre sparso in cento stampe? Nè speranza mi affida, nè presunzione mi lusinga che gli scritti miei abbiano a durare più lungo degli altri: adoperando a questo modo, io faccio come quelli che stanno in procinto di naufragare, i quali chiudono la storia dell'infortunio imminente dentro a parecchie bocce di vetro, le quali, dopo chiuse, gittano in balìa del mare, nel presagio che una almeno delle tante arrivi alla sponda e porga ai cari lontani la notizia della sventura e gli ultimi saluti. Qualcheduno pertanto dei nostri racconti perverrà ai tardi nepoti, i quali non so se maraviglieranno o della perfidia altrui, o della fede nostra; non importa, purchè imparino ad essere più felici di noi.

[149] E poichè nelle guerre può dirsi che niente fu fatto se non si fece tutto, così il Garibaldi, appena espugnata Ampola, la quale non fu (come afferma il Rustow amico agresto, seppure non si ha da tenere addirittura per nemico delle glorie italiane) impresa di poche ore, bensì resisteva valorosamente interi tre giorni; concepì il disegno di ridurre in potestà sua Bezzecca.

Chi da Ampola muova per Bezzecca, sale sempre sentieri montani ora più, ora meno, ma sempre angusti, e dopo un miglio e mezzo arriva a certa vallicella chiamata dei Laghetti, proseguendo per la quale ecco s'incontrano, dopo breve cammino, due villaggi distanti fra loro non bene un miglio; il primo appellano Tiarno di sotto; il secondo Tiarno di sopra: ora se pigli la strada di Tiarno di sotto e vai innanzi altre due miglia ti si parerà davanti Bezzecca.

Considerano a ragione Bezzecca punto capitalissimo in cotesta contrada, per trovarsi in mezzo alle valli dei Conzei e di Ledro; di cui la prima gli rimane a manca, la seconda a destra: nella valle dei Conzei giacciono tre villaggi: Locca, Enguiso e Lensumo, e nella valle di Ledro le terre di Pieve, Mezzolago, e per ultimo Riva sopra il lago di Garda, luogo che intendeva espugnare il Garibaldi, o, come si dice in termine militare, suo punto obiettivo. La occupazione di Bezzecca per gli italiani [150] significava la via aperta per Riva, il nemico impedito di trapassare dalla valle dei Conzei a quella di Ledro, congiunzione assicurata dei nostri corpi di milizia operanti nella valle di Aone; dove, se per ventura si fossero impadroniti di Lardaro, avrebbero avuto il sentiero sgombro per Roveredo e per Trento, finale punto obiettivo del Garibaldi. Se all'opposto l'austriaco occupava Bezzecca, egli avrebbe potuto tagliar fuori dal grosso dell'esercito i corpi italiani incamminati verso il lago di Ledro; respingere il centro nelle strette di Ampola, e, cacciatosi come un cuneo nel mezzo, minacciare di fianco i nostri corpi, divisi nella valle di Ledro e nella valle dei Conzei.

Oltre il naturale talento, persuadeva il Garibaldi ad operare celerissimo, l'avviso portatogli da esploratori segreti nella mattinata del 20 di luglio: oltre ottomila austriaci, muniti con due batterie di cannoni da campagna ed una di racchette, condotti dal generale Kuhn, scendere a gran passi giù per la valle dei Conzei, onde cogliere alla sprovvista il generale Haug ed abbatterlo innanzi che si raccogliesse alle difese, imperciocchè uomini intendenti testimonino come il generale Haug in cotesta occasione avesse sparpagliato un po' troppo le sue forze sui colli. Difficile accertare quante per lo appunto le milizie nostre e le posizioni prese; circa a numero basti saperne questo, che se non erano [151] meno, neppure eccedevano quelle del nemico; e per ciò che spetta alle mosse mi guarderò di seguire lo esempio del signor Thiers, il quale, mentre presume sciorinare scienza di strategica e di tattica nella Storia del Consolato e dello Impero, non soddisfa i periti del mestiere e stanca la pazienza del comune dei lettori, alterando malamente ogni proporzione della storia.

Il Garibaldi, chiamato a sè il luogotenente colonnello Chiassi, gli comanda: con un battaglione del 5º reggimento trascorra oltre ad occupare Locca, e dove gli riesca gli altri villaggi della valle dei Conzei, convertendone subito le case in ridotti, donde ributtare o sostenere il nemico; con un altro battaglione chiuda lo sbocco fra la Pieve e Bezzecca: gli altri due battaglioni tenga in pronto per accorrere dove il bisogno lo chieda, e così pure il primo dei bersaglieri; a modo di riserva il quarto battaglione del sesto reggimento, tre compagnie del settimo e due del secondo procuri sieno in Bezzecca.

Il Chiassi, mentre riceveva questi ordini, si permise osservare quanto sarebbe stato vantaggio durante la notte assicurarsi dei due monti sovrastanti a destra ed a sinistra la valle dei Conzei; consiglio di bontà così manifesta, che non aveva mestieri prova; solo gli obiettò il Garibaldi avvertisse bene le asprezze dei colli, ardue a superarsi [152] anco a giorno chiaro; al buio poi, per opinione sua, impossibili. A cui il Chiassi di rimando:

— Il peggio sarà tornarcene indietro.

— Non sempre riesce.

— D'altronde anco i Romani sagrificavano alla buona fortuna: a me sembra spediente tentare.

— Sia come volete, colonnello, conchiuse il Garibaldi, seguite la vostra stella.

Intantochè il Chiassi, ridottosi ai quartieri, ordina gli apparecchi per mettersi senza indugio in cammino, ecco capitargli davanti Curio, Filippo ed il tenente Fandibuoni; salutato, risalutava; ed a quest'ultimo con accento un cotal poco severo diceva:

— Tardi, ma in tempo, tenente; ripigliate tosto il comando della vostra compagnia, fra un'ora saremo in marcia.

— Così al buio?

— Per liberare la patria dalla servitù straniera tutte le ore sono buone; e voi altri chi siete?

— Mi chiamo Curio; nasco dal vostro amico Marcello, e qua vengo per imparare la milizia sotto di voi.

— Sta bene; i figli di Marcello ci dovevano venire prima: e voi come qui? Mi sembra avervi veduto, anzi di certo vi ho già veduto....

— Lo crederei! Mi sono trovato a tutti i fatti di arme di questa campagna, ma l'occhio dei superiori scorre via sopra i soldati come il volo della [153] rondine. Basta, non fa caso; sono il sergente maestro di arme del nono reggimento; mi chiamo Filippo; difficile rinvenire adesso il mio reggimento, però mi unisco con chi trovo; insieme con questo giovane mio alunno entrerò nella compagnia volante comandata dal nostro tenente Fandibuoni.

— Come vi piace. Voi, Curio, fate cuore, che fra poco otterrete quello che gli animosi talora stanno mesi ad aspettare, — il vostro battesimo di fuoco; — quanto a me, soggiunse tristo, l'ho ricevuto da molto tempo: adesso non mi avanza altro che la estrema unzione del ferro.

Deus avertat omen! come dice padre maestro Berretta, soggiunse Curio; ma io so che spesso alla guerra questi sacramenti ci caschino addosso tutti di un picchio,... lo so, e non me ne sgomento.

— Ma vedete un po' che gusti fradici, intervenne a favellare il tenente; non ci è quanto il pensare alla morte, che ce la chiami sul capo alla lontana: portando l'ale, ella è di natura di uccello ed obbedisce al fischio.

— Oh! per me poi, se mi è lecito dire la mia, prese a parlare Filippo, più penso alla morte e più mi ci accomodo: andare a morire io l'ho come andare a dormire.

— Sicuro, conchiuse il Chiassi, tutte le strade menano al camposanto: quello che preme, sta nello adempimento del proprio dovere; or via, andatevene [154] pei fatti vostri; fra un'ora in marcia: buona sera, Curio; ed accostatosi al giovane gli strinse con molto affetto la mano.

Anche negli eserciti meglio ordinati accade più spesso che non si vorrebbe che i comandi non si trovino eseguiti con la debita esattezza; d'onde nasce che, nonostante gli ottimi concetti del capitano, le battaglie vadano a rotoli, o almeno riescano meno fruttuose del desiderio; però tanto meno recherà maraviglia, dove si sappia che questo succedesse non di rado nei corpi dei volontari. Parve all'ufficiale preposto ad occupare Locca e gli altri villaggi della valle dei Conzei e a ridurne le case in trincere per combattere riparati, non doverlo fare se non all'alba, onde tutta la notte si rimase giù nella valle. Anche le mosse vigilate dal Chiassi non sortirono buon esito, imperciocchè il battaglione, comandato da lui in persona sulla sinistra, alla punta del dì si trovasse in ordine di poter combattere, mentre il battaglione a destra andava sparpagliato così che non si giunse mai ad assembrare, e male gli incolse, chè, avviluppato dai nemici precipitati giù dai monti con la foga di una cascata, parte cadde prigioniero e parte ebbe di catti di ritirarsi a salvamento.

Se la giornata avesse dovuto giudicarsi dal mattino, si prevedevano guai, e grossi, sicchè fu argomento non piccolo di stupore pei nostri quando [155] il nemico verso le 5, cessato di un tratto il fuoco, fece supporre a taluno che egli cessasse l'assalto. In questo intervallo gli austriaci con avvisato consiglio tentavano girare la diritta degli italiani scendendo alla Pieve, e quindi percoterli di fianco e alle spalle, ma trovate le gole difese, non che visto il 2º reggimento in punto di rinforzare i posti, si ritrasse, e, raccolte tutte le sue forze in Val di Conzei, verso le 7 del mattino riprese a menare le mani.

Gli italiani respinti duramente sulla destra, lasciando i posti avanzati di Enguiso e di Lensumo, si ripiegano a Locca: qui sostano, ed essendo giunte da Bezzecca milizie fresche e due pezzi da campagna a rincalzarli, deliberano di sostenersi con tutti i nervi; gli austriaci sopraggiungono, e danno dentro; invano però, chè a volta loro ributtati andarono indietro fino ad Enguiso. Tuttavia la destra rimaneva sempre scoperta, ed i pochi del 2º battaglione scampati alla sconfitta nè in numero ormai, nè per prestanza capaci a resistere; bene il generale Haug provvide a mandare soccorsi di gente quanta più potè, ma non fece frutto, massime priva, come si trovava, di artiglieria, mentre l'austriaco spinse in diligenza da cotesta parte la batteria dei razzi alla Congrève, la quale oggi piglia nome di racchette. In tanto repentaglio l'Haug spedisce a Tiarno al comandante supremo per avvisarlo essere la resistenza impossibile, a destra tracollare [156] le cose; ordini al colonnello Menotti cali col nono reggimento giù dai monti a sinistra, dove in quel momento si trova, e tenuto il cammino per la valle dei Conzei percuota alle spalle gli austriaci; ancora, ingiunga al 2º reggimento di già arrivato alla Pieve si avanzi ed appoggi il Menotti; quanto a sè egli si porrà coll'arco del dosso per reggersi in mezzo; se la fortuna si accorda col buon volere, promette prima di mezzogiorno tenere prigione tutto l'esercito nemico.

E il Garibaldi, secondando la richiesta, ordina al Menotti che scenda dai monti e si appresti ad assalire; egli stesso a stento entrato in carrozza si avanza verso Bezzecca.

Le vicende da per tutto mutabili, mutabilissime in guerra; in questo frattempo di sfavorevoli eransi fatte disperate alle armi italiane: lo sgomento insinuavasi nell'animo dell'universale; il Chiassi correva ansante, smanioso qua e là in compagnia dei più arditi, fra i quali Curio e Filippo, e pregava, rimproverava, minacciava: inutili conati! La paura, conigliolo senza orecchi, superata ogni vergogna travolgeva i volontari in turpissima fuga. Il nemico sfolgora i nostri di fianco, e già si ammannisce ad assaltarli alle spalle: le sue colonne di attacco in procinto di avventarsi contro il centro: in presentissimo pericolo la nostra artiglieria.

E in onta a questo non mancarono uomini di cuore piuttosto infinito che intrepido, i quali ardirono [157] mostrare la faccia al fato; la storia ricorda l'Haug, campione della libertà in qualsivoglia parte del mondo ov'ella abbia inalzato la sua bandiera, procedere nel fitto della battaglia sotto il fuoco nemico, a rannodare quanti più trova e a farli star fermi con tutti gli argomenti che la ragione gli suggerisce, non escluse le ferite; poi li sguinzaglia parte alla difesa di Bezzecca e parte sulle alture a sinistra mezzo perdute, dove occorre il cimiterio. Indi a breve sopraggiunge lo stesso generale Haug trafelato, e di primo arrivo vedendo la compagnia chiamata volante, annessa al reggimento Chiassi, la quale per gli ordini già dati aveva a trovarsi altrove, e precisamente sul colle di faccia a Bezzecca oltre la strada di Tiarno, con suono alquanto turbato disse al colonnello:

— Ch'è questo? Come qui la compagnia volante? La riconduca subito al posto.

A codesta ora più agevole ordinarne che eseguirne il traslocamento; chè se scampo ci era, consisteva nel serrarsi; nè l'Haug se soprastava alquanto lo avrebbe comandato, ma, che che ne affermino in contrario, anche i costantissimi governa in parte la fortuna, la quale se prospera non vale ad esaltarli, avversa quasi sempre li esacerba.

Il Chiassi guarda il generale senza fiatare e si pone in assetto di eseguire il comando: giunto al cancello del cimiterio rifà i passi, ed accostatosi [158] al conte Pianciani, aiutante di campo dell'Haug, gli stringe la mano dicendo: Addio. A rivederci, rispose l'altro, ma, com'egli stesso ebbe a dire dopo, lo fece per dargli animo, perchè in quel punto gli parve un'aura di morte investisse il povero colonnello.

Uscito dal cimiterio, il colonnello si accorse della sua compagnia essere successo quello che noi vediamo accadere ad una massa di neve flagellata dal vento, di cui i bioccoli, si sparpagliano da per tutto un po'; il Chiassi, non potendo più condurre da capitano, combatte da soldato; di un tratto traballa e cade: Curio e Filippo gli si mettono attorno: entrambi inginocchiati si chinano sopra la faccia di lui; egli non disse motto: li guardò, ora l'uno, ora l'altro, quasi per riconoscerli, e spirò.

Nobilissima creatura fu il Chiassi; di costumi austero, rigido nei giudizii; alto di forma e segaligno: pallido e di capelli già grigi, comecchè appena sopra la soglia della virilità; parlatore scarso, per non dire avaro: gli occhi colore di vetro e soprammodo lucidi; in massima parte essi gli tenevano luogo di lingua: se udiva cosa la quale gli paresse o indecente, o strana, o trista, guardava cui l'avesse profferita, e così pure costumava dove gli accadesse intenderne altra o arguta, o magnanima: diversi, e quanto, cotesti sguardi! E non di manco nè i primi corrucciati, nè i secondi blandi; [159] sereni sempre, parevano piombini calati nell'anima altrui a scandagliarne la sua profondità.

Dura sorte la sua! La pietà sopra la sua tomba non pianse, o se sentì spuntarsi le lacrime, se le asciugò di un tratto pensando che se il piombo nemico non lo uccideva adesso, lo avrebbe morto più tardi la propria vergogna. La giornata, che noi abbiamo consumata in combutta con la monarchia, cominciò con un mattino di sospetto, ebbe un mezzogiorno di codardia e tramontò (seppure è tramontata) nell'obbrobrio. Il cortigiano, iena impaurita che sia per mancarle il cadavere nella fossa, urli quanto sa e si disperi, ma questo senta: che i soli, quando declinano verso il vituperio, tramontano per non risorgere mai più.

Ma la fortuna avversa non consentì lasciare in pace il dabbene Chiassi, quantunque sepolto; — perchè tre sono gli infortuni supremi che soprastanno all'uomo: morire in terra straniera, — avere sepoltura da mani sconosciute, — essere obliato da' suoi; eppure vi ha anche di peggio, e questo è la lode di persona indegna.

La lode dell'uomo retto davanti al popolo è libame sacro esalato da turibolo di oro. La Fama se ne rinfranca l'ale, sicchè ella le spiega bellissime come quelle dell'uccello di paradiso ai raggi del sole. La lode dell'uomo indegno sorge come fumo di paglia bagnata: contrista gli occhi alla Fama e [160] la fa piangere. Ora l'anima del Chiassi ebbe a patire il preconio di persona non degna. I generosi lombardi pensino seriamente a purificarne il sepolcro dell'eroe.

Il nemico allaga da per tutto; i nostri, rincacciati dal cimiterio, si rovesciano giù sopra Bezzecca, e per certo spazio di tempo si trovano sotto una vôlta di ferro e di piombo, imperciocchè gli austriaci, oltre lo insistente assalto di fronte, incrociassero i loro fuochi da destra co' nostri, che battevano in ritirata a sinistra; però non provarono la vôlta tanto salda, che ad ora ad ora non ne cascasse qualche racchetta a modo di bolide, stritolando il misero che giungeva a percuotere.

Di male in peggio; la ritirata da prima in ordine, poi tumultuaria, all'ultimo disfatta; giù tutti di sfascio a Bezzecca; la strada chiusa con ogni maniera impedimenti; i cannoni, cura suprema dei comandanti, smontati dai carretti vengono tratti via con le corde; gli stessi generali si mettono alle funi, e così con isforzi incredibili si salvano.

Sopraggiunge il Garibaldi e si leva su ritto nella carrozza; il volto dell'eroe, quasi sempre sereno, adesso comparisce oscurato da ineffabile amarezza; molto lo angustia il dolore del corpo, troppo più quello dell'anima. Allo agitare che ei faceva delle mani, sembrava uno auriga della palestra elèa che tentasse ridurre al freno i cavalli imperversati; difatti [161] lo sgomentava il pensiero che la vittoria gli avesse rubato la mano. Alla presenza di lui i combattenti ripresero un po' di balìa, ma e' fu fiato raccolto per ispirare l'anima.

Intanto che un manipolo di audacissimi, fatta punta, si avventano a capo del paese e ributtano gli austriaci, un migliaio di tirolesi scendono dai monti laterali, li circondano e li dividono dal grosso del corpo dei volontari. Chiusa allo scampo ogni via, non vi è tempo da perdere; o arrendersi o rimanere sterminati.

— Morire! urlano i volontari. — E così sia! risponde il capitano; spianate le baionette, e addosso ai tirolesi; pochi siamo, ma la via stretta non concede che ci vengano contro in molti; se li sfondiamo siamo salvi, che poc'oltre di qui troveremo il Menotti accorrente al soccorso.

Curio e Filippo, entrambi feriti, sentendosi ardere dalla sete, trovandosi presso ad una casa aperta, non poterono trattenersi dallo entrarvi per procurarsi un po' di refrigerio di acqua; acqua non trovarono, bensì in un sottoscala acchiocciolato il Fandibuoni; gli furono sopra in un attimo e ad una voce gli domandarono:

— Sei tu ferito?

— Sicuramente.... cioè credo.... sono fuori di me.

— Su, vediamo dove!

Lo visitarono e lo riscontrarono sano più di un [162] pesce, Filippo ammiccò degli occhi a Curio per passargli la baionetta traverso al corpo; negò Curio col capo, ma datogli un solennissimo pugno nel petto, gli stridè piuttostochè non gli favellasse:

— Vien via, poltrone, e bada a non moverti dal mio fianco, perchè se fai cenno di fuggire, quanto è vero Dio, ti ammazzo come un cane; aspetta un po', carnaccia da letame, lascia che ti imbratti del mio sangue la faccia e ti fasci, così parrà che ferito tu sia entrato qua per fasciarti, e non si scoprirà la tua vergogna.

Il capitano, armate ambedue le mani di sciabola e di rivoltella, con la voce e con lo esempio eccita cotesto manipolo di consacrati alla morte. Dopo lui Curio, Filippo e il Fandibuoni, il quale ubbriaco di paura agitavasi, ululava come uno indemoniato; tutti poi esaltavano l'estrema sorte, il grido Italia, che unanimi mandarono dal petto come saluto ultimo alla patria, e le immagini delle creature amate, che lucidissime e distinte in quel momento come un soffio passarono traverso allo spirito loro.

— Avanti! Avanti! scaricano le armi, e parecchi tirolesi ruzzolano per terra; tal sia di loro! Italiani perchè contendono contro Italiani? Potendo essere liberi, perchè combattono per la servitù?

— Avanti! Avanti!

Ma i nemici scaricano le armi; la prima fila del [163] manipolo balena per il iscompaginarsi; il capitano con altri parecchi feriti traballano; non importa; si riannodano; i sorvegnenti incalzano; addosso da capo. I tirolesi in parte cedono, in parte no; pure tutti tentennano, ma sentendosi la baionetta nelle costole si riscotono, e scaricano quasi a brucia pelo nel mucchio dei volontari. — Mi tappo gli occhi per non vedere la strage; di nuovo feriti, Curio e Filippo caddero; Curio fuori di sentimento, Filippo in sè, Fandibuoni illeso sempre agitantesi e sempre urlante.

Quando Curio tornò agli usati uffici della vita, si rinvenne adagiato sull'erba dietro una siepe poco lungi da Bezzecca: aveva ferite ambedue le gambe, e comecchè si sentisse debole, pure non provava troppo spasimo, onde subito gli balenò la speranza di avere le ossa intatte. Filippo accanto a lui, appena vide che aveva aperto gli occhi, gli sorrise e disse:

— Sta' di buon animo, che ne caveremo fuori le cuoia; e come ti pare di sentirti?

— Rifinito di forze, pel resto non ci è male....

— Difatti, interruppe Filippo, ho riscontrato io stesso che, dalla parte carnosa in fuori, nelle tue gambe non ci è altro di offeso.

— E tu, Filippo?

— Mira un'altra palla nel braccio sinistro, la quale veramente mi dà un po' di fastidio, ma sarà niente; alla più trista mi rimane il braccio destro per ammazzarne degli altri....

[164] — Ah! gemè Curio, mi è cresciuta la sete così, che mi brucia la gola; potessi avere un sorso di acqua, mi parrebbe rinascere.

— Sta' di buon animo, che m'ingegnerò trovartela.... senti.... senti... la battaglia dura; anzi mi sembra rinfocolata meglio di prima.

— E chi l'ha vinta? Chi ti pare che possa averla perduta? Filippo, senti, ho paura!

— Che vuoi ch'io sappia, figliuolo; ma dacchè dura vuol dire che per ora nessun vinse; sicuramente Bezzecca è cascata da capo nelle mani ai tedeschi, i quali ma' mai si accorgessero di noi, il pezzo più grosso sarebbe l'orecchio; io vo per acqua carpone carpone, tu qui fai il morto: se mi riesce, quando torno avrai acqua e notizie, di cui pari ti tormenta la sete.

Filippo si mosse, e scorso breve tratto di cammino gli occorse per la terra lo schioppo di Curio; lo raccolse e rifacendo i passi glielo riportò e gli disse:

— Ho ritrovato il tuo schioppo, Curio, mettitelo allato....

— Perchè? O non devo fare il morto?

— Certo; ma non ci è male che i morti come te siano al caso di ammazzare qualche vivo: e poi a noi altri soldati il destino parla per via di segni; avvezzati a non trascurarli mai, e a leggerli se ti riesca.

[165] Passò un'ora forse che Curio se ne stava chiotto sbirciando del continuo, quando scoperse da lunge Filippo con un laveggio in mano, ch'egli giudicò avesse raccapezzato in qualche parte ed empito poi di acqua alla fontana; costui se ne veniva lemme lemme con la barba sopra la spalla, sempre in ordine di difesa, quando ecco di un tratto salta su un sergente tirolese, uscito forse dalle peste anch'egli in cerca di acqua per bere, e gli sbarra il cammino, e lo minaccia. Primo moto di Filippo fu scaraventare il laveggio contro il tirolese; il desiderio era romperglielo nella faccia, ma la fece bassa, e riuscì a coglierlo solo nello stomaco, e non parve piccola pòsola però, che costui pigliasse a strabuzzare gli occhi bestemmiando in chiave di soprano; però, attutito alquanto il dolore, con la sciabola levata si avventa contro Filippo, il quale non istando a gingillare si era già messo in guardia. Il sergente tirolese aveva la sembianza di un orso tagliato giù con l'ascia; col viso di mattone cotto ricinto attorno di bioccoli di capecchio: a cose quiete avrebbe mosso il riso; adesso poi infellonito e digrignante i denti metteva paura... a tutti altri però che a Filippo, il quale, sicuro, del fatto suo, per la molta perizia che aveva nell'arme volle provarlo; se non che due fendenti uno dopo l'altro sul capo e un colpo vibrato di punta alla gola, lo ammonirono che non era aria di gingillarla; Filippo [166] in un attimo fece i suoi conti: il compare di scherma sembra ne sappia quanto tu; del braccio sinistro non puoi aiutarti, e per giunta t'impaccia anche il destro; qui bisogna venire subito alla conclusione; la cosa camminerebbe pe' suoi piedi, se egli non avesse fatto il conto senza l'oste, chè quell'altro non pareva punto disposto a lasciarsi ammazzare per dargli gusto; Filippo lo aveva arrivato con un paio di sdruci, ma eglino erano ninnoli, mentre l'altro ecco lo percuote sul braccio offeso; non lo ferì, ma il colpo gli rintronò tutte le ossa da capo ai piedi; sebbene fosse di mezzogiorno, vide più stelle che a mezzanotte, e tanto non potè tenersi, che suo malgrado non gli scappasse: ohi! Anco balenò cadere. Curio lo tenne ito, e senza pensarci imbracciò lo schioppo e prese la mira sul tirolese; di botto però abbassa la canna e ripiglia la parte di spettatore:

— No, Curio, non va bene, egli aveva detto a sè medesimo; guerra è sempre, ma adesso tra loro diventò duello, il quale si governa con le sue proprie leggi: debito vuole che tu te ne stia a vedere e sovvenga l'amico unicamente co' voti.

Intanto Filippo, essendosi riavuto, spicca un salto come un gatto arrabbiato e cala giù un fendente, sul cranio al tirolese, che glielo spaccò fin sulla radice del naso, non senza lasciargli intaccata la sciabola, tanto era duro! Ritirato il ferro, Filippo, da quell'uomo previdente che si vantava, glielo [167] appunta alla gola per passargliela da parte a parte e così assicurarsi del fatto suo, quando si sente un grugnito a breve distanza, e subito dopo comparisce una maniera di mastodonte umano, che, abbrancata con ambedue le granfie (non mi permette la coscienza chiamarle mani) la bocca dello schioppo, piglia la misura per isbatacchiarlo sul capo a Filippo e rendergli la pariglia. Se mai fu caso per dire: l'indugio piglia vizio, certo era quello. Curio si trovò di sbalzo a sedere, piglia la mira da quello esperto cacciatore che egli era, e aggiusta a quel cosaccio la palla nella tempia sinistra: egli rovina giù addosso a Filippo, Filippo addosso all'altro, onde per un pezzo sembrarono morti tutti e tre. Da quanta smania fosse preso Curio non si può con parole significare, che non gli riusciva moversi, e avria dato una gamba a patto di andare a chiarirsi se a sorte avesse ammazzato anco Filippo; ma Filippo era solo svenuto, e non suo il sangue nel quale appariva tutto imbrodolato. In quel mentre crebbe il fragore della battaglia; il cannone tuona via via più vicino; le palle dei moschetti scheggiano i macigni e troncano i rami degli alberi; lo scalpito dei cavalli diventa scompigliato; tumultuario il passo dei fanti; gli stridi, le imprecazioni, i gemiti, tutto insomma porgeva argomento a conoscere che la burianata si versava da capo da cotesta parte. Filippo tornato in sè si [168] nasconde meglio sotto i due uccisi, e Curio ripiglia la sembianza di morto.

Curio e Filippo passarono un'ora di passione da disgradarne la più dolorosa che patì Maria a piè della croce dove pendeva il suo figliuolo, imperciocchè, oltre le ferite del corpo, si sentissero l'anima trafitta nel presagio della battaglia perduta.

Ma la battaglia non era stata niente affatto perduta; all'opposto fu riguadagnata, ed ecco come. Dovete sapere come il generale Garibaldi, respinto da Bezzecca, non si potesse dar pace di aversi a riparare in Tiarno. Sostenuto sempre sopra le braccia dei suoi, scese di carrozza e si pose a sedere sopra una ruota di carretto da cannone in sembianza di uomo il quale volga in mente un pensiero unico, la morte. In silenzio lo circondano i suoi aiutanti, non meno di lui compresi di amarezza e di dolore. Al maggiore Dogliotti, il quale in cotesta impresa davvero fu l'Aiace, non sofferse l'animo accomodarsi alla fortuna del giorno:

Nè di fato gli cal, nè di fortuna

Nè di sè molto, forte nacque, e pugna;

epperò tra reverente ed audace accostatosi al Generale, in questa sentenza gli favellò:

— La disciplina vieta che io non chiesto metta fuori consigli; ma tanto è, io non posso astenermi di farvi osservare, signor Generale, come cotesto non sia il vostro posto.

[169] — Perchè? rispose sorridendo mesto il Garibaldi; forse ogni luogo non è buono per morire?

— No, che non è buono, soggiunse il maggiore, perchè qui si tratta salvare un cannone, quindi se tale ha disposto la fortuna, qui devono morire coloro che hanno in custodia i cannoni: voi, che avete in custodia lo esercito, dovete trovarvi colà dove si tratta salvare o perdere l'esercito, e salvarvi o perire con lui.

— Lasciatemi in pace.

— Mi punirete più tardi, ma intanto voi, Generale, non mi potete impedire di portarvi via di qua.

Il Garibaldi udendo sì fatte parole si leva in piedi, guarda a stracciasacco il maggiore, ma poi cagliando torna a giacersi, e stride piuttosto che favelli:

— Fate quello che volete.

Sollevatolo sotto le ascelle, lo rimisero in legno e continuarono la via per a Tiarno.

Avete mai veduto un vascello a tre ponti in mezzo al mare in burrasca? Cotesto Leviatan dell'Oceano sbattuto dalla procella ecco abbassa la prua fino a tuffare tagliamare, bompresso e polena, sicchè sembra che ormai stia per iscomparire nello abisso delle acque: di un tratto si rialza col garbo dell'alcione che ha bevuto e vola sulla cresta dei cavalloni, domando la forza materiata con la forza dello intelletto. Lo avete veduto? Ebbene, proprio [170] a quel modo, il buon Garibaldi risolleva il capo e gli spiriti, e celere concepisce, e celere comanda partiti quali la occasione desidera. L'ingegno dell'Haug nel pericolo divampa come fiamma per vento: sotto fitta pioggia di fuoco egli non posa mai; da per tutto lo vedi dardeggiare arrestando i fuggitivi, riordinando gli sbandati; collocando i raccolti in luoghi opportuni, ovvero tenendoli pronti a voltar faccia e ad assalire lo inseguente nemico.

Il Dogliotti, salito su di un poggiuolo, leva al cielo le mani e grida:

— Compagni, non ho più braccia, perchè le braccia dell'artigliere sono le artiglierie; vado a ripigliarne dell'altre: giuratemi di tenere fermo per una mezz'ora, ed io giuro tornare a farvi vedere un bel giuoco: me lo promettete?

— Sì, giuriamo che ci troverete qui, vivi o morti.

Senza darsi pensiero che cento volte correva pericolo di fiaccarsi il collo, ecco il maggiore Dogliotti giù a gran galoppo verso Ampola; lì giunto, e prima anco di giungere, per quanto gli basta la voce, urla:

— Presto; uomini, cavalli e corde; ma presto; questi cannoni tedeschi, che tanto ci offesero, o facciano adesso un po' di penitenza.

Furono imbracati in un fiat, e, cosa che parve impossibile, ed era vera, di galoppo gli strascinarono fino a Tiarno; gli artiglieri dietro ai cannoni come segugi alla lepre.

[171] Non più prodezza degli altri mostrò il figliuolo del Garibaldi, Menotti, ma le sue mosse riuscirono più vantaggiose delle altre, imperciocchè marciando a passo di carica col suo reggimento in linea parallela al nemico, che veniva in giù, mentre egli andava in su, gli venne fatto di rioccupare tutta la sinistra della valle dei Conzei, abbandonata prima; anche il primo battaglione dei bersaglieri si procacciò lode immortale salendo di abbrivo il monte di faccia a Bezzecca e rinettandolo dagli austriaci. I nemici non si ritirarono, bensì ruzzolarono dal monte fino alla valle.

Ricciotti Garibaldi, giovane tra gli audacissimi audace, impugnata una bandiera del reggimento del suo fratello Menotti, si avventa contro Bezzecca; gli fanno spalla il Canzio cognato, di quel valore che tutto il mondo sa, e il Damiani gentil sangue siciliano, che tra modesto e prode non sai quale ei sia più; gli altri dietro con irresistibile impeto.

Il tenente Fandibuoni, che sbirciava come andavano le cose dal buco della chiave di una casa dov'era tornato ad appollaiarsi, saltò fuori urlando; lo salutarono i nostri come un redento per miracolo: stette a un pelo che non lo portassero in trionfo; il Canzio gli ordinò pigliasse seco gente per esplorare se intorno giacessero feriti, e li sovvenisse. Andò il nostro glorioso tenente, nè molto si dilungava, che rinvenne il mucchio dei tirolesi e di [172] Filippo e poco lungi Curio: parevano tutti morti; costui n'ebbe raccapriccio e terrore, il quale crebbe in lui fino al delirio quando si sentì chiamare:

— Gua'! Gua'! chi miro? Sei tu, Fandibuoni?

Così aveva parlato Curio, il quale schiusa la coda di un occhio riconobbe il coraggioso tenente; questi, rimessosi alquanto dallo sbalordimento, chiedeva a Curio:

— Ma sei proprio vivo?

— Sono vivo, e ci puoi credere, rispose l'altro sorridendo, e così gli calmava la paura, quando, a farlo basire da capo, ecco agitarsi il mucchio dei morti e uscirne di sotto Filippo stillante sangue da tutto il corpo, che diverso non sarà stato il peccatore pagano quando in espiazione gli versavano addosso il sangue di un toro nel Taurobolo: stette per istramazzarne, senonchè riconosciuto anco lui alla voce, si tenne e tutto tremante domandò:

— Come diavolo nascosti in cotesta maniera? Avete avuto paura?

Per risposta gli risero in faccia. Non è da dirsi se ei si affrettasse ad allontanare cotesti odiosi testimoni della sua viltà; per questa volta la malevoglienza giovò meglio della benevolenza; in meno di un'ora, stesi entrambi dentro un carro sopra uno strato di paglia, furono avviati verso Brescia.

[173] Il generale Kuhn, non sapendo consolarsi della inopinata vicenda, riputò spediente alla sua riputazione pubblicare per via di giornali, infinito il numero dei garibaldini, di petto a loro un formicolaio essere nulla; le sono fandonie coteste: tutti, così amici come nemici, gli scrittori si accordano ad attestare quanto fu già avvertito da noi, che i garibaldini in quella giornata combatterono contro gli austriaci a numero pari.

Gli austriaci non tennero fermo a Locca; nè fecero meglio prova ad Enguiso e a Lensumo; da per tutto sloggiati ripararono a Campi. Nel medesimo giorno tentarono una sortita a Lardaro, ma furono respinti: afferma il Rustow come cotesta mossa fosse per una semplice ricognizione, e s'inganna: agevolmente si comprende essere stata parte del disegno nemico di metterci dentro ad un cerchio di fuoco.

Ormai nel Tirolo italiano le fortune austriache tracollano, e Garibaldi sempre più celere instando da Campi e dal monte Cimelo accenna a Riva, non fallibile acquisto. Già il presidio di Trento volge i passi indietro a Bolzano, recandosi seco la cancelleria militare; il general Kuhn nel ritirarsi bandisce cessare le difese del Tirolo italiano, per consacrarsi intero alla tutela del Tirolo tedesco; — Trento ci stava aperto dinanzi; bastava per pigliarlo stenderci sopra la mano; e Trento fu per noi il pomo [174] di Tantalo; ci sfuggì sul punto di afferrarlo; la favola della mitologia, per mercè del reggimento monarchico, diventò per l'Italia verità storica.

Pur troppo tutte le fantasie dei mitologhi per noi diventarono dolorose realtà; ecco il La Marmora mostra ai nostri soldati la Monarchia, come Perseo al mostro marino il teschio di Medusa, e li impietrisce; costui da prima comandò si fermassero per otto giorni in virtù di armistizio; poi lo prorogò altri otto giorni, finalmente per uno.

Intanto con ogni maniera di viltà furbesca, come con ogni balorda mascagneria i nostri governanti si assottigliavano il cavicchio sul ginocchio per buscare un'altra toppa da cucirsi al manto di paltoniere, onde procede magnifico questo regno di Italia.

Napoleone, che si era fatto donare la Venezia da Francesco Giuseppe imperatore d'Austria, si profferse gittarla in bocca alla monarchia, non perchè ella smettesse il latrato (che a tanto non le basta la voce) bensì il cagnolío, e perchè costei perfidiava per avere un altro catollo, il franco sire levata la frusta con mal piglio disse:

— «Contentati, pitocca, e cessa importunare la gente: ringrazia Dio, se ti butto la Venezia, e chetati. Questa è la prima volta che per guadagnare bisognò perdere; nè tu avresti saputo vincere in altra maniera, perchè non è la prima volta che i [175] tuoi soldati convertirono le barbute di ferro in pentole per farci bollire la minestra[26]. La tua ignavia ha troncato le braccia alla Prussia ed a me: sogni partoriti da indigestione di pan vecciato pretendere il confino allo Isonzo, e l'Istria di giunta; ed anco quello tra lo Stelvio e Feltre. Tienti Venezia per caval donato, e non guardargli in bocca.»

Ma il Governo, che se improntitudine valesse la impatterebbe con Achille, non si sgomenta per repulsa, e insiste per ottenere il Trentino fino al Lavisco, che nel 1848 aveva proposto lord Palmerston per metter pace fra l'Austria e l'Italia.

Mentr'egli va così birboneggiando, Francia e Prussia pigliano in uggia il biante fastidioso; l'Austria, rappattumata alla meglio con la Prussia, rimanda due corpi di esercito in Italia donde gli aveva distratti prima per coprire Vienna; intorno allo Isonzo raccoglie forze novelle; di tiranni e di schiavi generatrice inesausta Vienna! Nelle fortezze del quadrilatero cresce i presidî; a Riva i cannoni gettati nel lago ripescansi: le teste all'Idra rinascono: per mille indizi si fa manifesto come l'Austria, sopportando molestamente la perdita di Venezia, vada cercando col fuscellino la occasione per gettare all'aria il convegno fermato.

[176] Allora il Governo regio, frenetico davvero dalla paura di trovarsi abbandonato sopra le secche, si rimette, a mo' che vediamo gl'incappucciati a piè delle Madonne di Luca della Robbia, a mani giunte a piagnucolare: «bastargli la Venezia; se concupì il Tirolo italiano, mea culpa; se l'Istria, mea culpa; se Trieste, mea maxima culpa: quanto a sè, proporre fermamente non peccare mai più, e fuggire le occasioni prossime del peccato. Ma con questo benedetto, o piuttosto maledetto popolo italiano, intestato a volere tutte coteste terre, come si rimedia? — Gli è lui, proprio lui, che ha la lupa in corpo, non già l'Aquila di Savoia, usa da secoli a contentarsi di rosicchiare ad una ad una le foglie di carciofo, come tutto il mondo sa, ed è vero.

E badate che: «quando il Cialdini ebbe passato il Po ed occupato Rovigo, tanto esso che Garibaldi riceverono una visita da Ricasoli, presidente dei ministri, il quale disse ai due generali: la diplomazia non riconoscere se non i fatti compiuti; epperò entrambi si affrettassero a prendere Trento. La diplomazia poi approverebbe il possesso».[27]

Ma d'infamia giammai non fu penuria negli uomini della monarchia: «il Governo italiano (è sempre uno straniero che parla) con un milione di [177] forza di cavalli prese a strombettare ai quattro venti co' suoi giornali salariati, la Italia aversi a contentare della sola Venezia, non doversi mettere tutto a repentaglio sopra la punta di una spada debole, ma debole oltre l'aspettativa dello stesso nemico[28]. L'illustre Ricasoli telegrafò al Medici e al Garibaldi si ritirassero immediatamente dal Tirolo; conchiuso l'armistizio; al Medici poi con menzogna e con minaccia annunziava: Garibaldi pienamente battuto presso Bezzecca ritirarsi alla dirotta; pensasse bene ai casi suoi, che si esponeva al pericolo di trovarsi a sostenere solo tutte le forze austriache.»[29]

Ed ecco come per onestare la propria viltà s'industriano avvilire altrui; con la menzogna sgomentansi i cuori, si fiaccano le braccia: tremano vincere più che altri non tema perdere, però che perdendo si accertava il rodere; marmeggie, non aquile; ghetto, non Stato; politica da reggia non già, bensì da castro; Che se con la lancia di Giuda ai giorni nostri si combattessero le battaglie, che cosa sarebbero le vittorie di Alessandro, di Cesare e di Napoleone di petto ai trionfi dei nostri insigni capitani? La Marmora certo più ridevole che abominevole, viceversa il Ricasoli; entrambi però risibili e odibili: forse, se costoro come il Castlereagh si [178] fossero con le proprie mani resa giustizia[30], la misericordia di Dio li avrebbe nascosti sotto un mucchio di pruni per sottrarli agli oltraggi delle bestie e degli uomini; adesso non sono più in tempo; se s'impiccassero sciuperebbero la corda, svergognerebbero la forca.

Dopo la proroga dello armistizio, ecco giungere il terzo telegramma; gli è sempre il capitano La Marmora che lo manda, e comanda perentoriamente al Garibaldi vada a farsi curare la scalmana di volere guadagnare la Italia per virtù di armi; dentro ventiquattro ore sgombri tutte le terre del Tirolo, e non istia a ripetere, perchè egli La Marmora, che di sgomberi se ne intende, in metà di questo tempo si fa forte di sgomberare tutta Italia, e Biella.

Al ricevimento di cotesto annunzio che mai pensò il Garibaldi? Chi lo sa? Chi poteva saperlo se egli non ce lo svelava? Ed egli ce lo svelò pur troppo, e in due maniere; co' labbri amari disse: benissimo! con gli occhi tristi versò due lacrime! Chiunque consideri un uomo qual è il Garibaldi, ridotto a piangere dagli uomini della monarchia, e lo schianto del cuore che strappò coteste lacrime al ciglio dell'eroe, preso da infinito disgusto per tutto e [179] per tutti, si troverà spinto a prosternarsi, e percotendo la terra a gridare: coprimi!

E mesto era il cuore di quanti gli stavano dintorno, eccetto dei nequitosi i quali si attaccano ai magnanimi come talora la ruggine alla buona spada guerriera. Questi per pane avevano seguito il Garibaldi, per pane lo abbandonavano; nè tutti codardi, anzi taluni feroci, ma i feroci avevano messo a cambio il sangue come i codardi la frode. Tutti si erano votati alla morte per vivere. Viltà o ferocia non monta, a patto che li servano da fornaie, da canovaie, da taverniere. Sopra gli altri improntissimo il Fandibuoni a far brogli, affinchè molti dei suoi compagni si presentassero al Garibaldi e lo mettessero in croce, per provocare dal Governo regio a loro pro onorificenze e pensioni.

Il Generale, secondo il suo costume, li guardò lungamente fisso e tacque: poi placido accese uno zolfanello e mise fuoco alla petizione che gli avevano presentato: indi a breve allontanandosi dal campo per tornarsene alla solitudine della sua Caprera, così ammoniva i volontari:

«Il Corpo dei volontari italiani, durante la campagna del 1866, ha fatto il suo dovere, e nello adempimento di questo dovere trova la più onorevole delle sue ricompense.

Brescia, 23 settembre 1866.

Gen. Garibaldi

[180] I generosi (e non furono i meno) plausero; gli altri dissero: Con quest'uomo si acquista più piombo che farina; proviamo addirittura se operando alla rovescia si facesse bene; e famelici si abbatterono negli uffici dei governanti, pari alle cornacchie sui campanili; taluno cascò di sotto per morirvi di fame; altri chiappa le mosche a volo e si nutrisce con quelle: i felici si appollaiarono sulla bandierola del campanile, e imbarcati sopra essa viaggiano a destra e a sinistra ch'è un gusto a vederli.

Il misfatto di Giuseppe Garibaldi agli occhi della Monarchia pari a quello di Prometeo; più acerba la pena; chè Giove tiranno da' cieli mandò l'avvoltoio a divorare il cuore del figlio di Giapeto, mentre la monarchia condannò il Garibaldi a divorarselo da sè medesimo.

Maledetto il dubbio quando mi piglia il cervello: è una infermità come le altre: se mi accertassero ch'è un demonio, vorrei provare anche l'acqua benedetta, dacchè quella del Tettucio non sarebbe al caso. No, non dubitate; il sangue così trucemente fatto spargere su cotesto estremo baluardo d'Italia frutterà. Chi ha da sperare, speri; chi ha da tremare, tremi. Per fecondare tanto i campi della messe quanto quelli del pensiero, ormai è provato, veruno stabbio approda meglio del sangue.

A quest'ora è nato chi piglierà in mano la infamia del 1866 per vendicarla; dove mai dovesse [181] correrci lungo tratto di secolo, non gli sarà meno infallibilmente rimessa: mirate! ella apparisce come la lettera assicurata munita di cinque sigilli sinistramente vermigli:

I. Sigillo del Castellini, il quale morendo annoverava i buchi che gli avevano cagionato le palle nemiche;

II. Sigillo del Chiassi, il quale, vedendo i suoi compagni sbandarsi, si avventa solo contro i cannoni austriaci per impedire che si avanzino;

III. Sigillo del Lombardi, che para il petto di tutte le sue medaglie il giorno solo in cui lo deve esporre contro le armi nemiche;

IV. Sigillo dell'Alasia, che spara trenta colpi contro Ampola, e al trentunesimo cade morto sopra il suo cannone;

V. Sigillo dello Specchi, Cocceio Nerva della milizia italiana, che, messo fra l'uscio e il muro, o di abbandonare il Garibaldi, o di seguirlo in guerra da lui come regia, e impresa per interesse regio, abbominata, delibera tôrsi la vita.

Non dubitate: Nemesi vede e provvede.

[183]

Capitolo XII.
SI SPEGNE UN AMORE.

Ma la madre e il padre della Eponina, che stillavano essi? Di qui non si esce; delle due cose l'una: od eglino non erano buoni come ci narrò il libro, o chi lo scrisse ha commesso un solenne svarione dimenticandoli fin qui. Ecco come stanno le cose. Marcello ritraeva assai della indole del suo omonimo romano: impetuoso ed avventato, per la veemenza della passione si spossava: uomo egli era da tagliare i nodi, non già da scioglierli. Percosso da tante e sì diverse sventure, non sapeva contro chi rifarsela, però dallo estremo furore trapassando allo estremo sgomento diventò taciturno e intenebrito; ne perse il sonno, il cibo gli increbbe, sentì screpolarglisi la esistenza: cominciò a vedere [184] mezzi gli oggetti circostanti; anco negli orecchi gli parve molestarlo un perpetuo tintinnìo; gli si mise addosso una febbriciattola sottile come la pioggerella, che inganna il villano e lo infradicia fino all'osso. Però Isabella in tale stato non lo poteva lasciare. E quanto ad Arria non ci era da farne caso, ingolfata ogni dì più nel mare magno della beghineria: quantunque ella vivesse in questo mondo, e qui dovesse avere gli affetti come aveva i bisogni, ella mandava tutto nell'altro: a modo di chi recapita le sue masserizie fuori di casa quando è in procinto di mutarla. Comunque giovanissima, ella aveva ridotto l'anima a carta pecora dove l'apatia andava scrivendo: «Che cosa importa affaticarci? A che giovano i pianti? Gli omei a che? Tanto non può cadere un capello senza il permesso di Dio! Tutto sta nelle mani della Provvidenza.»

Ma non è così, neanche per gli iniqui che lo danno ad intendere. Perchè allora, a che andate amplificando la virtù della preghiera? Orazioni e preci che ritraggono troppo l'amore terreno, onde possano arrivare fino al cielo. Piglia un libro di preghiere e sincerati da te, se sostituendo al nome di Gesù quello dello innamorato, la tua figliuola non trova una bellissima lettera erotica uscita dalla fucina allora, da consegnarsi alla pollastriera perchè la porti; simili preghiere temperate al fuoco dell'amor terreno paiono frecce scoccate contro il cielo: [185] finchè la forza che le spinse in alto dura, vanno in su, ma poi ricascano sul capo all'arciere che le saettò.

Aggiungi altresì che ad Isabella davano pensiero anche gli altri figliuoli: ella non avrebbe saputo dire per lo appunto in che l'affliggessero, e non pertanto sentiva una oppressione foriera di calamità; stringendoli al seno le pareva che i palpiti del cuor loro non corrispondessero a quelli del suo; i loro occhi ormai non sostenevano più il lampeggiare delle pupille materne; o col tenere le palpebre abbassate, ovvero torcendole altrove, essi le difendevano dal raggio materno, a mo' che gli infermi di oftalmia le riparano dai raggi solari. Inoltre, dove si fosse ridotta la figliuola la signora Isabella non sapeva, e se, come si buccinava, a Vienna, prima le voci della guerra vicina, e poi la guerra dichiarata l'avevano distolta da imprendere un viaggio forse inutile e certamente pericoloso.

Intanto le cose non erano state ferme fra Eponina e Ludovico; mutabile il cielo, che ci pende sul capo, ma quello dello amore mutabilissimo. Ogni volta più rade venivano a Ludovico le notizie da casa, e con le notizie più scarsi gli invii di danari. I danari recapitatigli per via del locandiere non rese ad Eponina come avrebbe desiderato: anzi, mentre stabiliva fermamente non accettarne più da lei, la necessità rise, ed entrata furtiva in casa la superbia, le [186] diede di gambetto facendole battere uno sconcio stramazzone per terra. La superbia perfidiò un pezzo a non volersi confessare per vinta, ma quantunque continuasse la lotta, il di sopra alla necessità non potè ripigliarlo più mai. Non possedendo modo di procurarsi i consueti svaghi della vita gioconda, nè conoscendone altri, o se li conosceva non allietandosene, tirava giù sbadigli a canto fermo; però le antiche consuetudini invece di attutirsi per lo scarso alimento, riarsero.

Di tanto essendosi accorta Eponina, generosa e innamorata, ci portò rimedio peggiore del male, perchè prese a buttargli là i danari con la pala, e per quanto gli desse non le pareva avergli dato abbastanza.

E' ci hanno amori che girano attorno con la bisaccia, ed io ne conosco parecchi, ma cotesti sono amori da strapazzo, generati da un frate cercatore e da Venere pandemia sul termine di una via; quello di Eponina era degli amori che, dal turcasso in fuori, procedono ignudi; quindi dove riporre i danari non sanno. Ora, leva e non metti, ogni gran monte scema, nè era gran monte quello di Eponina; mise fondo a tutto il danaro; ed ormai non le avanzava se non parte dei gioielli, doni dei parenti, o degli amici.

Intanto le avvenne di sapere quello che tanto desiderava e rifuggiva ad un punto conoscere, voglio [187] dire la cagione della fuga di Ludovico da Milano e la ripugnanza di lui a condurla per moglie. Certo giorno, entrata nella camera di Ludovico, mentre questi si trovava assente, vide Gaspero intento a mettere in sesto gli abiti del padrone: costui nello spazzolarli ne aveva lasciato cadere una lettera, la quale, senza che ei se ne accorgesse, erasi ficcata sotto il divano; ond'ella con bel garbo mandò per certa sua faccenda Gaspero fuori di casa, e raccolta la lettera lesse:


«Amato figlio,

Milano, ecc.

«Mi si spezza il cuore pensando che non ti posso scrivere altro che notizie desolate. L'ebreo Zinfi non intende rendere indietro i biglietti falsi che tu gli desti in pagamento della cambiale scaduta, se non a patto che tu gli assicuri il buon fine delle altre che verranno a scadenza. Dio mio! O come mai hai potuto creare tanti debiti? Capisco bene che tu, povero figliuolo, dei cento che ti obbligasti a rendere, forse hai ricevuto cinquanta; ma costui tiene il coltello pel manico: per cagione di cotesti sciagurati biglietti ci tocca lasciarci sgozzare senza gemere un ohi!

«Per tranquillarlo gli ho offerto tutto quanto mi resta; nè il saperti così ignudo di ogni ben di Dio è quello che più mi angustia; non mi dà [188] tregua il giorno, non mi lascia chiudere occhio la notte il pensiero che, detratti i pesi che ci gravitano sopra, questi miei beni non basteranno a saldare i tuoi debiti. Causa poi di angustia acutissima sta nel doverti dire che te non posso aiutare in nulla; e per me mi trovo ridotta agli estremi: tutte le biancherie di casa sarebbero appena sufficienti a metterti insieme cento lire. Oggi farò cuore di rocca (o Dio! al solo pensarci mi sento accapponare le carni) per condurmi dalla duchessa Zelmi nostra cugina: mi aprirò con lei: confido che non rifiuterà sovvenirmi in tanta stretta, e allora ti fornirò di danari: procura starti più che puoi allo stecchetto; chè ormai non so più a quale santo votarmi. Ora tocchiamo un altro tasto; tu sai, figlio mio, come per non darti pena io non mossi mai opposizione al tuo amore per la figliuola della sig.ª Isabella; ma ora da te stesso comprenderai come ti sia chiusa la porta a farla tua moglie: lascio la condizione diversa, e il broncio dei parenti, e le censure degli amici di casa.... questo ed altro metto da parte, e domando: è egli decente che tu conduca nella tua onoratissima casa la sorella dell'uomo che ti ha tradito, dandoti in pagamento della tua cambiale biglietti falsi, ed esponendoti alla infamia per delitto non tuo? Molto più, che prevedo un fiero tracollo per la Ditta Boncompagni e Comp., e per consenso andarle [189] dietro gli Onesti. E tu apprendi, figlio mio, che chi cammina sui trabiccoli finisce sempre col fiaccarsi le gambe. Mi duole davvero con tutta l'anima per cotesta fanciulla bella quanto virtuosa, e piena di talento come di bontà;.... ma ahimè! soffrire e morire è la sorte della massima parte di noi altre figliuole di Eva. Ella, dove potesse consolarsi, troverà ricompensa a sollevare la sua casa, cavando costrutto dalla sua portentosa capacità di cantante, mentre veruno aiuto recherebbe alla tua, ecc.»

E qui raccomandazioni, e consigli, e precauzioni solite a suggerirsi, come sarebbe di chiudere bene la stalla quando sono fuggiti i buoi.

Eponina rimise la lettera al posto dove l'aveva raccattata, poi, agguantandosi alla parete per non cadere, tornò nella sua camera, dove si gettò boccone sul letto. Sul principio, per quanto si sforzasse, ella non riuscì a connettere due pensieri insieme: sentivasi il cervello indolenzito come le avessero dato un fiero picchio sul capo: dopo trascorsa molta ora, un remolino d'idee rotte e confuse prese a turbinarle nella mente, il quale ella non riusciva a dominare. Alla fine, quando se l'aspettava meno, ecco divamparle l'intelletto nella limpidezza consueta a mo' che le legna verdi fanno, donde dopo molto fumo guizza fuori la fiamma.

Se per me si volessero riferire tutti i pensieri [190] di cotesta anima travagliata, mi verrebbero meno l'olio e il lucignolo; basti dire ch'essi giravano e rigiravano dentro questo cerchio:

«Che fai? che pensi? ella mulinava fra sè; egli è venuto il tempo di recarti in mano la tua anima e scaraventarla come un sasso contro il Creatore, il quale ci plasmò così perchè ci sentissimo morire? No; — la lapide mortuaria è lo scudo dei poltroni. Io non getterò le armi sul campo. Io vo' serbare quanto più posso di fiato per poter dire in faccia all'eterno tiranno: — Tiranno, e modello di quanti furono e saranno tiranni, per requie tua e pace dell'universo disperdi la tua divinità in brani negli orrori dell'Erebo e della notte: fa di disfarti: soffia sulla tua luce, e spegnila, poichè tu non la sapesti accendere tranne per illuminare delitti e sventure. Pari nella desolazione alla Niobe antica, a me non fia dato sottrarre veruno innocente al tuo saettare maligno: non importa: trafiggi! Le ferite che farai attesteranno la tua immanità: le margini di quelle come altrettante bocche aperte ti urleranno una osanna di maledizione. Io morderò il granito della macina sotto la quale mi stritoli; io mi industrierò che una scheggia delle mie ossa infrante ti entri negli occhi e ti faccia lacrimare. Questo artefice infinito del dolore provi anche egli una volta che sia dolore. Dunque rimango, e rimanendo, che farò io di cotesta povera creatura di cui [191] la vita ho intrecciato dentro la mia? — Pongo per fondamento ad ogni mia risoluzione che se egli non conviene a me, nemmeno io convengo più a lui. La contessa si affanna pel decoro della sua casa; io popolana mi arrabatto di più per quello della mia persona: ella bada al di fuori; io al di dentro: a lei fra il parere e l'essere piace più il parere; a me preme il parere quanto l'essere. La nobil donna senza addarsene sofistica, e trova suo pro nello ingannarsi. Supposto vero che mio fratello Omobono abbia dato in pagamento dei pagherò di Ludovico biglietti falsi, egli è chiarito ch'egli glieli abbia dati consapevole della loro falsità? Egli banchiere può riscontrare uno per uno i biglietti che riscuote? Non paga egli un cassiere preposto a questa bisogna? È il primo banchiere a cui vennero consegnati biglietti falsi? Tutto giorno non succede? — E poi, o che cosa fantastica costei? Renda ella i biglietti ad Omobono, ed Omobono le renderà i pagherò di Ludovico: nè credito nè debito da una parte e dall'altra: faranno patta quando la signora contessa voglia: ma no.... perchè rimarrà sempre a estinguersi il debito verso il giudeo Zinfi. O signora, se infamia ci è qui dentro, sa ella in che cosa consista? Consiste nel mandare a male il patrimonio avito; nel commettere spese che non si possono sopportare; nel contrarre debiti che non si sa come pagare. E quando con infiniti [192] stenti giungessero lor signori a saldare il giudeo Zinfi, o come rimarrebbero essi? Costretti a limosinare dai nobili parenti un tozzo che verrebbe loro negato, o, se non negato, largito duro, a spizzico e con rinfaccio. Chiamasi nobiltà questa? Ricchezza e bei costumi formano nobiltà: quella senza questi è veste senza fodera, questi senza quella sono fodera senza veste. Giacchè questa povera anima di nobile mi si è rannicchiata in grembo, io la ristuccherò, la invernicerò e metterò a nuovo, le fornirò danari, stato e fortuna, affetti e mente; non istà in poter mio negare o concedere. Vedremo accomodarlo nella carriera diplomatica; onde fare grande cammino per questa via bastano vizi eleganti, orecchio fino, capacità di giocare una partita di amore come una partita agli scarti per attrappare fra un bacio e un altro una confidenza politica. Nobilissime spie galleggianti sopra gli acquitrini del disprezzo pubblico, in grazia di quattro croci o sei che si mettono sotto le braccia a modo di sughero. Signor conte, signora contessa, non vi pare provveduto così al decoro della casa vostra? Credo di sì. Si lascino pertanto servire. Via questo amore da me. È presto detto, ma ti basterà l'animo per farlo? Perchè no? Quando un topo s'insinua dentro un armadio, si agguanta per la coda e si sbalestra fuori del balcone; e non potrò adoperare così con lo amore, che mi si è fatto canchero nel cuore?»

[193] Appunto perchè egli è un cancro tu non lo potrai svellere, o lo svellerai tirandoti dietro il cuore. L'amore di sopra alle spalle della superbia sogguarda tutto quanto questa tratteggia sopra la lavagna, e ride: quando ella ha finito, stende la mano e ne cancella ogni cosa.

In questo proponimento pertanto ella calmava l'interno scompiglio, e côlta la occasione opportuna, disse a Ludovico:

— E' parmi tempo che noi dobbiamo pensare di proposito a partirci da Vienna: la guerra sta per rompersi, e però non giudico sicura la più lunga dimora in questo paese; la corrispondenza interrotta; impossibile, finchè dura la guerra, trovare occupazione utile; restabilita la pace si sa, dopo lo incendio rimangono le ceneri: ogni giorno lo scarso peculio si assottiglia; stremato che sia, come rinnovarlo?

E molte altre cose in proposito ella aggiunse tutte savie e discrete, per cui Ludovico accettò di stianto il partito che gli veniva posto dinanzi: bisogna però dire che egli ci aveva le sue buone ragioni particolari, le quali erano che da Milano, dopo l'ultima, non aveva più ricevuto lettere, e poi perchè perduti mille fiorini alla bisca non sapeva come pagarli; onde pareva a lui, come a tutti coloro che, o stanno per corrompersi, o sono corrotti, che la vergogna trasportata altrove fosse evitata, come se questa non salga teco in carrozza [194] e teco scenda in locanda, ti si assida a mensa e ti rincalzi a letto.

— E dove, Eponina mia, ti parrebbe che noi avessimo a condurci? con mal celata ansietà domandava Lodovico.

— Io ci ho pensato su, e giudico che sarà il meglio metterci addirittura in cammino per Pietroburgo.

— A Pietroburgo? Misericordia! E con quale viatico ci metteremo in cammino?

— Di questo non ti dare pensiero, Ludovico, ci provvederò io.

— E a Pietroburgo come faremo a camparci?

— Non te ne dare pensiero, provvederò io dando lezioni di canto e di suono.

— Ma come ti auguri formarti da un punto all'altro la clientela? Non conosciamo il paese, non conosciamo la lingua.

— Chi ti ha detto che io non conosco la lingua russa? Io la parlo e la scrivo.

— E dove tu l'hai appresa, burlona?

— Io l'ho appresa qui nelle serate che mi lasciavi sola; sul primo mi metteva paura, ma poi l'ho rinvenuta alla prova facile a ritenersi, quanto soave a favellarsi; che vuoi tu che io ti dica? La tedesca mi è riuscita due cotanti più dura.

E queste furono trafitte all'orgoglio di Ludovico, il quale rispose:

[195] — Come è così, mi stringo nelle spalle; ma quello che dobbiamo fare facciamolo presto, chè lo indugio potrebbe pigliar vizio.

— Anco domani, se ti piace.

— E domani sia.

Eponina accontatasi coll'onesto Hans, il quale non rifiniva accertarla che le passioni dei campi di battaglia erano fermate dai gabellini alle porte: diversi i guerrieri dai borghesi quanto le campane da cui le suona: continuasse a starsene dentro il suo albergo tranquilla: quando ce ne fosse stato il bisogno le avrebbe prestato egli stesso sicurtà gratis et amore Dei. Tuttavia, stando la giovine ferma a partire, volentieri si tolse il carico affidatogli dall'Eponina di vendere le gioie al suo maggiore interesse.

Il buon viennese, uso a camminare lungo le frontiere della onestà senza mai sconfinarle, come i topi che girano sull'orlo dei barattoli e non ci cascano dentro, se ne andò difilato da certo suo amico gioielliere, affinchè gli stimasse le gioie, informandolo qualmente un forastiero albergato nella sua locanda, ridotto al verde, volesse disfarsene per cavarne danari.

Il gioielliere, nel presagio di averle ad acquistare, egli ci disse sopra parole più che non ne ha un leggìo; e poi conchiuse stimandole un buon terzo meno del giusto loro valore. Allora l'onesto locandiere, [196] dopo un monte di ringraziamenti, riprese le gioie e disse che per cotesto prezzo era intenzionato accollarsele egli per conservarle un pezzo, onde se il proprietario volesse riscattarle sì il potesse, previo rimborso del capitale e degli interessi. Il gioielliere gli rispose con un risolino soave quanto il filo di un rasoio, aggiungendo:

— Compare, voi siete quel fiore di galantuomo, che siete.

L'onesto tedesco si recò a scrupolo avvantaggiarsi di un kreutzer sul valore delle gioie; esso tenne più dicevole abbrivare il conto, perchè le riprese dell'albergo sarebbero diminuite di certo; il quale danno era chiaro come l'acqua che egli lo avrebbe patito per colpa degli italiani, imperciocchè tutti questi subbugli non nascevano per lo appunto dal costoro intestarsi a contrastare ai tedeschi il pacifico possesso della Lombardia e della Venezia? Ora la signora Eponina era amabilissima dama, ma a fin di conto italiana e nemica.

*

— Oh! a proposito! esclamava Eponina mentre ripiegava una sottoveste di Ludovico per assettarla dentro la valigia, bisogna portare i passaporti all'ambasciata russa perchè ci appongano il visto.

— Certo, soggiunse Ludovico, non possiamo farne a meno.

[197] — Ma ora che ci penso su, riprese Eponina, mi sembra che sarà opportuno per mille ragioni rinnovare alla legazione italiana il nostro passaporto in nome di ambedue, dandoci la qualità di marito e moglie.

— Io veramente non ci vedrei questa necessità, perchè tu sai che su tale proposito il mio partito è preso.

— Non dubitare, Ludovico... in ciò ci troviamo d'accordo più che non credi... lo faccio nel tuo stesso interesse... perchè comprenderai come il titolo di marito onesti la compagnia che tu mi tieni... e a me il titolo di moglie agevolerà lo accesso nelle famiglie. Lo sai? La nostra società beve grosso sull'essere, per rifarsi sul parere. Ancora, noi andiamo in paese di gente vana della sua nobilea, quindi il titolo di contessa mi servirà di salvocondotto presso di loro. Però rimane inteso e stabilito fra noi che noi non siamo, nè saremo mai marito e moglie.

Proprio sul punto di mettere il piè sul limitare per partire, Eponina stringe pel braccio Ludovico, e tiratolo indietro lo fissa negli occhi e gli domanda:

— Lodovico, non celare niente alla tua amica, lasci verun debito a Vienna?

— Io? E che debiti ho da avere? Rispose Ludovico facendosi rosso fino alla radice dei capelli.

[198] — Tu non mi dici il vero, Ludovico; perchè ti periti ad aprirti meco? Non sono e sarò sempre la tua migliore amica nel mondo?

— Ma a te che preme se io mi abbia o no debiti?

— Poichè tu mi presti il tuo nome, finchè lo porto mi preme che sia onorato; e la tua fama è la mia; quando te lo renderò, ne farai quello che vuoi: per ora no.

E questa fu una nuova trafitta al cuore di Ludovico, che confuso e umiliato ebbe a confessare che lasciava un debito di giuoco di mille fiorini con tale che per giudizio universale lo aveva giuntato, avendo reputazione di baro emerito.

— Questa era buona ragione per non giuocarci, ma non pagarlo è pessima: mi duole che in simile congiuntura non possiamo sprovvederci di danaro: aspetta un momento che vedrò di provvedere anco a questo imbarazzo. Il tuo creditore come si chiama?

Ludovico glielo disse, ed ella condottasi a trovare l'onesto Hans locandiere, lo chiamò a parte e sì gli disse:

— Mio buon signore, il conte, costretto a partire su due piedi, lascia dietro di sè un debito di giuoco.

L'onesto locandiere, presentendo una domanda d'imprestito, levò le spalle mormorando:

— Oh! di questi debiti veruno si dà pensiero; quando se ne ha, si pagano.

[199] — Ma il vincitore è un cavaliere; certo barone Kircher, ebreo.

— Buono, per Dio! Gli è un truffatore di cartello. Parta pure il signor conte senza scrupolo di coscienza.

— No signore; ciò non permette al signor conte la sua illibatezza: voglia, caro signore, essermi cortese di vedere il signor Kircher e dirgli che il conte non si parte da Vienna come i suoi antenati di Egitto, sebbene il paragone non sia per lo appunto preciso. Sia discreto, e non passeranno mesi che riceverà per mezzo suo i mille fiorini, se pure gli basterà il cuore di pigliarli.

L'onesto Hans, liberato dalla minaccia di un imprestito, rispose:

— Eh! il cuore gli basterebbe per pigliarne anco centomila: viva tranquilla, che lo persuaderò ad aspettare senza aprir bocca... Poi, come se dicesse a sè, continuava: che brava gente son questi italiani! Per me l'ho sempre detto! quando se ne incontra uno, ci sentiamo ricreare come dal primo fiato di primavera. Peccato che non ci vogliano lasciare possedere in pace la Lombardia e la Venezia! Peccato che li dobbiamo persuadere a legnate sul capo! Allo italiano per essere paragonato al pane non gli manca altro che lasciarsi fare come lui a morsi senza dire nulla.

[200]

*

Giunti a Pietroburgo, si acconciarono di casa assai decentemente, e siccome Eponina sapeva che mentre il grano cresce spesso l'asino muore, così si diede subito attorno per rintracciare talune persone da lei conosciute a Milano e a Torino, dame e cavalieri che andavano per la maggiore, e di che tinta! Anco da Vienna si era procacciata copia di commendatizie per gente di alto affare, sicchè dopo pochi giorni si trovò a navigare in pieno mare col vento in poppa. — Accolta, blandita, portata in palmo di mano, Eponina, arrendevole ai consigli altrui e per farsi conoscere ad un tratto, promise che avrebbe cantato in certa accademia, la quale sotto il patrocinio della imperatrice si dava a benefizio delle madri impotenti ad allattare i propri nati. L'augusta donna, penetrandosi della frequente richiesta di figliuoli mossa dall'augusto imperatore suo marito, per diffondere le delizie del suo paterno dominio da Varsavia fino al Kamchatka, si metteva in quattro ad assicurargliene la produzione.

Però Eponina giuocava una grossa posta, non per colpa sua, bensì a cagione degli amici, che con lodi superlative la levavano a cielo, e forse un po' più in su: per buona ventura ella non pure vinse, ma stravinse.

[201] Non mai accadde ai petti russi sentirsi investiti da tanta dolcezza; a onda sopra onda scorreva sopra loro il piacere. Principi e borghesi, uomini e donne, preti e soldati manifestavano la intensità del giubilo in guisa, che tu gli avresti reputati tanti apostoli che uscissero dal cenacolo[31]: non acclamazioni, ma urli: moti irrequieti delle membra; un battere palma a palma da levarsi le galle alla pelle; un abbracciarsi e un baciarsi per tenerezza; chi si rizzava su di stianto come uno stollo da pagliaio; chi si abbandonava a braccia aperte sopra la seggiola: poi cominciò un gettito di fiori di ogni ragione, côlti non già per le aiuole dei giardini, bensì sopra i cappelli delle signore: non tessuti dalle mani della natura, ma da quelle delle crestaie: e più infervorandosi per far più presto gittarono cuffie, gittarono piume, gittarono ventagli, e borse, e fazzoletti, e pendenti, e perfino.... lo dico o lo taccio? E perfino una parrucca. — Chi si trovò presente al caso non rinvenne nell'antica o nella moderna storia successo da poterglisi paragonare: non le convulsionarie di S. Medardo, non quelle che curò Boerhave nell'ospedale di Harlem; non gli Abderitani, che per tre giorni durarono matti; non le scapigliate baccanti furenti pei gioghi di Citerone; forse ci si [202] sarebbero accostati i Coribanti, i quali tutti, fuori di sè dai salti, dai gridi e dallo strepito delle lancie, degli scudi e dei tamburi percossi in onore di Ati castrato, si castravano. Chi se ne intende afferma che di riscontro a cotesto smodato entusiasmo potrebbe stare unicamente la frenesia da cui (secondochè raccontano le Gazzette ufficiali) si sentono presi gli italiani ogni qualvolta contemplano le sembianze auguste di Vittorio Emanuele loro re; conciossiacosachè la frenesia costituisca il grado supremo della pazzia, anzi a modo che il pantheon conteneva tutti gli Dei, ella comprenda in sè tutte le varie infermità dello intelletto umano, come sarebbe a dire: lo sragionamento, la mania, la monomania, la demenza, la imbecillità, la stoltezza, la stupidità, la scioccheria;........ Signore! quante mai cose, giusta l'opinione delle Gazzette ufficiali, ha virtù di suscitare negli intelletti degli uomini italiani la sembianza augusta del re! — E dico intelletti umani, perchè è noto che la natura, fra tutti gli animali, concesse ai soli uomini la privativa di diventare matti.

La imperatrice volle vedere Eponina ed avendola trovata come valorosa, modesta e bella, tremante di emozione si tolse un ricchissimo braccialetto dal polso e lo allacciò a quello della giovane; e siccome questa, avendo presa la mano alla donna scettrata, con atto umile gliela voleva baciare, la imperatrice [203] non lo sofferse, ma postele le mani sopra le spalle, si trattenne alquanto a contemplarla; poi la baciò in fronte e le disse:

— Benedetta tu sia fra le donne del tuo paese e del nostro.

Ed Eponina in ischietta favella russa le rispose:

— Benedetta sii tu, madre di popoli e gloria di prosapia di eroi.

La imperatrice nel sentire lo idioma russo sulle labbra di Eponina rimase estatica: se la Corte russa non andasse illustre per esempio perenne di castità, e se Eponina non fosse stata femmina, quasi quasi ci era da temere che l'avrebbe inalzata di punto in bianco all'alto ufficio di favorito.

Veramente dai tempi nei quali Atea re degli Sciti, udendo sonare il flauto a Ismenia, disse: «per me gli preferisco il nitrire del mio cavallo,» a quelli di adesso, pei russi gran tratto ci corre. I francesi un giorno dispensatori del biasimo e della lode dissero per ghiribizzo: stropiccia un russo e ci troverai sotto un cosacco, ed il frizzo durò finchè il mondo si accorse i francesi giudicare ordinariamente come Minos, con la coda. Noi, meno prosuntuosi e più giusti, diciamo che i russi non possiedono per ora quei supremi intelletti che soglionsi chiamare Genii: però il Brulow nella pittura e il Pouskine nella poesia ai tempi nostri furono giudicati eccellenti; e il primo sopra il secondo assai, e così [204] credo ancora io. I tedeschi si vantano dirittamente popolo per arti, scienze e lettere a moltissimi primo, secondo a veruno; ma per sentire il bello, quanto a me, pongo innanzi a lui il russo. Di vero il tedesco armato di compasso e di scalpello procede al calcolo ed alla notomia dei suoni, dei colori, dei disegni e degli affetti: per lui vuolsi conseguire l'estro e la ispirazione per via di regole matematiche; quindi accade sovente ai tedeschi che, mentre essi credono aliare pel cielo della poesia, danno senza accorgersene un tuffo nella metafisica. Quando il poeta tedesco cava la materia dei canti dai concetti usciti dal cuore del popolo commosso, allora ritrae cose piene di palpito umano; se diversamente lo desume della propria fantasia, egli crea un fantasma corruscante di tutti i colori dell'iride, ma nebbia pur sempre. Ne vuoi la riprova? Piglia ad esempio i due Fausti di Goethe; la leggenda popolare gli porse il primo; però tu qui vedi, senti e ti addolori: il secondo è una splendidissima emicrania poetica: un brulichio irrequieto di atomi luminosi traverso i raggi del sole, nè più nè meno della musica del Meyerbeer. Metti eziandio il Goetz di Berlichingen a confronto col Tasso, e ti verrà confermata la esperienza. L'arte non crea, l'arte abbellisce; la creazione è lampo di Dio ripercosso dall'intelletto umano. Non fate pagare gabella alla ispirazione, non la frugate, non vi confondete a [205] guardare che cosa ella si porti sotto; esponete le fibre del vostro cuore o del vostro cervello al soffio della passione, ed esse vibreranno armoniche come le corde dell'arpa eolia. Conservate l'anima giovane, accogliete religiosamente le impressioni magnanime ed amorose, onde ci calchino bene l'orma, e molto sentendo riuscirete a fare sentire molto. Il russo si trova in simile stato; perocchè in lui la natura non sia corrosa dal costume pravo; nè tanto è barbaro da non comprendere le opere grandi della natura e dell'arte, nè tanto è incivilito da rimanere indifferente a tutto pel fradicio della corruzione. La Russia con molti vizi di meno, con alcune virtù di più di noi, oltre le miniere del rame, dell'oro, della malachite, possiede nel suo grembo un'altra miniera inesplorata fin qui, ma forse più copiosa di tutte, quella dei portentosi artisti e dei poeti, e dubito forte che a quest'ora in lei sia nato il conquistatore eletto a mutare la faccia del mondo.

Intanto che Lodovico ed Eponina si limavano di agonia intorno agli ultimi cento franchi, il dono della imperatrice scese sopra di loro come rugiada al cespite dell'erba inaridita; ond'è che Eponina, senza metterci tempo fra mezzo, chiamata a sè persona amica, s'informava da lei quali per opinione sua fossero i mercanti di gioie più accreditati della città, desiderando ella commettere un assortimento di gioie per fare degno corredo al magnifico braccialetto, [206] dono della imperatrice: l'amico rispose Pietroburgo andare piena di gioiellieri, principalissimi due, Anania Caieky e Ivano Rotting, ebreo il primo, cristiano il secondo, e questi fornitore di Corte. Eponina, com'era naturale, scelse l'ebreo, e pregò l'amico suo di avvisarlo che le andasse a casa. Anania, sentendo che ci era da tirare la rezzola con la speranza di averne un grosso barbio, andò a tiro di ale, ed introdotto da Eponina, prese ad adorarla con le smancerie servili che gli ebrei sogliono praticare molto per naturale vilezza e più per eredità di abiezione: certo di avere a sostenere le parti di venditore nel prossimo contratto, incominciò a dissertare intorno la scarsità sempre crescente di brillanti di acqua pura; la più parte di quelli che entrano greggi in commercio, dopo lavorati si scoprono verdastri, senza raggio, e non vale il pregio spedirli in Olanda a farli lavorare a forma dei trovati moderni; vado o mando alle fiere di Brodi, di Nini-Nowogorod, e non mi riesce rinvenire nulla di buono: qualche cosa di mediocre arriva in Siberia dall'Asia, ma la terra classica dei diamanti, checchè ne dicano, sarà sempre l'India; peccato che i Rajah non li vendano, e gli inglesi quando gli agguantano li fanno vedere traverso una gabbia, come il Koke-noor alla esposizione di Londra! Pertanto difficile oggi trovare diamanti nell'India, caro ad acquistarli, pericoloso estrarli di costà. — Quale [207] però non fu la sua maraviglia, per non dire spavento, quando Eponina, troncatagli ad un tratto la parola, lo chiarì com'ella non intendesse comprare, bensì vendere. Si tacque confuso, come uomo che si accorga avere sbagliato sentiero; e attese poi con industre precauzione a dare indietro non disdicendo addirittura il detto, chè sarebbe stato un cucire la toppa nera col filo bianco, ma ponendo innanzi una filastrocca di argomenti, i quali, comunque procedessero paralleli ai primi, tuttavia avevano virtù di disfarli.

Eponina per tagliar corto gli mostrò il braccialetto, alla vista del quale le grinze della fronte di Anania si spianarono, lo invase tanta dolcezza, che lo sforzò ad esclamare suo malgrado: magnifici! Non ci era caso, mal giorno correva per Anania; si sarebbe morso la lingua, ma parola detta e sasso gettato non si possono più tirare indietro: però, più per debito di coscienza ebrea che con isperanza di rimediare, aggiunse: magnifici diamanti invero, se non pendessero alquanto allo scuro, onde scapitano metà prezzo.... per lo meno.... a dire due terzi non sarebbe troppo....

— Che dite mai? gridò Eponina, levando le mani al cielo come vinta da orrore; ma non sapete, che sono un dono di S. M. la imperatrice? Ardireste voi tacciare di spilorceria S. M.? Vi attentereste a calunniare le sue auguste braccia, come quelle [208] che sarebbero state contaminate dal contatto di diamanti scuri, di verun pregio, da bottegaie, anzi da pescivendole?

Anania, spaventato, apriva e chiudeva la bocca senza susurrare parola; pareva un pesce rosso chiuso dentro una caraffa; di un tratto si appose il monile alla fronte, poi alle labbra, lo baciò divotamente, e ripigliati gli spiriti favellò:

— Tutto quello che viene dalla imperatrice e dall'imperatore è sacro; ma come l'eterno Dio lassù nei cieli è circondato di stelle più o meno sfolgoreggianti di luce, e senza offesa di lui possiamo osservare che Venere scintilla più di Saturno, così S. M. può possedere nei suoi tesori diamanti di pregio minore o maggiore, nè credo mi sia impedito rilevarlo senz'oltraggio.... piuttosto, cara lei, mi pare... se non isbaglio.... altrimenti mi rimetto, che lei non faccia troppo onore a S. M. vendendo subito il dono di tanto augusta persona.

Per questa volta toccò ad Eponina a riparare la botta, e la riparò male; presa a soqquadro rispose: — Necessità non ha legge.

L'ebreo allora, chiappata la mosca a volo, disse: — Cagna di cristiana, dunque il bisogno ti strozza; questo però fra sè; di fuori raddoppiava venerazioni ed ossequi. Adesso incomincia un lungo batostare tra il di più della pretensione e il meno dell'offerta; l'ebreo non voleva crescere un centesimo [209] dai quindicimila franchi, e ne rubava mezzi. Eponina uggita della fastidiosa tenzone conchiuse:

— Orsù! Voi mi darete ventimila franchi dei diamanti; mi lascerete il cerchio di oro, nel quale sostituirete ai diamanti tanti bei cristalli di quarzo: sostituzione, bene inteso, che pei cristalli quanto per la mano di opera voi farete a vostre spese, oltre i ventimila franchi, che mi hanno a venire in tasca senza alcun defalco; e con patto che prima d'incastonare i cristalli, voi me li farete esaminare e scegliere.

— Mi possano, cara lei, cascare gli occhi che ho davanti; possa non più vedere i tabernacoli di Isdraele, se quello che mi domanda non supera di un terzo il valore dei diamanti. Ella, mia padrona reverita, se in bellezza supera Ester, nella sagacità potrebbe dare venti punti ai sessanta alla regina Saba; ma creda, per vita mia, se Anania facesse affari come propone lei, diventerebbe più povero di Giob. Le parrebbe giusto che, dopo tanti anni di fatica, avessi a trovarmi ad avere edificato sopra l'arena del Giordano? Lascio considerarlo a lei.

— Basta così, signore Anania; pregovi a volermi scusare il disturbo, mi volgerò al signore Ivano Rotting, che spero trovare più ragionevole di voi: se m'ingannassi, in qualche altro modo provvederò.

— Mia signora, si accomodi; solo vo' dirle una [210] cosa che desidererei mi fosse creduta senza giuramento; dov'ella pensasse che per essere Anania circonciso e il signor Ivano battezzato, lo troverà più arrendevole di me, ella sbaglia, e di grosso: circoncisione o battesimo non genera differenza nel mercante: sopra la professione che ognuno di loro professa, ce ne ha una terza, comune ad ambidue loro.

— Mio degno Anania, io penso che voi possiate avere ragione; ma a provare non si rimette nulla.

— E veda, proseguiva l'ebreo, circa ai cristalli io la potrei servire unicamente, chè possiedo i più bei quarzi di cristallo che sieno stati mai raccolti nell'Altai: ci vuole occhio esperto di molto a distinguerli anco messi accanto ai diamanti genuini; e questo, mi sembra, non dovere riuscire indifferente alla mia signora.

— Eh! fino a un certo punto non dico di no. — E così dicendo Eponina si levò in piedi in atto di accompagnare Anania, il quale andando lemme lemme lasciò cadere queste parole per terra, rade, ad una ad una, perchè facessero più romore.

— Ivano... gioielliere di Corte... è sicuro che ha fornito il monile... la indiscrezione dorme a letto con lui... ogni giorno egli si ubbriaca di acquavite... Anania tiene le labbra chiuse più di un sepolcro.

Vedendosi giunto sopra la soglia della stanza senza che coteste parole avessero fatto breccia, vi [211] si fermò all'improvviso; solo volgendo il capo con le spalle disse:

— Vadano ventimila franchi da una mano e il braccialetto, ma libero da ogni altra spesa o fattura.

— Non si fa nulla: ho bisogno che il monile mi rimanga.

Anania ripose il capo nella prima posizione e si spinse avanti due passi; di là senza neppure darsi lo incomodo di voltarsi, soggiunse:

— Dove andò il brigantino vada la barca; le rimanga il braccialetto, ma tocchi a lei la spesa dei cristalli e della incastonatura...

E siccome Eponina, non rispondeva, egli ci appose per glossa: E questo lavoro, cara signora, eseguirò io per un prezzo da convenirsi.... quasi per nulla, veda... duemila franchi tutto compreso... cristalli... legatura... ripulitura.

Ed Eponina zitta; onde l'ebreo, spaurito che ella si fosse partita dalla stanza, riggiravasi tutto di un pezzo sopra i calcagni, come ventarola del camino ad un sbuffo di libeccio.

— Dunque, cara lei, come vuole; che non possa rivedere la famiglia se con lei guadagno tanto da fare gli azimi per Pasqua.

— S'intende, Anania, per famiglia la vostra, e per vostri gli occhi che avete nella fronte; basta così, conosco le espressioni maligne del vostro [212] odio impotente, e le disprezzo: odiate e tremate: intanto procurate osservare la promessa e portatemi a far vedere cristalli di primissima qualità.

— Viva tranquilla... glielo aveva detto ancora io che era cosa della massima importanza; chi non se ne intende non li distinguerà nè manco scoperti, i periti non li potranno conoscere sotto i rabeschi delle trine di Malines...

— Ai ventimila franchi ne aggiungerete duemila che terrò in pegno della esecuzione dell'obbligo vostro.

— Pare, cara signora, che lei non si fidi?

— Eh! non pare, è.

— Fidati fu un galantuomo, e non ti fidare galantuomo più di lui; peccato che non sia mia figliuola! Scusi, di che paese è vostra signoria?

— D'Italia.

— Per vita mia, me ne era accorto.

— Pur troppo; noi vi pratichiamo in Italia assai più che non si dovrebbe, e però riteniamo del fare vostro più che non si vorrebbe; nè a vero dire gli ebrei sieno banchieri o mercanti, noi sperimentiamo peggiori.

— O chi reputate i peggiori?

— Gli ebrei politici, ma non solo in Italia, bensì credo anche nella Russia, massime in Polonia.

— Finiamo il nostro affare.

— Finiamolo.

[213] Eponina dai ventimila franchi tirò fuori tanta somma quanta, tenuto conto da piazza a piazza, potesse formare il valore di mille fiorini austriaci, e mediante rimessa spiccata a nome del conte Ludovico Anafesti, la spedì all'onesto locandiere di Vienna con la commissione di pagare l'ebreo Kircher. Ancora fece trarre, sempre a nome di Ludovico, sopra il banchiere Bellinspilli di Milano, una cambiale di dodicimila franchi all'ordine della contessa Anafesti: la cambiale ella accompagnò con una lettera, mediante la quale si fingeva che Ludovico l'avvisasse della sua presente dimora a Pietroburgo; in breve le avrebbe spedito altro denaro: del debito con lo Zinfi non si pigliasse travaglio: la fortuna placata avergli adesso aperto una strada dove potersi avvantaggiare con onore, negoziando sopra i valori pubblici, dietro la scorta di persona, in compagnia della quale non poteva perdere. Le molte occupazioni obbligarlo a valersi, per la corrispondenza, dell'opera di un segretario; però non aombrasse, se vedeva la lettera scritta con carattere diverso dal suo. Indirizzasse la risposta sotto fascia al signor conte Caroti aggiunto alla legazione italiana a Pietroburgo, e conchiudeva con un geroglifico, che ritraeva bene abbastanza le iniziali di Ludovico Anafesti.

E già Eponina, sagacissima donna, avendo rinnovato la conoscenza del conte Caroti, ottenne licenza [214] di fare indirizzare a lui le lettere da Milano, con promessa di consegnarle tutte quante a lei: anzi, annuente il conte, s'impossessò di alcuni quaderni di carta con la impronta della legazione italiana, sopra la quale ella scrisse la lettera che si fingeva Ludovico spedisse alla madre: e ciò al fine di meglio colorire la cosa.

L'onesto locandiere di Vienna rispose puntualissimo e presto, chiudendo dentro la sua lettera ampia ricevuta del barone ebreo per saldo, fine e quietanza di ogni suo avere, pretensione, ecc. fino al presente giorno; ed aggiungeva: «Non creda però, mia signora amabile, ch'io glieli abbia dati tutti, che anzi mi andava proprio il sangue a catinelle per quelli che io gli ho dato. Avendolo avuto a me, io gli ho discorso così: Barone, non ti ho chiamato già per dirti che sei un ladro, perchè questo lo sai da te, ed è un pezzo: non per leggerti la sentenza che ti condanna alla galera, perchè io non sono giudice, ma locandiere, ed arrostisco polli, non uomini: non per ribadirti l'anello intorno al collo del piede, perchè di mio mestiere io non faccio il magnano; bensì per parteciparti una notizia altrettanto gradita quanto inaspettata: immagina che invece di darti querela criminale per una truffa commessa, io ti pagassi il danaro che hai rubato al gioco a quel signore italiano di nome conte Ludovico Anafesti, quanti [215] me ne ritorneresti indietro per mancia? — Il barone ha risposto: parole sono piume: sabato non è, e la borsa non ci è. — Ed io — Certo il giorno che corre oggi è giovedì, ma la borsa io la tengo. Basta, tu taci; proporrò io. Contentati di cinquecento franchi. — Egli: — E poi voi dite: queste sono proposizioni da ebrei! Tu mi vuoi strangolare... e mi do facoltà di sopprimere il resto. — Barone, rammentati, che se io ti mettessi l'ossa in un sacco non ti darei il tuo avere; via, non mi far perdere tempo, e scrivimi la ricevuta. — Egli da capo: — Anzi, io non la scriverò; o perchè il conte vuol pagarmi? — Che so io? Gusti fradici; i negri non condiscono la insalata con l'assa fetida? — Non è così, ripicchiava costui; il conte pei suoi particolari interessi ha bisogno di una mia ricevuta. — Tu svagelli, barone, la tua ricevuta non sarebbe buona ad altro che a farti spalancare le porte della galera a vita, senza mandato di giudice: or su, piglia seicento franchi, e vattene. — I cavalieri, insisteva il barone, quando vogliono mantenere il loro punto, hanno da pagare a saldo e a danaro il debito del gioco. — Sicuro, quando è vinto, non già quando è rubato. — Breve, si è contentato di seicento franchi; però dai mille fiorini sono giusto avanzati 1900 franchi, i quali, detratti gli interessi fino al presente giorno, io le ho segnato a credito come rileverà dal suo conto qui annesso. Con altri 7 od [216] 800 fiorini, vostra signoria potrà riscattare le sue gioie, che le ho serbate e le serberò sempre, — cioè, finchè gli interessi non rodano il capitale..... perchè veda, mia rispettabile signora, sebbene locandiere, ho un cuore da Cesare, e mi sono fatto a dire: — Giovanni! La giovane, si vede chiaro, è affezionata alle sue gioie come quelle che le hanno a venire da persone amate... padre, madre, zii, zie, e così di seguito: assicurato sei; tienle in mano; bisogna farle trovare alla signora quando venga a cercarle, e tu glie le restituirai previo rimborso di capitale e interessi; e se qualche cosa ella ti vorrà dare di mancia, guarda bene di non metterti sul superbo, e rammentati che italiani e tedeschi sono fatti a posta per istare d'accordo come pane e cacio, ecc., ecc.»

O bontà somma di locandiere viennese! Imparino gli italiani a seguirlo fin lì, più oltre no, chè correrebbero rischio di traboccare nel sublime. Quando le faccende della curia romana comincieranno a ravviarsi, io per me credo fermamente che il collegio amplissimo dei locandieri, tavernieri, osti e consorti opererà da pari suo promuovendo la santificazione del locandiere viennese — o per lo meno la sua beatificazione.

Dopo questa, a qualche settimana di distanza, sopraggiunse la lettera della contessa al suo figliuolo. «Incominciava da congratularsi con la [217] fortuna e con lui. Con la fortuna, perchè alla fine cessando i suoi rigori si fosse mossa a favorire Lodovico; con questo, perchè attendendo alacre e diligente ai negozi si dimostrasse degno degli inusitati favori. Lodava il figlio della discretezza adoperata a celarle il nome del suo compagno negli affari di Borsa, ma mordendo all'amo apprestatole da Eponina, aggiungeva averlo indovinato (ella immaginò qualche segretario della legazione; forse il ministro stesso). Continuava poi, la cugina duchessa averla così accomodata di danari, ma pochi, come quella che si versava a posta sua nella penuria a cagione delle prodigalità commesse nel passato carnevale: prometteva di più in seguito; però arrivati come manna i dodicimila franchi, mentre quelli della duchessa soli non sarieno bastati a tranquillare le avare improntitudini dello Zinfi; aggiunti i suoi, lo avevano persuaso a starsi fermo nel convincimento di avere ad essere saldato: però dichiarava che, stante il caro del denaro, quanto a interessi non poteva contentarsi al 6 per cento. — Alla quale proposta, aggiungeva la contessa, non ho potuto astenermi da osservargli: — Ma voi avete imprestato danaro al mio figliuolo incominciando a contare dal sessanta, sicchè il sei su sessanta fa giusto il 10 per cento. — Egli, cavandosi la berretta, ha risposto: che con donne, massime con le signore, non voleva avere discussioni, [218] e mi ha lasciata in asso; ond'io prego Dio con tutto il fervore dell'anima affinchè comandi alla fortuna di proseguirti propizia, per liberarci dalle branche del demonio... voleva dire dell'usuraio ebreo. Dicano quanto sanno i Salomoni della scienza, per me perfidio a sostenere che i giudei entrarono nella vera terra promessa allora soltanto che furono abolite le leggi sopra l'usura. Adesso noi dobbiamo 50 mila franchi di capitale allo Zinfi; 10 mila alla duchessa; e rimangono fuori gli 80 mila dei pagherò nelle mani di quel furfante matricolato dell'Onesti, di contro ai quali stanno i pagherò falsi, che egli ti diede. Speriamo da questo lato non sia per venirci danno; però ne dubito: quante volte ci penso mi trema il cuore come una foglia. Dunque il debito ora somma a franchi 62 mila, più i maledetti interessi, che non dormono mai giorno, nè notte, e mangiano sempre; altri debiti non ci avrebbero ad essere; almeno io non ne ho, e così spero sarà di te. Dunque lavora, guadagna ed attendi a fare di ogni pruno siepe, seppure non vuoi rimanerti pulito come il palmo della mano. Alla buona duchessa nostra cugina, udendo e vedendo che tu ti sei dato al buono, sono venute le lacrime agli occhi; povera donna, ella ti vuole proprio bene! Mi ha raccomandato più volte che io ti scriva: — tu cerchi ad aiutarti quanto puoi, ella attendere notte e giorno a trovar modo di levarti di pena; [219] anzi a restituire alla tua nobilissima casa (che è pure la sua) l'antico splendore. Tirando a indovinare, io immagino che ella mulini qualche partito per te, proprio coi fiocchi. Dove mai mi apponessi, badiamo bene, veh! per quanto possa riuscire fruttuoso, non vo' letame plebeo in casa. A negozio fatto bisogna piegare il capo, ma a negozio da farsi, se non ci troviamo tutte le nostre convenienze, diamo di frego; nella quale risoluzione io mi sono tanto più confermata, che la esperienza mi ha fatto toccare con mano che la plebe o il popolo, per quanto tu lo stropicci, non piglia mai il lustro, eccetto sulle sopraccarte: gli è fiato perso, nonostante il suo anfanare, non giungerà mai a quella rettitudine di sensi e alla gentilezza di modi, retaggio proprio di noi altri nobili[32]. Quando mi scrivi, io ti prego di sapermi dire che ne sia di quella povera creatura della Onesti. Ella non merita il destino a cui la riservano le tristizie dei suoi parenti: mi era adattata a tenermela per nuora: adesso poi mi è impossibile: deve sentirlo ella stessa: procura usarle ogni più urbano e gentile riguardo: come gentildonna te ne prego, come madre te lo comando: proteggila, assistila in tutto, anche prima di me...»

Dopo averla letta, Eponina si ripose la lettera in seno esclamando:

[220] — È la solita storia; il pranzo squisito al condannato quando lo mettono in cappella.

*

— Cara Eponina mia, senti, tu mi hai a fare un piacere, e non mi dire di no: stasera sono invitato al Club della Neva, ed ho promesso di trovarmici; tu sai che lo frequentano principi e boiardi, insomma gente che va per la maggiore: colà si giuoca alla grossa, ed io non vorrei scomparire.... forse potrei rifarmi dei tanti che ho perduto: — oh! che la disdetta non deva cessare mai?

Appena l'alba spunta le tiene dietro l'aurora, dopo l'aurora corre il sole; così del pari il crepuscolo non si ferma un istante: di vermiglio, paonazzo e poi nero d'inferno. Nella medesima guisa l'anima dell'uomo si affretta a salire, o a scendere; le buone qualità sopra i naturali viziati si posano meno dei colombi su la cuspide dei campanili. Ludovico di pudibondo eccolo in breve diventato impudente ed impronto, e spera riuscire nello intento, avendo saputo la vendita fatta da Eponina dei diamanti donatile dall'imperatrice. Ora la giovane rispose con la sua voce soave alla domanda molesta:

— Vico mio, con tutto il cuore se potessi: ma vedi, ho spedito fuori tutto il denaro: mille fiorini mandai in tuo nome a Vienna per pagare il debito di gioco che tu ci lasciasti con l'ebreo Kircher.....

[221] Ludovico sentì darsi nuova trafitta nel cuore, e, senza attendere che Eponina aggiungesse altre parole, tutto arruffato andò via sbuffando.

Veruno usuraio sentì mai pungersi dall'aculeo della cupidità di accumulare danari come adesso Eponina, onde deliberò aprirsene con certo principe russo, conosciuto da lei per lo passato a Milano, il quale pareva averle posto straordinario affetto, e veramente era così: — questi, o acconsentisse al vero, o per zelo dei pregiudizi della Corte e della nobilea, la dissuase da dare lezioni a pago; stesse al suo posto; non le mancherebbero inviti di prendere parte ad accademie in casa dei magnati. S. M. la imperatrice la chiamerebbe ai concerti di palazzo, e la munificenza russa non patire che chi la letizia con le sue virtù, si allontani senza segno notabile del proprio gradimento. Eponina si attenne a cotesto consiglio. Ora il conte Ludovico talvolta fu invitato insieme ad Eponina, e più spesso no, o per inavvertenza, o perchè lo considerassero appendice inutile della giovane artista; un gambo di fiore; ed anche ciò era trafitta al suo cuore vano. Nè quando accompagnava Eponina soleva gioire di più, chè senza glielo dicessero, gli facevano comprendere la sua essere la parte dell'ombrello che, entrati nel portone, si chiude e mettesi da parte per ripigliarlo poi quando si esce di casa. La sua vita, a canto a quella di Eponina, ignudo com'era d'ingegno [222] e ricco di vizi, insaccato fino agli occhi di orgoglio, ricordava la passeggiata favolosa della pentola di terra cotta a braccetto pei manichi con la pentola di ferro; egli ci si trovava a suo bell'agio, presso a poco come Regolo dentro la botte cartaginese.

Eponina certo ebbe a provare gli effetti della generosità russa, ma non corrisposero alla sua aspettativa, la quale, per la passione che la rodeva, era diventata improntissima; arrogi che quel vendere continuo di gioie per sostituirvi cristalli, con sicuro scapito d'interesse e con eventuale perdita della reputazione, se fosse venuto a scoprirsi, forte la infastidiva: nè punto la tranquillava l'esempio del marchese Massimo D'Azeglio, che il giorno stesso nel quale gli venne ricapitata per parte del Sultano la decorazione in brillanti della medijdiè la vendè di rincorsa, surrogando, com'ella costumava, alle gemme cristalli, imperciocchè quanto di leggieri era permesso ad uno degli archimandriti della mandria moderata d'Italia, non si concede a un semplice mortale. La facoltà di non sentire o non curare il proprio decoro è privilegio esclusivo dei signori. Difatti vendonsi dal Governo titoli di nobilea, come dallo speziale cerotti per apporli sulle ulcere e nasconderle alla vista di chi passa.

Intanto Eponina i denari raccolti spendeva sottilmente per Ludovico e per sè; gli altri tutti rimetteva [223] nella consueta guisa alla contessa, la quale rispondeva con lettere sempre uguali, come gli Oremus, piene zeppe di lodi e di promesse; ma siccome queste non vedeva mai Ludovico, così Eponina, maravigliando della indifferenza di lui circa il silenzio materno, un bel giorno gli disse:

— O Vico, e di tua madre non hai notizia alcuna?

— Da lei diretto nessuna, ma se capita qui qualche lombardo io ne faccio ricerca, e così m'avviene sapere di tratto in tratto che ella è viva e sana, che Dio la benedica. Mi sembra che, tacendo, mia madre operi da quella discreta gentildonna ch'è. O che vuoi tu ch'ella mi scrivesse? Miserie; ciò intristisce, e non leva un ragnatelo dal buco: quando potrà mandarmi un po' di danaro, mi scriverà.

E questo disse con tale una perfetta intonazione di gelo, così nell'anima come nella voce e nel sembiante, che Eponina ebbe a pensare: va', tu se' proprio della pezza donde si fanno le giubbe ai diplomatici!

Ora accadde che, avendo Eponina in certa veglia incontrato il signor Mario di Candia, cantante di quella eccellenza che tutto il mondo sa, seco lui si trattenesse a lungo, ed ella restasse incantata non solo pei modi squisitamente gentileschi, ma sì eziandio per la espressione delle doti che onorano la nostra umana natura. Più che altro, com'era da credere, favellarono di musica, ed egli le lasciò intendere [224] che si reputerebbe sommamente onorato di unire la propria alla voce di lei; e da cotesta sera Eponina si risolvè di presentarsi sul teatro. Nel presagio di levare via di un tratto, o almeno in brevissimo tempo, i debiti di Ludovico, ella raggiava di contentezza, sicchè tornando a casa ella non si potè tenere da fargli motto di cotesto suo proponimento; ma con sua non piccola maraviglia ella lo trovò renitente; sicchè dopo un batostare da una parte e dall'altra, egli alla ricisa le disse: avrebbe desiderato che ella rimanesse lontana dalle scene, ma poichè ci voleva andare ad ogni modo, nè egli la poteva impedire, egli intendeva che lo facesse con tutto altro nome che col suo.

— Perchè, egli aggiungeva, vedi, non te ne avere a male, ma, capisci, la contessa mia madre e tutta la mia nobile casata non vorrei che un giorno mi movessero rimprovero di non avere conservato nel suo pieno decoro il nostro nome.

— Ah! Dio volesse che il tuo nome non fosse caduto in peggiori mani delle mie. Queste parole scoppiarono ratte come fulmine dalle labbra di Eponina, e quando le volle ritenere era fuori di sua balìa poterlo fare; però si affrettava aggiungere: — Nondimeno, andando sul teatro, procurerò non valermi del tuo nome.

Essendo ricorsa Eponina al patrocinio del suo amico principe Platow, per riuscire più agevolmente [225] nello intento, qui pure incontrava contrasto; anzi il principe risentito, nel mezzo del colloquio esclamò:

— Io non mi posso capacitare, mia signora, come ella si sia intestata così di andare sul teatro.

— Perchè ho bisogno... moltissimo bisogno di danaro.

Allora il principe, con gesto di disgusto, riprese:

— Non vi avrei mai creduto così avara; scusate, ciò vi fa torto.

Parve Eponina a coteste parole proprio un apparecchio elettrico di cui avessero girato la chiave: afferrò il braccio del principe, e squassatoglielo forte, gli stridè fra i denti:

— Sappi, russo... sappiate, signor principe, che il danaro, il molto danaro mi fa bisogno per pagare debiti di onore..... e questi debiti non ho fatto io.... intendete bene, non ho fatto io... e l'onore che voglio salvare non è il mio, intendete bene, non è il mio.

Il russo sbalordito dalla terribile esaltazione di lei, le chiese umilissima scusa e la pregò di lasciarsi condurre per suo maggiore vantaggio. Eponina facilmente placabile glielo concesse, anzi, côlto il destro, come per aderire ai suoi consigli, gli confessava farle scrupolo non mediocre esporre sul teatro il nome Anafesti, nobilissimo in Italia se [226] altri fu mai. Il principe, che era orgoglioso della sua nobiltà una volta e mezzo più del pavone della sua coda, lodò abbondantemente cotesto scrupolo, sicchè alla osservazione che Eponina le mosse alquanto indispettita:

— E sì, che senza biasimo potè salire sopra le scene il signor Mario, ch'è marchese, gentile sangue italiano dalla Spagna trasfuso nella Sardegna...

rispose interrompendo:

— Sì, sì; ma un fiore non fa primavera, ed è desiderabile che questi esempi cessino, piuttostochè si rinnovino.

Venne pertanto statuito fra loro che ella avrebbe segnato la scrittura col nome di Eponina marchesa di S. Prudenziano; il principe poi, avendone tenuto proposito col signor Mario, convenne con lui non esser bene andarsi a profferire; il principe si desse d'attorno per fare nascere, crescere e divampare il desiderio di sentir cantare sopra il teatro di Pietroburgo la celebre italiana, marchesa di S. Prudenziano: egli dal canto suo non si rimarrebbe da movere i mantici nella Direzione del teatro, per accendere la voglia di mettere sopra le scene la Semiramide del Rossini ed ottenere a qualunque prezzo che Eponina ci sosterrebbe la parte di Arsace; tanto più volentieri dare egli di mano a cotesto accordo, perchè ella ne avrebbe aumentata, se pure era possibile, la sua reputazione, e la Direzione [227] ne avrebbe tirato una ripresa superiore ad ogni previsione.

E poichè, come ammonivano gli antichi, con quei di Creta bisogna cretizzare, così i negoziatori di Eponina si mostrarono alieni da impegnarla una stagione intera, molto meno un anno; ella acconsentirebbe per quattro o sei recite, col compenso di duecento rubli per sera, e non parve caro.

È mestieri dirlo; l'esito non superò solo il presagio del direttore del teatro, bensì anco quello dello stesso signor Mario: a tanto giunse l'entusiasmo, che non si rifiniva mai di parlare del nuovo miracolo, così alla Corte come all'osteria; nelle botteghe dei barbieri come in chiesa: insomma da per tutto. Il direttore del teatro, con sua inestimabile contentezza, si trovò, secondo quello che racconta il cronista Villani, a raccogliere i denari col rastello alla porta del teatro, come i preti alla porta delle basiliche di Roma nel primo Giubbileo instituito da Bonifazio VIII: però, venute a termine le quattro sere, non è da dirsi quale assedio costui mettesse intorno ad Eponina perchè si obbligasse un anno a cantare sul teatro, o nelle accademie particolari, o almeno per una stagione; profondevasi in inchini; ogni giorno un mazzo di fiori, e adesso naturali, ma cresciuti al tepore delle stufe, non già ai raggi del sole: a tutte le persone astanti intorno ad Eponina si raccomandava; mesceva mancie [228] ai servi con lo stecchetto, ma le promesse sbraciava con la pala; di qui Ludovico venne a sapere come Eponina avesse obbligato la opera sua sotto un nome che finto non si poteva dire e vero neppure, perchè temporibus illis il marchesato di S. Prudenziano fu feudo di casa; ma i suoi non gli avevano dato nè anche la consolazione di cui il conte di Cavour fu largo a' genovesi quando li mandò in Crimea a vedere Caffa; e seppe inoltre, cosa più importante per lui, che ella si era legata durante sei mesi pel compenso di 25 mila rubli, di cui per patto il direttore aveva dovuto anticiparle 60 mila franchi. Udito questo evangelo, Ludovico non corse, non volò, ma come lo struzzo nel deserto parve aiutarsi con le gambe e con l'ale nel ridursi a casa, dove rinvenne appunto Eponina che riscontrava i biglietti di banca pagati dal Direttore, ond'è che postergata ogni vergogna, e forse messo alle strette da qualche suo segreto bisogno, le disse:

— Oh! adesso il morto è sulla bara; tu non potrai negarmi di avere quattrini.

— Anzi, ella rispose, io non mi sono mai trovata in penuria come in questo momento; vieni qua, invece di danaro io ti darò una storia; poca cosa invero, tuttavia sempre meglio di un canto. — Certo fittaiolo andava creditore del Fox, che gli aveva fatto una dichiarazione del suo debito in piena regola; scarrucolato da un giorno all'altro dal nobile signore [229] sotto pretesto di mancanza di moneta, accadde un dì che egli lo cogliesse proprio sull'atto di ripassare danaro. Oh! per questa volta, esclamò il fittaiolo, voi non mi verrete a cantare che non avete quattrini: io vi piglio con la mano nel sacco; per lo appunto come hai detto tu; e il Fox gli rispose come io: — Non fui mai povero quanto adesso perchè, come vedi, riscontro questa moneta per mandarla a lord Say, il quale me l'ha vinta al gioco. — Oh! il mio, soggiunse il fittaiolo, non è debito come quello col lord Say, anzi più vecchio, e però più inquieto per esser pagato. — Niente affatto, disse il Fox; a sicurezza del tuo credito tu possiedi la mia obbligazione, mentre il debito di giuoco non ha altra garanzia che quella del mio onore. — Ludovico, sappi che io ho destinato questo danaro a pagare debiti di onore.

— Ma dove tu hai mai giocato? Quando hai perduto?

— Ludovico! Io pago debiti d'onore, esclamò percotendo, tutta alterata, del piè la terra, — pago debiti di onore.... perchè a me premono più i debiti altrui dei miei.

— Anche io ho i miei debiti di onore.

— E ci credo, però credo ugualmente che tu non abbia mai pensato a soddisfarli.

Ludovico, quantunque fosse di temperamento linfatico anzichè no, inasprito dal diniego del denaro, [230] dalle passate trafitte commosso, esacerbato dalla nuova puntura, si avventa addosso ad Eponina, le stringe, le travolge il braccio destro violentemente, ond'ella ebbe a prorompere in urli di dolore, nè si rimase alle strida, chè tolta di sè dal furore, lo chiamò: vile!

E pur troppo ormai egli era fatto tale; ma l'uomo quanto più lo merita e meno sopporta sentirselo dire in faccia, per la qual cosa Ludovico a posta sua arrovellato le lasciò andare una ceffata, che coltala nel naso ebbe virtù di farne spicciare larga vena di sangue: allora Eponina proruppe nella sua terribile ira di donna; non più gridi cacciò fuori, ma ruggiti; di uno strettone svincola il braccio, ed afferrato un pugnaletto che stava sopra la tavola, con quello in mano corse contro di lui.

Lodovico, sbalordito dal suo atto indegno e dal furore di Eponina, non faceva difesa, e sarebbe senz'altro rimasto ucciso, se in quel punto il commissario di polizia del quartiere, tirato dai gridi, non fosse comparso nella camera. Vista Eponina con lo stiletto in mano, tutta macchiata di sangue, e Ludovico bianco come un lenzuolo di bucato, intimava l'arresto ad ambedue.

Eponina però, avendo chiesto licenza di ritirarsi in camera per lavarsi, ed essendole stato di leggieri concesso, in breve ebbe stagnato il sangue, terso il volto: acconciò i capelli, mutò vesti, e dopo [231] tolta via ogni traccia della ignobile baruffa, si ricondusse pacata nella sala, dove confessò con acconce parole che bisticciandosi col marito avesse prorotto in parole strambe, di cui egli non a torto si era reputato offeso; donde il chiasso e lo schiaffo, che il marito avrebbe potuto in ogni caso risparmiarsi, il quale percotendo il naso era stato cagione del sangue sparso. Tafferugli che sarebbe bene non avvenissero mai fra marito e moglie, ma con tutta la buona volontà del mondo non sempre si possono evitare.

D'altronde simili casi non avrebbero dovuto partorire maraviglia presso i russi, i quali, se la fama porge il vero, sogliono provare la propria affezione alle dilette mogli con qualche solenne carpiccio di bastonate; e le mogli, per quanto se ne sente dire, se a troppa distanza ricevono queste dimostrazioni di amore, si arrapinano.

— Voi dunque, interrogò tutto abbonito il magistrato, veramente siete marito e moglie?

— Voi dunque ne dubitereste?

— Il mio ufficio non è dubitare, bensì verificare; per tanto vi compiacereste somministrarmene la prova?

— Sull'atto; ed Eponina, tornata in camera, ne uscì dopo pochi momenti col passaporto della legazione italiana a Vienna, il quale avendo esaminato il commissario, lo rese dicendo:

[232] — Non ho niente da osservare; pure permettano che io li ammonisca sconvenire altamente a persone ben nate trascorrere in simili eccessi. Quello poi che voi, signora, avete avvertito intorno ai costumi russi, un tempo, è vero, accadeva fra noi; ma adesso pare che questa usanza, sbandita fra noi, abbia trovato albergo presso di voi. Se si va avanti di questo passo, voi altre razze latine tanto presuntuose della vostra civiltà vi vestirete della nostra barbarie, come vi vestite delle nostre pelli.

Partito il commissario, Ludovico capì sarebbe stato inopportuno, forse pericoloso riappiccare il colloquio, onde cautamente se la svignava. Eponina rimasta sola si rimise allo scrittoio; le tremava la mano, e guardandosi il polso del braccio destro marcato attorno da un cerchio livido, pensò alla Maria Stuarda, quando ebbe a patire simile brutalità nel castello di Lochleven per parte del lord Lindesay[33]. — Ella sorrise di un cotale suo riso acerbo, e mormorò: — Ma costui era nemico, e questi?... E senza più attese a scrivere lettere alla contessa Anafesti in nome del figliuolo.

La lettera a un di presso parlava in questa sentenza: la fortuna, per le preghiere materne, essersi convertita in provvidenza; i negozi avere proceduto di bene in meglio, epperò trovarsi in [233] caso di spedirle in un botto 60 mila franchi, i quali co' già mandati dovevano bastare pel saldo dell'ebreo Zinfi, e pel ritiro dei biglietti, che soprattutto premeva riscattare; non mettesse tempo fra mezzo a porgergliene avviso per suo governo.

Dopo questa lettera ne scrisse un'altra, la quale doveva arrecarle inestimabile travaglio, a giudicarne dalle goccie di sudore che le cadevano a quattro a quattro dalla fronte; la sigillò e la chiuse dentro un'altra lettera.

Dopo un quarto d'ora, comparve il suo amico principe Platow, che le portò la cambiale dei 60 mila franchi tratti sopra il banchiere Bellinzaghi all'ordine del traente, e da questi girata in nome di Ludovico Anafesti. Eponina nella smania di affrettarsi ci appose subito di propria mano la gira all'ordine della signora contessa; di che maravigliando il principe e sottilmente seguendo il moto della penna di Eponina, si accorse com'ella s'industriasse ad imitare la segnatura di Ludovico.

Allora balenò alla mente del principe lo intento di Eponina, ma questa, accortasi della sua inavvertenza, per non lasciargli agio di fermare troppo il pensiero sopra simile accidente, di subito levandosi lo pregava di accompagnarla con la sua carrozza fino allo ufficio della posta, per assicurare le due lettere, che ella spediva in Italia: per via gli raccomandava le portasse il conto del banchiere [234] per soddisfarlo del cambio da piazza a piazza, che non poteva essere piccolo. Il principe, immaginando che da lei simili faccende s'ignorassero, aveva disegnato non farglielo pagare, ma ella ebbe avvertenza a tutto, e il modo col quale ella lo chiese parve tale al principe da torgli la voglia di disobbedire.

Intanto che la nostra egregia donna seguitava la sua carriera luminosa, le lettere giungevano a Milano, dove sortirono l'effetto da lei desiderato, conforme conobbe dalla lettera scritta qualche mese dopo dalla contessa al figliuolo, e da lei secondo il solito intercettata. Questa lettera da cima in fondo cantava gloria, osanna e alleluja. Pagato lo Zinfi giudeo; ritirati i pagherò e i biglietti falsi, da questo lato una pietra sopra ogni cosa; ma le buone al pari delle triste venture le sono come le ciliegie, però il giorno dopo che si aveva levato cotesto peso di sul petto, le si era presentato un signore, il quale, datosi a conoscere pel cassiere della casa O. Boncompagni e C., l'aveva chiarita come qualmente la prelodata casa Boncompagni e C., fosse stata vittima di un furfante matricolato, il quale aveva seco lei conchiuso un baratto di un milione circa di valori pubblici con altrettanti biglietti falsi del Banco di ***: aggiungeva riportarle i pagherò sottoscritti dal suo signor figliuolo conte Ludovico, a patto che ella gli retrocedesse i biglietti avuti in pagamento; [235] averle recato questo disturbo perchè era stato avvertito che i biglietti si trovavano in possesso della signora contessa, e che ella era dispostissima a stornare il negozio: «Io, proseguiva la contessa, figurati se l'ho lasciata bollire e mal cuocere; però sull'atto gli ho dato i biglietti, e il cassiere mi ha restituito i tuoi pagherò dopo avermi fatto giurare per me e per te, sul nostro onore, il più assoluto silenzio sopra questa operazione, per non pregiudicare il credito della banca Boncompagni e C., e peggio il credito della banca a danno della quale erano stati falsificati i biglietti; promessa che di leggieri feci per me e per te, ed alla quale noi non mancheremo di certo. I tuoi pagherò, a scanso di fastidi, ho gittati sul fuoco. Adesso come piace a Dio non ci è più debiti in casa, non ci sta più sul collo il pericolo di vedere gettato ai cani quel po' di bene che ci resta. La cugina duchessa avere ricevuto consolazione da non potersi dire, dalle notizie che mano a mano le partecipava sul conto tuo; ti mette al quarto cielo, e se potesse ti metterebbe più in su: a tutti di te tiene proposito: ti tuffa pel ciuffo nelle lodi; e tanto si è data e si dà d'intorno, che ha persuaso il preclaro marchese di Cavedoni a consentire le nozze della sua figliuola Sofonisba con te: anzi l'altra sera ha parlato aperto, che se questo matrimonio si può fare, egli ti dà la sua figliuola non con una mano, ma con due. La [236] dote sarebbe di 500 mila franchi, e di giunta le speranze e due zie quasi decrepite ottimamente provviste e piuttosto sviscerate che benevole di Sofonisba. Questa poi propriamente un angiolo, capitato non si sa come sopra la terra e smarrito una sera nel tornarsene a casa sulla via del paradiso: giglio di purità educato dalle suore del Sacro Cuore: turibolo di oro, donde s'inalzavano senza posa al cielo profumi di virtù e di santità: quanto a bellezza, certo in lei avresti cercato invano quanto di allettatore e di lusinghiero si accoglie nel volto delle donne mondane, ma nelle sue sembianze, quanto più le contempli e più ti posi: talenti molti e positivi, non lampeggianti da abbarbagliarti gli occhi, bensì luminosi di una luce modesta da rischiararti nei più oscuri laberinti della vita. Aggiungi ancora che il marchese Cavedoni, essendo coll'attuale ministro Jolicari o Palicari, come si suol dire, due anime in un nocciolo, egli si faceva forte ottenere al suo genero di schianto la carica di segretario di Legazione. La duchessa si mostra tanto infervorita in questo negozio, che ha fatto cantare un triduo pel suo esito felice. Ora dunque, figlio mio, considera se ci sia verso di potere onoratamente dare seguito alla pratica, ammonendoti che dove anco tu avessi assunto impegni morali, quelli tu attenga. Non credo doverti rammentare come il precipuo dovere del gentiluomo consista appunto nella osservanza [237] delle promesse date; prima di darle bisogna pensarci due volte, ma ad eseguirle nè manco una. Tra l'orgoglio offeso delle nozze dispari e l'onore maculato non ha luogo scelta; ti desidero copioso di beni, ma più di onore. Capisco che non ti sarà agevole ritirarti dal passo che hai fatto, ma la via retta è la più piana; apriti con la giovane, e se veramente ella ti ama, potendolo col suo decoro, ella di gran cuore acconsentirà al tuo bene: imperciocchè quantunque sia amaro confessarlo a voi altri uomini, per cagione della vostra superbia, è un fatto che noi donne valiamo troppo più di voi, ecc., ecc.»

Eponina dalla lettura di questa lettera cavò tre conclusioni. 1ª Che se la signora Sofonisba non era gobba, sarebbe stato un miracolo. 2ª Che di finissimo acciaio era stata formata la contessa, ma la ruggine della vanità l'aveva rôsa più di mezza. 3ª Essere spediente consegnarla senza far dimora a Ludovico.

Gliela consegnò ella? Non gliela consegnò perchè dal detto al fatto passa sempre un gran tratto: anche l'anima più risoluta, sul punto di pigliare irrevocabilmente un partito, il quale di punto in bianco le scombussola costumanze, abiti di vita, reliquie di affetti e intenti, che un dì invasero tutto il suo essere, ondeggia, o piuttosto tenzona con violenza fra il sì e il no; — non gliela consegnò, [238] perchè, essendone stata distolta un giorno da continue distrazioni, un altro dall'esaltamento dell'esercizio musicale, un terzo e un quarto dai trionfi continui, si formò una settimana, dalla settimana il mese, e la cosa cascò nel dimenticatorio.

Ma quello che ciondola, all'ultimo ha da cascare, sicchè quando Eponina se lo aspettava meno, ecco venirle addosso una inopinata ventura; certo giorno che ella se ne stava seduta davanti al piano-forte, dando una ripassata a certe arie della Straniera, che ella si era impegnata a cantare quella medesima sera, la serva le presenta una carta da visita dov'ella lesse: «Contessa Anafesti nata Trittolemi.»

Le diede un tuffo il sangue e sentì rimescolarsi dal capo ai piedi; tutta tremante ordinava alla cameriera:

— Fate entrare la signora contessa nel salotto di rispetto; fra due minuti sarò da lei.

Corse nella sua camera, e subito si guardò allo specchio; ebbe paura della sua pallidezza: le labbra aveva pavonazze; il cuore le palpitava come se lì per lì stesse per ispezzarlesi; ella risoluta ci appose la mano destra e disse: chetati! Bevve un bicchier di acqua, scosse la testa e soggiunse: su, andiamo a recitare il quinto atto.

Come i capitani innanzi d'ingaggiare battaglia per via di segreti esploratori s'industriano riconoscersi, così queste due donne, con guardi obliqui [239] prima di aprire bocca tentarono scandagliarsi. Noi conosciamo di già Eponina; le sue sembianze e gli atti percossero forte la contessa, molto più che le forme della giovane, in grazia dello esercizio della sua professione, avevano assunto certo garbo di alterezza virile, che assai le si addiceva; e la nuova emozione animava al doppio i tratti del suo volto, già vivi anche troppo. La contessa poi era donna di forme grandiose ed abbastanza attempata; però, sebbene ella non curasse punto dissimulare i danni della età, da talune parti delle sue fattezze rimaste intatte, si poteva argomentare quale fosse stato un dì tutto l'insieme, come da poche colonne, o dal frammento di un architrave è dato giudicare quale, e quanta fosse la fabbrica caduta per terra: ma se la benevolenza ideò il sembiante della contessa, per certo non lo eseguì l'amore: contorni statuari, linee alquanto rigide; di ossatura potente; nella sveltezza del portamento poteva dirsi giovane: forse un dì anch'essa sarà stata vulcano, perchè tracce di cenere antica in lei se ne vedevano; anzi era proprio così; ma il dovere avendoci soffiato sopra con troppa veemenza, aveva con le passioni meno pure estinto le pure e le purissime: parlava a spizzico, sicchè, facendo sospettare che ella scegliesse prima quello che doveva tacersi e quello che doveva favellarsi, allontanava la confidenza altrui: ma i detti e le opere la faranno conoscere meglio da sè.

[240] Impertanto ella stese con gesto urbano la destra verso Eponina, mentre col braccio manco le abbracciava il collo accennando volerla baciare, ma Eponina nell'atto che corrispose alla stretta di mano, parve studiasse evitare di corrispondere al bacio, perchè, lasciando scorrere il viso in giù, accolse il bacio della contessa in fronte.

Così, dopo reiterate più volte le accoglienze oneste, la contessa favellò:

— Io mi era condotta qui, mia cara signora, nella speranza di trovare presso di voi il mio figliuolo Ludovico.

— Di fatto, quantunque più rado di una volta, il signor conte frequenta spesso in casa mia.

— Dunque non abitate insieme sotto il medesimo tetto?

— Ah! sì, rispose sorridendo Eponina, sotto il medesimo tetto abitiamo; solo il suo quartiere sta accanto al mio.

— Mi avevano assicurato.... e qui la contessa si mise a cercare che cosa dovesse aggiungere.

— E che cosa le hanno assicurato? Parli pure senza ritegno, nè tema ch'io abbia ad arrecarmene.

— Mi avevano supposto... mi avevano fatto credere.... che voi vivevate insieme, come marito e moglie.

— Signora contessa, io non so per lo appunto che cosa intenda il mondo, nè che cosa intenda [241] significare vostra signoria per marito e moglie: questo tuttavolta so, e mi giova farle sapere, che io non consentirei a vivere come moglie con uomo, il quale non fosse mio marito.

— Ma tra voi e il contino Ludovico non è corso un contratto di matrimonio?

— No.

— Una dichiarazione.... un obbligo.... un vincolo insomma che tiene legato l'uno all'altro?

— Oh! Ecco, trovandomi a Vienna ed occorrendomi per i miei interessi condurmi fin quassù a Pietroburgo, proposi al suo signor figliuolo di accompagnarmi; egli acconsentiva, non avendo nulla che lo trattenesse a Vienna: allora, per rendere decente per me ed anche per lui la sua compagnia, ci trovammo d'accordo di pigliare il passaporto in nome di ambedue, qualificandoci per marito e moglie.

— E avete presso di voi questo passaporto?

— Sissignora.

— E avreste difficoltà alcuna, mia cara figliuola, a farmelo vedere?

— Veruna: si compiaccia di rimanere sola per pochi momenti, che io lo vado a pigliare.

La contessa assentì col capo; Eponina andò in camera, donde in breve tornata col foglio, lo porse alla signora. La contessa, dopo averlo letto con molta attenzione, osservò:

[242] — E non vi sembra questo un obbligo in buona e perfetta regola?

— Io non l'ho mai reputato tale, nè credo ch'ei sia. La legge non mena buona che una forma sola; le altre non reggono, e noi non abbiamo praticato quanto prescrive il Codice civile per la validità di simili obbligazioni.

— Questo può darsi; ma non pertanto simile dichiarazione ingerisce meno un vincolo morale fra voi altri due.

— E mancando lo scritto, mi scusi, mia riverita signora, secondo il suo savio parere, verrebbe a mancare la obbligazione?

— Non dirò questo: solo ho voluto accennare che dalla soppressione di questo documento sarebbe dato desumere la mutata volontà delle parti.

— E a lei, signora contessa, premerebbe molto che cotesta carta rimanesse abolita? Mi parli chiaro.

— Potendolo fare con onore e con aggradimento delle parti interessate, sì....

— Ebbene, signora, io le ripeterò le parole che Napoleone I disse alla moglie del Governatore di Berlino, mentre ella, davanti al caminetto, teneva in mano le prove della fellonia del proprio marito, ch'egli stesso le aveva consegnato: — Gettatele sul fuoco coteste carte, ed io mi guarderò bene di accusarlo per paura di passare per calunniatore.

[243] — Figlia mia, rammentatevi che Napoleone poteva dirlo, imperciocchè cotesti documenti a lui solo appartenessero, ma il passaporto spetta soltanto a voi? Per una metà non ci ha diritto Ludovico?

— Non ci aveva pensato. Ella ha ragione; ma l'altra metà io posso dire mia?

— Sicuramente.

— Ebbene, signora, vorrebbe essermi cortese di rendermi il foglio?

La contessa glielo porse; allora Eponina, sorridendo, lo mise in due pezzi, uno dei quali gittò sul fuoco, e l'altro rese alla contessa dicendo:

— Io lo consegno a lei, mia signora, affinchè si compiaccia conservarlo pel conte suo figliuolo.

La contessa pei detti e pei fatti della giovane donna era rimasta a bocca aperta come persona trasecolata; in questa si apre l'uscio del salotto e prorompe dentro Ludovico, il quale a braccia aperte corre verso la madre, che lo aspetta a braccia aperte; gli amplessi della madre apparivano, sto per dire, feroci, smaniosi i baci; pianti, singhiozzi, strida e risa tutto un miscuglio; la nobil donna non rifiniva esclamare:

— O sangue mio, o figlio mio, sostegno della mia vecchiezza, speranza unica di casa mia, e così di seguito il mio nei suoi discorsi si udiva modulato in tutti i tuoni, — ci pigliava troppi più colori che non ha l'arco-baleno. Cotesta stemperata dimostrazione [244] di affetto aveva un non so che di famelico, che togliendole ogni aura di divino la rendeva turpe. Anche gli affetti di madre, meditava Eponina, avviticchiandosi stranamente sopra interessi materiali, possono scivolare giù per una scala di cui il primo piuolo è la indiscrezione, ultimo il delitto; così le perle, a quanto affermano i naturalisti, si generano da una malattia delle ostriche; e tu, avvenuta che sia questa confusione, pendi incerto a giudicare se il delitto rimanga irradiato dallo affetto, o piuttosto lo affetto s'intenebri dal delitto. Gli affetti appena messe le ali drizzano tutti il volo al paradiso; guai però se smarriscono la via! che taluni di loro si sono visti appollaiarsi sulla traversa della forca.

Sboglientita la fornace e ricondotti gli animi alla consueta tranquillità, la contessa raggiante di contentezza prese ad esporre a Ludovico, per filo e per segno, quanto la cugina duchessa aveva fatto per lui, e delle nozze imbastite, e della bontà suprema della damigella Sofonisba; della pingue dote, delle speranze, del casato illustre, e non tacque della aspettativa della carica, preludio ad uffici maggiori. La cara Eponina avere dichiarato spontanea nessun vincolo esserci fra loro, e quando mai ci fosse stato ella non esigerne lo adempimento: dunque possiamo tornarcene a casa col cuore lieto. Noi non abbiamo più debiti, i pagherò di quel malmignatto dello [245] Zinfi giudeo, arsi; arsi anco quelli posseduti dal Boncompagni: i buoni di banca falsi ritirati, e tutta accesa continuava: — O figliuolo mio! la tua costanza e la tua virtù ti hanno guadagnato i cuori di tutti; di me non parlo; ti basti che tua madre va altera di te. Comprendo che se la fortuna non era, tante belle cose tu non potevi fare; ma se la solerzia non tiene aperto l'uscio, la fortuna passa senza entrare mai in casa. Delle somme che tu mi spedisti io ho qui meco il conto, e vedrai come le furono erogate a tuo bell'agio.

Ludovico a cotesti discorsi restava come intontito; temeva essere preso a scherno; ma non si poteva persuadere che la madre amorosissima facesse di lui così atroce strazio, e poi dal fervore del dire e dai moti delle membra si conosceva chiaramente ch'ella favellava da senno; bensì non ardiva levare gli occhi verso Eponina, la quale pure teneva i suoi abbassati. La madre cagliava l'impeto e perdeva la tramontana; dopo lunga e affannosa dimora Ludovico con voce strozzata finalmente disse:

— O madre! O madre! Io non ho guadagnato nulla in virtù, nè in danari: tutto quanto attribuite a me è opera di Eponina.

— Orsù, questa interruppe, dopo avere, giusta il suo costume, scossa per lo indietro la testa, poichè mi trovo costretta a dire, è vero; dall'esercizio dell'arte [246] mia ho ricavato il modo di pagare i tuoi debiti; allorchè ti rifiutai i mille fiorini, e' fu per mandarli a Vienna al barone ebreo tuo creditore per debiti di gioco; gli altri danari rimisi tutti in tuo nome a tua madre, perchè riscattasse i tuoi pagherò dalle mani dell'altro giudeo Zinfi. Allorquando spedii a Milano tutti i 60 mila franchi avuti in conto della mia scritta, erano pel ritiro dei biglietti falsi, per la pace della tua povera madre; e tu, ricordalo, mi percotesti, il mio volto fu da te imbrattato del sangue mio; le mie braccia portano la impronta della tua brutalità. Io non ti tengo, va'; se il tuo cammino volge a destra, il mio sarà a sinistra; cesso guidarti: non ti aspettare impedimento da me: dove mai, nello incontro della tua vita con la mia tu avessi sofferto danno, parmi avertene compensato abbastanza: se sia riuscita a emendarti dei vizi, che a quest'ora ti avrebbero avvilito, non so; so che, se tu non ti conservassi onesto, tu uccideresti la madre tua, la quale, tu lo vedi, darebbe per te, non che la vita, l'anima.

Ludovico balenava per cadere e coprendosi gli occhi si lasciò andare sopra un divano. La contessa, tratta fuori di sè dalla maraviglia e dalla tenerezza, volle genuflettersi davanti Eponina, la quale a mezzo l'atto la sostenne e con robuste braccia la rilevò; allora le faccie loro incontraronsi e si baciarono; l'una stretta nelle braccia dell'altra confusero il [247] pianto. Appena la contessa potè ricuperare l'uso della parola, prese il figliuolo per un braccio, esclamando:

— Su, levati, Lodovico, e prostrati davanti a questo miracolo di donna: pregala... supplichiamola insieme, affinchè ella si degni accettarti per marito. Del passato, nè parola, nè memoria.... Vieni, mia diletta figliuola.... un altro abbraccio.... un altro poi.... O Dio! ti piaccia temperare alquanto l'allegrezza che mi opprime il cuore.... Eponina, tu mi rendi più che il figlio.... più della vita.... mi hai salvato il nome, la fama della mia casa.... Io ti giuro da gentildonna che sopra Dio, no, che sarebbe peccato, ma quanto Dio, tu sarai da me sempre reverita....

Eponina ecco si pone framezzo alla madre e al figliuolo; trema tutta: dagli occhi le prorompono scintille di passione e di genio; stupenda a un punto e terribile a vedersi; con voce velata, che a mano a mano diventò scoppiettante e poi strepitosa come folgore che i nuvoli scoscenda, disse:

— Uditemi con animo pacato; io ho da parlarvi parole che non movono già da senso di orgoglio offeso, nè da baldanza presuntuosa di me: io le ho librate nelle mie meditazioni notturne e diurne, con diligenza maggiore di quella dell'orafo, quando pesa le gioie nelle sue bilancie. Noi non possiamo intrecciare insieme la nostra vita, però che troppo sieno diverse le nostre nature, sicchè congiunte, [248] invece di aiutarsi si roderebbero: noi innocentemente c'ingannammo, quando abbiamo creduto avere col nostro affetto rattorta una corda da confidarci con sicurezza la nostra felicità, mentr'ella si spezzerebbe al maggiore uopo, mandando tutti in ruina. Signora contessa, di presente ella è nel suo entusiasmo sincera, ma crede forse che questo entusiasmo durerà in lei? Crede ella che la esaltazione, generata da una scossa passeggiera di fibre, valga a vincere sentimenti scesi come una somma aritmetica dalle nostre passioni, o se vuol meglio, le nostre passioni, figlie dei nostri sentimenti? Ah! io ho veduto l'entusiasmo; egli è vento che scaccia le nuvole, ma si rompe contro le vette dei colli. Ci basti poterci stimare: evitiamo con tutte le forze il caso di addivenire i nostri scambievoli carnefici. Veda, signora contessa, ella non lo susurra neanco a sè medesima, eppure vive in lei qualche cosa che, suo malgrado, avrebbe desiderato che Ludovico si perdesse piuttosto pei suoi vizi, che si salvasse per la virtù di una popolana. Questo pensiero si guarderà bene di affacciarsi sotto questa forma al suo spirito onesto, ma le si insinuerà nel cuore con sembiante di angiolo; tutti i serpenti quando vogliono tentare fanno così. Lei educarono a reputarsi, a sentirsi superiore al comune degli uomini, perchè nata di nobile prosapia; se io potessi vederle il cuore, ci leggerei com'ella non baratterebbe [249] le sue perle di contessa co' satelliti di Giove scoperti dal Galilei, nè la sua corona per la ghirlanda che ornò le tempie del Petrarca. Che posso io dirle contro questo sentimento oggimai parte del suo sangue, del suo cuore e del suo intelletto? Parole inani e talvolta, non senza ragione, attribuite ad astio plebeo. Non ci è dubbio, a pensarci su dobbiamo confessare che la maggiore offesa alla nobiltà gliel'ha fatta la monarchia, che, diventata mercantessa, ha riposto nel suo magazzino tagli di nobilea, come pezze di panno frustagno: i titoli si vendono a braccia; a vestire un furfante di barone bastano sei braccia, per un conte dodici, quindici pei marchesi, pei duchi venti. Se vi ha differenza fra la vendita della pannina e quella della nobilea, ella è questa una, che nella prima tu puoi accapigliarti con Abram giudeo per risparmiare sul prezzo, mentre nella seconda il prezzo è fisso. Ma tutto ciò non crolla i convincimenti di voialtri signori che, di natura di Mida, proprio nella vostra coscienza credete tutto quello il quale da voi si tocca diventi oro. Troppo spesso che non era da aspettarci, i nobili, almeno i moderni, si sono rivoltolati nelle sozzure plebee per pescar danaro; e se voi li aveste avvertiti della turpe sosta che facevano nel fango, vi avrebbero risposto: Dio ce ne guardi! Noi passiamo su questo moticcio in punta di piedi, onde giungere senza zacchere al [250] festino di Corte. Ella, signora contessa, mi piace dichiararlo, è quanta onestà vive nel mondo, eppure le godeva l'animo immaginarsi che Ludovico fosse il sostegno della mia esistenza, e me, non dirò erba parasita intorno la torre dall'avito castello, ma per lo meno vite appoggiata all'olmo altrui....; non seduttrice, ma neanco sedotta.... castellana, che avesse reso la rocca, compìta la resistenza a pelo, tanto per non offendere l'onore militare; ed ora che trova le parti del tutto invertite, per generosità della sua indole, non le duole, anzi ammira; ma una volontà, che chiamerò spontanea in lei, più forte della sua volontà ragionata, la induce a desiderare che la faccenda fosse andata diversamente. Ella è onesta, eppure, per naturale repugnanza contro me, ella si industriava a screditarmi agli occhi di Ludovico, insinuandogli come dalla conoscenza della mia famiglia e di me gli fossero derivati tutti i mali che pure non avevano origine da me, nè dai miei. Era giusto questo? Era gentile? Avevamo noi fomentato in lui il vizio del giuoco e la dissipazione? Noi, spinto a creare debiti che non avrebbe potuto pagare? Messo noi in mano agli strozzini? Avesse tolto o no danari in prestito da mio fratello, forse sussistevano meno il debito con l'ebreo Zinfi e le cause poco lodevoli che lo avevano partorito? Voi dite che mio fratello in prezzo delle sue obbligazioni gli pagò biglietti [251] falsi, ed è vero; ma ditemi, immaginaste neanco un momento che mio fratello potesse essere stato a posta sua tradito? Tutt'altro; pare che voi trovaste la vostra compiacenza a credere che cotesta falsità fosse opera delle sue mani; però non gliene faceste motto; però v'intoraste nella opinione che egli vi avrebbe negato ogni cosa; pensaste che la medesima difficoltà che incontraste a pagare lo Zinfi vi si parava contro per pagare mio fratello? Gli foste grati del non avervi mai chiesto interesse? Ovvero delle frequenti proroghe al pagamento? Sotto colore di generosità, voi ne cavaste motivo per calpestare promesse solenni. Voi lo vedeste, appena io ebbi notizia del fatto, ne scrissi ad Omobono, ed egli vi rese indietro subito le cambiali ripigliando i biglietti senza opporsi: dei tanti delusi prima di me, perchè io sola devo portare il danno? Permetta dunque, signora contessa, ch'io le renda il suo figliuolo in condizioni meno triste di quelle in cui egli si trovava quando mi capitò fra mano; se in tutte queste avventure ci hanno cose che la trafiggono come madre, pensi che non le ho fatte io, e come donna di alto sentire si consoli, confermandosi nel suo concetto che noialtre donne siamo migliori degli uomini.

La contessa si sentì come travolta da un vortice di piacere, di dolore, di esaltazione, di avvilimento, di verità opprimenti, di lusinghe, di obbrobrio, di [252] censura, di lode da non sapere proprio più dove darsi di capo: dentro di sè pensava: «Costei, per certo, ha da essere il diavolo in gonnella!»

Eponina, tutta avvampata in viso, guardando fiso negli occhi Ludovico, proruppe:

— E tu, povera creatura, che sei venuto a fare nella mia vita? Anche tu fossi stato un astro, dovevi aggirarti fuori della mia orbita, e solo ricambiarmi da lontano un saluto di luce, senza mai desiderare d'incontrarmi. Non avevi letto di Delia, che, innamoratasi del sole, perse la vista a contemplarlo? Ti ricordi di Semele che, presumendo guardare faccia a faccia Giove nella sua onnipotenza, rimase ridotta in cenere? — Il genio pari allo incendio dove passa brucia. Noi siamo anime sventurate, ma gloriose; a noi non fu concesso rendere felici noi ed altrui; il nostro còmpito sta nel fare noi ed altrui famosi. Anime battezzate col nafta, destinate a vivere la vita del fulmine; noi ci palesiamo in cielo e in terra con un geroglifico di fuoco, e scompariamo per sempre. Che cosa importa a noi durare poco, o molto? Tanto il secolo quanto il minuto sono attimi al cospetto della eternità: appena noi abbiamo presente, baleniamo e ci dileguiamo, e nondimanco lasciamo per tempo lunghissimo abbarbagliati i mortali di ammirazione o di odio. Voi altri poi siete ingollati dalla morte come dal boa, a singhiozzi: già da due terzi e più siete [253] entrati nel sepolcro, e agitate le mani con isforzi impotenti per vivere, e guaite come i bambini, imperciocchè voi non sapete trovare presso la tomba altro che i vagiti abbandonati nella culla. Noi, noi cogliamo la luce dagli astri, il profumo dai fiori, le brezze al mattino, la dolce aura alla sera, i colori alla terra, al cielo, al mare, alla levata ed al tramonto del sole; il più ardente sospiro allo amore, la più candida preghiera alla fede, la lacrima alla tenerezza, il bacio alle labbra della madre, il grido di cui combattendo per la patria si sente ferito nel cuore, i palpiti del vasto petto dei magnanimi, i gaudi della libertà, tutto quanto lo universo in sè comprende di bello e di sublime, e a modo di erbe dai sughi portentosi noi lo pestiamo, lo stilliamo, lo riduciamo in quintessenza, di cui una stilla sorbita basti a fulminarci di piacere. Forse non vi hanno veleni capaci di tanto? E se la natura possiede sostanze di tanta potenza nel male, perchè si sarebbe diseredata di altrettali sostanze potenti di bene? Ora tu, povera creatura, che hai fatto, e che faresti in seguito accanto a me? Ogni atomo della mia vita entrerà come una spina nella tua, i miei detti ti lacereranno, i miei gesti ti scotteranno: umiliato, sbigottito, sottosopra travolto, a te altro non rimarrebbe che scegliere fra le varie maniere della pazzia o stupida o furiosa. Va' e ara la tua felicità, perchè a tirare diritto un solco nella vita, [254] bisogna aggiogare bovi allo aratro, non aquile: queste tirano a volare in su, e si rifiniscono a battere le ali invano. — Ci siamo ingannati ambedue, ma la pena io porto sola. Diventa marito e padre: se ti manterrai onesto, sarà la sola mercede che io voglio pretendere da te: la onestà è un guanciale comune dove devono addormentarsi al sonno eterno i grandi come i pusilli. Tu non puoi imparare altra scienza oltre quella del ben morire; apprendila bene. Se dalle nozze ti verranno figlie, non imporre il mio nome a veruna di loro; potrebbe arrecarle sventura; e tu fa' in modo di dimenticarmi del tutto; io desidero che la mia memoria ti passi davanti allo spirito come un'ombra a mano a mano diafana quanto più si accosta l'alba, — e vanità al primo chiarore dell'aurora; te, la mia memoria turberebbe, e me, il sapermi ricordata non consolerebbe. Vivi; vivete: porgetemi entrambi la mano, e senza amarezza: addio!

La esaltazione e l'abito dei gesti teatrali, come già avvertimmo, avevano compartito alla bella persona tale un sembiante d'impero, che quanto sarebbe stato agevole deridere usciti fuori della sua presenza, altrettanto difficile non patire stando al suo cospetto. Madre e figlio si trovarono corti a parole: ed invero tutte quelle che si potevano dire erano state dette fra loro, senza risparmiarne pure una; anche coteste, che sarebbe stato prudente tacere.

[255] A faccia china, tenendosi per le mani, la contessa e Ludovico s'incamminarono verso la porta; dove essi lasciavano l'orma, metteva il piede Eponina; se tu li avessi visti ti avrebbero porto la immagine dei primi parenti, che la favola ebrea finge banditi dal paradiso terrestre dall'angiolo ministro dell'ira del Signore.

Eponina però, contrariamente al suo desiderio, non fu dimenticata; le parole sgraffi dolgono un pezzo. La contessa andava ripetendo sovente: — Se fosse stata una Montmorency, non avrebbe messo fuori tanta superbia. Ludovico poi rabbrividiva quando, pensando alle parole: povera creatura!, tremava gli fossero rimaste sopra la fronte come il marchio del falsario.

[257]

Capitolo XIII.
. . . . . . . . . . . . . . . .

Troppa legna sotto la caldaia; troppa passione nell'anima partoriscono il medesimo effetto; di vero la vampa eccessiva spinge il liquore spumante fino all'orlo del vaso, donde traboccando spenge il fuoco e lo scema. Certo Eponina poteva vantarsi di avere saettato cotesta povera creatura; il suo cuore balestrò l'ira compressa a modo di lava; si era vendicata; aveva fatto un mucchio di cenere intorno a sè; ma desolando altrui aveva consolato sè stessa? Ripensando sulle vicende della propria vita, sovente ella diceva: — Ecco, i miei giorni furono come archi tesi invano, il mio cuore, il mio nobile cuore mi si è screpolato dentro di me; simile all'orologio a polvere, che pittori e poeti pongono in mano al [258] tempo, consumandosi, non mi ha giovato ad altro che a misurare lo spazio che mi approssimi alla morte.

Infatti ella aveva spento troppo più che un amore: aveva svelto dall'anima sua la facoltà di amare; ed io fermamente credo che il verace amore, perduto che abbia una volta le penne, non ripiumi più; ed ora che l'alito di amore aveva cessato spirarle dintorno, le membra e lo spirito di lei languivano nella inerzia: non più il balenìo negli occhi, non più squillo nella voce; bella sempre, ma a modo della camelia, fiore senza odore. Lo stato in cui ella adesso si versava non ritraeva punto da quello deplorato dal Parini, voglio alludere alla miseria di persona dabbene, la quale invischiata dentro laido affetto, lo conosce, lo abbomina e tuttavia non sa districarsene; ella non si doleva già avere bandito Ludovico dalla sua vista e dal suo cuore, anzi anche avesse potuto non lo avrebbe richiamato; se le fosse venuto dintorno, ella daccapo gli avrebbe detto: — Fratello, passa per la tua strada, il mondo è largo per tutti. — Ma con terrore sentiva avere costruito il rogo alla facoltà di amare, e di avervi con le proprie mani appiccato il fuoco; e dal rogo non rinasce altri che la fenice. Ormai tutto le rincresce:

Che un'immagin di amor non vi si mesce;

e quando invoca la morte ella chiama: — Madre [259] mia. — In breve ella l'adornerà di tutte le bellezze con le quali l'amante scialacquatore inciela la sua innamorata, e si struggerà per lei. Ch'è mai la morte? Troppo meno che passar l'uscio di casa. Se Seneca sentenziò giusto allorchè disse: — vita beata esser quella che alla sicurezza accoppia perpetua tranquillità, — si comprende di leggeri che la morte è la vita, la vita la morte.

Affermano che anche la statua di granito di Mennone al raggio del sole crepitasse; qual meraviglia dunque che anco il russo Platow si sentisse preso dalla consuetudine del giocondo conversare con Eponina? — Importa sapere come cotesto signore possedesse, o a meglio dire fosse posseduto da tre vizi o peccati, secondochè ti piaccia chiamarli; era superbo, era bigotto, era furioso; superbo come un bojardo, bacchettone come un vecchio moscovita, stizzoso come un orso dei suoi paesi; le quali tre cose mi è piaciuto distinguere, per sospetto che il lettore non me ne facesse tutta una matassa. La superbia lo teneva per le falde affinchè non si lasciasse andare alla passione per femmina plebea, e di giunta cantante. La religione gli metteva davanti agli occhi, quattro volte al giorno ed altrettante la notte, Moisè in procinto di rompergli le tavole della legge sul capo, in causa di quel tale comandamento che si occupa della fede matrimoniale; la collera finalmente lo scombussolava col [260] martello che qualcheduno gli portasse via Eponina quando meno se l'aspettava. Certo egli aveva combattuto aspre battaglie per vincere la passione, ma la passione aveva vinto lui, come accade sempre in questa maniera di duelli, imperciocchè l'appassionato picchiando forte la passione ha paura di farsi male. Il suo rimedio per vincere ci sarebbe benissimo, e consiste in pane, acqua e legnate: i santi dicono che lo adoperassero con frutto; io l'ho veduto usare con gli asini, sostituendo paglia al pane, e attesto che fece loro la mano di Dio; ma i principi (rammentiamoci che il Platow era principe) con le mani proprie non pigliano questa medicina, ed altri non si attenta a ministrarla loro. Tuttavia bisogna confessare che egli quanto potè contrastò di forza, ma sì, avvenne al povero principe quello che suole accadere annualmente alla sua Neva natìa in primavera: veruno di quanti vedono la sua superficie gelata si accorge che l'acqua corrente per di sotto assottiglia più e più sempre la crosta, finchè di un tratto il ghiaccio si rompe, e i suoi frammenti mescolati con l'acqua corrono insieme rapidissimi al mare.

Dall'ammirazione il principe passò alla venerazione, dalla venerazione all'adorazione, insomma per tutto il crescendo della sinfonia del diavolo; però, strano a dirsi, avendo egli affidato a diversi sentimenti del suo corpo la incumbenza di palesare [261] l'amor suo ad Eponina, veruno volle torne lo incarico. La voce ci si rifiutò recisamente; e gli occhi traverso le lenti (il principe costumava portare occhiali) non paiono per ordinario buoni conduttori di calorico amoroso: i vetri possono fare ottima prova per accendere l'esca, non già i cuori: finalmente, non sapendo il povero principe che pesci pigliare, argomentò modellarsi sopra parecchi quadri da lui ammirati in Francia ed in Italia, dove pittori valorosissimi dipinsero i ritratti di personaggi illustri genuflessi ai piedi delle Madonne, o dei Santi protettori. Basti rammentare per tutti il voto di Luigi XII dipinto dall'Ingres ed inciso dal Calamatta. Impertanto, mentre Eponina se ne stava un dì seduta al suo pianoforte, il principe, cheto cheto, le s'inginocchia dietro la sedia a mani giunte, col naso insinuato fra mezzo queste, a guisa di segno dentro le pagine di un libro, e gli occhi chiusi in atto di devota meditazione.

Vi chiedo licenza di buttarvi là in quattro schizzi il bozzetto di questo russo dabbene. Comincio coll'avvertirvi che per russo poteva sostenersi bell'uomo; una maniera di Apollo tagliato coll'ascia dai Druidi; portava occhiali, e l'ho già detto, ora aggiungo ch'egli erano di oro, i quali intorno alle sue tempie parevano una corona; le tempie poi comparivano di un bel colore di terra cotta, sicchè unendo la terra cotta con quelli occhiali d'oro tu [262] acquistavi precisa la idea di un tegame incoronato da re. E poichè il dabbene principe aveva sofferto travagli da cani nelle guerre del Caucaso per la gloria del suo imperatore e pel bene della umanità, egli aveva guadagnato in ciondoli quasi quanto aveva perduto in capelli, ond'egli, comecchè con gli anni della sua vita si trovasse poco sopra lo equinozio, pure era costretto ad usare in parte una parrucca di capelli sauri, colore ordinario agli uomini del settentrione e agli sparvieri: grandissima importanza costui metteva a fare sì che veruno penetrasse questo segreto di Stato: infinita la diligenza a tenersela accomodata, la qual cosa contribuiva a darla a scoprire anco ai meno osservatori; frequenti e chiazzate ora di preghiere, ora di minaccie le raccomandazioni al barbiere di nascondere l'atroce caso ad ogni uomo, e questo pure aveva più che tutto altro contribuito a propalarlo al popolo, al comune e al contado: anche dei denti aveva perduto parecchi, e i surrogati gli comparivano in bocca come i deputati italiani sopra i seggi della destra ministeriale — legati in oro. Nel formargli il volto la natura, per via di eccezione, mise da parte il pomello della gola rilevato, che tanto piacevolmente agguaglia la faccia del russo genuino con quella del cane da macellaio, e si tenne alla forma sferica; pareva avesse preso gara con Giotto a condurre un O; rotondo il [263] contorno del sembiante, rotondo il mento, tondi gli occhi sporgenti in fuori; anco il naso foggiato a mezzo cerchio rivolto in su, in atto di pilota che sul cassero della galera mira le stelle per ispeculare il cammino.

Non solo donne gioconde, bensì uomini sodi, a contemplare cotesto cristiano, concio a cotesto modo, avrebbero rotto in risate; non già Eponina, esperta che nelle grandi passioni tutto ciò che spetta al fisico come al morale può riuscire o stupendo, o terribile, o pietoso, — ridicolo mai: e però pensando quanta violenza di fato doveva avere condotto costui al fiero passo, ne trasse argomento di spaventarsi, onde levatasi e scansatasi alquanto, con mite suono di voce favellò:

— Signor principe, che fate mai?

— Che faccio? — questi rispose senza muoversi: — io prego.

— O che a sorte mi avreste voi scambiato con la Panagia?[34]

— Non vi ho scambiato: siete; però, Eponina, non mi sturbate, vi prego, lasciatemi pregare.

Ma non durò un pezzo in quella corrente d'idee, che, all'improvviso sorgendo, afferra la sedia dove poc'anzi Eponina sedeva, e branditala a guisa di spada parve che attendesse con quella a scacciare [264] verso terra la sua passione, che aveva levato troppo in alto il volo, aggiungendo:

— Eponina, io vi amo, e voglio e posso amarvi; che cosa trovereste voi da opporci?

— Oppongo, signore, non essere affatto generoso tenere simili propositi a fanciulla sola, priva di protettori.

— Come! Credete voi che io vi possa oltraggiare? Pensate davvero che abbia avuto intenzione di mancarvi di ossequio? Questo non fu nè sarà. Oh! perdonatemi; se mi negate il perdono mi brucerò il cervello.

— Lasciamo, di grazia, il cervello al suo posto, e non entriamo neanche sopra la intenzione, ma egli è sicuro che voi non mi avreste tenuto siffatto discorso, se mi aveste trovata al fianco della mia genitrice.

— Io?...

— Sì, voi; e voi avete pensato potermelo fare perchè.... perchè.... ve l'ho a dire? Perchè vi sono parsa vivanda avanzata alla mensa di un altro.

— Orrore!

— Ed io, principe, sappiate, per mercè di Dio e la mia volontà, mi sento tale e sono da non ricevere dichiarazioni di amore se non per mezzo di mia madre.

— Ma, signora Eponina, o che cosa vi ho chiesto io? Nulla dalla parte vostra. A me basta che vi [265] lasciate amare. Voi avete rammentato la Panagia; bene; forse si è mai sentito dire che questa abbia dato di un calcio nella faccia al suo devoto, che le stava inginocchiato ai piedi?

— Via, via, principe, noi siamo in età da sapere che l'amore stampa tutte le sue grammatiche a casa del diavolo. Platone e Petrarca hanno perduto più anime che tutti i romanzi francesi. Non crediate, che credereste male, il corpo starsi in potestà dell'anima, come Calibano in quella di Prospero; all'opposto Calibano si tira dietro la meschinella Psiche, a mo' che il fanciullo costuma l'uccelletto legato per una zampa. Amore, se pure può vincersi, si vince in una maniera sola, fuggendo.

— Ebbene, soggiunse gravemente il principe, quando mi accorgerò che l'amore pigli troppo a riscaldarmi, io me ne andrò a visitare le mie miniere in Siberia, e non ritornerò se prima non mi senta rinfrescato.

Eponina non si potè astenere da far bocca da ridere, e piacevolmente interrogò:

— Ma io, che sono italiana, dove mai mi ricovererò? Nel mio paese, in terra, in mare, sui monti, nelle pianure tutto avvampa; fuoco nel Vesuvio, fuoco a Stromboli, nel Mongibello fuoco.

— Diavolo! Non ci aveva pensato: allora andate a Torino; esponete la vostra faccia alla brezza che spira dalle Alpi, e vi sentirete rinfrescata.

[266] — Peggio che mai; sarebbe un pigliare il male per medicina. O non vi giunse all'orecchio che giusto a piè delle Alpi seppero da un pezzo in qua instituire i semenzai più copiosi di fiori e di amori?

— Ma dunque il clima nulla può sul sangue?

— Sul sangue sì, ma sopra la passione no. E poi, venite qua, principe, e siamo di buon conto; voi che fate professione di uomo religioso, potete insegnarmi come il peccato non istia solo nell'atto, bensì ancora nel pensiero; qui il nostro Redentore parla chiaro; nè avvocati, nè preti varranno a storcere il senso delle sue parole: «Chiunque riguarda una donna per appetirla già ha commesso adulterio con lei nel suo cuore».

— L'Apostolo si è spiegato male; tutti gli altri vangeli danno ad intendere trattarsi di donna moglie ad altri; ma voi siete libera.

— Certo sì, ma siete voi, principe, che avete moglie.

— Sì, ma un cancro di minuto in minuto me ne mangia un pezzo. I medici l'hanno sfidata; se tira innanzi un mese sarà un miracolo.

— E perciò appunto voi dovete temere di commettere, più che peccato, sacrilegio, sottraendo adesso un atomo, un filo, un fiato del vostro amore a cotesta sventurata. Nel passo tremendo a cui si avvicina, ella abbisogna sentirsi sostenuta da tutto l'affetto del suo consorte; sarebbe carità fiorita [267] raddoppiare nella sua anima la fede che durerà immortale il ricordo di lei nel cuore dello sposo; che innaffiati dalle lacrime vedovili cresceranno perenni i fiori sopra la sua tomba. Principe! Avete mai pensato alla spada che la trafiggerebbe, se venisse a sospettare che voi non l'amate più, peggio, che voi ne amate un'altra? Morirebbe disperata; e voi ed io saremmo forse colpa della sua eterna dannazione. Vostra moglie, mi afferma il grido pubblico, santissima donna ed a voi attaccata con tutte le viscere. Sarebbe questo il guiderdone che voi le serbate per tanto amore? E quando? Quando la morte ci ha fatto il segno, come su cosa che abbia di già acquistata. E in che occasione? Allorchè ella posa il suo ultimo sguardo sopra l'amato volto, per quinci desumere forza e coraggio di levarlo per sempre in paradiso.

Il principe sudava per la pena; non sapeva andare innanzi nè indietro, come il cavallo che patisce di restìo, non si muove neppure se gli accendono una fascina sotto la pancia; nè Eponina si sentiva meno sopra le spine non potendo indovinare come la sarebbe ita a finire; quando la fortuna le porse inopinatamente il destro di cavarsi da cotesto pelago. Il principe nella confusione della sua mente, come uomo che si attacchi alle funi del cielo, di un tratto mi usciva fuori in queste sciagurate parole:

[268] — Orsù, Eponina, sentite: dacchè così volete, io cesserò vedervi... io sospenderò di amarvi... ma ad un patto... che voi vi leghiate con giuramento meco, di sposarmi quando piacerà a Dio chiamare a sè la signora principessa mia consorte.

E non ci è rimedio; neppure il senatore Casati se ci pensava un mese avrebbe saputo accozzare tanti spropositi, quanti costui ne mise insieme in un minuto.

Eponina riscotendosi si trova presso l'uscio della stanza; allungato il braccio agguanta la maniglia, e voltasi al principe con voce alterata gli favellò:

— Dunque sono io tal donna da non potere diventare moglie di un uomo, se prima non figuro scheletro a piè di un catafalco? Amore egregio davvero quello del principe Platow, il quale non sa offrire per talamo che un cataletto!

E aperto l'uscio, scomparve.

Eponina, pensando ai casi suoi, considerò come il partito che le rimaneva migliore stesse nel partirsi da Pietroburgo più presto che le fosse stato possibile; molto più che oggimai veruna causa la trattenesse in cotesta città; però le si fece sentire il bisogno di adoperare straordinaria cautela, chè la passione del principe le parve pur troppo di quelle che stanno a un pelo per diventare frenesie, al quale effetto, deliberata di valersi dell'opera della sua cameriera russa, serva affrancata di sulle terre [269] dello imperatore, giovane svelta da levare il pel per l'aria, ed a quanto pareva devotissima a lei; si restrinse con essa, e prima di aprirsele, per iscoprire marina, la interrogò se si sarebbe maritata volentieri con Yanni, maestro di casa, in cui Eponina avendo posto confidenza grande viveva sicura, che l'avrebbe seguitata in qualunque parte le fosse piaciuto condursi. Katinka, che tale avea nome la cameriera, rispose subito a faccia tosta di no; onde Eponina, contrariata, ebbe a dire: sono uscita di casa col piè sinistro. Bisognò pertanto andare in traccia di altro ripiego, senonchè mentre stava cercandolo, ecco che le venne fatto di scoprire che Yanni e Katinka di pienissimo accordo avevano camminato nel medesimo veicolo, più miglia verso il paese del santo matrimonio, che a lei non sarebbe piaciuto conoscere; di che assai s'impermalì, e fece alla cameriera una ramanzina da levarle il pelo; ma la Katinka tutta umile si scusava col dire, lei avere dubitato che le interrogazioni della signora fossero per tastare il terreno, e chiarito il dubbio avrebbe dato il puleggio all'una o all'altro e forse a tutti e due, non garbando ordinariamente ai padroni tenere per casa marito e moglie. Non parve questa buona ragione ad Eponina, sostenendo ella che la giovane con lei doveva venirsene liscia; dopo tante dimostrazioni di affetto meritarsi schiettezza fraterna (come se il proverbio mancasse di avvertire, che [270] amore di fratelli è amore di coltelli), e la presente furberia male confarsi con la ingenuità mostrata per lo innanzi: ai quali rimproveri la Katinka rispose breve con una sentenza, che Eponina ebbe cura di notare nelle sue effemeridi: «Signora, io sono serva affrancata, ed ella lo sa. Ora i padroni ben possono liberare da un punto all'altro i servi dalla catena del servaggio, non possono dai vizi di quello: la servitù fa all'anima il medesimo effetto del nero nel corpo; anche dopo tre o quattro generazioni di neri con bianche, o di bianchi con nere, il nero si distingue sempre. La finzione è l'unica arme difensiva che il servo possa adoperare contro il suo signore.»

Meglio che registrarla nel taccuino, bisognava riporsela nella mente; ma ciò non fece Eponina, e non ne trasse profitto, perchè la superbia persuade facilmente la creatura umana che incontrando la regola questa debba scansarsi con una eccezione per lasciarle libero il passo; e questo è scoglio dove rompono spesso i più perspicaci intelletti.

Pertanto fu stabilito che si sarieno fatti gli apparecchi pel viaggio colla massima segretezza. Yanni e Katinka avrebbero messo in isquadra il loro connubio con l'aiuto del papasso, continuando nel servizio presso Eponina: la mobiglia fu venduta alla rinfusa, ed anco per questa volta bisognò ricorrere all'ebreo Anania, il quale avendo subodorato il negozio, [271] fece in un dì le sue vendette della ingiuria patita allorchè ebbe a pagare un terzo solo meno le gioie del monile donato dalla imperatrice ad Eponina.

Però giova procedere giusti con tutti; quando l'ebreo compra a taccio, se non si contenta neppure avere la roba a mezza gamba, quasi lo scuso, imperciocchè vecchio, io osservai nella sua bottega oggetti che ci vidi da giovane: limbi di rigattiere privi di speranza di redenzione.

Yanni si raccomandava a mani giunte e poneva ogni sua diligenza ad osservare il mistero; perchè se il principe avesse preso fumo della cosa, guai a tutti, massime a lui. Se alla signora talentasse conoscere di che il principe fosse capace nel male, lo argomentasse dal modo col quale egli talvolta praticava il bene: trovandosi governatore in Tartaria, preso dal santo desiderio di guadagnare anime al Signore, propose a certa tribù di tartari ridursi alla fede di Cristo, e poichè costoro tentennavano, ei li fece pigliare dai suoi dragoni, spogliare, legnare, e così ignudi e bastonati scaraventare nel fiume Tehoulima; il prete intanto recitava la formola del sacramento del battesimo, e così uscirono dalle acque battendo i denti e cristiani. Il principe raggiante di giubilo si fregava le mani, esclamando: «Non ci è verso, bisogna mandarli in paradiso coi dragoni!» Difatti ce ne mandò parecchi, ma oltre [272] i dragoni ci adoperò l'acquavite, perchè, avendone fatta ministrare loro un boccale a testa onde celebrassero tanta solennità, tra il quarto ed il quinto dì la maggior parte basiva per infiammazione. Di questa razza benefattori della umanità ce ne nasce in Russia. Ed invero il principe, il quale non era ricco di partiti, si limava in questo frattempo a cercare modo di assettare il suo amore, ma più ci pensava e meno ne trovava il bandolo, dove non si risolvesse a rapire Eponina e trasportarla in qualche suo remoto castello, quivi battezzarla coi dragoni. Il russo tornava a galla! Ma lo tratteneva la considerazione che queste imprese anche in Russia non costumavano più, dove anche in Corte dopo lo esempio della imperatrice Caterina in fatto di morale si procede in punta di piedi: il principe della morte ne avrebbe fatto caso quanto di un bicchiere di cognac, ma vedersi cancellato dalla lista dei ciambellani di S. M. era supplizio tale, ch'egli non valeva a sopportare nè anche in immaginazione.

Mentre il povero principe si tribolava nel martirio che gli innamorati hanno comune con S. Lorenzo, ecco farglisi contro un servo e dirgli che la principessa sua consorte mandava per esso, ed egli andò; entrato in camera la inferma gli disse: avere ricevuto or ora le lettere dalla posta, e fra queste una che ne chiudeva un'altra per lui, con preghiera [273] di consegnargliela in proprie mani; cosa ch'ella faceva; ed in così dire gliela porse.

Al principe diede un tuffo il sangue, e come presago di qualche malanno si trasse nel vano di una finestra, dove aperta la lettera lesse:


«Signore!

«Mirate bene chi vi porge la lettera e poi mirate chi ve la manda, e comprenderete inutile ogni altra parola, salvo la preghiera che vi faccio, di scordarvi di me: riunite con tutte le potenze dell'anima i vostri affetti sopra la moribonda, per renderle, se è possibile, lieta, o almeno non trista l'aurora che sta per incominciare la sua giornata immortale.

«Eponina.»


Il principe si ridusse a balzelloni nella sua camera, dove postosi a meditare sopra l'atrocissimo caso, tanto dolore lo vinse che cadde a terra percosso da accidente di gocciola; non morì, chè solleciti rimedi e gagliardi lo riscattarono dalle granfie della morte; non tutto però; gli rimase la bocca storta, il braccio manco penzoloni: anco il piè sinistro strascinava malamente per terra: risensato, seppe la moglie morta, Eponina sparita: a queste notizie buttò giù la faccia sul petto, grugnì e parve sprofondare nella demenza.

Eponina con i suoi servitori, camminando come [274] costuma la volpe quando vuol mettere i cani fuori di traccia, dopo molti andirivieni giunse per ultimo nella Svizzera.

Chi dice male della Svizzera ha torto marcio; per me la giudico uno dei più bei paesi di questo mondo; ci si respira l'aria di libertà, un po' fredda, ma pura; ci si trova di tutto: latte, amor del prossimo, ospitalità e formaggio e carne in copia, veramente tutto un po' caro, ma di prima qualità, massime la carne.

Eponina si ridusse a vivere, quanto meglio potè di celato, in certo paesello prossimo ad un lago: piace del paese e del lago tacere i nomi: e neanco lì parendole stare abbastanza nascosta, cercò e rinvenne una deliziosa villetta posta a breve distanza dal villaggio a ridosso di un monte dove appariva incassata come perla dentro un anello. Senza che ella se ne pigliasse cura primi ad ammobiliargliela furono gli oscuri rammarichi del passato ed i non meno foschi presentimenti dell'avvenire; si adattò ad infinite privazioni di cose che sul principio sembravano più necessarie del necessario, ma che il bisogno mette poi al suo posto, senza paura di errare. Al difetto del pianoforte supplì con un violino, essendo suonatrice stupenda anche di questo strumento: un pezzo si svagò col pensiero che si trovava divisa dall'Italia, da casa sua, mediante sottilissima parete (veramente ci voleva [275] tutta la immaginazione di un artista per supporre un'alpe una parete, e per di più sottile) e quindi godeva della contentezza di coloro, i quali non potendo vedere la faccia dei propri parenti pure ne odono i passi e la voce; e poichè la sua fantasia spiegava le ali largo davvero, nè ella attendeva a temperarne il volo, così delirando accosta il seno a qualche rupe e si consola nella idea di sentire traverso a quella palpitare il cuore d'Italia sul suo.

Ma amore è nudrimento dell'anima, in molta parte non diverso dal cibo corporale; così ve ne ha di quello che, sempre uguale e poco, basta a saziarci, altro variato ed in abbondanza, aggrava e non approda; però Eponina, priva del primo, incominciava ad annoiarsi, ma al maggiore uopo la sovvenne la ventura parandole davanti, in cotesta solitudine, una fanciulletta di nove o dieci anni, vispa e lieta nella sua miseria come una lodola mattutina; di vero ella errava pel mondo campando la sua vita come gli uccelli, col canto: per verità ella si accompagnava coll'organino, cosa che agli uccelli io non ho veduto fare; ma questo piuttosto le noceva che giovava, imperciocchè per ordinario chi la stava a udire le chiedeva cessasse per l'amore di Dio il suono, e con la voce sola finisse la canzone. Eponina, pari alla rondine, la quale, per farsi meno disagiato il nido, ogni piuma raccatta, si tolse in casa la fanciullina e ce la tenne un giorno, poi [276] dieci e poi sempre, tanto le piacque per la sua gentile leggiadria, e più per la facilità con la quale apprendeva ogni atto di educazione donnesca: leggere e scrivere già sapeva di avanzo: in breve conobbe la musica; imparò a suonare il violino; sempre linda, nelle vesti attillata; e sempre gioconda e festosa; insomma una cara creatura. La sua storia breve e poco svariata, tutta un affanno: si chiamava Natalizia perchè i suoi genitori, e certo la mamma, la notte di Ceppo la espose novellamente nata sul lastrico di Milano, forse per regalo del Natale che le mamme costumano co' figliuoli; una donna vedova, senza figli e povera, la rinvenne, la prese e la tirò innanzi alla meglio: giunta ad otto anni, la vecchia essendo assicurata che ella aveva voce soave, le permise andare pei caffè a guadagnarsi la vita, dove la udivano molto volentieri, ma ne cavava poco costrutto; quando un suonatore vecchio le propose di andarsene con lui per le Asie e per le Americhe fino a Madrid; ed ella che era vaga di girare pel mondo, disse: «Magari!» E tenutone proposito con la vecchia, questa glielo assentì a patto che tornasse presto. A questo modo camminarono attorno per terre e per villaggi; egli suonando da svegliare i morti prima del giudizio finale; ella medicando col canto gli squarci ch'ei faceva negli orecchi altrui e guadagnando i quattrini, ed egli pigliandoseli e facendole le male spese; e fin lì pazienza! Ma un [277] giorno egli la volle picchiare, ed ella, non trovandosi altro da vicino, gli frombolò mezzo pane, che teneva sotto il braccio, nella testa e scappò via, piantando il vecchio ghiottone che campava alle sue spalle e le lesinava il vivere; si mise sola pel mondo e girò, girò stentando, finchè non capitava alla casa dalla sua cara mammina e con lei voleva vivere e morire, ma le coceva di sapere che ne fosse dell'altra mamma da lei lasciata a Milano, la quale, vedendola tanto tardare, per certo stava in pensiero; e poi, o vivere lì, o in Milano tornava lo stesso? Natalizia non passava dì che con questi od altri simili discorsi non facesse divampare nella Eponina più intenso il desiderio di tornarsene in grembo alla propria famiglia; e perchè non ci si sarebbe presentata con fiducia? Passi dei quali doveva pentirsi ne aveva fatti anche troppi, ma da arrossire, veruno: e se per sorte l'avessero reietta, ella, consolandosi di non avere meritato tanto rigore, avrebbe provveduto ai casi suoi, ritraendo dall'esercizio della propria professione il modo di vivere.

I romanzieri, quando si mettono a frugare nel cuore umano, procedono nella stessa maniera dei filosofi moralisti, non mica con norma sicura, bensì a tastoni, per via di congetture, e però certi di cercare con coscienza, non già di trovare con certezza; per la qual cosa, tirando ad indovinare, dico probabile che l'amore di Eponina verso Natalizia [278] accendesse nei cuori di Yanni e di Katinka la prima favilla di astio, la crescesse la paura che Eponina rimpatriasse, peggio poi che si restituisse coi suoi e così li licenziasse; che se anche, conservandoli al proprio servizio, dovesse cessare il quotidiano saccheggio da loro esercitato sopra le cose della padrona, non sarebbe stato meno grave lo stroppio.

Yanni e Katinka, ormai legati coi vincoli del santo matrimonio, passavano la più parte della notte in letto supini ad abbacare se anche a loro convenisse tornarsene a casa: veramente i baci gelidi dell'aria natia capaci a incancrenire il naso degli abitanti, non li allettavano; braccia tese di amanti congiunti verso loro, da coteste parti non vedevano, o se le vedevano erano per votare tasche e per rubare valigie. In tutte le parti del mondo spesso, in Russia sempre, padri, madri e parenti in linea discendente o trasversale, sino alla quarta, o alla quinta generazione, per pigliare darebbero il cuore.

— Tu sai, cara mia... diceva il marito.

— Tu sai, diletto mio... rispondeva la moglie.

E qui si abbracciavano stretti e ad una voce finivano:... che da vivere noi non abbiamo.

E nei geniali ragionamenti continuando, toccavano della poca capacità loro e più della niuna volontà che avevano di lavorare.

— Quando ci vada in poppa, ci toccherà un benservito [279] scritto in carta velina, un paio di mesi di salario e se vuoi anche una fra le tante arie che canta la signora: Ti lascio al ben che adoro; ovvero: Separiamci da forti e non si pianga.

— Dunque, che cosa stilliamo?

La idea del furto si affacciò dapprima come un fuoco fatuo sopra l'orizzonte estremo di cotesti due crani; poi ci ricomparve più insistente; prese forma, prese colore; che più? all'ultimo prese l'aspetto di spiegazione del vangelo, predicato da un prete: cosacco, diceva la predica, propriamente significa ladro, e ciò sta ad attestare come il russo per naturale propensione tenda al furto. Dio ci ha fatto, non noi; noi dobbiamo e possiamo combattere gli istinti di natura e incamminarci per quanto ci è dato sopra il sentiero della perfezione: ora per mantenerci onesti ci vogliono quattrini; di qui la necessità di rubare un'ora per durare onesti tutto il tempo della nostra vita.

Ragionavano giusto come Dante operò: intendevano passare dall'inferno per andare in paradiso.

Un concetto gittato nella corrente del pensiero è pari ad un tronco caduto in balìa del fiume: entrambi devono per necessità giungere al fine; quello col traboccare nell'azione, e quest'altro nel mare; però i nostri coniugi nel colmo di una notte entrano chetamente nella camera dove dorme Eponina, [280] aprono con precauzione canterale e armadio, pigliano a cavarne il buono e il meglio in gemme, in orerie, con tale disinvoltura che non pareva fatto loro, e siccome fossero entrambi religiosi, così volendo pigliare con coscienza, prima di appropriarsi un oggetto formulavano un attesochè, come costumano i giudici, anzi, più scrupolosi di questi, però che essi pongano le ragioni del giudicato solo innanzi alla parte dispositiva della sentenza, mentre essi le ponevano prima e dopo: — Tanto ella non ha bisogno; — e finivano: — e noi necessità estrema. — Tanto ella con quattro trilli se li rifà più belli; — e finivano: — e noi neanco spaccassimo legna fino alla consumazione dei secoli; aggiungevano dopo: — e a pensarci su, si può quasimente sostenere che la è roba nostra, avendola ella raccattata in Russia, e riportandocela non sarebbe fuori di luogo vantarci che adempiamo a una regola di buona economia e al debito di amor patrio. Quando i nostri artisti calmucchi inonderanno i teatri d'Italia, gli italiani si vendicheranno negando a loro gemme e ghirlande. Si vendichino pure! Noi ci stiamo; così le borse non impoveriranno e la morale ci guadagnerà...

O che credono i nostri professori di comunismo possedere eglino soli il privilegio di ragionare il furto? Anche i cosacchi lo sanno fare, e se avessero perizia di mettere in carta, essi ci comporrebbero [281] libri, di petto ai quali quelli di Proudhon sarieno giudicati conservatori.

Però, quantunque i nostri coniugi in coteste loro lucubrazioni ponessero garbo infinito, tanto non poterono procedere cauti che non movessero rumore da svegliare Eponina, la quale sollevando il capo interrogò:

— O che fate costì a quest'ora? Perchè senza che io vi chiamassi mi siete entrati in camera?

Katinka. Oh! ecco; la signora si lamentava tanto nel sonno, che abbiamo ruzzolato il letto per correre ad aiutarla.

Eponina. O che credevate mi fossi addormentata nel canterale?

Yanni. No, signora; cercavamo biancheria fine per servizio di vostra signoria illustrissima.

Eponina. Ma nel canterale non ci stanno le biancherie, e voi lo dovreste sapere, Yanni; ad ogni modo lo sa Katinka.

Katinka. Dice bene la signora, ma, rimescolata come sono, non ho avuto capo ad avvertirglielo.

Qui Eponina perse la pazienza e con suono risentito disse loro:

— Sciagurati! Bugiardi! Voi rubavate... uscite subito di casa mia.

E fino a questo punto poteva andare; ci sarebbe stato quasi da scommettere che i coniugi avrebbero spulezzato mogi mogi, e in cotesta medesima notte [282] preso il volo per altre contrade; ma no, la smania dello stravincere pose sempre mai a repentaglio la vittoria, e questo insegna eziandio il Machiavelli, ond'è che Eponina tutta accesa di collera aggiunse:

— Andate; domani farà giorno, e voi, furfante, renderete ragione del vostro operato davanti al tribunale.

Mala ispirazione fu quella; e sì che Eponina doveva ricordarsi la fine miserabile toccata al Winkelmann, trafitto proditoriamente dal servo assassino, per derubarlo dei suoi tesori.

I coniugi allora si avviarono di conserva verso il letto: su quello che fossero per fare non erano ben chiari; si presentava alla mente loro, a modo di embrione, il quale però stava in procinto di pigliare forma determinata dalla necessità di condurre, ormai che lo avevano incominciato, a compimento il furto e di godersi in pace la roba rubata; ma Eponina avendo scorto cotesti due ribaldi ricambiarsi con gli occhi una di quelle faville che schizzano proprio da un tizzo di casa del diavolo, capì dove sarebbero iti a cascare, anche prima ch'essi ci pensassero; onde non le parve più tempo di gingillarsela e, con la manca frugato sotto il capezzale, ne trasse fuori una rivoltella che subito spianò contro Yanni. Sua sventura volle che Yanni si fosse accostato troppo, sicchè questi, allungata la gamba e steso il braccio, agguantò la mano di [283] Eponina, strappandole con forza irresistibile la pistola; non per questo sbigottì Eponina che animosa con la destra cerca e trova sotto il guanciale il pugnaletto, a lei carissima galanteria, come quello ch'era dono del suo miglior fratello Curio, che aveva per manico le figurine di Amore e di Psiche vagamente intrecciate. Curio nel darglielo le aveva detto sorridendo: «Con questo un giorno ammazzerai qualcheduno.» Katinka non meno svelta di Yanni afferrò Eponina; nel tira tira cadde il fodero, e la serva venne a trovarsi ignudo il pugnaletto in mano, che senza esitare appuntò nella fossetta che fa la clavicola alla radice del collo ad Eponina.

Yanni urlò: Forte! — Ed Eponina: — Ah! scellerata!

Spruzzò il sangue negli occhi e sulla bocca di Katinka: costei rabbrividita dal sapore del sangue e cieca, lasciava il ferro nella ferita e tremante come per paralisia si appigliava con ambedue le mani alla colonna del letto per non istramazzare.

— Katinka, presto, scappiamo! susurrò Yanni.

— Sì, sì, fuggiamo, acconsentiva premurosa Katinka.

E volsero le spalle alla trafitta, affrettandosi verso l'uscio della camera; ma giunti presso al canterale la tentazione li riacciuffò pei capelli, con la man manca l'uomo, con la destra, epperò più [284] forte, la donna, la quale con voce rantolosa e non pertanto distinta disse:

— Yanni, ci basterà la roba?

— Gua'! o chi ci para di rubarne dell'altra? rispose questi.

E si misero di concerto a grancire più rapaci di prima; ma la paura e la confusione tanto prevalevano in loro, che con le mani l'uno l'altro agguantava.

— Oh! chi è che mi agguanta? Urlò Yanni, trasalendo, la prima volta che questo accadde; e la donna:

— Sono io, zuzzurullone! — E levatigli gli occhi nel viso esclamò: — Come sei giallo!

Yanni a sua posta mirando lei digrigna fra i denti:

— E tu come rossa!

Katinka abbassando gli occhi con orrore si vide macchiati di sangue il petto e le braccia.

Di un tratto li percuote uno scoppio di fucile, e subito dopo le strida: Assassinio! assassinio!

— Ah! siamo scoperti!

— Salviamoci! urlarono a una voce gli scellerati, e via a precipizio verso la porta dove essendo giunti in un punto, e donde ad un punto volendo uscire si diedero uno strizzone da sgretolarsi le costole.

[285]

*

Ecco uno dei soliti colpi di scena da romanziere arrembato, osserva, ghignandomi in faccia, la mia censora sdentata, quarantenne e beghina; ed io paziente:

— Ma signora mia, la si lasci servire, e vedrà come la cosa cammini naturalmente pei suoi piedi. Ricorda ella l'orfana, sonatrice di organino, raccolta da Eponina per carità? — Natalizia, via? Se ne ricorda? Or bene; costumando la Natalizia dormire in certo stambugio accanto alla camera della sua signora, si accorse dello insolito rimuginare che si faceva nella camera accanto, e apposto l'occhio alla serratura si accorse in un attimo del misfatto, che stava per perpetrarsi: — Se chiamo soccorso, chi mi risponderà? pensava fra sè la vispa fanciulla: — forse se li lascio fare si terranno contenti a portar via, mentre se si trovano scoperti ci aggiungeranno l'omicidio: i gatti spaventati sgraffiano.

La Natalizia aveva pensato a sesto, ma poi la faccenda andò diversamente, e repentina così, che ella non ci potè fare riparo; ed anche gliene avessero dato campo, non avrebbe saputo a quale partito appigliarsi. E nè anche la giovinetta perse il coraggio quando vide la sua signora tanto fellonescamente trafitta, perchè sperò non lo fosse a morte, [286] e ad ogni modo sentì il debito di sovvenirla come poteva; certo le nostre ragazze, fiori tirati su a stento nelle domestiche stufe, per lo meno sarieno cadute in deliquio; ma la nostra orfana era allieva della necessità, maestra rigida è vero, ma che per insegnare presto e bene vale oro quanto pesa. Per la quale cosa ella, guizzando celere e cheta nella stanza di Giovanni, prese lo schioppo a due canne che costui si teneva a capo il letto, e poi si calò fuori della finestra: appena tocca terra si addossava al forno lì presso casa, urlando da spiritata: «Assassinio!» e al punto stesso esplodendo una delle canne; per buon rispetto la provvida fanciulla tenne in serbo l'altra. L'esito del trovato superò la sua speranza, imperciocchè indi a breve vedesse prorompere fuori della porta di casa i due scellerati e correre a rotta di collo, come se centomila diavoli ne li portassero.

Allora rientrò in casa dove, avendo prima incatorciato per bene le imposte dell'uscio, ascese al soccorso di Eponina. Poveretta! non dava segno di vita; largo lago di sangue aveva lordato le lenzuola e i tappeti; adesso grondava a stille scarse, perchè più poco gliene restava nelle vene, ed anco perchè avendo fatto grumo intorno al ferro, le restava impedito lo sbocco. La fanciulla accorta stava perplessa a estrarre il pugnale, temendo qualche sgorgo e trovandosi corta a rimedi per [287] impedirlo; pur si decise a cavarlo, ammannito innanzi un batuffolo di lini finissimi, di esca e di cotone onde servirsene a modo di stuello premendolo sopra la piaga; e così fece, avendo la pazienza di tenercelo fermo per più di un'ora; poi, composto con altri pannilini una maniera di guancialetto, mediante fasciature condotte in tralice per di sotto l'ascella destra, lo assicurò con garbo nella fossetta della clavicola ferita, tanto bene, che meglio non avrebbe saputo fare il cerusico.

Tutto questo compìto, Natalizia pensò se giovasse meglio attendere il giorno, ovvero recarsi subito al villaggio per soccorso. A lasciare Eponina sola la dissuadevano il pericolo che gli assassini tornassero, e l'altro che risensando ella si spaventasse della solitudine, o peggio ancora, movendosi allentasse la fasciatura e si perdesse irrevocabilmente quanto sperava avere acquistato con tanta fatica; aggiungi il risico di smarrire la strada nel buio fitto della notte e ruinare in qualche precipizio; la combatteva altresì il timore che al villaggio non si sarebbero svegliati, o che non le avrieno dato retta, o che non volessero venire: per ultimo non le pareva fuori dei possibili imbattersi ella stessa negli assassini, i quali non avrebbero mancato accopparla per distruggere con esso lei il testimonio unico del loro delitto: tanto è, si fece coraggio e andò; tuttavia al pericolo che gli assassini rientrassero [288] in casa provvide con lasciare chiuso l'uscio di casa, ed ella calarsi da capo giù dalla finestra; all'altro d'incontrarli per via, riparò col caricare anche l'altra canna dello schioppo e portarlo seco inarcato; come Dio volle, non le nocquero nel cammino le tenebre, nè le asperità della via; quanto poi alla difficoltà di svegliare la gente, ebbe un santo dalla sua, che le fece trovare il Sindaco desto, il quale andava in volta per la casa, col suo decimo nato in collo, trastullandolo per quietargli la smania della dentizione. Gli abitanti del villaggio avvertiti in un bacchio baleno, si misero in assetto per accorrere al soccorso della ferita. Un po' di tempo lo fece perdere la moglie del Sindaco, la quale, non ci era caso, voleva andare lei, lasciando il Sindaco a ninnolare il bambino; ma il marito glielo scaraventò nelle braccia, osservando che fuori di casa il Sindaco era lui.

Di subito fu vista una processione di lanterne errare qua e là, a mo' di lucciole, giù per la vallea, festinante verso il luogo del misfatto. Ognuno dei lanternisti desiderava con tutta l'anima che Eponina non fosse rimasta sul tiro, computando il guadagno che per la sua malattia sarebbe venuto a lui o alla moglie di lui, ovvero ai figli, generi, cugini di lui, amici e conoscenti a 16 miglia dintorno. Io l'ho già detto: cuore e formaggio nella Svizzera ci si trovano di prima qualità. Se io mi [289] trovassi a possedere un cuore svizzero, io non lo baratterei con la più grande piramide d'Egitto.

*

— O lasci in pace i cuori degli svizzeri e le piramidi di Egitto, e ci dica un po' come andarono a finire i servi assassini, salta su a dire la critica bacchettona, e minaccia di non lasciarmi ire innanzi, se prima non la contento.

— Ma abbia pazienza, questo ella saprà a suo luogo e tempo; dovrebbe pur capire che la sua continua intromissione mi rompe i concetti e mi arruffa ogni disegno.

— Ringrazi Dio che mi basti la pazienza di starle al fianco, chè senza di me, nelle sue diavolerie, non si troverebbe un briciolo di buona morale, neanco a cercarlo coi lanternoni degli svizzeri da lei poc'anzi descritti; ci dica subito come la giustizia umana arrivasse gli assassini; e in ogni caso la giustizia divina, che non può mai fallire.

— Senta. La giustizia umana non li agguantò: i ribaldi scivolarono fra Stato e Stato senza dare sospetto: anzi alle polizie dei vari paesi riuscì tanto più difficile rinvenirli, quanto meno essi posero cura a farsi cercare: in pellicceria ci vanno più pelli di volpe che di asino: se vuoi gabbare la diplomazia, che campa sulle trappole, usa ingenuità: e se desideri sgusciare dalle mani delle polizie, [290] solite a camminare pei traghetti, tira innanzi per le vie maestre: pertanto costoro giunsero a salvamento in Arcangelo, dove rizzarono su rivendita di acquavite e furono principali avventori, finchè vissero, della propria bottega.

— Ma la giustizia divina? Dica su della giustizia celeste.

— Della provvidenza, via? Oh, ecco: questa li seguitò un pezzo, ma siccome a mano a mano che s'inoltrava per coteste contrade boreali, sentiva per colpa del freddo gelarsi le membra, si fermò a Pietroburgo, e quivi mentre attende a curarsi i pedignoni la raggiunsero corrieri di Francia e di Prussia, con ordine fulminante di tornarsene indietro; volersi ad ogni modo rompere la guerra, nè i popoli potersi capacitare che senza permesso della divina provvidenza fosse lecito a loro di porre la mano ai ferri per tagliarsi la gola; avrebbe trovato rifatto il letto e spazzate le chiese, accesi i moccoli, gonfi i mantici degli organi, sul turibolo gl'incensi. La provvidenza fece spallucce e significò ai corrieri che la lasciassero in pace; ma gli impronti le susurrarono dentro gli orecchi ci pensasse due volte, però che essi avevano commissione di condurla coi gendarmi. «Co' gendarmi! ella esclamò; e quale giurisdizione hanno su me i gendarmi? Se presumono ammanettarmi i gendarmi luterani della Prussia, io sono la provvidenza cattolica; se i gendarmi [291] cattolici della Francia, io sono la provvidenza luterana; qui in Russia posso schermirmi da tutti e due proclamandomi provvidenza greco-scismatica: andate al diavolo voi e chi vi manda. — Ma poi, avendo levato gli occhi al cielo, pensò ch'egli era spigionato per tutti; onde per non attizzare scandali, mandando all'aria per sempre casotto e burattini, si adattò a seguitarli.

Appena giunta a Colonia, la città dei re magi, la provvidenza mandò pei due imperatori, uno già nato e l'altro che stava per uscire dall'uovo, e disse loro con voce annuvolata:

— Signori miei, a che giuoco giochiamo? O che questo lavoro non ha da smettere mai? Voi vedete che moglie di due mariti io non posso essere: la poliandria si considera peccato così in cielo come in terra; e poi l'ha da finire questa storia di mettere sopra le mie spalle tutte le vostre infamie, le truci ambizioni, le maledizioni dell'umanità, i diluvi di sangue che fate spargere voi altri.

I due imperatori, l'uno fatto e l'altro che stava per rompere il guscio, ad una voce risposero:

— Dà retta, divina provvidenza, a noi veramente non importa nulla che tu stia con l'uno o con l'altro ed anco con veruno dei due; noi ci provvediamo dai noi stessi formandoci i battaglioni più grossi; e' sono i popoli che non ti vogliono licenziare, sicchè a noi tocca legare l'asino dove vuole [292] il padrone, fingendo che tu stai con l'uno o con l'altro: ora, che ci rimetti a lasciarti invocare da tutti e due? Sta' di mezzo e piglia dalla mano destra e dalla mancina; intanto il cannone ti darà la pinta per insegnarti da qual parte hai da figurare di esserti buttata: che se frattanto tu ti uggissi a startene appillottata in casa o in chiesa, svagati a governare le sorti del giuoco del lotto.

Dov'è la mia critica bacchettona? E' pare che se ne sia scappata da un pezzo: meglio così, chè senza questa veste di fiasco fra le gambe, il racconto procederà più spedito.

La ferita fu giudicata mortale, ma il peggiore guaio, per opinione dei medici, veniva dalla perdita del sangue, per cui si dava come sfidata. Ora io non dirò che in onta alla scienza, bensì nonostante i responsi della scienza, la natura pigliò il sopravvento alla morte, ed Eponina dopo lunga infermità potè riaversi, non senza però lasciare offerte preziose alla rigida ara di lei. Non le uscì più il pallore dal volto, onde se egli è pur vero che la sorella di Oreste desumesse il nome dalle guancie clore, da ora in poi avrebbe dovuto farsi chiamare Elettra; la voce le rimase limpida come innanzi e sovente anche gagliarda, ma però soggetta a questo inconveniente, che talora di un tratto le calava giù giù sempre splendida e poi di subito le si spengeva simile ad una lacrima del cielo, che noi [293] volgarmente chiamiamo stella cadente. — Più grave danno di questo, il suo cuore sembrava ad ogni minuto sostasse alquanto come per ripigliare lena nello esercizio delle sue funzioni di sistole e di diastole. Ristabilita in salute a questa maniera, dopo lunghe esitanze si dispose trasferirsi a Milano, dove sua prima cura fu di cercare la vecchia raccoglitrice della sua diletta Natalizia...

Ma, ahimè! Tu sai, lettore, come la scadenza ordinaria delle cambiali sia a novanta giorni e quella della vita a sessanta anni. Ora la morte, che insomma è il creditore puntuale per eccellenza, si era presentata alla vecchia, molto più che il termine era scaduto da un pezzo, e ne aveva riscossa la vita.

Sembra che ad Eponina non dovesse parere vero immergersi nel seno della famiglia, e quivi attingere l'oblìo dei mali sofferti; tutto induceva a crederlo, eppure questo non fece.

O perchè non lo fece? Lettore discreto e prudente; io te l'ho pur detto: per penetrare nel cuore umano e dimostrarti i suoi infiniti misteri, mi farebbe bisogno che Arianna sempreviva dipanasse eternamente gomitoli per me; ed io calcolo ch'ella deva essere morta da tremila anni e più.

Se avessi a dire la mia, forse ad Eponina rincrebbe aversi a mostrare in cotesto arnese; ella immaginava un dì tornarsene a casa sfolgorante di [294] bellezza e di gloria: copiosa di tutti i beni che sono dai mortali maggiormente invidiati, voleva rientrare in casa sua come uno imperatore trionfante in Campidoglio, ed ora ella si considerava ridotta quasi al verde d'ogni cosa. Seppe la sua famiglia stiantata dalla sventura, ed ella repugnò con la sua presenza crescerle il fascio dei dolori; colà si piangeva per troppi e pur troppo; le parve debito non partecipare a coteste lacrime, bensì sollevarle, e questo giudicò potersi eseguire da lei molto meglio rimanendo sconosciuta e fuori di casa: temeva eziandio i rimproveri come colei che sentiva averne piuttosto a farne che a riceverne, ma dall'uno e dall'altro lato, ella rifuggiva del pari: — nè forse questo solo da lei si mulinava nella mente, ma io non lo so e lascio ricercarlo a chi legge.

Pertanto ella andò a Torino, dove datasi segretamente a conoscere a certi suoi fidatissimi amici, quelli pregò a procurarle a patti vantaggiosi un teatro dove cantare. Iniziate le pratiche lo impresario la udì e gli piacque; fu stipulato il contratto e stabilito il compenso; certo per arrivare a quello russo, ci era che ire, ma anche in Italia un cantante si paga più di dieci Galilei. Eponina sarebbe andata in iscena con la Straniera: quindi ella senza perdita di tempo si mise a studiare cotesta partitura con l'ansietà del marinaio che, sopraggiunto [295] dall'uragano, gitta in mare l'ancora della speranza, però che una voce interna le andasse sussurrando ch'ella si sarebbe salvata o perduta con lei; quanto l'arte può suggerire di più arguto si adoperò da essa per incastrare la sua voce fra nota e nota e far comparire magistero la velatura dei tuoni, odiata sequela della infermità; breve, esultò nella fiducia di essere giunta a raccogliere i raggi sparsi dell'antica sua gloria.

Però gli studi della musica non la occuparono soli in cotesto scorcio della sua vita, bensì attese a vendere con reputazione quanto l'era rimasto di gioie, parte rinvestendo in rendita pubblica a benefizio della sua orfana e parte mandando in sollievo della famiglia.

La sua voce operò i consueti portenti; il pubblico si sentì come travolto in un vortice di piacere; Eponina riconobbe il genio tornare a batterle con le ale le tempie ed inondarle col suo fuoco le arterie. Ormai dimentica di ogni passato affanno, fidando pienamente sopra la sua salute, volle per la sera veniente cimentarsi da capo alla prova.

Ma nella sera successiva la voce a un tratto le si ecclissò; ogni sforzo fu vano; le si strinse la gola, mentre il cuore con tremendi palpiti le sobbalzava. In capo a due giorni di riposo le parve esserle tornata la voce più gagliarda che mai; e poichè la strana intermittenza, invece di scemarle, [296] le aveva aumentata la popolarità, non è da dirsi se lo impresario udisse con esultanza, che ella si disponeva per cantare in cotesta sera: così, per non parere importuno la confortò ad aversi riguardo, ma si guardò da insistere troppo.

I cedoloni.... ho sbagliato; i cedoloni si costumano dalla Curia romana per le scomuniche; per gli annunzi teatrali si usano i cartelloni; i cartelloni dunque avvisavano su tutti i muri per la veniente sera la Straniera cantata dalla celebre prima donna; la città ne andò in visibilio; si facevano i capannelli intorno ai manifesti; figurarsi se la calca la sera fosse grande al teatro! Ognuno si riprometteva che in cotesta sera il sole non si sarebbe ecclissato; e così pure Eponina, la quale, a guisa del guerriero che innanzi di avventurarsi nella mischia prova la spada, scivolando con celeri gorgheggi la scala dei tuoni dal grave allo acuto e viceversa, conobbe potere starsi sicura della sua voce.

Piena e stipata la sala, sicchè se fosse piovuto panìco, proprio un chicco non sarebbe cascato per terra; così profondo il silenzio che tu avresti udito anco lo zufolio della zanzara, ma zanzare non ci erano; ci erano spie.

Divina l'onda sonora sgorgò dalle labbra di Eponina, e potente come nei giorni migliori a dominare sull'anima degli ascoltanti; a seconda del genio [297] e del temperamento degli individui convenuti costà, all'uno pareva un balenìo di luce, all'altro un brulichío che gli ricercasse le interne viscere; a questo parve voluttà del primo bacio d'amore, a quello dolcezza di lacrima piovutagli sopra la mano dal beneficato; un ghiotto affermò preferire la voce di Eponina al risotto coi tartufi, il bevone a un fiasco di barbèra! fino un avaro si attentò dire che lo scudo del biglietto quasi quasi gli pareva bene speso; breve: dappertutto festa solenne, pasqua fiorita.

Ad Eponina poi sembrava che Mercurio le avesse fatto omaggio dei suoi talari; anche un po', e si sarebbe creduta capace di volare; più lucidi vedeva scintillare i lumi nelle lampade, più sonore sprizzare le note dagli strumenti; volgendo attorno gli occhi nell'ebbrezza della sua gloria, le accadde posarli sopra una, piuttostochè donna, statua di porcellana, bianca, lustra, con certe gote dove in vece di sfumatura d'incarnato avevano impastato due toppe colore amaranto: gli occhi neri, tondi e fissi pari a quelli del gallinaccio, stupidissimo fra tutti gli animali; ella ne provò ribrezzo come alla vista di figura di cera che ritragga troppo naturalmente la umana sembianza, imperciocchè la vita simulata induca maggior paura della morte vera; torse lo sguardo, ma subito dopo si sentì attirata a riguardarla, ed avvertendo meglio le parve [298] vedere, e vide certo, la faccia severa della contessa Anafesti; e quindi non fu dato di dubitare che il gentiluomo vôlto con le spalle al palcoscenico avesse ad essere Ludovico; di vero, quasi subito questi, atteggiandosi di profilo con gli occhi armati di cannocchiale, si mise a perquisire l'olimpo teatrale in cerca di costellazioni femminine: astri e Galileo, gli uni convenienti all'altro.

Notò Eponina cotesto atto ch'ebbe virtù di rimescolarla da capo alle piante, perchè non poteva mettere in forse che egli l'avesse riconosciuta, e le sembrava, anzi era certa, che Ludovico intendesse palesare a quel modo la sua piena indifferenza, o piuttosto il suo disprezzo per lei.

Il disprezzo!

Agli spiriti alteri può non rincrescere di cadere come i figliuoli di Niobe sotto gli strali dei figliuoli di Latona, ma rimanere uccisi pel morso di un granchio nel calcagno, secondochè avvenne al gigante Morgante, oh! gli è provare la morte due volte. Allora divampò nell'anima di Eponina la brama, la smania, il delirio, l'agonia (e se tu sai parola che valga a chiarire più espressa la sconfinata volontà umana, e tu la metti) di rinnovare la sua vendetta. Già erano presso al finire dell'opera, e alla Eponina rimaneva cantare la tremenda scena della Straniera, la quale ode da lontano l'inno del sacro rito che unisce in matrimonio [299] il proprio sposo con la rivale; ella raccolse quanto più potè di vita da tutto il suo essere, e con tuono di voce che commosse dal profondo le viscere di quanti l'ascoltarono, incominciò a cantare:

Or sei pago, ciel tremendo,

Hai vibrato il colpo estremo.

Suo intento fu radunare un nembo di applausi e di fiori, e gli uni e gli altri sospingere contro la pallida ed ormai trista anima del novello diplomatico, e soffocarcelo sotto: supplizio usitato a Sibari.

Maraviglia immensa eccitò cotesto canto, imperciocchè la musica non avesse mai palesato la passione umana in modo così disperatamente verace; la disperazione armonizzata, balenava simile al fuoco che guizza fuori della nuvola in procinto di rovesciare sulla terra una procella di folgori; però insieme a maraviglia, la gente si sentiva compresa da paura: qualche cosa di sinistro temeva avesse a tener dietro a cotesti sforzi, i quali, superando ogni termine del naturale, ritraevano del portentoso.

Quando Eponina cessò il canto, la gente sbigottita tacque irrequieta; così, stando sopra l'estremo lido del mare, vediamo da lontano comporsi il volume del cavallone, che irromperà poi ad allagare la spiaggia: all'ultimo, gittati giù gli argini, i plausi e le grida mandarono sottosopra ogni cosa. Se in quel punto i corvi avessero volato traverso [300] il teatro, sarebbero caduti in platea, siccome avvenne nello stadio di Corinto quando il banditore pubblicò Nerone avere donato la libertà alla Grecia. O libertà, di quante generazioni tu hai da essere, se anco un Nerone potè vantarsi sbraciatore di libertà ai popoli; però io ho raccomandato, fino a perderne la voce, al popolo di squadrare bene la libertà che presumono donare i principi, innanzi di esultarne. Che diavolo! Se avete a comprare un mazzo di tordi, voi soffiate loro sotto il codone per mirare se sieno freschi; e tu, popolo, non adopererai medesimamente con la libertà che ti cucinano i principi?

La plebe nella foga feroce del suo entusiasmo intende e vuole essere divertita una seconda volta. «Da capo!» urla con grida sgangherate: «Replica! replica!» Ed alle grida aggiunge strepito di palme e picchi di bastone e zampate sul pavimento, donde si levano nuvoli di polvere.

Ma Eponina non ne poteva proprio più; in tutto il suo essere sentiva avvicinarsi qualche grave trasformazione; le tintinnavano le orecchie; miriadi di faville le carolavano dinanzi agli occhi; o la terra o le gambe le mancavano sotto; a balzelloni si accostò alle quinte dove balbettò una preghiera all'impresario che la scusasse presso il pubblico: assolutamente non poteva.

L'impresario comparve sul proscenio, e con la [301] sua voce dal dì delle feste espose lo stato di salute della simpatica prima donna, e supplicò il rispettabile pubblico per lei, ed anche per sè, affinchè egli si degnasse dispensarla dalla ripetizione.

No!.. da capo!... no!... replica!... scuse magre! — e qui un turbine di picchi e di urli da subissare il teatro: per giunta qualche fischio. Perchè mai pretende il gladiatore ferito sottrarsi alla morte? Gua'! Se l'agonia è il punto più divertente della rappresentanza! Il popolo per ora non se la sente di abbassare il pollice, e le vestali molto meno, chè amore e ferocia quanto trovano più delicati gli stami a cui si appigliano, maggiormente divampano.

Non ci ha rimedio; bisogna cantare.

Eponina dal fondo della sua stanzuccia udì il rigido impero del popolo come una sentenza di morte; lo istinto di donna la spinse a guardarsi allo specchio e si vide pallida come uno spettro; sospettando mettere paura, tuffò il cotone nel belletto e si tinse fino agli occhi: così concia si avvia risoluta verso il palco scenico, — e ride.

Appena comparisce sulla scena, ecco scatenarsi un uragano vero di applausi; un diluvio di fiori; ella si accosta al proscenio, lì presso ai lumi, e si accinge a sciogliere la voce, ma lo tenta invano, una tanaglia le stringe la gola: raggrinza le dita dei piedi e delle mani, raccogliendo in supremo ed [302] ineffabile conato, e tenta di nuovo. Le fauci le si sturano, sì, ma non per dare adito al canto, sibbene ad un profluvio bollente di sangue che le trabocca dai labbri e dalle narici. Una immensa luce abbarbagliò Eponina, seguìta immediatamente da una immensa tenebra; mosse precipite due o tre passi in avanti, le braccia stende, e con le mani annaspa come il naufrago presso all'ultimo tuffo, poi giù di sfascio, ammaccandosi in molto pietosa maniera la fronte e il naso.

Accorrono a sollevarla.

Eponina tiene gli occhi spalancati e fissi, come vetro lucidi; la faccia e il seno tutti sordidi di sangue, la bocca tonda; i muscoli dello intero suo corpo, massime quelli della faccia, contratti così, che bene appariva la morte tenerle gli artigli fitti nel capo come uccello di rapina.

Il mare della platea si rimugina daccapo in burrasca: confusi s'intrecciano i gridi: — È svenuta! è morta! Che morta! La ragia si conosce lontano un miglio; non vuol cantare...

Dai palchi vedonsi spenzolare dove tre e dove quattro donne, abbracciate insieme come le api quando fanno i grappoli; gli uomini anch'essi smaniosi di chiarirsi, s'industriano a farsi largo per vedere, ma le donne, api stizzite, li cacciano addietro a mo' di fuchi; invece di pungiglioni, gomitate da rompere le costole.

[303] Non è l'amore solo a regnare sopra le donne; se ne divide lo impero con la curiosità.

In platea la gente sembra presa da febbre infiammatoria per la smania di sapere come la cosa stia: ci fu chi saltò in piedi sopra la panca, e dalla panca sopra la spalliera, tentando sostenercisi in bilico, ma di un tratto perduto l'equilibrio ruina addosso ai seduti davanti, con istrazio di cappelli e contorsioni di colli; gli offesi si drizzano su come aspidi e barattano le percosse con una manomessa nuova di pugni, punzoni, sergozzoni e susorni, che in men che non dico mi ridussero quel povero diavolo a tale da parere un ecce homo; un altro gravaccione, mentre affrettandosi per levarsi su cerca un punto di appoggio, gli accade di posare la mano spanta sul cocuzzolo di un cappello, il quale calca di punto in bianco giù fino al mento al suo possessore, che, riuscito dopo molta fatica a tirarselo su dal viso, rosso di collera bestemmia da disgradarne un turco. Il vicino flemmatico, autore del danno, con voce soave gli dice: Scusi! io non l'ho fatto a posta; — e l'altro quasi fuori di sè con labbra tremanti: Ringrazia Dio che il codice penale non si occupa di ingozzature, che altrimenti ti manderei diritto in galera come un cero pasquale.

Costui era uno dei vecchi procuratori del re presso il tribunale correzionale di Milano, adesso posto da parte come una manetta arrugginita: [304] marmeggia pensionata, ei si rodeva a Torino la paga.

Più audace di tutti un gobbino; costui aveva davanti a sè una maniera di mastodonte umano; al povero gobbo pareva proprio essere Giuseppe Ebreo nella cisterna vuota: ricercando qualche partito per venire a galla anch'egli, non rinvenne meglio di questo: aiutandosi colla testata di una panca si arrampica sulle spallaccie del gigante e quivi si appollaia: pareva una scimmia sulla groppa ad un cammello; ne rise prima uno, poi dieci, cento, tutto il teatro all'improvviso rimbomba di altissimi scoppi di risa.

Intanto l'impresario esce da capo di scancìo fuori delle quinte, e fatto arco della persona, apre le braccia a mo' del prete quando compartisce ai devoti il domine vobiscum, e così saluta il pubblico per la prima volta; quindi, mutati alquanti nuovi passi sempre a schisa, replica nel medesimo modo il secondo saluto, per ultimo il terzo proprio sulla buca del rammentatore.

— Zitto! Silenzio! L'impresario sta per parlare.

— Impossibile!

— Signori! incomincia l'impresario, industriandosi a mettere nella voce un po' di pianto.

— Perchè impossibile? In Giudea parlarono gli asini.

— Chiedo scusa: era un asino.

[305] — In Roma, prima della seconda guerra punica parlarono i bovi.

— E in Italia i deputati; dunque perchè non può parlare un impresario.

— Signori! Signori! ripete lo imperturbabile impresario, mi reco a debito notiziare il rispettabile pubblico, come alla nostra simpatica prima donna sia sopraggiunto un caso... un caso il quale, secondo i casi, potrebbe... sicuro... potrebbe riuscirle funesto... la simpatica prima donna è desolata, ed io con lei, non potere appagare i vostri desiderii più che legittimi: essendo pertanto rimasto mozzo lo spettacolo, io, salva sempre l'approvazione del rispettabile pubblico, proporrei completarlo col secondo atto del Don Bucefalo.

— Sì, sì, Don Bucefalo, tanto per annacquare la malinconia... Don Bucefalo... Don Bucefalo, e qui battute di mani e picchi da sfondare il soffitto.

Quando si fu alcun poco quieto l'osceno strepito, una voce di dolore, scesa dall'alto, investì tutta la sala e domandò:

— Ma finalmente che accadde alla prima donna?

A cui una voce non meno lugubre rispose da basso.

— È morta.

Un silenzio spaventevole subentrò allo schiamazzo: il teatro parve diventato un camposanto: ognuno sentì agghiacciarsi il cuore: prima a levarsi [306] fa la contessa Anafesti madre; dietro a lei le altre signore tutte; dopo loro gli uomini, taciturni e mesti come se tornassero da un mortorio. Solo Ludovico, nel ripulire le lenti del cannocchiale per rimetterlo nella busta, esclamò:

— Povera creatura! Poteva fare una fine migliore...

Spensero subito tutti i lumi; i morti non hanno bisogno di vederci; e poi la economia sta sempre bene. Alzarono il sipario e il teatro parve la bocca del regno delle tenebre, di facile ingresso e di regresso disperato; lavarono il pavimento, e raccolta l'acqua sanguinosa con spugne da cavalli la travasarono dentro un bugliolo... Eponina così come appariva tutta sordida di sangue distesero sopra una scala messa per traverso sulla spalliera di due seggiole. Chi di qua chi di là dal teatro erano spulezzati tutti, soli rimasero i coristi, così uomini come donne, e le comparse e l'orfana Natalizia, la quale genuflessa ai piedi della sua signora, col capo nascosto entro le mani piangeva e pregava.

Di un tratto colui che imponeva il coro, o vogliam dire maestro dei coristi, uomo atticciato, uso a cantare versi all'improvviso, e più a bevere fiaschi di vino, facile al pianto, facile al riso, tenerone, buffone, salito su di un trespolo prese a favellare così:

— Signori e signore, per dire come dice il reverendo [307] nostro impresario quando non ha quattrini per pagarci il quartale, questa egregia donna è morta; ma ella è morta da eroe artista sullo intavolato del teatro, come l'eroe guerriero muore sul campo di battaglia; questi spira l'anima in mezzo al fracasso dei moschetti e dei cannoni; ella in mezzo all'armonia dei violini, dei violoncelli e di tutti gl'istrumenti dell'orchestra; l'uno si avvolge nel cadere nel mantello della sua gloria, l'altra si avviluppò nel manto della Straniera. A noi spetta ornarla di fiori, a noi inghirlandarla di lauri, che troppo bene si meritò, a noi sermonarla con la orazione funebre, a noi inalzarle un monumento, certo modesto, perchè sarà di pane convertito in marmo: i poveri, si sa, di altro non sono ricchi che di cuore, e di appetito. Intanto, per cominciare, ognuno di voi canterà un a solo[35] sopra il suo corpo, o inventandolo di pianta, ovvero ripetendone alcuni di quelli che ha tenuto a mente: quello che viene viene; a sfogo del cuore; adesso copritela di fiori, coronatela di alloro, che io incomincerò:

L'angioletta che canta da soprana

Del Padre Eterno fra i beati cori,

La scorsa settimana

Chiappò una sbardellata infreddatura.

Su voi altri, che state lì a gingillare: ripetete in [308] coro l'ultimo verso per ritornello; e i coristi avendolo fatto, costui li lodò dicendo: — Bravi! Da pari vostro, da voi non ci era da sperare di più. — Attenti, continuo:

Il mastro di cappella

Non se ne prese cura

E fece molto male

Che si è trovato addosso

Le feste di Natale,

E per la messa su in cielo a cantare

Non sapea il grullo che pesci pigliare.

Su, a voi: Non sapea il grullo che pesci pigliare... Bene. Vi trovereste a caso un sorso di vino da bagnarmi la gola? No? Ve lo siete bevuto tutto; bravi patriotti! Come si ama il tradimento e si odia il traditore, così mi sarei asciugato il vino, ma avrei detestato, aborrito, calpestato l'infame che invece di berselo lo avesse messo da parte per me. Ripiglio il canto:

Quando arriva nei cieli un'angiolina

Che il crup di stianto si portava via

Giusto l'altra mattina,

Che visto del maestro lo imbarazzo:

La non si stia, gli disse, a ingarbugliare;

Colà a Torino tutto il mondo è pazzo

Di una voce celeste

Che se voi la metteste

Nei piedi della vostra Angiola fioca

Vi troverete aver compìto il coro

E fatto il becco all'oca.

Per dispaccio mandatela a chiamare

E la morte lo vada a consegnare:

E il coro ripetè il ritornello:

E la morte lo vada a consegnare.

[309] Il buffone riprese:

La morte venne giù per l'ambasciata

Le disse un motto e via se l'è portata;

Ella poi la seguì con tutto il cuore

Certa, com'era, si farebbe onore

Anco dei cieli infra il beato coro

Or con la cetra d'oro

Accompagnando i suoi divini canti

Fa il Padre Eterno strabiliare e i santi.

— Fa strabiliare, ecc. Ora attenti al comiato:

Che se talun di voi cotanto ardisca

Alla novella mia fede negare

Affinchè si chiarisca

La vada in paradiso ad ascoltare.

Ed or mi tarda andare all'osteria

Dite la vostra che ho detto la mia.

I coristi usi ad obbedire il maestro avevano accompagnato la monodia, ma, bisogna confessarlo, a contraggenio, perocchè non sapessero distinguere s'egli celiasse, o facesse davvero, e questo molestamente sopportassero; allora si levò su Natalizia, la quale, posta la sua mano sul braccio del maestro, in questo modo gli favellò:

— Agatone, senti: la tua mente ed il tuo cuore erano nati per far casa insieme; ma non ci pensarono mai, ed ora è troppo tardi; i tuoi occhi sono gonfi di lagrime e la tua bocca canta in chiave di baccanale. Taci, che Dio ti perdoni e ti conceda la grazia che stilla di acqua, senza il tuo consenso, non ti caschi mai nel vino. Voi altri, fratelli e sorelle mie, alunni dell'armonia, non vi state ad affaticare lo spirito cercando inni funebri; le ore [310] dell'angoscia non sono quelle che accompagnano il carro alla fantasia. Noi tutti conosciamo un canto dove le parole occorrono sublimi ed i numeri divini; inginocchiamoci intorno alla defunta, e con le labbra, e più col cuore, cantiamo la preghiera del Moisè: io vi dico in verità che ne esulteranno quanti sono beati in paradiso, e con essi questa cara infelice, la quale così acerbamente si è partita da noi.

— Sì, facciamo a questa maniera; Dio ha parlato per la bocca della fanciullina.

Intuonarono la preghiera: Dal tuo stellato soglio, e con tale una effusione di tenerezza che terminò col pianto universale: pianto senza mistura di amaro, pianto che ricava la sua scaturigine da più alta fonte che non è il cuore umano, e che consola tanto quello che lo versa, quanto quello per cui è versato.

Ma pianto e riso, e affanno e gioia si dileguano nel mondo a modo che fa l'eco. I cantori mano a mano lasciarono il teatro; sul palco scenico rimasero una candela di sego, che mandava tanta luce quanta bastava a rendere le tenebre visibili, una guardia di pubblica sicurezza intesa a passeggiare, a masticare tabacco ed a schizzare la saliva più lontano che poteva, la morta sempre stesa sulla scala, e l'orfana di nuovo genuflessa ai piedi della defunta per pregare.

Indi a breve comparve l'assessore di polizia con [311] alcuni uomini a cui ordinava trasportassero il cadavere nella stanza mortuaria, così come stava sopra la scala, coprendolo con uno straccio qualunque. Appena egli ebbe profferite queste parole che una larva uscita di sotto terra, mostrando la faccia più bianca del marmo, stridè:

— Nessuno la tocchi... è mia.

— Chi è vostra? riprese l'assessore, il quale senza volerlo sentì corrersi freddo nelle ossa.

— Questa morta.

— E voi chi siete?

— Io? Sono sua madre.

— Madre.... e che volete?

— La voglio accompagnare, la voglio vegliare, la voglio....

— Va tutto bene; ma, donna mia, ora capite che non si può tenere sul palco scenico; quindi occorre farla trasferire nella stanza mortuaria.

— Sopra la scala? Coperta da uno straccio purchessia?

L'assessore mortificato, si affrettò a rispondere:

— Oh! no: qualcheduno vada all'ospedale per un cataletto; ci riporrete dentro la morta e la porterete alla stanza mortuaria; se questa donna insisterà a vegliarla, non glielo vieterete; allora lasciatele una lanterna e serratecela dentro.

Ciò detto, premuroso di mettere fine a cotesta scena disgustevole, se la svignò.

[312] Ora vuolsi sapere come la misera madre accovacciata su nella piccionaia fosse stata presente a tutto; da lei mosse la domanda piovuta dall'alto intorno alla qualità dell'accidente occorso alla Eponina, come la funesta risposta si era dipartita dall'orfana. Ella si precipitò senza indugio per le scale, ma, rinvenuta la porta del teatro, che metteva al palco scenico, chiusa, si pose lì ritta ad aspettare. Quando i coristi uscirono e l'assessore entrò, ella, côlto il destro, gli si cacciò dietro inosservata. Adesso sovvenuta dalle guardie trasse giù il caro corpo dalla turpe scala, ed ella assettatasi in terra se lo fece deporre nel grembo. La guardò, e: — Avessi un po' di acqua! — bisbigliò sommessa. E subito le venne portata l'acqua; gliela porgeva Natalizia. Trattasi il fazzoletto di tasca lo intrise nell'acqua e prese a lavarle diligentemente la faccia. — Ah! non basta.... susurrò da capo, e non aveva anche finito le parole che si rinvenne un altro pannolino in mano: ella lo prese senza considerare da chi le venisse: viva soltanto nel rendere gli ultimi uffici alla morta; poi le ravviò i capelli, glieli spartì sulla fronte, glieli compose con arte; all'ultimo le sollevò il capo e si mise a contemplarla per lunga ora senza gemito, senza pianto; guardatala e riguardatala un pezzo, a denti stretti mormorò:

— Ben ti ritrovo, Eponina, ma quanto diversa da quella che mi uscisti di casa!

[313] L'orfana abbracciava sempre i piedi della sua signora, ed Isabella non l'aveva ancora avvertita.

Venne la bara, ci adagiarono il cadavere della meschina; la madre dietro; l'orfana, senza che alcuno ci badasse, si mise sotto la bara, ed in questo modo potè entrare anche essa nella stanza mortuaria, e rimanerci anche quando furono partite le guardie.

— Oh! adesso che mi trovo sola con lei, guardiamocela un po' senza soggezione.

E tolta in mano la lanterna, scoperse la bara e l'infelicissima madre esaminò sottilmente a parte a parte il cadavere. Rinnuovato quattro volte o sei l'esame angoscioso, depose la lanterna nel cataletto, ed ella assettatasi in terra sospirò:

— Non ci ha caso, è morta.

Si abbracciò le ginocchia, sopra esse appoggiò la faccia e non profferì più parola.

Alla domane, quando un poco di luce si fu messa nella funebre stanza, avendo levata la faccia, i suoi sguardi vennero a posarsi sopra Natalizia: non parve ne sentisse maraviglia, o paura; se non che l'eccesso dell'ambascia e il digiuno prolungato incominciavano a farla vagellare; le prime parole che disse sonarono delirio:

— Donde vieni, fanciulla? Chi ti manda? Se dalla parte di Eponina, parla presto, onde io possa contentare la povera figliuola.

[314] — Vengo da me, signora Isabella; io sono una povera orfana che la sua figliuola raccolse, col suo pane nudrì, col suo spirito educò: la sventura, ecco, adesso l'ha schiantata; ella, senza volerlo, mi ha abbandonata, ma io non voglio abbandonare lei; quando la metteranno in terra, io supplicherò che mi seppelliscano nella medesima fossa e mi esaudiranno.

— Ah! soggiunse Isabella, anche morendo, o mia Eponina, tu hai pensato a me, porgendomi dalla bara un fiore.... ben venuto, o fiore di consolazione, io ti poserò sul seno che ti allattò, o figliuola; dimmi, vuoi stare con me? Non mi lasciare desolata e sola. L'amore che porto ad Eponina può bastare anco a te, senza che ei ne rimanga menomato.

Natalizia allora, cingendo alla madre di Eponina col diritto braccio il collo, disse:

— Sì; io ti starò al fianco, e quando piangerai, io piangerò con te.

Allora Isabella sentì squagliarsi il cuore, che fino a quel momento le aveva oppresso il petto; e strinto con ambe le mani il capo alla fanciullina, pianse, e la fanciulla con lei; e piansero tanto e tanto, che elleno stesse si maravigliarono come sì grande copia di lacrime potesse versarsi da occhi mortali.

Si apre la stanza mortuaria e vi penetrano parecchi, [315] di cui uno che pareva essere il sopracciò, appressatosi alla signora Isabella, prese a favellarle di questo tenore:

— Che recapito si ha da dare a questo corpo?

— Io vorrei trasportare questa mia figliuola a Milano per seppellirla allato ai suoi parenti.

— Ciò va d'incanto, ma quando ha da essere così, non ci è da perder tempo, perchè in primis conviene ricorrere alla autorità governativa per la debita licenza; poi è mestieri mettersi in regola con l'autorità amministrativa circa la tassa da pagarsi pel trasporto del cadavere; inoltre bisogna intendercela con l'autorità sanitaria per condizionarlo a dovere nelle casse di uso, delle quali due di legno ed una di zinco; per ultimo occorre pigliare appuntamento con l'autorità delle strade ferrate, la quale, come vedrete, non vorrà assumere l'incarico di trasportarlo se non di notte col treno merci; sicchè voi potete da per voi stessa comprendere che per fare tutte queste cose presto e bene, ci vogliono gente e quattrini.

Isabella sentì stringersi il cuore, perchè, venuta via in fretta da Milano, poca moneta aveva portato seco, e quando pure se ne fosse partita ad agio, dove procurarsene maggiore non avrebbe saputo; però che la sventura si era compiaciuta di ridurre al verde cotesta povera famiglia di ogni sostanza, come in breve mi toccherà a raccontare; mentre [316] Isabella percossa da nuovo dolore abbassa gli occhi, si vede in dito il magnifico solitario, dono dello zio Orazio, di sempre cara ed onorata memoria; riprese animo nella certezza di far quattrini, onde levò la faccia dicendo con garbo signorile al sopracciò:

— Voi intendete, signore, come l'affanno che mi travaglia mi renda inetta a questi uffici; siatemi cortese di compirli per me; intanto vado a procacciarmi la moneta necessaria; — ma di un'altra cosa io vi vorrei pregare, ed è che pigliaste in custodia questa ragazzina fintanto che io non ritorni.

— Vada, signora mia, e viva tranquilla che la lascia in buone mani; la condurrò in casa al parroco...

— Parroco! Preti!.... Oh! no.... via preti.... voi non sapete che cosa siano i preti.... vien qua, fanciulla mia; — ed in così dire la Isabella tremava a verga.

— La non si rimescoli, signora.... oh! capisco anch'io.... ma, sa, succede fra i preti come a quei di Lucca, ce n'è dei buoni e dei cattivi....

Isabella agguanta il sopracciò pel petto, strabuzzando gli occhi, e gli domanda:

— Sei forse prete?

— No, signora.... in coscienza, no.... no davvero davvero.

— Se non prete, qualche cosa che appartenga a prete?

[317] — Quanto a questo, io non posso negare, fui cuoco nel convento dei reverendi padri barnabiti.

— Va' all'inferno donde prima sei venuto.

Ed Isabella lo scaraventò lontano da sè. Il sopracciò, riaggiustandosi le vesti sgualcite, pauroso di perdere il guadagno, che ormai si faceva sicuro, umilmente favellava:

— Per avere dato a mangiare ai lupi, o che si diventa lupi? Si lasci servire.... e mi dirà se si sarà trovata contenta. Quanto alla signorina....

Natalizia, che da prima distratta non aveva posto mente al dialogo, adesso fattane accorta prese pel braccio Isabella e trattala a parte, le disse:

— Di che temi? Ormai ne ho viste tante, che nulla mi fa più specie, e quanto a violenza che mi volessero usare, vedi.... (e qui cavò fuori il pugnale che estrasse dal collo di Eponina) io saprei difendermi. — Lasciami qui; ci sto bene; e a separarmi da lei — e additò la bara — tu mi recheresti dolore.

— Orsù, disse allora Isabella, voi andate a fare l'ufficio promesso. Natalizia rimane a custodire la mia figliuola.

*

— Eccovi qui un diamante di molto valore, e a me carissimo; fortuna vuole che io lo abbia a vendere; mi hanno detto che siete un galantuomo e [318] che vi contentate dell'onesto: datemi quello che mi potete dare e fate presto.

Così parlò la signora Isabella, entrata in bottega a certo orafo dei principali di Torino, mettendogli in mano l'anello che si cavò dal dito.

L'orafo, poco uso a codesti modi rotti, guardò la donna e le parve, come pur troppo era, una figura strana, poi guardò la gemma, riguardò lei, e diede in uno scoppio di riso; all'ultimo disse:

— Credeva possedere una faccia sola, ma sembra che stamane taluno mi abbia prestato la faccia di scimunito.... e sarà colpa la barba lunga. Per chi mi avete preso, tocco di cialtrona? O sta' a vedere che io non sappia più distinguere i diamanti dai culi di bicchiere? Via di bottega.... imbrogliona.... e ringrazia Dio che non ti denunzio alla questura.

La Isabella, comecchè si sentisse abbattuta dal prepotente infortunio, pure non era femmina da succhiarsi in pace cotesta carta d'ingiurie; quindi replicò risentita:

— Voi siete screanzato, e a quanto sembra imperito della vostra professione: buon per voi che altri pensieri mi turbano; altrimenti ve la darei bene io la questura.

Al gioielliere parendo essere soverchiato a torto, perfidiava più riottoso che mai, e con voce incollerita ingiuriava la povera Isabella che stava per averne il danno e lo strazio.

[319] In questa venne a passare la carrozza del conte Anafesti dove si trovavano la contessa madre col figliuolo Ludovico. Avendo ambedue scorto il capannello della gente adunata intorno alla bottega dell'orafo, e questo con gesti concitati minacciare Isabella, si avvidero che la doveva essere incappata in qualche pelago, donde non carità o gentilezza, ma obbligo espresso correva loro di liberarla; e ciò la contessa propose subito al figlio, ma Ludovico con mirabile sussiego le disse:

— Signora madre, io giudicherei lesivo al mio decoro prendere parte a simili trivialità; molto più adesso che sono avvisato sua eccellenza il Ministro degli esteri avermi spedito il diploma di grande ufficiale della Corona d'Italia.

La contessa lo guardò di sbieco, ed altro non gli rispose:

— Tu hai ragione.

Ordinato quindi al cocchiere che fermasse, scese, e in un momento fu nella bottega dell'orafo, il quale vista una signorona uscire da una carrozzona le fece una sberrettata famosa, curvandosi innanzi a lei come una fetta di popone; ma ella, senza curarsi di coteste cerimonie, prese a rimproverarlo così:

— Ch'è questo, signor mio, e perchè e come vi attentate a straziare questa onorata gentildonna, mia pregiatissima amica?

[320] E quegli le narrò umilmente la storia, ed Isabella la confermava per vera, aggiungendo il fallo del mercante stare in questo, che supponendola capace di volerlo giuntare le aveva detto villania, senza considerare ch'era impossibile prendere lui esperto a cotesta frode manifesta, mentre, se avesse avuto punto di discrezione, doveva facilmente immaginare lei imperita vittima di qualche truffa.

E poichè la contessa chiese ad Isabella da cui tenesse l'anello, questa avendoglielo detto, soggiunse:

— Ed ora lascio considerare a lei signora, s'egli è possibile che un uomo qual fu lo zio Orazio Onesti volesse donarmi un diamante falso?

Il mercante, udendo ricordare il nome di Orazio, vera gloria del paese, non solo per altezza d'ingegno, bensì per eccellenza di costumi, si faceva piccino piccino, e se lo avesse potuto si saria rimpiattato nella cantera del suo banco. Intanto la contessa ripiglia:

— No certo; ma come mai può essere avvenuto questo? Che il gioielliere sbagli non è da supporsi, e poi... (e qui diede uno sguardo all'anello, come persona usa a praticare con gemme) la differenza si conosce in un battere di occhio.

Questo discorso insomma portava a significare: mira, plebea! a me non l'avrebbero ficcata; ma la povera Isabella aveva ben altro in mente che abbadare [321] a cotesta trafitta. Sventura è bene di certi animali domestici, fra cui capitali i nobili, di sgraffiare anche quando accarezzano.

Allora Isabella, essendosi risovvenuta della offerta fatta alla marchesa Rottan in compenso della restituzione della figliuola, e come le avesse anticipatamente consegnato l'anello, il quale, non avendo avuto effetto la restituzione, ella volle ad ogni patto restituirle, il gioielliere studioso di farsi perdonare il grosso granchio commesso, saltò su a dire:

— Gioco Torino per Busalla, che i gesuiti, avendone avuto il tempo, hanno grancito il diamante buono sostituendo il falso. Gli è chiaro come l'acqua che al furto alla forchetta, all'americana, al tesoro, insomma alla moltiplice famiglia dei furti, adesso dovremo aggiungere il furto alla Compagnia di Gesù. Signora, creda che mi sento mortificato....

— Signora Isabella, la prego ad usarmi la gentilezza di accompagnarsi meco per alcun tratto di via, occorrendomi parteciparle alcun che che la riguarda.

— Ai suoi comandi, signora contessa; e le due donne uscirono dalla bottega senza darsi pensiero dell'orafo, il quale adesso si profondeva in servilissimi inchini, quanto da prima si era mostrato villano.

[322] Poichè ebbero mutati alquanti passi in silenzio, la contessa soffermatasi allo improvviso così favellò:

— Signora Isabella, io la prego a volere ravvisare nelle parole che sto per dirle, il sentimento della profonda stima che nutrisco per lei. Dalla tentata vendita dell'anello, che a lei deve esser caro per tanti motivi, desumo ch'ella si versi in qualche angustia di danaro: mi permetterebbe il favore di potergliene offrire? La scongiuro a non rifiutarlo.... non mi dica di no.... non glie lo voglio mica regalare, sa? Lo pigli in prestito, me lo restituirà più tardi.

— Signora.... grazie di cuore... ma io non posso creare un debito, quando non sono sicura di poterlo estinguere.

— Di ciò non si prenda punto pensiero...

— Signora contessa, questo non mi consente la mia natura... manchevole come mi sento di ogni titolo alla sua benevolenza...

— Creda a me, signora Isabella, replica la contessa, tirata fuori dei limiti che si era prefissi dalla inopinata resistenza della madre di Eponina, ella ne ha forse più di quelli che non si potrebbe immaginare.

— Mi professo grata profondamente alla sua squisita cortesia; ma tanto è, non giunge a vincere la repugnanza di accettare danaro, che davvero non so come rendere.

Allora la contessa esitò, si fece in volto di fiamma, [323] si calò il velo sugli occhi, e con voce bassa, e al punto stesso alterata, porgendo ad Isabella un piccolo portafogli sussurrò queste parole.

— Da dama onorata le giuro che questo danaro è suo.... che non monta neppure alla cinquantesima parte di quello che la infelice Eponina donò alla mia casa......

E più non potè dire; strinse la mano ad Isabella e si allontanò, sentendosi incapace a sostenere più oltre la dura prova.

Certo la contessa Anafesti operando a cotesto modo compì il suo dovere, e non in tutto; pure, chi voglia considerare la superbia, infermità ordinaria dei nobili, e i pregiudizi della infelice loro educazione, dovrà convenire che coteste sue parole furono veramente sublimi; almeno così parvero, per quanto ho sentito dire, al suo angelo custode, che cavatasi dall'ala una penna nuova, le scrisse con quella nel libro delle buone azioni della contessa per mostrarle poi, in punto di morte, come viatico di conforto allo eterno viaggio.

In questa guisa fu dato alla Isabella sopperire alla traslocazione delle reliquie della sua figliuola a Milano, dove la depose nel camposanto comune: non monumento, non lapide sopra la fossa di lei; distingueva le sue dalle ossa altrui una semplice tavoletta di marmo, dove si leggeva segnata una parola sola: «Dolor!»

[324] Forse Isabella, mentre segnò questa parola, intese gareggiare con colei che i cattolici salutarono col nome di madonna dei sette dolori; o piuttosto adoperò così nel presagio di nuove tribolazioni. Chi sa? La sventura è tale un tarlo, che rode sempre, finchè trova fibra sana; e alle cose indicate nella Scrittura, che non dicono mai basta, aggiungi l'avversità. — E quanto all'orgoglio, egli si accompagna con tutto, anche colla estrema miseria.

Per dare ricapito finale ai personaggi che hanno recitato la loro parte nel presente capitolo, bisogna sapere come:

Il principe di Platow, quando prima n'ebbe balìa, si mise alla ricerca di Eponina, e la rinvenne... ma polvere. — Mosso dal pertinace affetto, volle portarne seco il cadavere in Russia, e non gli fu concesso; allora intese erigerle nel camposanto di Milano un monumento fastoso, e neppur questo ottenne: chiese in grazia un frammento della marmetta posta sopra la sepoltura di lei, ed anco ciò gli fu negato: allora per molta moneta largita al custode del cimitero ebbe un pugillo della terra che copriva l'amata donna, dentro un reliquario preziosissimo la ripose, e da cotesto giorno in poi egli costumò dire le sue orazioni dinanzi a quello. — E quando taluno lo interrogava sopra quella sua eterodossa devozione, egli soleva rispondere:

[325] — Di altri santi ho sentito parlare, e ci credo, ma questa santa ho visto e conosciuto io.

Quanto amore sprecato indarno! Ma Dio manda le sacca a chi non ha grano: veramente questo proverbio non porge buona testimonianza della provvidenza divina; che volete ch'io ci faccia? Il proverbio dice così.

La povera Natalizia non potè sopravvivere alla sua signora; la distrusse il non consolabile affanno: ebbe sepoltura nella fossa allato di Eponina, e su la fossa anch'ella il suo pezzo di marmo col motto: «Dolor!»

O fiori di primavera nati appena, abbattuti dalla falce: veruno si accorse della vostra nascita come veruno della vostra morte, eccetto il pietoso che vi coprì di terra. Voi qui giacete polvere indistinta ma lassù in cielo, Dio, che chiama a nome la moltitudine immensa delle stelle, serberà (così giova sperare) ad ognuna di voi, povere anime, mente consapevole, e luce, ed affetti. Poesia! Poesia! mi urla nelle orecchie, da levarmi di sentimento, una femmina con le chiome scarduffate, cinta intorno alle tempie con le vipere di Medusa e i pampini della baccante. — Poesia! grida costei furiando insanita per terre e per castelli, come lo schiavo libero per un dì dalla catena pei lupercali a Roma. — Poesia! schiamazza agitando una fiaccola fumosa atta ad ardere, non già ad illuminare... Bene sta; [326] ma che mi darai tu in compenso della perduta poesia? Forse la notizia che fra me e la terra che calpesto non corre divario? Che la mia mente è mota? Che il mio cuore va composto della medesima materia dello scarabeo, della cimicia, del lumbrico? Volete sollevare l'anima buttandola giù nel fango? Tolto all'uomo il senso della sua origine divina, persuasolo che tutto finisce in lui, la polvere avrà sentimenti di polvere.

Prosunzione e invereconda temerarietà è sostenere che gli uomini sieno del tutto materia; ma supposto che fosse vero, a buon diritto sapiente fu giudicato quel filosofo della Grecia che disse: — Se avessi nel pugno tutte le verità dell'universo, mi guarderei di aprirlo, per timore che funestassero le generazioni degli uomini abbastanza infelici.

[327]

Capitolo XIV.
. . . . . . . . . . . . . . . .

Sarebbe stato studio proprio degno del pennello del Rembrandt. Marcello era solo dentro una stanza, e se ne stava seduto sopra un seggiolone a bracciuoli; la mano destra gli cadeva giù pendula; con la manca si agguantava il mento, perchè non gli cascasse interamente sul petto.

La massa della luce che pioveva giù dall'abbaino praticato nel soffitto colpiva in pieno il cranio calvo di lui; imperciocchè il dolore dove passa peli più dell'acqua bollente.

La faccia china restava nell'ombra; e, ahimè, qual faccia! Anche qui la sventura, essendosi compiaciuta a modellarla secondo il suo fiero talento, in un attimo l'aveva tramutata così, che della sua prima forma non n'era rimasto tratto.

[328] Non sempre però Marcello si era rassegnato a tenere china la faccia: all'opposto, sentendosi un dì l'anima fornita di filosofia, e di salute il corpo, ardiva levarla in alto e lottare contro il destino: gli accadde come a Giacobbe; i fati e gli angioli non patiscono contrasti, e al pari di Giacobbe fu tocco, e rimase inaridito.

Certo giorno gli parve che, di sotto all'unghia di qualche dito della mano destra, gli entrasse un rettile diaccio nelle vene e gli corresse su dal gomito alla spalla, gli si avventasse al collo, glielo stringesse e con violentissime scosse tentasse svitargli il capo: allora cervello, occhi e tutti i muscoli della faccia gli si raggrinzarono; perduta la conoscenza, stramazzò cacciando fuori dalla bocca alito fumoso e schiuma; arrotava i denti così, che venne a scompaginarli tutti, ed alcuni ne cacciò via dall'alveolo; la lingua gli si spartì in due a modo dei serpi. Nè qui rimase, che dopo l'epilessia sopraggiunse la paralisi, tartassandolo in maniera da non riaversi più.

Ora poi accade di rado che egli ardisca levare il volto in su; troppo tardi: doveva pensarci prima; quando ti capita addosso una scionata bisogna sapersi aggomitolare in tempo: quando il cielo insanisce, non vuole essere guardato, molto meno provocato; terribili le ire di lui; egli ti flagellerà con la grandine, e se non basta t'incenerirà con la folgore.

[329] Marcello mareggiava in tale stato, che dormendo gli pareva vegliare, e dormire quando vegliava; però mentr'era desto eleggeva un soggetto speciale di tribolazione, e meditando sopra quello sentiva come forarsi il cervello dal trapano del marmista; ma nella dormi-veglia le angosce gli giravano e rigiravano intorno al cranio, dandogli lo spasimo del taglio della sgorbia del torniaio.

Isabella schiuse piano l'uscio e si pose sopra la soglia a contemplare quel capo da lei caramente diletto nel tempo felice, e adesso nello infortunio due cotanti più; poi accostatasi in punta di piedi lieve sfiorò con un bacio il desolato. Egli però era talmente indolenzito, che anche un bacio lo trafiggeva acuto come un ago; quindi cessò di un tratto da mormorare i nomi di Arria, di Eponina, di Omobono, di Curio e di Fabrizio, com'egli senza intromissione costumava a modo dei devoti, quando mulinano il turbinìo del rosario; e aperti gli occhi belò:

— Mi hai riportato le mie colombe al nido?

Isabella, côlta alla sprovvista, non si potè reprimere da rispondergli con impeto:

— Ah! Marcello, Marcello! La morte rende almeno i cadaveri, ma i preti non rendono mai nulla.

— Come ci entra la morte? Come entra la morte qui?

E siccome Isabella, accortasi del fallo, metteva [330] alcuna dimora a rispondergli, Marcello presentendo novelle ambascie cadde in deliquio. Allora Isabella comprese come, essendo impossibile nascondere a Marcello le dolenti storie, ella fosse la persona meno acconcia a manifestargliele; la sua passione avrebbe a dismisura cresciuto il fascio dello affanno di lui: deliberava quindi commettere lo incarico a taluno amico prudente e affettuoso: ma pensandoci su ella conobbe subito come avesse poco da scegliere.

Turpe cosa è sempre l'abbandono dell'amico nella miseria, ma non sempre tu ravvisi maligne le cause che lo provocarono. Amore di sè vince amore altrui; poi viene la paura; e delle altre passioni non parlo. Gli amici quantunque buoni si allontanano dalle case degli infelici, come gli animali domestici dai consueti abituri, nel presentimento del terremoto.

Pertanto Isabella mise l'occhio sul medico, prima perchè medico, e poi perchè, secondo quello che presentava la piazza, le parve uomo di cuore: si chiamava Taberni, e veramente oro egli era, però mescolato con mondiglia, e di molta; pure l'oro prevaleva: l'età, che per molti fa l'ufficio del crogiuolo, forse a quest'ora lo ha reso, o se non lo ha reso, lo renderà di ventiquattro carati l'oncia. Questo auguro al dottor Taberni, e proseguo la storia.

[331] Avendo il dottore volentieri acconsentito ai desideri dell'Isabella, entrambi si ridussero dentro una cameretta, dove la donna, poichè si ebbe asciugati gli occhi, e tratto qualche sospiro incominciò così:

— Voi avete a sapere, come innanzi che la misera Eponina avesse abbandonato la casa paterna, io, nonostante che Curio si fosse posto immediatamente alla ricerca di lei, deliberai seguitarne a mia volta le tracce, mossa a ciò dal debito di madre, e pei conforti del mio marito Marcello: una cosa mi teneva in forse, ed era di lasciare Arria in balìa di se stessa. Certo, non ve lo nascondo, il pensiero del pessimo effetto sortito dalle cure indefesse per la buona educazione dei miei figliuoli mi aveva buttato per la terra, ma ciò mi porgeva argomento di raddoppiarle, non già di smetterle; quindi mi decisi di confidarla alla signora Claudia...

— Vale a dire a pigliare il lupo per pecoraio.

— Come! Non è persona dabbene la signora Claudia?

— Anzi prelibata; ma ai conti vecchi diamo di frego, e addio, che di storie antiche io non sono vago; fatto sta che, o per saldare i debiti antichi, o per quale altra causa la signora Claudia, smessa ad un tratto la vita galante, si è data da parecchio tempo a coltivare, operaia zelantissima, la vigna della Compagnia di Gesù.

— Guardatevi, dottore, dai giudizi temerari, perchè, [332] vedete, la signora Claudia, in onta delle mie fervorose preghiere, ricusò di pigliarsi cotesto assunto.

— Eh! signora mia, conosco i miei polli; vuol dire che gatta ci aveva a covare; beghina e prete non fallano: se l'uno è merlo, l'altro è corvo.

— Insomma la signora Claudia mi persuase tenerne proposito alla signora marchesa X, patrona del pio istituto di educazione noto col nome di X, dove si accolgono zitelle civili e si allevano nel santo timore di Dio, nonchè in ogni buona disciplina conveniente all'ottima madre di famiglia.

De malo in peius, venite adoremus, secondo lo invitatorio del diavolo; e voi seguitaste il consiglio?

— Lo seguitai.

— Ora mirate furberia di beghina; la signora Claudia non la volle infornare, ma la mise sopra la pala; insomma, io capisco la ragia: voi la raccomandaste alla signora marchesa X nota in Judea, la marchesa si fece pregare alquanto, all'ultimo vi risucchiò la povera figliuola, ed Arria, una volta entrata in cotesta macelleria di anime, non si è potuta più riscattare: facile discensus Averni, sed revocare grados... hoc opus. Io mi ci sbattezzerei, proseguiva riscaldandosi il dottore; la legge impose un giorno che sopra le botteghe dove esponevansi in vendita carni scadenti si ponesse la scritta: [333] Macelleria di mala carne, e lascia che sopra certi conservatorii, educatorii e roba siffatta veruna iscrizione avverta: qui si macellano le anime buone. Più sinceri, i pontefici romani permettevano a taluni barbieri avvisare il pubblico, a mo' di privilegio, con un cartello: «Qui si castrano maravigliosamente i putti ad uso della cappella del papa.» O che pasticcio ripieno di contradizioni è questo nostro civile consorzio! Chi porta a zonzo per la città un quarto di manzo, paghi la multa; a vedere impiccare un uomo s'invita il pubblico con gli avvisi su i canti. Al boia e al sotto boia per una impiccatura si pagano 1700 lire e più; per trecento giornate d'istruzione ad un povero maestro lire 800, quando è grassa. Quando scavi una fossa, se dimentichi accendere il lume, onde il viandante non si rompa le gambe, il Municipio ti coglie in trasgressione; preti e pretesse, di tendere trappole insidiose dove le anime cristiane rompansi gambe e collo, padroni e padronissime[36].

[334] — Ahimè! dottore, voi avete ragioni da vendere, ma non mi sarei mai aspettata questo tiro dalla signora Claudia, tanto mostrò dispiacere per quello che accadde, e tanto parve darsi dattorno affinchè fosse riparato.

— Ma se ve l'ho detto che la signora Claudia l'è proprio una volpe cresimata, ovvero una biscottina riformata, che è tutt'uno; tirò il sasso e poi celò la mano.

— E tuttavia non so capacitarmene. Qual secondo fine poteva avere la signora Claudia e quale le altre suore a rapirmi la figlia? Se l'interesse governa i gesuiti e chi dipende da loro, come proporsi argomento di cupidità Arria mia? Ella non erede e fin d'allora conosciuta povera.

— O signora mia, mi dia retta; veda qui: lo interesse quanto al fine è unico, infiniti poi i mezzi per conseguirlo, e i modi coi quali si manifesta. Mi dica un po', a che mira il cacciatore? A chiappare uccelli o quadrupedi: or bene, consideri di grazia quali e quante industrie per ciò sieno state inventate, e quante altre se ne inventeranno: un [335] dì girifalchi e balestre: oggi reti, schioppi, tagliuole, fosse, stiacciole, panie, archetti, gabbiuzze, lacci, stringoli, penere, erpici, lungagnole, strascini, insomma, un flagello. Ora avverta a questo: la conversione della nipote della illustre memoria di Orazio Onesti mena chiasso, alla più trista, un anno, cresce reputazione e mena clientela; molto più che l'Onesti procedè sempre implacabile contro cotesti avoltoi. Per questa guisa si scredita la dottrina che nuoce; mettesi a interesse la carità come ci hanno messo la vendetta; si ara col bue e coll'asino. Gesù perdonò chi lo percosse, i gesuiti hanno salvato le anime dei discendenti dei loro persecutori! Perchè qui sta il punto: confondere la religione con le furfanterie pretesche; di Gesù e dei gesuiti farne tutta una minestra: insomma mescolare in un buglione brillanti e mochi... e... ed anche... ma non mi attento aggiungere parola che la potrebbe affliggere, e mi cucio la bocca.

— No, dottore, dite pure, vi prego: a quest'ora io mi sento corazzata a tutto.

— E sia: col soccorso di lingue dolose affilate con l'olio santo sul cornu epistolæ dell'altare, si insinua un parallelo fra Arria la santa ed Eponina perduta... magari, se occorre, alla santa si faranno operare miracoli... Cristo non si staccò di croce per abbracciare Santa Caterina da Siena? Santa Brigida [336] non isposò Gesù in virtù di contratto stipulato per mano di notaro? E così anche sulla fossa de' morti, anzi soprattutto sulle fosse dei morti si miete l'erba; dalle lacrime della madre si battono scudi da cinque franchi; la disperazione del padre si baratta in biglietti di banca. I preti, signora mia, sono per eccellenza cuori-cultori; agli altri lasciano il vanto di agri-cultori.

— Misera me! io non ci aveva pensato, ed ora pur troppo m'accorgo che con le mie mani esposi il mio sangue alle fiere. Non è cosa da potersi ridire le finezze che io mi ebbi: però qualche cosa sembra che non mi garbasse, imperciocchè, se allora lo notai, a ripensarci sopra più tardi mi rese la bocca amara: invero rammentai gli amplessi della figliuola non avermi stretto col consueto abbandono; nè i baci mi scaldarono le labbra come prima: le lacrime da lei desiderai invano. E, o avvenga che la mente nostra sia talvolta divina, o che la impressione quantunque inavvertita governi i nostri affetti, per tre notti consecutive, sul mattino, quando è opinione che i sogni ci vengano da Dio, mi sognai Arria in procinto di annegare nel Naviglio grande, ed io sul margine non la poteva sovvenire. Allora mi cascò addosso il sospetto di averla perduta; subito dopo il sospetto diventava paura. Scottata, e come! dall'acqua bollente, era naturale che temessi eziandio della fredda. A rischio [337] di passare per volubile, per ingrata e peggio, mi sentii costretta di conferirne con la signora Claudia, supplicandola, per quanto amore portava a Gesù, di porsi tramezzo, affinchè mi fosse restituita la figliuola. La signora aggrinzò il naso, ma si astenne da qualunque osservazione o rimprovero; solo mi pregava notare come questa parte a lei non convenisse, a me sì, perchè la madre afflitta se nel tumulto della passione ora vuole ed ora disvuole, merita pietà più che perdono; le mie parole tornerebbero più efficaci delle sue, perchè io dove con la persuasione non fossi arrivata, poteva aggiungere esortazioni e lacrime, mentre a lei questi partiti non avrebbero sovvenuto.

— Certamente, non istava alla signora Claudia sonare il cembalo in colombaia.

— Siccome mi parvero le avvertenze di cotesta signora ragionevoli, così senz'altro indugio mi avviai verso il palazzo della marchesa X. — Comecchè io avessi camminato in fretta, pure mi accorsi che la doveva essere stata celermente avvisata, però che appena le comparvi davanti mi mostrò fosco il sembiante: i modi suoi urbanissimi sempre.

— Zampa di gatto, che per meglio graffiare ritira gli ugnoli...

— Udita la mia istanza, la marchesa adagio adagio prese a dirmi come lo universale mi avrebbe lodata sempre per avere riposta la mia figliuola in [338] cotesto fidatissimo asilo, nido di ogni cristiana virtù anche a cose ordinarie: ora poi dopo il tremendo castigo, che a lei piaceva qualificare tribolazione, con la quale la Provvidenza aveva voluto provare casa mia, era sembrato a lei ed alle pie sue sorelle necessità espressa confidare la fanciulla nelle mani di persone religiose, come adesso non esitava a giudicare insania espressa ritornarci sopra...

— La gatta piglia a mettere fuori gli ugnoli...

— Ed aggiungeva tutta compunta: consideri lei, ch'è madre, che bel costrutto ricaverebbe la fanciulla a riparare da capo in casa sua; ella si renderebbe inabile allo stato così religioso come secolare... Ch'è mai la zitella, perduto il credito? Coteste parole mi erano tante stilettate nel cuore, ma tanto in quel momento mi sentivo avvilita dallo infortunio, che non ebbi balìa di barattare pan per focaccia alla spietata: pertanto mi strinsi a risponderle: Signora, io credo fermamente che il Signore placato vorrà cessare per una povera madre i giorni della sventura: oh! io spero che egli non si appoggerà con tutta la sua potenza sopra una canna incrinata. Ad ogni modo, contro il soperchiante infortunio a me misera avanza un conforto supremo, che veruno può rapirmi, ed è sentire di non averlo meritato. — Oh! via, via, sempre più blanda soggiunse la marchesa, coteste iattanze rasentano [339] quasi la bestemmia. Qual giusto potrà dire: io non ho meritato la penitenza che Dio mi ha imposto? Scusi, ma si attenterebbe ella a sostenere giusti i suoi figliuoli? Tutte l'erbe, cara mia, si conoscono dal seme, e per me veruno mi leva di mente che chi tal semina tal raccoglie. La società ha diritto di vigilare sopra sè stessa, perchè veda, cara mia, le leggi non sanno fare altro che punire la colpa commessa, mentre a noi, principali interessati nell'ordinato vivere civile, preme anzitutto che la non si commetta; però appartiene capitalmente a noi, ed ai religiosi di santa vita, vigilare con lo apostolato delle parole, e più delle opere, che i traviati precipitando dal vizio nel misfatto non vadano a popolare i bordelli e gli ergastoli.

— Ecco, gli ugnoli della gatta si manifestano nella pienezza della loro gloria!

— La natura, che diede l'ira al verme stesso, fece sì che la mia pazienza, gittati gli argini, diventasse furore, onde con voce turbata le favellai: Signora, ella è in casa sua, e non fosse altro che per questo, avrebbe dovuto come gentildonna astenersi di trafiggere il cuore di una madre abbastanza desolata. Qui non venni per garrire, bensì per ripigliarmi la figlia. Si compiaccia pertanto di ordinare alla priora del ricovero che me la renda. Se sì, io gliene professerò riconoscenza: se no, duolmi avvertirla [340] che io ricorro difilato al questore perchè provveda ai termini di legge. — La marchesa allora: Le priore dei pii istituti, cara mia, non sono mica serve alle quali si possa comandare; ed io sono patrona, non già padrona del ricovero. Nel confidarle secondo i suoi desiderii la fanciulla, io non feci contratti, nè io per me assunsi obbligo di sorta. L'unica cosa che ella possa fare, è d'intendersela con la priora. — Qui sonò, e comparso subito uno staffiere, ella gli disse: Giovanni, accompagnate questa signora, — e con elegantissimo inchino mi licenziò, ritirandosi in altra stanza innanzi che io le potessi ricambiare il saluto.

Mi avviai frettolosa al Ricovero; sonai il campanello: non risposero; tornai a sonare fino a quattro volte sempre invano: all'ultimo apersero lo sportellino, e domandarono chi fossi e che cosa volessi. Dettolo, mi sbatacchiano lo sportellino in faccia: mi armo di pazienza ed aspetto; dopo lunghissima ora mi venne conceduto l'ingresso. Allora mi accorsi di cosa che mi era sfuggita prima; lì dentro l'aria opprimeva immota e gelata, vero ambiente di sepoltura: anche i mobili presentavano l'aspetto di desolazione, pari agli alberi dei cimiteri, i quali sembra che sentano la inutilità di spargere ombra sopra le ossa destinate al freddo eterno: lì dentro occorre sempre ogni oggetto fermo al suo posto, non coperto mai dalla polvere, la quale, non fosse [341] altro, attesta che in cotesta, o camera o sala, qualcheduno si muove: si giurerebbe che cotesti luoghi sieno deserti, o ci frequentino spettri. Dalla entratura si scorgeva il giardino uliginoso, dove le piante e i fiori sembravano starsi condannati a far penitenza. Rabbrividii, e tanto andai innanzi, che mi rinvenni di un tratto alla presenza della priora. Queste femmine paiono formate tutte sopra un medesimo modello; taluno le disse composte di mozziconi di moccoli avanzati ai mortorî: a me piuttosto, considerata bene la qualità viscosa della loro pelle, parvero fabbricate con la pasta da vermicelli, e appunto come le paste nel colore diverse, voglio dire talune bianche, tal'altre tinte di zafferano: gli occhi reverberi di lumi spenti: insopportabile l'alito, perocchè l'anima, da tanto tempo morta dentro di loro, le renda troppo più fiatose dei denti fradici: il gelo della morte le circonda tutte, ghiaccie le mani, ghiaccio lo sguardo, le parole ghiaccie e chete come falde di neve che senza vento fiocchi; mi entrò più che mai il raccapriccio nelle ossa, tuttavia vinto il ribrezzo presi a parlare. A me parve discorrere, anzi, dottore, ve lo affermo addirittura, discorsi di certo con efficacia; e lo potete credere, se considerate quanto smaniosa mi agitasse la passione materna; poteva pretendere, e non di manco le mie parole sonarono affatto umili, pregai, piansi. La priora [342] non m'interruppe mai, lasciò che nel dire affannato mi rifinissi, e mi accorsi più tardi questo essere stato astuto consiglio per ispossarmi: cessato che io mi ebbi di parlare, ella, ineccitabile, a me terribilmente palpitante rispose in questi accenti: — Arria non ha potuto resistere alla voce che le venne dal paradiso di consacrarsi a Dio: tra la voce del Creatore e la sua creatura, come mai può attentarsi la creta di entrare in mezzo? Se da lei madre si sentisse verace affetto per la sua figliuola, invece di affannarsi, dovrebbe esultare nel pensiero che gli angioli l'avessero assunta al sodalizio della beatitudine eterna.

Cotesto empiastro di zucca essendomi riuscito soprammodo sazievole, la interruppi dicendo che noi altre donne nate e cresciute per uffici diversi non ci potevamo intendere: per me giudicare poltrone le femmine le quali fuggendo il debito di natura e civile si sprofondano nella inerzia e da per loro si condannano alla sterilità: solo chi ha combattuto merita lode presso agli uomini e presso Dio. Chi si anticipa la morte o si sopprime parte della vita non dà prova di virtù. — A queste parole mi parve che la priora palesasse il suo sconcerto diventando più bianca, però quando tornava sul discorrere la sua voce non palesò veruna alterazione; pianamente disse: — Arria avere manifestato alla madre il suo fermo proposito dentro una [343] lettera chiusa, la quale ella le avrebbe fatto recapitare in giornata, ma che essendole ora, fuori della sua aspettativa, capitata dinanzi, si recava a debito consegnarla nelle mie proprie mani. Apersi la lettera con membra tremanti, e con l'anima tremante anche più la lessi, e compresi come l'uredine letale della falsa religione avesse ormai corsi gli steli più delicati di cotesta povera anima...

— Per caso, interruppe il dottore, avreste conservato cotesta lettera?

— Non me ne separo mai, la porto sempre meco sul seno, nella folle speranza che, come l'ardore del mio sangue scalda la carta, un giorno possa scaldare anche il cuore di cui la scrisse.

— Le rincresce mostrarmela?

— Al contrario; prendete.

Il dottore lesse:

«Dilettissimi genitori,

«Per vostra consolazione io vi ho da dire che, appena posto il piede sopra la soglia di questo asilo di carità e di pace, mi sono sentita tutta ricreare. Dio pertanto vi rimeriti del benefizio grande che mi avete fatto, allorchè secondando il mio desiderio voi mi ci avete messo; e come spontanei mi ci metteste, così spero che volentieri mi ci lascerete stare, avendo ormai fermamente risoluto di non lasciarlo più. Varcato di un passo il limitare del piissimo asilo, ecco subito scendermi [344] sull'anima una quiete di paradiso, una esultanza celeste, che si può ben sentire, ma non si può ridire, onde io, sovvenuta di certo dal mio angiolo custode, potei raccogliermi e meditare: — Se tu ti proponi veracemente albergare nel tuo cuore Gesù, hai da procurare prima rinettarlo da ogni immondezza, dacchè in modo diverso a lui parrà ritornare nella stalla ove nacque... Ora come mai puoi presumere di conseguire questo continuando a vivere in mezzo al mondo, se anacoreti ed eremiti ci riuscirono a stento ritirandosi nelle solitudini, dove attendevano notte e giorno nelle discipline, ne' digiuni e nelle orazioni, per purificarsi al cospetto di Dio? Bisogna avere perduto proprio il bene dello intelletto, per credere di ottenere la salute dell'anima vivendo al secolo. Mi sono affacciata sull'orlo della gran caldaia del mondo ed ho dato indietro piena di terrore e di molta paura, conciossiachè io ci abbia veduto bollire dentro la Santa Madre Chiesa, lacerata in pezzi dagli empi, i suoi divini precetti tritati co' si fa del prezzemolo; ci ho visto bollire altresì eresie e bestemmie da fare rizzare i capelli sulla testa allo stesso Lucifero; ci ho visto costole, stinchi e capi dei sacerdoti, semenza preziosissima di Gesù; ci ho visto l'aceto, il fiele, le battiture, lo schiaffo, i chiodi, le spine e la lanciata di Longino ammaniti tutti per la passione dell'angelico Pio nono, martire [345] della fede. Dalla caldaia infernale saltavano su come sonagli i tradimenti, le rapine, i disordinati appetiti della carne, gli omicidi, le ire, le vendette; colà vedevi disfarsi per virtù del fuoco infernale la carità e la fede: fino la speranza ci boccheggiava in procinto di dare gli ultimi tratti. Sì, dilettissimi, gli scellerati hanno ucciso perfino la speranza, conciossiachè una volta strappato Dio, non dai cieli, che tanto non possono gli empi, bensì dal cuore umano, o che cosa starebbe a fare la speranza sopra la terra? Tutti i flagelli di Dio si sono scatenati su questa generazione perversa. O Maria refugio dei peccatori, o Angiolo custode strenuissimo guerriero nostro, o anime benedette del purgatorio, accorrete in nostra difesa! E a me misera chi sovviene? La più parte dei miei si è portati via la bufera. La vanità vinse Eponina, la cupidigia vinse Omobono, la prosunzione Fabrizio, tutti la irreligione. Di Curio, più degli altri fratelli posseduto dal demonio, non si sa nulla, e chi sa che fine ha fatto: voi altri abbracciati al tronco della croce, appena potete reggere, dilettissimi, alla violenza del temporale. Non mi contrastate dunque che io mi offerisca intera, anima e corpo, al mio buon Gesù; egli ha patito tanto per me, che qualunque sacrifizio per parte mia non varrà a compensare nè manco una gocciola del suo preziosissimo sangue e nessuno si attenti incolparmi di [346] abbandonarvi, imperocchè, venite qua e ragioniamo sul sodo: ditemi che cosa vale più agli occhi vostri, l'anima o il corpo? L'anima di sicuro, così per voi come per me; ergo è forza che voi lasciate che io intenda intera alla salute dell'anima, e prima di tutto della mia, conciossiachè la carità, onde sia perfetta, bisogna che cominci da sè stessa, poi della vostra, quindi dei miei; per ultimo di quella di tutti i fratelli in Cristo. Con le mie preghiere vi metterò sotto il patrocinio delle cinque piaghe di Gesù; non rifinirò con lacrime, orazioni, penitenze e digiuni d'impegnare la beata Vergine madre del Signore e tutta la corte Celeste, affinchè ai fratelli miei ed a voi, dilettissimi genitori, non abbia a toccare peggior male che le fiamme del purgatorio, ed in questa fiducia mi pare che mi si spalanchino le porte ed io contempli la gloria di Dio, e possa ringraziarlo di persona della grazia conceduta; o come mi esaltano i cantici degli angioli, come i sacri timiami fumanti nei turiboli di oro dei serafini m'inebriano; troni, dominazioni, potenze, cherubini, arcangioli, io mi abbandono nelle vostre braccia... chi mai dopo avere contemplato il cielo può riabbassare lo sguardo per rivedere la terra?

«Suora Maria Crocifissa

«P. S. Suora Maria Crocifissa, vi avverto, che sono io vostra figliuola; ho rinunciato al nome di [347] Arria, perchè pagano, e un giorno di femmina, senza dubbio adesso nello inferno, per essersi ammazzata con le proprie mani, volendo dare coraggio al suo marito per fare lo stesso, mentre quello di Maria Crocifissa mi mette in certa guisa a parte della passione del nostro divino Redentore.»

«Secondo P. S. Nella divina esaltazione della mia mente mi sono sentita capace d'improvvisare un inno sacro, e ve lo mando: voi argomenterete da questo la forza mirabile della potenza di Dio, che di punto in bianco m'invade di furore poetico, com'egli costumò già

col rapito di Patmo evangelista,

e come un giorno delegò virtù al legislatore ebreo di fare scaturire con un colpo di bacchetta la sorgente dell'acqua dalla dura roccia.»

Difatti, compiegati dentro la lettera, occorrevano versi da fare morire di colica tutte le nove Muse, ed Apollo per giunta.

Il dottore li lesse, e nel restituirli alla Isabella, con un tale suo ghigno alla trista favellò:

— Conosco queste ricette gesuitiche, bocconcini di arsenico confettati nella scialappa; ebbene, avanti, che sono impaziente di sentire la fine.

— Povera me! Frenai l'impeto della passione, e più umilmente che per me si potesse, soggiunsi: — Signora priora, ella mi dà una lettera, mentre io sono venuta qui per ripigliarmi la figlia, e la [348] voglio, nè mi rimuoverò di qui finchè la non mi venga restituita.

— La non si alteri, cara sorella, l'ira guasta la salute, e poi è peccato mortale. Io le renderei con tutto il cuore la Crocifissa, ma non posso.

— E perchè non può?

— Perchè la Crocifissa non si trova più in questo ricovero.

— Ohimè! E come non ci è più Arria?

— Questo apprenderà dove si compiaccia leggere una seconda lettera che la nostra diletta figliuola in Cristo, Maria Crocifissa, scrisse prima di partire, appunto per lei.

— Io per me credo che il supplizio del pillottamento non giunga a pezza quello che pativa io; sentiva le goccie dell'olio ardente cadermi addosso ad una ad una ed abbruciarmi le carni; — una lettera — due poscritti — un inno sacro — una seconda lettera.... ne volete di più? La lettera, eccola qua.... con questa, insomma, mi dice che, per sospetto di trovarsi attraversata nella sua vocazione, aveva risoluto partirsi per Parigi, e quivi nella casa centrale delle suore di carità terminare il suo tempo di prova. Allora non conoscendo più ritegno diedi in escandescenze: — menzogne coteste, urlava da spiritata, Arria là dentro; la seconda lettera scritta allora allora; essermi accorta pur troppo, da una carrozza uscita dal palazzo della marchesa X, [349] la quale mi passò fulminando dallato mentre io mi recava al Ricovero, lei essere stata avvertita della mia venuta; — come dalla lunga dimora a farla aspettare alla porta prima d'introdurla dentro argomentava l'apparecchio forse di ambedue le lettere; per certo della seconda. La priora sempre pacata mi rispose: cotesti essere giudizi temerari, badassi bene che un giorno avrei dovuto renderne conto a Dio..... e come severo! Forse il dovere suo e la dignità del Ricovero imporle il rifiuto di qualunque discolpa alle accuse calunniose; pure per chiarirmi non della sua lealtà, bensì della mia ingiustizia, frugassi a piacere mio il Ricovero, lo rovistassi a bell'agio dalle soffitte alle cantine, mi sincerassi pienamente. — Compresi allora inutile ogni ricerca; ormai l'uccello era volato altrove. La priora, visto l'affanno che mi faceva tremare come vetta, mi si accostava carezzevole profferendomi acqua mescolata con elisirvite, aggiungendo non so che parolette susurrate per modo di conforto. Respinsi da me la donna ed il bicchiere, esclamando: — Qui tutto è veleno! Dio, ti piglio in testimonio che io consacro la mia vita alla ricerca della mia figlia, e mai non mi fermerò fintantochè non l'abbia ritrovata. Ma voi, dite, che siete donna e dovreste sapere amore e dolore di madre che sia, perchè congiurate contro di me? Perchè vi unite con gente iniqua a perseguitarmi? Io non vi offesi [350] mai, e credete davvero ben meritare di Dio e della religione, sacrificando l'anima vostra agli interessi mondani dell'empia setta dei gesuiti? — La priora incrocicchia le dita delle mani, piega alquanto il capo sopra la spalla destra e, levati al cielo cotesti suoi occhi di triglia cotta, non risponde altro che questo: — Signore, io vi offro anche queste ingiurie non meritate in isconto dei miei peccati. — Dio! Dio! E' c'è proprio da ammattirne; o che cosa guadagnano coteste sciagurate a contristare così le povere creature per conto altrui?

— E lo domanda a me?

— Sì, a voi come a persona esperta, e mi professerò anche per questo capo a voi obbligata.

— Ebbene, io le esporrò taluna delle mie opinioni in proposito: abbia la pazienza d'ascoltarmi. Con rispetto parlando, mi è parso che le donne sono per ordinario governate molto dal cuore, dal giudizio poco; quindi penso che nelle azioni loro, non dirò che non ci sia ipocrisia, ma assai meno di quello che si pensi, però possono talora essere di pessima indole e religiose ad un punto: l'amore nelle donne si mescola a tutto: l'amore per esse costituisce la stoffa della vita, le altre passioni ci fanno la balza: quindi vediamo le donne facili ad amare, tenaci a perseverare, massime se la pietà, come spesso succede, o preceda l'amore, od anche gli tenga dietro; nel primo caso la pietà è il lucifero [351] dell'amore, nel secondo l'espero; stella benigna sempre. Ponete mente, le donne più di tutti delirarono per le credenze antiche, e più che tutti insanirono per le nuove: esse non sanno distinguere nulla, nè vogliono; tanto vale per loro la barba del cappuccino, quanto la onnipotenza di Dio. La fede che nella religione precedente alla nostra esse avevano di potere diventare oggetto di tenerezza per gli Immortali, Giove compreso, le faceva andare in visibilio: che importava lo infortunio di Semele? Tutte, veruna esclusa nè eccettuata, avrebbero eletto di stringere nelle proprie braccia il Tonante, vederlo nella terribilità della sua gloria e poi restare incenerite. O ch'egli è poi il caso di Dafne lacrimabile davvero? Se le sue membra diventarono alloro, le fronde di questo albero furono e sono onore d'imperatori e di poeti. Se le donne si staccarono dai numi antichi e vennero ai nuovi, e' fu perchè amore più veemente le vinse: piacque Cristo, bellissimo di forme terrene, spiranti misericordia ed immensa pietà: la tenerezza da lui sentita e dimostrata pei pargoli gli attirò i cuori delle madri: la Maria di Magdala perdonata, l'adultera preservata dalla lapidazione, la Samaritana salutata sorella fecero sì che in lui confidassero quante donne, aborrita la presente abiezione, volessero rigenerarsi e in lui sperassero unicamente per tornare a parte della famiglia e del consorzio umano purificate, [352] riverite ed amate. Però le donne si innamorarono e s'innamorano davvero di Gesù: considerate le loro orazioni, esse grondano propriamente delirio di amore: levateci Gesù e sostituiteci o Nanni, o Gigi, o Tonino, ed ecco che troverete bella e fatta la più ardente lettera erotica che mai sapesse immaginare donna innamorata: anzi, bisogna confessarlo, la più parte di loro vergognerebbe bisbigliare nelle orecchie a Tonino quello che spiattella a Gesù a voce alta; mirate con quanta insistenza pretendono che egli si pigli di riffa anima, corpo et reliqua: sposo e amante, e adorabile ed adorato non rifinisce mai appellarlo. Ponete mente anche a questo: i preti, piloti solenni nei pelaghi donneschi, da prima effigiarono i simulacri di Cristo e dei Santi orribili a vedersi, ma considerando poi come le donne torcessero il viso dai Giovambattista, dai Paoli, dai Macari, dagli Ilarioni e da altri siffatti eremiti affranti dalla penitenza e attriti dal digiuno, dissero: diamo volta al timone, che queste benedette donne fanno il callo anche al terrore, mentre dello amore non si saziano mai, e allora presero ad effigiare i Santi smaglianti di bellezza. Ponetemi una giovane donna a recitare i sette salmi penitenziali ai piedi degli angioli dipinti dal Ghirlandajo, da Raffaello e da Lionardo, e mi direte poi se ella ne diventi devota. I gesuiti, nello scopo di moltiplicare la pesca, hanno di nobile [353] fatto l'arte plebea, fabbricando un flagello di Madonne e di Santi da strapazzo, ma però lustri, imbiaccati, imbellettati e ravviati, come se uscissero allora allora di mano al barbiere. Nei conventi delle monache, caso mai Giuseppe il falegname si attentasse comparire senza facciole in mezzo al bue e all'asino, sarebbe grave scandalo. Non dirò nulla di S. Luigi Gonzaga, nè di S. Stanislao Kostka ed altri simili cavati fuori dal semenzaio della Compagnia di Gesù; nella Novità del Sonzogno non comparvero mai figure di femmine tanto azzimate, come ci presentano i gesuiti questi Santi di loro manifattura. Un giorno al visconte di Chateaubriand frullò pel capo, allo scopo di menare chiasso, di dettare i Martiri e il Genio del Cristianesimo, amara radice donde vennero alla Francia amari frutti, ed eccoti i preti arrabattarsi a fare l'autore amabile in grazia del libro, e il libro in grazia dell'autore, e però ornare il volume del preteso ritratto del Visconte, il quale ricavarono non mica dal vero, potendo il povero uomo, a cagione della sua bruttezza, somministrare testimonianza a coloro che sostengono l'uomo disceso da progenie scimmiesca, bensì dal Byron, giudicato empio come il demonio, ma bello come un Dio. Avvertite altresì come, per insinuare nelle grazie delle signore quel grimo di Pio IX, in fronte delle varie edizioni della sua vita, dettate dal Plutarco St. Aubin, si sieno industriati [354] di mettere al tormento la estetica per dare affetto ed intelletto ad una faccia di vecchia balia, che va a battezzare un bambino. Dunque poniamo in sodo, movente primo delle donne faccendiere in materia di amore essere l'amore, il quale quanto più vola in alto più affatica le penne, sicchè quando ha volato e volato in su e si crede lontano dal paradiso meno di un tiro di schioppo, nel volgere lo sguardo in giù si vede rasentare la terra più che non è verecondo avvertire: le monache di Prato e il laidissimo canonico Ricasoli informino[37]. Dopo l'amore viene la vanità nel cuore di femmina, passione fredda quanto quell'altra è calda: supremo intento della femmina comparire, e siccome per comparire proviamo il dominio efficacissimo strumento, così per conseguirlo ella si affanna con tutti i nervi; potendo piglierebbe potestà principesca, e l'ha tenuta talvolta non meno scelleratamente che sagacemente degli uomini, ma ciò a lei non concedesi tanto di leggieri, che la vanità maggiore degli uomini glielo contrasta; per la qual cosa ella cala sopra qualunque prominenza le si pari dinanzi, che la qualità dello strumento sul quale la passione si esercita non muta in nulla la natura di lei: tanto sotto la corazza di ferro di [355] Achille, quanto sotto quella di barbietola dei ranocchi di Omero, il cuore batte con palpiti eguali: che cosa importa sedere sopra un guscio di noce o sopra una scranna dorata, a patto però che entrambi significhino trono? Che rivela stringere uno scettro, ovvero un mestolino, a patto che ambidue sieno simboli di signoria? Allo scarabeo che rotola nelle sue zampine la palla escrementizia pare di essere glorioso quanto Carlo Magno che stringe nelle mani il globo del mondo. I preti per giunta si studiano indefessi di adulare le donne, e con arte astuta alterano in loro il retto giudizio delle cose, sicchè alla perfine esse giungono a confondere le spille con gli stiletti, i veleni co' biscottini, il fuoco della contrizione col fuoco di legna, e quindi con leggerezza o gravità pari trattano queste e quelle. Dopo siffatte considerazioni ne vengono altre più materiate, non però meno desiderabili: le femmine agiate, dove tengano in convento lo ufficio supremo di priora e di abbadessa, ovvero uno dei capitali, godono delle comodità consuete o maggiori a quelle di cui già godevano in famiglia; le altre poi uscite da basso lignaggio si deliziano in morbidezze non isperate; dove capiterebbero mai se dimesse dal convento? Le più non hanno famiglia; l'avessero, esse repugnanti ci si condurrebbero, e le famiglie repugnanti le accoglierebbero. Uscendo dai conventi, esse se ne tirano dietro la polvere, trista [356] quanto quella dei sepolcri: non più impero, nè obbedienza, stanza meschina, pensione grama: solitarie nelle città, nelle quali esse rientrano a modo dei sette dormienti, non avendo a spendere altro che monete di cuoio. Oltre queste vi saranno altre ragioni, ma l'esposte non le paiano poche: amore rinvestito in passione religiosa, vanità di dominio, saccenteria soddisfatta, bisogno di conservare il bene presente, paura del male futuro.

— Dottore, io sono stata a sentirvi a bocca aperta; tanto è, ho da dirvela, le vostre ragioni mi bollivano pel capo, ma da me non le avrei sapute districare mai; gradite le mie grazie; io vi stimava molto come dottore fisico, ma voi mi avete dimostrato che siete troppo più perito nelle infermità dell'anima.

— Noi altri medici di rado facciamo distinzione tra corpo e spirito: però, come adesso soprappongo l'orecchio al cuore umano, un dì ebbi vaghezza di mettere l'orecchio sopra lo involucro di questo consorzio che piglia nome di società civile per sentire i palpiti del secolo che muore... egli muore e non ci ha rimedio che valga a salvarlo. Bene mi è riuscito estrarre tubercoli e sradicare cancri dallo stomaco, non mai un errore nè una tristizie dal cuore dell'uomo; e quindi a dritto Omero saluta la persuasione divina, perchè in verità non mi è occorso fin qui incontrarla in questo mondo; onde io di quanto ho diminuita la [357] fede alla parola, altrettanto l'ho cresciuta al bistorì; ed ora andiamo innanzi nel nostro racconto.

La signora Isabella proseguendo disse: — Non potendo tenere dietro a tutte le mie figliuole, mi proposi seguitare le traccie di Arria, come quella che a mio credere correva maggior pericolo di perdizione: provvista di lettere commendatizie mi condussi a Parigi; costà, in vista di tastare il terreno attesi a vedere subito le persone alle quali mi avevano raccomandata; ell'erano magistrati, avvocati, banchieri, mercanti e soldati o vecchi riposati o giovani sotto le bandiere; esposto il caso, tutti, ma principalmente gli ultimi, e i giovani più dei vecchi, ad una voce affermavano difficilissimo l'esito della mia richiesta; anzi stupire come io italiana e cattolica ci potessi insistere; non sapersi persuadere che una madre credesse adempire il suo dovere e dare prova di amore alla figliuola attraversandole la strada onde ella si riducesse in luogo di salute. Ahimè! Quanto ci riesce insopportabile la stolta beghineria sopra la bocca francese, usi come eravamo da un secolo e più a sentirci sonare la stolta empietà! Ottanta anni fa correva l'andazzo in Francia rinnegare Dio[38] e tutto il [358] mondo per darle gusto doveva confessarsi ateo; adesso il tempo volge di pellegrinare a Roma, e se i francesi potessero ci aggavignerebbero pel collo e farebbero batterci il naso per forza sulle ciabatte del papa. Rinvenuto alla fine il luogo dov'erasi riparata Arria, mi presentai alla priora. Misericordia! Stetti un momento in forse sul dubbio se fosse quella medesima di Milano, tanto apparivano gettate dentro una medesima forma; questa però aveva sopra l'altra il vantaggio di stringere più spesso le mani e più spesso voltare gli occhi al cielo le pupille di pesce andato a male, zufolando con una vocina da zanzara: mon Dieu! mon Dieu! — Però, sotto le sembianze false della umiltà, si vedeva trapelare la sicurezza di chi sa di essere spalleggiato in tutto quanto si faccia. Invece di svellerla, i francesi hanno ingrassato l'ortica col guano; se adesso si sentono pungere le mani, lor danno! Il mio colloquio con la priora veniva interrotto più spesso che non convenisse dalla comparsa di Suore vestite di una sargia bigia, con certa maniera di acconciatura in capo tanto sguaiata, da farle sbagliare co' gabbiani girondolanti per l'aria quando il mare è torbo; anco qui ai miei gridi strazianti sentii opporre preghiere e scongiuri; anzi vidi lo sforzo della priora di mescolarci una lacrima o due, ma non ci riuscì (e credo non ci sarebbe riuscita nè manco se metteva il capo nello strettoio dell'ulive) [359] perchè non attraversassi a cotest'angiolo il celeste volo verso il paradiso; breve, la conclusione fu questa: Suora Maria Crocifissa avere fatto capo veramente là dentro, ma essersene dovuta allontanare pochi giorni dopo in obbedienza agli ordini superiori per condursi a Brusselle, dove l'avrei trovata di certo addetta alla pia casa di lavoro, o agli ospedali. Ed io misera madre da capo in cammino, da Caifas a Pilato. A Brusselle adoperai come a Parigi per iscoprire marina, ma se qui incontrai le porte chiuse, a Brusselle erano inchiavardate. Ora, mentre io mi arrangolo per trovare il filo della matassa, la buona femmina presso la quale più che modestamente albergava, sentendo pietà del mio affanno, mi confidava che se ci era verso di approdare a qualche cosa di buono, bisognava che io me ne rimettessi nella marchesa di Grappigny, donna di pietà insigne, famosa per dottrina, e, da quanto se ne sentiva dire, tenuta in odore di santità; di credito grande presso i gesuiti (e tutto questo parlò a voce alta; poi a voce sommessa, e guardandosi attorno con sospetto, aggiunse) — dei quai le male lingue affermano essere spia, porta polli e alla occasione vettura da strapazzo; caso mai che le male lingue si apponessero al vero, bisognava dire che tutto questo formasse la sua industria segreta, mentre la palese consisteva nel darsi a nolo a recitare orazioni ed a comunicarsi a [360] profitto delle anime del purgatorio.... Del purgatorio! esclamai io maravigliata, ed ella: Già, per lo appunto così, perchè voi avete a sapere che i preti non vendono solo uffizi e tridui, messe e novene, mortori e indulgenze e via discorrendo, tutte cose di propria manifattura, sibbene ancora le comunioni e le orazioni delle loro penitenti, buscandoci su la senseria, la quale supera sempre il prezzo della merce. Avendomi la buona donna istruita del modo col quale io dovessi comportarmi, e dettomi il luogo dove per certo mi sarebbe occorsa la marchesa, mi condussi la mattina per tempo alla chiesa di S. X.

Secondo la descrizione che io ne aveva, non penai troppo a rinvenirla: ella stava genuflessa sul pavimento co' gomiti appoggiati al paglietto della seggiola e le mani giunte dirizzate come una lancia verso il cielo per di sopra al capo, coperto fino al naso di fittissimo velo: la veste era di raso nero sbiadito, per vetustà pendente al colore che le nostre donne chiamano di piattola; di trine un profluvio, ma logore anch'esse e rammendate: ruine d'imperi! Adagio adagio me le feci allato, e la udii gorgogliare avemmarie e paternostri come pentola che spicchi il bollore; mentre io stava tra il sì e il no di volgerle la parola, ecco uscire dalla sagrestia un garzonaccio col muso di faina, i capelli stesi per le guancie come foglie di canna, e due [361] piedi... due piedi enormi così, da mettere i brividi addosso ad ogni fedele cristiano che patisse di calli: costui si appressò camminando per traverso alla marchesa, le pose in mano una cartuccia e le mormorò negli orecchi non so che parole, le quali ebbero virtù di fare saltare in piedi la donna, e prorompere stizzita: Come! per cinque franchi una comunione eucaristica secondo la sua intenzione? Ah! padre Candido non mi vuol dire il nome dell'anima alla quale intende applicarla? La è chiara come l'acqua, egli me lo tace per impedirmi di andare dai suoi parenti, e a questo modo io venga a scoprire quanto ei mi sgallina sopra la oblazione... eh! mi sentirà; eh! cinque franchi... mi sentirà! Come posso con cinque franchi tirarmi innanzi con marito e figliuolo? Se padre Candido vuole che preghi, bisogna pure che mi dia da mangiare... e adesso dov'è cotesto benedetto uomo? Il garzonaccio a collo torto le rispose: in cella a comporre il panegirico per domani l'altro primo luglio, che ricorre la festa di S. Ignazio. — Adesso... adesso mi sentirà, e senza altre parole, via di corsa. Aveva avuto tempo sufficiente a contemplarla; ella era una beltà giunta a compieta, l'amor terreno (se pure ce gli aveva spenti) in lei spense i suoi strali come il fabbro i ferri infuocati nell'acqua; dentro le rughe e negli angoli delle labbra tu vedevi brulicare i malefizi [362] quasi lumbrichi per le fosse: gli occhi ardevano sempre di luce sinistra, sicchè se mai fosse venuto a smorzarsi il fuoco dello inferno, io per me credo fermamente che il diavolo lo avrebbe riacceso a cotesti occhi. Ahimè! A quel fiasco bisognava pur bere. Con voce quanto più seppi umile la chiamai: Signora! Ed ella senza neanche voltarsi, acerba rispose: Chi siete? che volete? Io le apersi il desiderio di conferire con esso lei. Ed ella da capo arrovellata: aspettate che abbia fatto le mie devozioni: orò, si comunicò, tornò di nuovo ad orare; per ultimo mi disse: venitemi dietro; e così ci riducemmo in un angolo remoto della chiesa, dove io, dopo averle narrato la compassionevole storia la richiesi di consiglio e di aiuto. Strana cosa, se togli la mia buona albergatrice, la provai unica fra tutte le donne di Brusselle a non darmi torto per le mie premure nella ricerca della figlia, ma nel medesimo tempo mi palesava le difficoltà quasi insuperabili per riuscire nel mio intento. Io la supplicai con tutte le viscere a tentare ogni via, ed aggiunsi che per attestarle la mia riconoscenza le avrei donato l'anello che io teneva in dito. Ciò udendo ella mi acciuffò la mano ed esaminato bene il diamante, come persona perita esclamò: certo una coppia di mila franchi può valere! — Ne costava tremila e più, ma poco rileva. Allora, al fine di gratificarmela maggiormente, glielo proffersi: lo [363] tenesse per mercede anticipata; ma ella osservò: e se non riesco? Allora me lo renderete. In questa essendo stato sonato l'ultima volta a messa, una frotta di devoti prorompe in chiesa, ed accostatasi alla pila dell'acqua benedetta lì, presso a noi, ci tuffava la mano, facendosi poi il segno della croce; ci separammo; molto più che taluno dei sopraggiunti, gingillandosi, pareva volesse spiare i fatti nostri. Io non istarò, dottore, a narrarvi a parte a parte il mio supplizio; e non lo potrei; bastivi che la marchesa un giorno me ne dava una calda ed una fredda: ora la speranza pigliava forma di certezza, ed ora si spegneva; di un tratto tornava a risplendere; insomma una vera passione di dubbio e di esitanza, la quale dopo un lungo ciondolare si conchiuse con la recisa repulsa di rendermi la figliuola. Dottore, immaginate a vostra possa l'abisso del mio dolore; io però in verità vi dico che voi con tutta la vostra immaginazione non giungerete alla millesima parte del vero; bastivi questo, che la stessa marchesa, la quale pure era madre, alla vista di tanta desolazione non potè trattenersi da dire: vi compatisco. Sicuro, cotesta parola era fredda come lo spruzzo dell'acqua benedetta sopra la bara, tuttavolta la disse. Allora io non aveva il capo davvero a richiedere l'anello alla marchesa, nè ella lo ricordò; me ne accorsi più tardi, e giudicandolo perduto quasi mi ci rassegnava; quando [364] venne a trovarmi a casa la faina clericale che prima vidi in chiesa fattorino del padre Candido, e mi avvisò: la marchesa di Grappigny desiderare di parlarmi; andai di volo premendo appena i battiti del cuore, nella speranza che si trattasse della mia figliuola; ma la marchesa mi cavò subito dall'incertezza, chè con certo suo fare signorile mi disse: come rovistando nelle cantere del suo stipo ell'erasi trovata davanti il suo anello: scusassi per amore del cielo la dimenticanza; rammentarsi il convegno; correrle obbligo di rendermelo, poichè con tanto suo dispiacere male esito avevano sortito le pratiche per riscattare la figlia. Commossa da simile generosità, risposi senza manco pensarci: le angustie presenti non mi concedere ricompensarla come avrei desiderato, tuttavia pregarla a volersi incaricare della vendita; sarebbe riuscito a lei meglio che a me cavarne profitto; del prezzo ritratto fin d'ora la supplicava accettare la metà in testimonio della mia riconoscenza. Parve le andasse infinitamente a genio la proposta e mi ringraziava a mani giunte; però giudicate quale non fu la mia sorpresa nel vedermela il giorno appresso comparire davanti tutta spaventata, e dirmi: non volere assolutamente l'anello; esserle cascato su l'anima uno scrupolo invincibile... d'altronde impossibile vendere la gioia senza scapitarci tre quarti almeno in Brusselle, città di ebrei battezzati e di cristiani [365] circoncisi. — Partita la marchesa, la mia albergatrice, confortandomi alla sua maniera mi favellò: la secchia cascata nel pozzo, ho sentito dire che un bugiardo la ripesca, ma un'anima cascata in mano ai gesuiti, non la riscatta nè manco un santo: non istate a logorare qui invano tempo, salute e quattrini; correte dietro all'altra figliuola, e di due procurate almeno ricuperarne una.

Pur troppo ella mi consigliava da quella savia donna che ella era; ma per consiglio cuore appassionato non si arrende: quando mi vidi al verde di ogni partito, non ascoltando altro che la mia disperazione, mi gettai allo sbaraglio, e presi a correre la città con urli e pianti per tirare a me la misericordia del popolo: pensai che i gesuiti avrebbero concesso per paura quanto avevano negato per pietà; e il primo giorno bene me ne incolse, che la gente mi si accalcava d'intorno, e mi compiangeva, ed alla libera gridava: essere infamia cotesta; doversi rendere la figlia alla madre; a cotesto mo' i falchi portano via le piccione, non i religiosi le fanciulle dalle loro famiglie. Avrei abbracciato e baciato tutti; mi ridussi a casa pieno il cuore di dolci presagi; il giorno veniente tornai alla prova con maggior lena di prima. O Dio! quale disinganno crudele; appena uscita di casa una mano di straccioni prese a rincorrermi urlando: è matta! è matta! Mi assordarono i fischi, ed anco qualche sassata mi ammaccò [366] le costole, onde io mi sarei trovata presto a mal termine se non mi ricovrava dentro ad un portone. Questa scappata innanzi tratto mi fruttò lo sfratto dalla casa della mia albergatrice (perchè buona femmina, ed amica del giusto certamente ell'era, ma timida, e gatte a pelare non ne voleva, massime entrandoci di mezzo la paurosa Compagnia di Gesù), in seguito vituperii e insulti da quei dessi che mi si erano dimostrati fin lì meglio amorevoli. La persecuzione m'inasprì il sangue: di ora in ora sentiva crescere in me il talento di fiera; smisi di farmi vedere per la città di giorno, ma quando la notte diventava buia io usciva quatta quatta per recarmi sotto le finestre del reclusorio, che io credeva prigione del cuor mio, e quivi, come le scolte costumano, gridava in capo ad ogni mezz'ora; Assassini! Assassini! Rendetemi la mia figliuola! Certa sera mi sento abbrivare alla sprovvista un colpo di mazza impiombata sul capo; caddi come morta; trasportata allo spedale, ciondolai tra la vita e la morte un bel tratto. Appena mi fui riavuta, ecco il ministro d'Italia a Brusselle mi fece accompagnare a Milano, avendo, come disse, ricevute lettere ortatorie dalla mia famiglia e il danaro occorrente pel viaggio. Giunta qui, ebbi a conoscere come la mia famiglia non avesse scritto lettere di sorta, e quanto a danaro trovai che, invece di poterne mandare pel mio viaggio a Brusselle, non ne possedeva [367] tanto da tirarsi innanzi a Milano. Il pietoso che mi sovvenne, fin qui rimase ignorato.

— Per lei, per me no; io lo conosco da un pezzo.

— Voi?

— Già, io: ma dirò di più, lo conosce anche lei, e forse più lei di me. Lo ignoto benefattore sa ella chi fu? Fu la Compagnia dei gesuiti, la quale non essendo riuscita a farla ammazzare, operò a cotesto modo per levarla da Brusselle, per paura, che, dai dai, le sue strida non giungessero a movere il popolo a compassione. Ci fa sapere il Machiavelli che i francesi, ai suoi tempi, dove non arrivavano con l'astutezza, ci aggiuntavano un palmo di ferro. I gesuiti, al contrario, dove lo stiletto si trova corto, ci appongono una coda, due code, cento code di volpe.

*

Ed ora apriamo un po' l'orologio e speculiamolo dentro per vedere come abbiano girato le ruote; il giorno che tenne dietro a quello in cui la marchesa di Grappigny ebbe sfidata Isabella, il reverendo padre Candido chiamava in cella la marchesa, e quivi, dopo averle rinfacciata la indebita ritenzione dell'anello della signora Isabella, tali parole vi aggiunse sotto voce, soavemente come il filo del rasoio penetra nella carne, che ella, che pure era proterva, si accartocciò tutta, e genuflessa [368] a mani giunte lo supplicava di perdono. — Egli rispose: Sia per questa volta; e non dimenticate che di quanto vi ho detto noi possediamo le prove; ora andate e portatemi senza perder tempo l'anello: i superiori delibereranno quello che se ne abbia a fare: tornate domani. — Nel dì veniente padre Candido partecipò alla marchesa i superiori avere deciso che l'anello si rendesse alla madre di suor Maria Crocifissa, perchè in questi tempi perversi, nei quali a bigoncie si versano le calunnie sopra le cose più sacre, perfino sopra la Compagnia di Gesù, che sarebbe mai se quei pezzi d'ira di Dio dei giornalisti si fossero potuti attaccare ad un fumo di vero!

Ma poichè vide il pietoso padre che la marchesa per la pena di condursi a cotesta penitenza, non potendo piangere lacrime, stava per buttare fuori gli occhi, e sapeva quali sgraffi le desse la miseria, la consolò con la promessa di farle buscare fra breve, in comunioni per una certa tal quale anima del purgatorio, qualche cento di lire. Quindi la marchesa rese il diamante ad Isabella.

Ora è da sapersi che la marchesa aveva bene e meglio tentato, e più volte, vendere l'anello, anche dopo il truce comando di padre Candido, ma l'avvertirono che egli era falso, ed ella stessa se ne chiarì considerandolo con maggiore attenzione, ed in questo nuovo esame si accorse altresì come [369] avessero sostituito di fresco il cristallo alla gemma: per la qual cosa volle risolutamente che la madre di Arria ripigliasse l'anello.

Isabella, dopo che ebbe condotto a termine il racconto delle avventure di Arria, prese ad esporre quelle concernenti Eponina, le quali essendo state già da noi descritte, ci passiamo da ripeterle. Solo vogliamo avvertire che, quando Isabella giunse al punto del caso successo dal gioielliere di Dora Grossa, il dottore Taberni proruppe nelle medesime parole di quello: È un furto alla gesuita.

Dato che ebbe compimento Isabella al suo doloroso racconto, il dottore si accorse essersi assunto un impegno per ogni verso ingratissimo, tuttavia non volle mancare al debito: ci adoperò di ogni maniera cautele, come colui che temeva le fibre di Marcello indebolite così, che per ogni po' di peso cresciuto venissero a spezzarsi. L'esito non parve rispondere al triste presagio, imperciocchè egli assorbisse il nuovo affanno simile al mare che accoglie in sè qualunque grosso diluvio di acqua e non se ne commuove. Succede del cuore umano come della fiaccola della lampada; questa, consumato intero l'umore che l'alimenta, tace alla luce; su quello il dolore logora che abbia tutta la parte sensibile, ci può posare il capo come sopra un guanciale. Anche la morte ha la sua anticamera. Però certo giorno Marcello, quasi desto da lungo [370] letargo, aperse gli occhi, e vistosi innanzi il dottor Taberni, fattogli cenno col dito di appressarsi, a lui con un filo di voce gli favellò:

— Dottore, avete mai conosciuto uomo più ricco di mali di me?

— Certo, quegli rispose, grandi, anzi infinite furono le sventure vostre.

— Ebbene, io ne patisco un'altra, la quale mi travaglia sopra tutte, ed è questa. Io non credo che il nostro Dio, come i Numi del paganesimo, pigli a schiantare a colpi di saette i figli di Niobe; e poi io non mi ricordo avere offeso Dio; quindi io non mi posso capacitare che una Provvidenza buona e giusta possa acconsentire che la sua creatura venga straziata fino alla disperazione. O non ci è, e buona notte; ovvero ci è, e allora non sapendo o non volendo provvedere, io la compiango.

— E chi compiangete?

— La Provvidenza, rispose Marcello, e chinato il capo sul petto non disse più nulla.

Marcello, come lo zio, fu trovato morto nel letto. La Provvidenza, nel cessare i suoi affanni, si mostrò vereconda. Isabella contemplò il cadavere del diletto compagno della sua vita senza lacrime, e come donna eletta dal fato a superare la Madonna dei sette dolori; e pur troppo le marmette nel campo santo col motto dolor arrivate fino a quattro, [371] con quella di Marcello giunsero a cinque. Ella accompagnò il suo dolce consorte alla fossa, ella provvide a che egli fosse deterso, vestito, inchiodato nella cassa, insomma a tutto senza stringere le ciglia, senza corrugare la bocca, a passo lento e tardo; a cui la mirò in cotesto atto fece quasi credere non fosse favola la comparsa della statua del commendatore al festino di Don Giovanni. Seppellire i suoi cari, per lei era diventata faccenda ordinaria.

*

Eccola sola! Povera creatura! Di tanti figli e servi suoi, Isabella si trova sola; ma no, qualcheduno le sta allato e la consola. Non le si stacca mai dal fianco una fanciulla di forme egregie, rigogliosa di gioventù e di salute: soprattutto le sfolgorano gli occhi, i quali pare che accendano l'aria dintorno: stupendi certo quei divini raggi d'amore; peccato che patiscano di un mancamento.... e' non vedono! La fanciulla è cieca: miratela, ella si attenta mutare senza appoggio quattro passi o sei, di più no, chè si perita, e messa la mano al muro va a tasto. O chi è mai cotesta infelice? È un nuovo personaggio introdotto nel dramma? No: la conosciamo da parecchio tempo; ella è la Eufrosina, la figliuola del sergente Filippo, e come si trovi lì lo saprete a suo luogo e tempo: intanto non [372] istate a immaginare che io abbia fatto Isabella calamita di disgrazie, ovvero che ella medesima avesse il costume di murarsi nel forno; no, il destino l'aveva tolta a bersaglio; come a quella della Parca alla sua rocca non mancava mai filo; aveva filato a mezzo una sventura, che la fortuna le ci apponeva subito canapa per un'altra: eppure durava: per poco tu avessi posato gli occhi su lei, ecco ti appariva quasi una quercia tocca dal fuoco celeste; la striscia della folgore ne solca la corteccia; questi sono gli stianti di cui l'ha ferita la saetta; le foglie ingombrano la valle e il piano, i rami le giacciono dintorno al tutto morti; certo ella non aspetta più la gloria delle mêssi primaverili, e nondimanco illesa nella midolla si ripromette per molti anni ancora offrire ombre contro gli ardori della canicola e asilo alla rabbia della tempesta.

Anche la speranza talora abbranca tenace come una furia; finchè può, onde allettarti a continuare nel doloroso tramite, coglie i fiori più freschi e te ne spruzza la rugiada sul viso; mancati i fiori, onde tu non cessi, ora ti cava una spina dai piedi, ed ora ti remuove le pietruzze taglienti dal sentiero, e tanto basta all'uomo per tirare innanzi, finchè incespichi nel rialto di terra scavato dalla fossa, e ci trabocchi dentro. E neppure allora si induce a lasciarlo la speranza, che, seduta sopra la lapide del sepolcro, ci si mette a cantare l'inno [373] della risurrezione. Maligna! Anche sulle fosse dei morti tu drizzi il paretaio per agguantare i vivi.

Le povere donne passavano i giorni desolate; non si attentavano favellare a voce alta per paura che la disdetta passando per là non le avvertisse e tornasse a flagellarle: per tema di recarsi fastidio, rade si ricambiavano le parole. Tanto è peritoso lo infortunio! Sostegno unico della vita squallida la speranza che Arria, Curio e Filippo vivessero: di certo sapevano che non erano morti.

Una sera, mentre Isabella attendeva a ricamare ed Eufrosina ad intrecciare cordoni, fu udito sul pianerottolo delle scale un giuramento, che non importa riferire, seguitato da queste parole:

— Se per andare in paradiso mi toccherà a salire altrettanti scalini, gli è bella e risoluta; io rimango a mezze scale. Ohe, di casa! fate lume. Ci è una signora Isabella? Una signora Onesti? O mira un po' dove va a ficcarsi l'onestà! In una soffitta sotto ai tegoli.

Isabella a coteste parole si rimescolò tutta, e fattasi di corsa sull'uscio, cavò il capo fuori domandando:

— Che volete?

— Ecco qua, ho portato in vettura fin giù una donna, che si dice vostra figliuola, la quale mi ha ordinato di salire ad avvisarvi del suo arrivo; dunque venite a pigliarvela.

[374] Isabella non istette a sentire altro, e giù per le scale; ma Eufrosina pensando che così al buio poteva precipitarsi, le corse dietro col lume. Poveretta! pensava a far luce altrui senza avvertire che ella era cieca, ma bene questo avvertì la Isabella quando, giunta a mezzo della scala, vide chiaro; onde voltatasi, e spaventata dall'atto di Eufrosina in procinto di mettere il piede sul primo scalino urlò:

— Non ti muovere; fermati....

E si affrettò a ritornare indietro per ricondurre la infelice in casa. Intanto il vetturino andava dicendo: cotesti essere proprio pensieri del rosso; o che cerini non ne aveva egli? Di mozziconi di candela era piena la cassetta; ma Eufrosina insisteva perchè pigliassero il lume.

— Ed io che me ne fo? Tanto sono cieca!

— Non importa: chi più meno vede la luce e più desidera non iscompagnarsene mai, osservò Isabella; e il vetturino rincalzò:

— E se per le scale si spegnesse il lume, si verrebbe su al buio.

Ciò detto, da capo giù per le scale, e:

— Arria, mugolava la madre ad ogni scalino che scendeva, Arria, sei tu?

— Mamma! mamma! sì, sono io.

Arria scese, l'una si precipitò nelle braccia dell'altra, e piansero.

[375] Quando, dopo un tempo ben lungo, si svincolarono, si accorsero che il vetturino era sparito: ecco perchè il galantuomo non voleva fare a fidanza con la luce; costui rubò i panni alla povera Arria, sicchè ella tornò ignuda nella casa donde era uscita provvista di ogni bene di Dio. Isabella, fuori di sè per la contentezza, non pensò alla valigia; Arria molto meno, tutta sossopra per la piena degli affetti. Ora, mentre la madre saliva le scale al buio, la figliuola le traeva dietro interrogando:

— E babbo come sta?

— Babbo! non ha più dolori....

— E di Eponina si hanno notizie?

— Sì.

— E sta bene?

— Bene.... ma tu che hai, che salisci a stento?

— Sono stracca, rifinita dal viaggio....

— Poverina! farò adagio.

— Mamma.... mi daresti un po' braccio.

— Magari! Porgimi la mano..... Misericordia! come sudi? Ti senti male?

— Mamma! mamma! reggimi.... casco.

Isabella lì pronta, prima a sorregerla, poi ad assettarla quanto più potè soavemente sopra gli scalini, e le asciugò il sudore, e co' più dolci nomi si diede a chiamarla. Dopo pochi momenti Arria con voce fioca riprese a dire:

— Non ti spaventare, mamma, sai! È stato un [376] deliquio passeggero... la commozione.... la fatica.... ora è passato.... andiamo pur su!

Ma di levarsi in piedi egli era niente. La madre amorosa la veniva interrogando:

— Ma da quando è che tu non hai mangiato?

— Saranno ventiquattro ore e più....

— Ma perchè, tu sii benedetta, non ti sei un po' ristorata a tempo? Perchè mai ridurti in questo stato di debolezza?

E qui, senza nemmanco attendere la risposta, dimentica degli anni e degli acciacchi cagionati dalle lunghe angoscie, si reca in collo la figliuola mentre invano questa se ne schermiva dicendo:

— Non fare! non fare!

A cui la madre rispondeva:

— Assettati bene.... procura di stare a tutt'agio.... qui sulla spalla appoggia il capo.... abbracciami il collo col braccio dritto; da brava, su.

Era Isabella a posta sua rifinita di forze, e nonostante ciò tanta balìa le diede la passione, che sarebbe bastata a portare la figlia, non che di carne, di marmo. Miracoli di amore materno, ai quali egli è forza credere.

Giunsero nella soffitta, e al primo raggio di luce, bramose di guardarsi, l'una spinse lo sguardo sopra l'altra, e si fecero paura, tanto si apparvero mutate da quello che furono; nè tanto si poterono reprimere, che non prorompessero in un urlo, al [377] quale Eufrosina aggiunse il suo per consenso di dolore. A quale stato si fosse ridotta Isabella ogni uomo può facilmente immaginare; Arria poi era uno scheletro; tisica senza rimedio. Così la pietà dei gesuiti restituiva la figliuola alla madre. Arrogi che ad Arria aveva messo paura anco Eufrosina, la quale, smaniante a sua posta di contemplare Arria, le cacciò addosso stralunate le pupille come due punte di stile, per la quale cosa questa, abbracciando più stretto il collo alla madre le nascose il volto nel seno interrogando a voce bassa:

— Mamma, cotesta donna chi è? Perchè mi guarda così truce? Che cosa le ho fatto?

E l'altra le bisbigliava negli orecchi:

— Ah! figlia mia, ella è tua sorella, promessa sposa di Curzio, e se ti guarda a quel modo, compatiscila, perchè la poverina è cieca.

Il dottore Taberni, sempre pronto, accorse a visitare Arria; egli conobbe ad un tratto la gravità del male, e gli parve debito non celarlo alla madre; la quale, pure a malincuore persuadendosene, preso per un braccio il dottore, e fissandolo dentro gli occhi, lo interrogò:

— Dunque proprio... proprio non ci è più speranza alcuna?

— Alcuna.

— Dunque, che resta a fare?

[378] — Per me giudicherei carità abbreviarle la vita; per voi ad attenuarle l'angoscia dell'agonia.

— E quando cesserai di trafiggermi con le tue saette? Digrignò fra i denti la desolata, voltando gli occhi in su; ma subito dopo, declinando la faccia in atto di rassegnazione, soggiunse: e sia così!

Il dottore, scendendo i centosei scalini mal connessi, e per giunta bui sempre, acerbo borbottava:

— Io non so capire come i poveri si arrampichino per rannicchiarsi nelle soffitte! Se essi lo fanno per accostarsi maggiormente al paradiso, onde con più facilità Dio veda le loro miserie e ascolti i loro lamenti, stanno freschi! Ci guadagneranno stridori di verno e bagni di acqua piovana; gente senza giudizio, scendete nelle cantine, avvicinatevi allo inferno, almeno sentirete un po' di caldo! Il caldo è principio di vita, il freddo è morte.

Io per me credo, che se è vero che un angiolo stia al fianco di ogni creatura per registrare le sue azioni, la storia dei prodigi di amore di Isabella per la sua infelice figliuola, degli sforzi più che umani onde adempire le sue voglie rinascenti, delle blandizie affinchè l'anima di lei per difetto di consolazione non si desolasse, a quest'ora, scritta su carta velina in caratteri d'oro, dev'essere stata esposta dinanzi al cospetto eterno. Però se lassù, io spero, che la leggeranno con piacere, ed anco [379] con edificazione, egli è perchè tempo avanzato non manca ai beati, a cui la eternità non si misura, mentre a noi il tempo ci è fornito a braccia. Però mi dispenso raccontare la storia dolorosa ai miei lettori; basta per questi quanto riferimmo delle tribolazioni di Arria fino al punto nel quale i gesuiti, calcolando che ormai la povera giovane era diventata di scapito certo, la rimandarono a morire a casa. Arria, all'opposto, nelle vigili notti e nei giorni lunghissimi, la raccontò più volte, per cui la Isabella venne a conoscere come la sua figliuola non fosse uscita mai da Parigi; menzogna la sua partenza per Brusselle; ma non bisogna maravigliarsene, imperciocchè la bugiarderia gli è il sale dei discorsi dei gesuiti. Le accoglienze prime fattele nella casa di Parigi, piuttosto che oneste, principesche: quivi avere vestito l'abito in apparenza uguale a quello delle altre suore, ma in sostanza con sottile arte foggiato così da dare risalto alla sua persona. Da quanto udiva dire intorno con poca verecondia e meno santimonia, la gente andava stupita del poderoso suo incesso, dal colorito caldo, dagli occhi e dai capelli nerissimi, dall'insieme delle fattezze traboccanti di vita, onde il direttore spirituale della casa ebbe a prognosticare che ella sarebbe diventata una strenua gladiatrice della Fede.

Incominciarono a venirla a vedere due o tre [380] vecchie duchesse, le quali di colta ne andarono in visibilio; e visitatala poi a parte a parte con diligenza maggiore di quella che costuma l'eunuco quando provvede odalische pel serraglio del sultano, esclamavano: — Superba! magnifica! — e ad ogni membro del suo corpo assegnavano peculiare epiteto, e direi quasi dottrinale, declaratorio le sue qualità. Dietro a quelle la caterva della plebe titolata, contesse, baronesse e tocca via, la esaltarono a coro bellissima, anzi divina. Aveva a provarsi la nobile gentaglia di contraddire a quanto avevano affermato le duchesse!

Dopo delle donne vennero gli uomini, dei quali più tarda la curiosità, ma più tenace e proterva: questi, chi con un pretesto, chi con un altro, procuravano introdursi nel convento, dove la superiora non mancava mai di esporre in mostra la povera fanciulla. Ma poichè l'àncora che gli uomini calavano non trovava luogo dove appigliarsi, avvenne che anche essi diradarono; allora la priora, nello intento di mantenere sempre la brace accesa, incominciò a menare Arria, ovvero Maria Crocifissa, in giro per le case delle principali patrizie, dove potè essere a bell'agio ammirata, vagheggiata e ritratta. Arria, assueta alle caste carezze della madre, rimase scandalezzata dal vedersi menata in giro come l'orso in fiera, e dal sentirsi posta a mo' di richiamo al paretaio ecclesiastico. I discorsi delle [381] nobilissime quanto cattolicissime baldracche valsero ad arricciare la fanciulla dabbene, che non potè fare a meno di capire come elleno portassero a consumare sopra l'ara dello amore divino tizzi già accesi nella fucina dello amore terreno e sovente criminoso. Più che tutto la offese la spiegazione che le suore provette, e le più volte la priora, davano di lei ai visitanti, come costumano i mostratori dinanzi alle gabbie delle bestie feroci; e lei annunziavano come anima riscattata dalle granfie del demonio: sapere, e saperlo di certo, che non mai l'arcangiolo S. Michele ebbe a durare aspra battaglia col diavolo come i reverendi padri gesuiti contro la famiglia, la città, la nazione di suor Maria Crocifissa, imperciocchè la Italia, eccetto Roma, meriterebbe un diluvio di fuoco come già il mondo lo patì di acqua; e i congiunti della riscattata dalla servitù dello inferno tali da disgradarne Tiberio, Caligola e Nerone, quanto a uomini, e quanto a donne Messalina e Poppea. A lei, udendo simile strazio dei cari parenti e del paese natìo, spesso andavano le caldane al capo e stava lì lì per dare di fuori; ma le suore allora in un attimo la circondavano, con infinito schiamazzo la sbalordivano, e con pronto pretesto lei ed i visitatori senza indugio di colà removevano: di ciò essendosi forte lamentata con la priora, ebbe a sentirsi rispondere: doversi accettare per ottimo tutto che giova alla [382] maggiore esaltazione della Chiesa, e per tale bisognava tenere tutto che giudicano i direttori spirituali; d'altronde uno dei rari poeti religiosi d'Italia avere cantato nel suo poema:

Così all'egro fanciul porgiamo aspersi

Di soave licor gli orli del vaso,

Succhi amari ingannato intanto ei beve

E dall'inganno suo vita riceve.

Ora per lo appunto il secolo è l'infermo. Arria non potè reggersi dall'osservare: — Madre priora, o che la Chiesa la rassomiglia a un purgante? Così non mi sembra che praticasse Gesù. Egli non predicò che seguitassimo l'utile, bensì il giusto. — E la priora rispose: — Certo: ma ai tempi di Gesù gli uomini si provavano meno perversi di oggi: allora si navigava come si voleva, mentre oggi è forza schermirci come possiamo. — Con reverenza vostra, madre priora, insistè Arria, o come fate a dire che gli uomini oggi sono più tristi di quelli che vissero in antico? O non furono appunto i contemporanei di Gesù che lo flagellarono e misero in Croce? — Allora la priora, per cavarsi fuori da cotesto salceto, a modo di perorazione conchiuse: — Orsù, figliuola mia, io vo' che sappiate come nei nostri piedi bisogna deporre la nostra ragione nelle mani del direttore spirituale come un'offerta che si fa a Dio. D'altronde, questo prurito di perfidiare su tutto di rado avviene che non muova dal diavolo, [383] ed abbiatelo per inteso. — Più tardi, la moda tiranna dei tiranni francesi (del popolo non se ne parla nè manco) stando sul punto di abbandonare Arria, per rinfocolare l'avviamento in chiesa la torturarono per indurla ad operare un miracolo, e siccome ella si oppose recisamente di prendere parte in cotesta empia ciurmeria, da quel giorno in poi cascò di collo prima ai reverendi padri, subito dopo alla priora, ed in breve alle sorelle tutte, inviperite contro di lei per l'astio della predilezione di cui fin lì era stata segno. Frati e monache convengono insieme senza conoscersi, convivono senza amarsi, muoiono senza compiangersi. Arria pertanto fu lasciata da parte, e in breve passò di moda così, che di lei non si rammentavano neppure. La vanità è il grano della Francia, e la moda il molino che gliela macina pel suo pane quotidiano; ogni altra cosa passa; colà passò Dio; la libertà, la filosofia, la gloria, l'errore, la tirannide, la superstizione, il bene e il male stare, tutto gira in ballo tondo, sicchè tutto sparisce e tutto ritorna. Strano popolo cotesto! Noi non lo proviamo mai tanto insensato, come quando si mette sul serio; nè tanto sfarfallone, come quando fa le viste di ragionare; e la cagione è questa: allorchè si presenta un caso difficile a sciogliersi, egli non si occupa punto del nodo della quistione, gli gira bravamente d'intorno, e ti pianta tre o quattro proposte come assiomi, [384] che non hanno bisogno di dimostrazione, poi giù a tirarne conseguenze alla dirotta, che più non corre l'acqua dalle grondaie. I francesi galoppano pei campi del sofisma come i cavalli, i quali tanto più scarrierano quando hanno mandato il cavaliere a gambe all'aria. Tutti tirano l'acqua al loro mulino, ma i francesi aggiungono al danno lo strazio. Se ti imbatti alla spicciolata in taluno di loro, li trovi amabili e di bello ingegno; mettili insieme, e viene a galla il vecchio celta, di cui istituto fu gabbare, spergiurare, e poi uccellare; bugiardi poi da far morire dalla vergogna la stessa bugiarderia.[39] Popolo infelice! La prosperità lo inebria, la sventura lo accieca; non rammenta e non impara mai nulla.

Torniamo a bomba. Chi mai potrebbe annoverare le migliaia di punture di aghi, chi le trafitte dei nugoli di zanzare, le umiliazioni tritatele nel pane, gli smacchi di che le annacquavano il vino, chi gli [385] strazi, le scede, le irrisioni, la guerra implacata, irrequieta che mossero contro Arria? La desolata sentì sgretolarsi dentro cuore e cervello. La sua salute non resse, e di corto le si manifestò la tisi: forse fino da principio ella era insanabile, ma la priora cortese, per finirla più presto, la mandò assistente all'ospedale militare, dove ella ministrando un giovane militare ferito gravemente, avvenne che lo udisse in mezzo agli spasimi invocare sempre i nomi del padre e della madre con tanta dolcezza, da chiamare le lacrime al ciglio; ed avendo aspettato che il dolore gli desse alcun poco di tregua, gli domandò: — Fratello, o perchè insieme co' nomi dei vostri parenti non rammentate eziandio quello di Gesù Redentore? Non siete forse cristiano?

— Sono, il ferito rispose, e nato di popolo; faccio l'ottonaio; non so di lettere, e tuttavia, dando le spese al mio cervello, di due cose mi sono convinto: la prima è che amore di famiglia somministra fondamento ad ogni altro amore; e però amando i miei genitori mi sembra nel medesimo punto amare Dio, il quale si degnò concedermeli tanto amorosi e diletti, e mi sembra altresì che essi pregando per me, la preghiera loro deva accogliersi da Dio più volentieri della mia, perchè di me più virtuosi assai. La seconda cosa è che il lavoro finchè la salute dura, e la pazienza finchè la malattia travaglia, sieno la preghiera migliore che la creatura [386] possa innalzare al suo Creatore. — Arria, sentendosi come una puntura al cuore per coteste parole del giovane, scosso alquanto il capo in atto di diniego, replicò: Eppure la prima parte del vostro ragionamento, per mio avviso, non cammina pei suoi piedi: siamo di buon conto come sopra questo punto si espresse il nostro Signore? Ecco, così: «Chi ama padre e madre più di me non è degno di me: e chi ama figliuolo o figliuoli più di me non è degno di me: chi non prende la sua croce e non viene dietro a me non è degno di me.» Allora il giovane, dopo essere stato alquanto sopra di sè meditando, favellò: Sorella mia, ecco, mi par chiaro che se Gesù profferì coteste parole, egli volle significare di figli e di genitori pagani, ovvero giudei, i quali nella falsa loro credenza si ostinassero; e se per reverenza di padre o per tenerezza di figlio non abbandoneranno la falsa religione per seguitare la vera, non saranno degni di Gesù. Le parole del precetto mi confermano in questa sentenza, imperciocchè se le dovessero intendersi materialmente, ci voleva altro che croci, se tutti i convertiti se ne dovevano recare una sopra le spalle per tenergli dietro.

Arria allora soggiunse: — Voi avete detto se Gesù profferì coteste parole; o che per avventura ne dubitereste voi?

— E a ragione ne dubito, disse il soldato, perchè, date retta, quel pigliare la croce, e con essa sopra [387] le spalle mettersi sulle orme di Gesù, fu una forma di dire che non potè avere significato se non dopo la passione del Redentore, dove per maggiore strazio l'obbligarono a portare la croce su la quale intendevano conficcarlo; prima di cotesto fatto, pigliare la croce non significava davvero conversione al cristianesimo. Ad ogni modo, sorella, per non farvi dispiacere, da ora in avanti aggiungerò il nome di Gesù a quello dei miei genitori.

Appressandosi la sua fine, narrava Arria, egli mi accennò col capo che mi accostassi a lui, la quale cosa feci: allora mi bisbigliò negli orecchi: — Sorella, è l'ora di andare; ponete per carità la vostra mano qui, sotto il capezzale, ci troverete un libriccino; cavatelo fuori, apritelo e porgetemi quel ritratto di donna che ci è tra mezzo... è di mia madre! Bisogna pure che io muoia in sua compagnia.

Allora Arria gli domandò: — Fratello, desiderereste che vi chiamassi il prete per acconciare le cose dell'anima?

— No; perchè io mi sento Dio più vicino che voi non credete; egli non ha bisogno di telegrafo per udire subito la voce del mio cuore. La corrispondenza fra il Creatore e la sua creatura è la brevissima delle linee; il prete fra mezzo ci fa una spezzata.

Prese il ritratto della madre, se lo strinse al seno mormorando non so che orazione, certo qualcheduna [388] di quelle che le aveva insegnato mentr'egli era fanciullo, poi se lo recò alla bocca e lo baciò con tanto affetto e tanto profluvio di lacrime, che io proprio non sapeva più in che mondo mi fossi. Quietato alquanto, soggiunse: Udite, sorella, le novissime parole di un uomo che si muore, e fatene vostro pro. Voi avete qualche cosa che vi pesa sul cuore, ed io dubito che sia il rimorso di avere abbandonato i vostri genitori per consacrarvi alla vita ascetica: ora io vo' che sappiate che chi non ama il padre e la madre non può amare di amore verace i suoi simili, nè la patria, nè Dio. Se la vostra madre in questo momento si trovasse ai termini nei quali mi trovo ridotto io, chi le bagnerebbe le labbra per alleggiarle il singhiozzo dell'agonia? Chi le chiuderebbe gli occhi al sonno eterno? Pensateci.

Dopo breve ora il giovane bennato aveva reso l'anima al suo Creatore.

Cotesto caso pieno di malinconia attristò tanto lo spirito di Arria, già vinto dai patimenti sofferti, che si ebbe a mettere in letto, dove pensando fisso ai suoi genitori, le si destò dentro alla coscienza una voce pietosa e continua, che le andava ripetendo: «Tua madre ti chiama e tu non rispondi?» Appena potè reggersi in piedi, sentendosi soffocare, scese nel giardino, dove le fronde degli alberi, stormendo, pareva le ripetessero l'appello materno; e [389] le acque gorgoglianti della fontana i singulti della madre le riportassero. Allora, non potendo proprio più reggere, si fece coraggio per dire alla priora che, per lo amore di Dio, le concedesse, almeno provvisoriamente, licenza di tornarsene a casa. Apriti cielo! Ella ebbe a sostenere uno scroscio di detti acerbi e di minacce, onde, smarritasi nell'animo, si ricovrò nella sua solitaria celletta, e quivi, abbandonatasi bocconi sul letto, pianse. Ma quale non fu mai la sua sorpresa quando nel dì seguente la priora si fece a trovarla, e dopo un mondo di lisciamenti e di moine le domandò se avesse intenzione davvero di tornarsene in famiglia; e siccome Arria rispose: — Magari subito! — la priora la confortò a starsi di buon animo; prometterle si sarebbe messa coll'arco del dorso per farglielo ottenere; potersi permettere a lei quello che si negava alle altre, in vista delle sue virtù, obbedienza, ecc.: — qui da capo di caccabaldole un monte; — procurasse frattanto di rimettersi in salute per poter reggere alle fatiche del viaggio, e poi se ne riparlerebbe. Arria, sentendosi tutta racconsolata, fece quanto stava in lei per ripigliare un poco di balìa, e ci riusciva, chè anche sopra le infermità disperate l'animo soddisfatto può molto, e quando le parve sentirsi meglio ne tenne motto alla priora, la quale le condusse il medico. Questi, visitatala prima con molta diligenza, sentenziò che il mutamento dell'aria [390] e la gioventù interdum in morbis faciunt miracula, come disse Ippocrate; quindi la scienza non opporsi a che ella imprendesse il viaggio per l'Italia. — Così parlò il medico finchè stette alla presenza di Arria, ma nell'andarsene, comecchè favellasse sommesso alla priora, la voce percotendo le pareti riportò ad Arria queste parole pronunziate da lui sopra la soglia della camera: — Al cascare delle foglie è un libro letto...

Pertanto fu giudicato non si frapponesse indugio alla partenza di lei, ma, quattro giorni innanzi a quello in cui Arria doveva mettersi in viaggio, la priora dabbene le portò un foglio da copiare e segnare, il quale conteneva una dichiarazione amplissima della giovane dei benefizi ricevuti da tutti in generale, ed in particolare dalla priora, dalla vicepriora, dal padre direttore del reclusorio, dal padre direttore delle coscienze del reclusorio; breve, a tante sommavano le specialità, che tornavano quasi all'universalità; le virtù di tutti i laudati superavano quelle della bettonica; dilungavasi a sazietà in proteste di riconoscenza, di devozione, di venerazione profonda; confettata ogni cosa nello zucchero di sant'Ignazio di prima qualità. Per ultimo attestava Arria essere stata ospitata nelle varie case pie, e quivi nudrita e vestita sempre per amor di Dio.

A questo punto Arria, non mica per superbia, bensì per istudio di verità, volle notare ciò non [391] sembrarle preciso, imperciocchè quando entrava nel reclusorio ella possedesse collana, orologio, gioielli ed anco parecchi biglietti di banca; alla quale osservazione la priora indispettita rispose: — Miserie! miserie! figliuola mia! e poi ne avete speso il valsente quattro volte e più per voi. — Per me? esclamò Arria maravigliata. — E la priora, con faccia da batterci su le monete, soggiunse: — Certo, per voi, dacchè avendo ridotto tutto in danaro, lo rinvestii in tanto bene, secondo la vostra intenzione, pei vostri poveri morti, sicchè mi stupisco che non abbiate mai udito i fervidi ringraziamenti che essi vi mandano fino dal purgatorio.

Il giorno seguente Arria fu messa in viaggio; per via trovò ogni cosa pagata, perocchè a lei non volesse confidare danaro la previdenza, sospettosa sempre, dei gesuiti; nelle diverse stazioni ella occorse in persona che pareva commessa a spesarla e a rimetterla in cammino. A Milano parimente; perfino la vettura ammannita; il vetturino informato puntuale del luogo dove l'aveva a condurre.

La vita di Arria se ne andava dal suo corpo cheta e perenne, come l'acqua cola a goccie a goccie dall'urna incrinata: diversa in questa dagli altri infermi di mal sottile, ella conosceva benissimo il suo continuo avvicinarsi alla morte: chè se talora favellava di letificarsi nei raggi del sole diffuso pei campi aperti, ovvero bagnarsi il petto nelle aure vitali di primavera, [392] ciò faceva meno per la speranza di goderne, che per acconsentire allo impulso dei contrasti messo dentro di noi dalla natura, la quale ha disposto che a maestro Adamo, trangosciato dalla sete, ricorrano davanti nella immaginazione i ruscelletti freschi dei colli dell'Appennino.[40]

Ora accadde, che affannandosi ella a consolare gli altri, quanto gli altri si studiavano consolare lei, in un dì di settembre, verso la fine, mentre il sole ormai declinando ad occidente investiva lei, il letto e ogni altra cosa che si trovava nella camera, ella, tenendo strette nelle sue le mani della madre e di Eufrosina, che in piedi da un lato e dall'altro le ministravano, con voce piana e soave prese a ragionare:

— Madre e sorella mia, ho sentito dire spesso, e questo ho ancora letto, che la creatura, quando si approssima alla morte, acquista la facoltà di penetrare nell'avvenire. Chi sa? Dio forse, in refrigerio delle tenebre eterne che ci stanno sopra, dona ai moribondi una passeggera accrescenza di lume. Certo è che, quanto vive e splende, si spegne in un lungo alito di vita e di luce; ed io lo provo in me, che, ormai prossima a lasciarvi, mi sembra leggere nel futuro come in un libro aperto.

— Ah! esclamò Eufrosina, portando la mano libera [393] sugli occhi ottenebrati, quasi in testimonio della pietosa illusione della sorella.

Isabella poi null'altro potè che increspare le labbra, come costuma il fanciullo quando fa greppo, non lasciando distinguere se fosse per piangere ovvero per ridere; ma Arria, avendo notato gli atti delle donne, accendendosi nel presagio della sua fede, con maggior lena continuò.

— Eufrosina, in verità io ti dico che tu vedrai il sorriso del bimbo che primo accosterai al tuo seno per nutrirlo... Ah, tu tentenni il capo? Non ci vuoi credere? Ebbene, che vuoi tu scommettere meco che Dio ti farà questa grazia? Tu mi hai a promettere che se quanto ti predìco avviene, tu deporrai una ghirlanda di fiori sopra la mia fossa... bada, veh! odorosi li voglio... le semprevive io non posso soffrire... è vero che non muoiono mai, ma è vero altresì che nè manco paiono aver vissuto mai, e le tombe si allietano se tu le ornerai con un simulacro, e sia pur breve, di vita, non aggiungendo simboli di morte là dove la morte impera nella pienezza della sua desolata dominazione... dunque, intendiamoci bene, sia una corona di rose... od anco di gelsomini o di giunchiglie, io mi contento... me lo prometti? Io lo tengo per negozio conchiuso..... Ed ora perchè piangi? Vedi! i singhiozzi ti levano la parola, e tu non puoi rispondere: ebbene, io risponderò per te: Arria, sorella, io ti giuro che [394] quando vedrò sorridere il mio primo bimbo, allorchè me lo attaccherò al petto per dargli il latte, io verrò a mettere una ghirlanda di fiori odorosi sopra la tua fossa..... E tu, mamma, perchè m'irridi? Certo, il tronco dell'albero reciso dalla radice non germoglierà mai più; ma dalle radici rimaste sotto terra sogliono uscire rampolli, che, a volta loro crescendo, saranno liberali di ombre e di frutti. I morti passano presto, o mamma mia, e quantunque voi porrete in opera ogni studio per non obliare i vostri, pure noi ci affacceremo di tratto in tratto al vostro spirito, mesta e cara memoria, mentre i viventi vi letizieranno continui di gaudio attuale: alle generazioni che cascano inaridite altre ne succedono verdi, foglie dell'albero della vita; così piacque a Dio. Di poca fede! mamma, io ti ammonisco a non dubitare... e sappi che l'ira del Signore contro la mia casa è sodisfatta; io sono l'ultima stilla del calice dell'amarezza; e sento che con la mia morte il terribile conto aperto lassù con la mia famiglia resta saldato... Consolatevi, adesso per voi altre incomincia la giornata del premio.

Il cuore della creatura umana, quantunque talvolta impietri, di granito non diventa mai, ed ancorchè lo diventasse, le rugiade dei cieli hanno virtù di penetrare nei suoi pori; tanto più la divina consolazione giunge a blandire co' tepidi fiati l'anima nostra, comecchè intirizzita dal sido del [395] dolore; onde le donne si sentirono alquanto sollevate.

Ma il dì veniente, mentre Arria, Isabella ed Eufrosina alla medesima ora dimoravano nello stesso atteggiamento del giorno innanzi, ecco Arria prese a battere le palpebre presto presto, come l'uccello l'ale quando lo punge amore di tornare al nido; strinse le mani, aggrinzò la pelle negli angoli della bocca, un nervo le saltellò, le guizzò due volte o tre in mezzo alla sinistra guancia, e dalla gola a stento le uscì un singhiozzo: pianse da un occhio solo, una lacrima sola, l'ultima.

Arria era cessata. Al cascare delle foglie ella cadde, foglia pure essa, troppo presto seccata sull'albero della vita. Isabella per questa volta non levò nè anche gli occhi al cielo in atto di preghiera o di minaccia; gli torse obliqui, e facendo con la mano destra l'atto di cui si stacchi qualche cosa che gli dia molestia, borbogliò come mordendo le parole:

— Va' via, aspide di speranza... fuori del mio cuore... intanto che aspetto i vivi, mi tocca a seppellire i morti!

Il dottor Taberni, commosso alla vista di tanta miseria, volle profferire soccorso, ma tante volte avendolo fatto invano, adesso si peritava; pure, vinto ogni ritegno, ci si provò, ma Isabella gli prendeva le mani e se le portava al petto e gli diceva: — Io non ho più lacrime.... poca fiducia pongo nella preghiera.... [396] che vi dirò? La vostra anima ve ne rimeriti.... altri si desolano più infelici di me.... sovvenite quelli.... E con siffatto pretesto ricusava.

Il dottore non sapeva capacitarsi come Isabella avesse sopperito alle spese del mortorio, ma di corto ne fu chiarito, non vedendo più agli orecchi delle donne i pendenti conservati fin lì.

Isabella pertanto, verso sera, una sera triste e per giunta piovigginosa, si condusse dal solito marmista per commettergli una solita lapide col solito motto «dolor».

Il marmista, fissando gli occhi sopra la faccia bianca, marmorea d'Isabella, n'ebbe paura; onde esitando le domandava:

— Ma sapete, donna, quante di queste lapidi voi mi avete ordinato fin qui?

— Se lo so! se lo so!.... Sono sei.... e non finiranno qui.

Il buon maestro sentì entrarsi addosso il ribrezzo della febbre quartana, ma lo esorcizzò con un litro di nebbiolo: fece la sesta lapide, e tutto tremante sopra la sesta fossa l'adattò. Tornato a casa e riconfortatosi col medesimo argomento del nebbiolo, si mise dinanzi un foglio spiegato, che era liscio, ma per voglia di lisciarlo vie più ci passò sopra la mano, e tutto lo sgualcì; poi, impugnata la penna col garbo che adoperava lo scarpello, scrisse la seguente lettera:

[397]


«Signora Isabella,

«La lapide è al posto; e addio; con la presente vengo a dirgli, che non gli mando il conto, perchè non intendo essere pagato — e non voglio, e in casa mia il padrone sono io; veda, prima di andare a letto mi butto in ginocchioni per pregare Dio a volergli risparmiare delle altre tribolazioni; creda che non mi rimango da dirgli: — via, lasciala stare quella poverina; ora la potresti smettere; chi troppo mangia scoppia: tu non hai da permettere che delle Marie di sette dolori ce ne abbiano ad essere due. Spero che intenderà la ragione, ma se non la volesse capire, allora la vengo a supplicare di servirsi da un altro, perchè, non se ne abbia a male, ma creda in coscienza, che quando ho scarpellato una lapide per lei ne perdo il sonno e l'appetito per una settimana, e mi cresce il bisogno di bere per cacciare la malinconia: per tutt'altro ai suoi servizi; e addio; di tutto cuore, ecc.»


Oh! il popolo ha cuore; così avesse cervello!

FINE DEL SECONDO VOLUME.

NOTE:

1. Corpi erranti che entrando nella nostra atmosfera diventano luminosi. Humboldt afferma essere periodici; piovono dal cielo tra il 12 al 14 novembre e verso il 10 agosto. Olmested e Palmer, americani, in una notte sola, nello spazio di nove ore ne videro cadere 240,000. Questo fenomeno riceve dai vari popoli diversi nomi; i tedeschi lo chiamano smoccolatura di stelle, gli svedesi, caduta di stelle, gli inglesi scoppio di stelle, gli indiani dell'Oriente sconciamente piscio di stelle, gli italiani lacrime di San Lorenzo. Il mito lituano è amabile: quando un fanciullo nasce, Werpeia fila per lui il filo del destino: ogni filo termina con una stella; al punto di morte il filo si rompe e la stella casca.

2. Upas pohon. Albero che stilla presso i Malesi terribilissimo veleno; e non pertanto ne cavano altri più mortifero dalla liana tietek; una tigre punta, trema, irrigidisce e in meno di un minuto muore.

3. La legge Servilia.

4. Plutarco, in Mario.

5. V. Antologia del 1827, art. del Tommaseo.

6. A certo francese, che si vantava artista drammatico, fu domandato quali parti facesse, al che rispose superbamente: je fais le flot, vale a dire l'arte di quelli che, mettendosi sotto la tela grigia, coll'alzare e abbassare del groppone danno immagine agli spettatori delle onde del mare in burrasca.

7. Popolo certamente vario, instabile, leggero, mostruoso e vano, e in tutte le più pazze forme cangiabile a' pari delle nuvole, dai venti in qua ed in là trabalzate. Salvini. Dis. 2, 130.

8.

Chi vuol veder quantunque può natura

Nel fabbricare un uom di carta pesta,

Che par mover le mani e i piedi a sêsta

A guisa d'ingegnosa architettura.

Tassoni, Son. su Filippo da Narni.

9. Quanto fu la guerra bandita immortale per castronerie di tattica e di strategia, altrettanto fu memorabile lo scritto del Ricasoli per ispropositi di lingua e di senso comune: di vero, tre volte ci occorrono le frasi al seguito delle dimissioni date... in seguito della partenza... al seguito dell'ingiuste minacce; — più oltre: l'Austria temette... il Governo del Re credette... credette, che a ciò gli desse diritto: il più bello all'ultimo: «per queste aspirazioni nazionali troviamo soldati pronti a spargere sangue e fatiche in tutte le parti della Camera!» Quindi nulla manca a farlo detestabile: turpitudine di locuzioni straniere, barbarie di dettato, errata assimilazione di sangue e di fatiche da spargersi in tutte le parti della Camera! Nè anche un montanino di Garfagnana si attenterebbe menare tanta strage della lingua e del buon senso. Erat in fatis, che la monarchia in occasione tanto solenne si commettesse a due sciagurati come Ricasoli e La Marmora. Quali l'ingegno, le opere, la fama di costoro? — Si predicavano avversi al popolo, avversi ai volontari, e tanto bastò. Così in grazia del partito moderato e dei suoi uomini, noi abbiamo perduto tutto, fino la reputazione dello idioma, che sola ci rimaneva conservata in mezzo alla secolare molteplice tirannide. La Camera applaudiva: un giorno ella sarà giudicata severamente senza circostanze attenuanti, perchè gli applausi avvennero in giugno, mese di già copioso di proietti vegetali. Per questa guisa il governo d'Italia, se fu argomento di molti sospiri, infinito si attirò eziandio il riso della gente stupefatta.

10. Proprio così fu detto, da un soldato ferito, nell'Ospedale di Brescia.

11. Il generale Sirtori, con lettera dell'8 febbraio 1867, afferma essersi accorto subito della deviazione della avanguardia, ed averci provveduto immediatamente: dichiara avere proceduto con ogni più squisita precauzione di guerra: esclude tutta sorpresa: fu lasciato solo; se lo avessero soccorso, anco verso le ore 4 pom., avrebbe vinto, egli dice; peccato che veruno ci creda.

12. Guerra del 1866, p. 139.

13. Il Rustow afferma fossero 6000 i garibaldini al rompere della guerra; a mezzo luglio confessa che gli mandarono rinforzo, e allora egli ebbe 10 reggimenti di linea, 2 battaglioni di bersaglieri, ovvero 5 brigate, 1 squadrone di guide a cavallo; alcune batterie di artiglieria gli somministrò l'esercito regolare. In tutto 72,000. Altri dice che furono 40,000.

14. Umiltà. I volontari del 1866, T. 1.

15. Memorie dell'Anonimo; Umiltà loc. cit.

16. Memorie dell'Anonimo e tutti gli Autori.

17. Rustow. Cadolini, Memorie dello Anonimo, ecc.

18. «Il prode esercito ha corrisposto degnamente alla fiducia del re... esso sta cacciando davanti a sè il nostro secolare nemico, e sul suolo rigenerato della Venezia già si stringono le destre, il glorioso milite della libertà ed il liberato fratello.» Ordine del giorno del generale Garibaldi (24 giugno 1866).

19. Palata, s'intende il tratto che il notatore scorre col movere le due braccia nell'acqua. La Crusca definisce la palata: «il tuffare di tutti i remi della nave a un tempo nell'acqua» ed è errore: anco nel moto delle barche, la palata è il tratto che la barca scorre in mare per lo impulso dei remi. Nel linguaggio pittorico del popolo si dice: in due palate lo sbrigo, come sarebbe: facilmente e presto.

20. Martino diacono. Vedi la stupenda descrizione nell'Adelchi, tragedia di A. Manzoni.

21. Stefano II.

22. Stefano II.

23. Giovanni XII.

24. Ebbi l'onore di conoscere la consorte di Faa di Bruno, l'eroe di Lissa, che non sostenne sopravvivere alla perdita del Re d'Italia; e seppi esserle stata assegnata tale meschina pensione, da sopperire appena alla spesa della educazione del figlio. S'ella non avesse di casa, si troverebbe in angustia pel mantenimento delle figliuole.

25.

Scorse per le ossa ai terrazzani il gelo

Quando vider costui piover dal cielo.

Ariosto.

26. Relazione degli Oratori veneti. Relazione dei tempi di Emanuele Filiberto.

27. Rustow. Guerra del 1866, p. 381.

28. Rustow. Op. cit., p. 321.

29. Rustow. Op. cit., p. 381.

30. Il Castlereagh fu ministro d'Inghilterra ai tempi felici della Santa Alleanza: rimorso dalla coscienza, si tagliò la gola. Il Byron scrisse per questa morte: «Non lamentate il fato di costui; non trovando più da tagliare le gole degli altri, egli si è tagliato la sua.»

31. .... essendosi fatto quel suono... tutti stupivano e si maravigliavano.... e dicevano: sono pieni di vino dolce. (Atti degli Apostoli Cap. II, 13).

32. Anco il conte Vittorio Alfieri la pensava così. Vedi sua lettera al conte Alfieri di Sostegno.

33. L'Abate di W. Scott, c. 22.

34. Madonna, così in greco come in russo: tutta santa.

35. Monodia.

36. Mi sono astenuto, per ragioni facili a comprendersi, di nominare il pio scannatoio, ma che colpisca giusto imprecando a simili istituti si può ricavare dal libro Sui riformatorii pei giovani, studi del dottore Serafino Biffi, Milano, 1870, temperatissimo uomo, il quale si esprime in proposito con queste miti parole: «Abolite quelle corporazioni dalle leggi dell'attuale regno d'Italia, le più accorte seppero tramutarsi in libere associazioni, le quali continuano a possedere i loro vecchi istituti, si reggono con le oblazioni dei pietisti e, nonostante la nuova forma assunta, internamente vivono come prima, spiegando un asceticismo di altri tempi, facendo ai loro membri emettere in modo segreto gli antichi voti religiosi, che, irriti davanti alle odierne leggi nazionali, pure non cessano avere pieno vigore per le anime pie e timorate. In Milano havvi oggidì qualche riformatorio sorretto dal favore del Governo, che accoglie i giovani minorenni condannati per oziosità e per vagabondaggio, ma anco questi sono in mano di pie associazioni o di preti.» (pag. 85).

37. V. Potter, Vita di Monsignor Ricci, o Lastri, Osservatore fiorentinoGalluzzi, Storie.

38. È noto come Luigi XVI, udendo eletto all'arcivescovato di Parigi un ateo, levando le mani al cielo esclamasse: — Signore! almeno l'arcivescovo di Parigi dovrebbe credere in Dio. — Tutti gli storici riportano il fatto. V. Thiers, Storia della Rivoluzione di Francia.

39. Franci mendaces. Salv. l. 7, p. 169. Si peieret Francus quid novi faceret? Qui periurium ipsum sermonis genus putat, non criminis. Id. l. 4, c. 14. Franci quibus familiare est ridendo frangere fidem. Flav. Vopis in Proculo, l. 1, p. 216. Les Galles ont aimé de bonne heure a gaber, comme on disait au moyen âge. La parole n'avait pour eux rien de serieux. Ils promettaient, puis riaient, et tout était dit: «ridendo frangere fidem». Il trattatello del Segretario fiorentino è sempre vivo e verde di verità. Se tanto sta loro a cuore il dominio temporale del papa, perchè non incominciano essi a dare il buono esempio restituendogli Avignone e il contado Venosino?

40. Dante, Inferno 30.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (brulichio/brulichío, còmpito/cômpito, Goethe/Goëthe e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.






End of the Project Gutenberg EBook of Il secolo che muore, vol. II, by 
Francesco Domenico Guerrazzi

*** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL SECOLO CHE MUORE, VOL. II ***

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Section  2.  Information about the Mission of Project Gutenberg-tm

Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
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including obsolete, old, middle-aged and new computers.  It exists
because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from
people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg-tm's
goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will
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Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations.
To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4
and the Foundation information page at www.gutenberg.org


Section 3.  Information about the Project Gutenberg Literary Archive
Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service.  The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541.  Contributions to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent
permitted by U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S.
Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered
throughout numerous locations.  Its business office is located at 809
North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887.  Email
contact links and up to date contact information can be found at the
Foundation's web site and official page at www.gutenberg.org/contact

For additional contact information:
     Dr. Gregory B. Newby
     Chief Executive and Director
     gbnewby@pglaf.org

Section 4.  Information about Donations to the Project Gutenberg
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