Gli amori This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at http://www.gutenberg.org/license. Title: Gli amori Author: Federico De Roberto Release Date: March 28, 2012 [EBook #39289] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK GLI AMORI*** Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni, and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net. This file was produced from images generously made available by The Internet Archive. F. DE ROBERTO Gli Amori MILANO CASA EDITRICE GALLI _Galleria V. E. 17-80_ — 1898 DIRITTI DI TRADUZIONE RISERVATI ———— PROPRIETÀ LETTERARIA 1897 — Tipografia Golio, Milano, via Agnello, 9, e Santa Radegonda, 10 ———— INDICE PREFAZIONE LA MUTA COMUNIONE L’INDISCRETA DOMANDA L’OMONIMO LA VEGLIA IL SOSPETTO LA CERTEZZA UN’INTENZIONE DELLA DUFFREDI L’INDOVINELLO FINO A MORIRNE OMISSIONI UNO SCRUPOLO DI DON GIOVANNI UN GIGLIO LA VENERE DI SIRACUSA L’ESTRO ANACRONISMO IL GRAN RAPPORTO L’AFFARE DEI QUATTRINI UN’EQUAZIONE MORALE LE CICATRICI LA TOSCANINA LO SCANDALO LA JETTATRICE LA CONSOLATRICE LE PROVE DIBATTIMENTO IRONIE L’ASSURDO LETTERE DI COMMIATO L’AMOR SUPREMO «NESSUN MAGGIOR DOLORE...» PREFAZIONE _Milano, 7 agosto 1897._ Mia cara amica, _Questo volume è suo. Dirò anzi di più: come senza di lei non lo avrei scritto, così senza il suo permesso non lo potrei pubblicare. Le lettere che lo compongono le appartengono; raccogliendole insieme io mi uniformo al suo desiderio — al suo comandamento._ _Il suo giudizio sul mio libro dell’_ Amore _si compendiò in queste parole: «L’amore c’è soltanto nel titolo.» Le mie teorie la sdegnarono; ella si rifiutò di ammetterle, osservando che di teorie, di sistemi, di ipotesi, ciascuno può costruirne quanti ne vuole, ma che i fatti importano unicamente. Ecco come e perchè mi sentii nell’obbligo di addurle alcuni esempii delle astratte proposizioni enunziate in quello studio. Già dissi a lei, ma debbo ora ripetere ai miei — ai nostri! — nuovi lettori, che non uno di questi esempii è inventato: io non ho fatto e non ho voluto fare opera di fantasia, ma di osservazione. Il gran pubblico che non sa delle nostre amabili liti, che s’interessa mediocremente ai particolari modi di vedere intorno ai rapporti dei sessi, forse potrà accordare un poco di attenzione a queste lettere per spirito di verità che mi animò nello scriverle._ _Vede come ho fatto miei i suoi ragionamenti? Ma ella già sapeva che non è un’impresa disperata quella di persuadere a un autore che l’opera sua vale qualcosa... Mi lasci ora sperare — per me e per lei — che il pubblico non sia del parere contrario, e voglia gradire ancora una volta l’espressione della singolare reverenza con la quale sono_ _di Lei, gentilissima Amica,_ dev.mo ed obb.mo _F. de Roberto_ All’illustrissima Signora la Contessa R. V. Siena LA MUTA COMUNIONE _Contessa gentilissima e furibonda amica,_ _Mea culpa! Mea culpa! Mea maxima culpa!..._ Non basterà picchiarsi il petto, accusarsi umilmente, implorare perdono? Ella dice di no? La colpa mia è proprio irremissibile?... Via, mi lasci almeno sperare. Ella sa del resto benissimo che la speranza non ha bisogno, non che di permessi, ma neppure d’argomenti per farci accogliere le sue persuasioni. Se pure ella non vuole, io posso egualmente credere che un giorno o l’altro la troverò meno severa contro questo povero signor Me Stesso... E dire che era tanto disposta all’indulgenza! Mi faceva buone tante cose! Tollerava la mia freddezza, il mio scetticismo, la «scettica e spietata freddezza» con la quale esposi le teorie più sconfortate; scusava, se pure non giustificava, il «vandalismo morale» col quale mi ero messo a sfrondare, ad abbattere, a disperdere ogni poesia e ogni idealità! Ma una cosa l’ha rivoltata, una goccia «di fiele» ha fatto traboccare il suo sdegno. Quando io ho detto che gli uomini non possono intendersi, che le anime non possono comunicare, che il pensiero e il sentimento sono intrasmissibili, non m’è valso riferire il giudizio d’un filosofo come Taine, non m’è giovato citare un poeta come Baudelaire, è stato inutile tentare lunghe e minute e pazienti dimostrazioni: sono stato giudicato!... Tuttavia bisogna credere o che ella speri di convertirmi, o che non sia poi tanto sicura delle sue opinioni e quasi cerchi, con la discussione, affermarle; perchè, dopo aver dichiarato di non voler discutere più, trovo ancora nella sua lettera questi eloquenti passaggi: «E allora, se gli uomini non possono intendersi, perchè mai, di grazia, venite enunziando queste vostre eresie? Se tutto ciò che vi passa per il capo è frutto particolarissimo della vostra costituzione, dell’educazione, dell’ambiente, di non so quante altre diavolerie; se le vostre escogitazioni sono tutte _vostre_, perchè mai le partecipate al prossimo? Io avevo finora creduto che quando uno esprime una cosa, parlando o scrivendo, oppure gestendo, se non ha rotto lo scilinguagnolo, costui crede che gli altri potranno credere questa cosa, pensarla a loro volta, riesprimerla e comunicarla ad altri successivamente! Ma se voi siete persuaso di non potervi intendere con nessuno al mondo, mi pare che vi converrebbe cominciare, per esser conseguente, con lo starvene zitto!... Secondo voi ogni creatura umana _fa razza da sè_, parla un linguaggio che nessun’altra creatura umana capisce; il mondo sarebbe come un’immensa torre di Babele. Ma voi sapete benissimo che quella torre non fu potuta finire, che per la confusione delle lingue l’impresa andò all’aria. Invece io vedo che il mondo, bene o male, e se vi piace più male che bene, pure sussiste; e che ogni giorno, ogni minuto, gli uomini s’accordano in una moltitudine di affetti, d’idee, di persuasioni! Voi credete invece di parlar turco in mezzo a un pubblico che del turco non conosce neppure la canzonatoria strofetta: C’est par là, Par Allah! Qu’Abdallah S’en alla! O non è dunque fiato sprecato? E allora, scusate, perchè non smettete?...» Io le potrei dar causa vinta, signora, e risponderle che il suo consiglio è veramente da seguire. Potrei risponderle che se appunto ella, d’ordinario così indulgente con me, si è tanto sdegnata, ciò prova luminosamente che quando due persone, grazie ad una lunga ed assidua dimestichezza intellettuale, sembrano capaci d’intendersi, a un tratto, per un’idea, per una parola, per una intonazione di voce, non s’intendono più, anzi si crucciano — nè sempre manifestano il loro cruccio con lo spirito amabilmente sardonico che ella mette nel manifestarmi il suo. Queste risposte che potrei darle le tengo tuttavia per me. A lei dico, contessa, che dopo la sua lettera e grazie a nuove riflessioni, mi sono ricreduto. No, non è vero che ogni cervello sia un mondo e che questi mondi s’aggirino eternamente separati, senza speranza di poter mai comunicare. Sì, tra gli uomini che più sembrano diversi, tra un viaggiatore europeo, sapiente, cosciente, raffinato, e l’ultimo Zulù, c’è un fondo comune, se non propriamente di pensieri, almeno d’istinti, che li affratella. E tra gli uomini e le donne — il punto controverso era questo! — le differenze del sesso non sono così profonde da rendere impossibile o molto difficile la comprensione reciproca. Uomini e donne non solamente s’intendono quando s’amano, s’accostano e si parlano, ma possono anche intendersi a distanza, senza vedersi; e intendersi a segno da accordare le loro volontà e da uniformare i loro atti a queste volontà concordi!... Ella dice che adesso è troppo? Che casco nell’eccesso contrario? Che vengo a parlarle di spiritismo e di telepatia quando la discussione s’aggirava intorno a un argomento tutto morale? No, mia cara amica: non le parlo di telepatia nè di magnetismo: resto nell’argomento. Ed io, guardi, mi sono ricreduto appunto perchè, dopo la sua lettera, ho rammentato un fatto che dimostra appunto la possibilità di quest’accordo a distanza, di questa muta intesa!... «Una storiella?» mi par d’udirla esclamare, con una scrollatina di spalle, con un sorrisetto canzonatorio, come per significarmi che ella non crede ai fatti narrati dai narratori di professione. Io vorrei pregarla di credere che non invento. Potrà anche darsi che il fatto non sia vero; garantisco soltanto che m’è stato riferito, dagli stessi protagonisti, così come glie lo racconterò. Noi cantastorie siamo spesso presi a confidenti dalla gente che ha qualcosa sullo stomaco. La confessione non fu detta molto propriamente Sacramento della penitenza; prima che penitenza è sollievo. I nostri secreti ci rodono, ci opprimono, ci soffocano; il pensiero assiduo, cocente, tende ad esprimersi, spinge all’azione ed alla rivelazione. La psicologia fisiologica spiega molto bene questo rapporto tra la funzione ideatrice e la motrice; ma noi lasceremo da parte la scienza e le sue spiegazioni. Io voglio soltanto dirle che, come i confessori, i narratori ne odono spesso d’ogni colore. Oltre l’istintivo e spesso incosciente bisogno di comunicare l’invasante pensiero, un interesse tutto personale, la salute dell’anima, spinge i credenti a confessarsi. L’egoismo che spinge a noi i confidenti si chiama vanità. Essi vengono a narrarci i fatti loro perchè, presumendo che questi fatti siano straordinarii e che a nessuno mai potrebbero capitarne altrettali, noi riveliamo al gran pubblico e tramandiamo ai posteri i rari e fatali avvenimenti. A onor del vero, non tutti sono così vani; alcuni, più modesti, più semplici, vengono a noi imaginando che la nostra scienza sappia leggere là dov’essi non comprendono; altri ancora — e sono quelli che ci fanno maggior piacere — non vengono a noi, ci mandano le loro confessioni scritte, dentro una busta. Uno per applaudirci e confermare le nostre idee, un altro per dimostrarci che siamo semplicemente idioti, ci narrano una quantità di cose, ci forniscono una quantità di documenti umani ai quali facciamo sempre festa. Edmondo de Goncourt ne chiese alle sue lettrici per scrivere _Chérie_; più valore hanno quelli offerti spontaneamente, senza la pretesa di far della storia. Io ne ho da parte una cartella, e qualche volta la vuoterò. Oggi, dopo questo già troppo lungo esordio, vengo al fatterello che le ho promesso per giustificare la sua fede antica e la mia conversione recente: le anime s’intendono, s’accordano — anche da lontano — senza che gli occhi vedano, senza che le orecchie odano. C’era dunque una volta un signore e una signora che s’erano molto amati — anche questa è una prova per lei! — ma che poi non s’amavano più — e ciò darebbe ragione alla mia prima idea. Ma le ripeto che mi sono ricreduto! Insomma, questo signore e questa signora, dopo essere stati insieme qualcosa come cinque anni — un lustro! — se n’erano andati ciascuno per la sua via. Ho detto: dopo essere stati insieme, e non ho detto bene. Non erano stati precisamente insieme, sotto lo stesso tetto: la signora non era interamente libera, e doveva salvare certe apparenze. L’amico suo avrebbe potuto andare da lei anche tutti i giorni; ma ella sa che giorno significa quello spazio di tempo il quale comprende anche la notte; e gli amanti, da che mondo è mondo, hanno sempre preferito le tenebre alla luce; senza contare che il signore del quale le parlo aveva molte occupazioni durante il giorno propriamente detto. Dunque, perchè di giorno egli aveva da fare e perchè le ombre sono maggiormente propizie ai ludi erotici, egli preferiva i convegni notturni. Ora questi erano molto più difficili: nè la signora sapeva quando poteva ricevere l’amico suo; nè, prevedendo d’esser libera, aveva sempre modo di mandargli un biglietto. Ecco dunque la combinazione imaginata dai nostri amici per rimediare: quando il signore, passando a tarda sera sotto la casa della signora, vedeva illuminata una certa finestra, una finestra che in nessun’altra occasione e per nessun altro motivo poteva essere illuminata, questa straordinaria illuminazione significava che la signora era di sopra ad aspettarlo. Per gli amanti, la finestra dietro alla quale si struggeva una candela stearica non era più una finestra, ma un faro, il solo Faro, il _Faro_ per antonomasia. Egli era poeta ed ella comprendeva la poesia: intorno a questo Faro, a quest’Occhio della Notte, a questo Sguardo vigilante ed amico, egli aveva scritto certi versi che ella aveva mandati a memoria. I fari sogliono essere particolarmente utili durante il cattivo tempo; e appunto quando tirava vento, quando c’era nebbia, quando pioveva, quando nevicava, la finestra soleva splendere e indicare che l’approdo era libero; nelle notti serene, siccome la signora doveva andar fuori per suo conto, o riceveva visite, tutto restava buio e il nocchiero filava al largo. Queste notizie, diciamo così nautiche, sono necessarie all’intelligenza della storiella. La quale meriterebbe d’essere narrata in uno stile un poco più serio; perchè, come durante cinque anni i miei due protagonisti si erano amati d’un amore dolce e forte ad un tempo, così, anzi a più forte ragione, dopo la rottura non ebbero di che ridere. Perchè ruppero, allora? Se io pensassi oggi come ieri, le direi che ruppero per quella tale impossibilità di comprendersi bene, per quella intellettuale e sentimentale discordia che m’ha valso i suoi vivaci rimproveri; ma io mi sono, come le ho detto, convertito; e quand’anche non fossi ancora convertito, non vorrei farla arrabbiare ripetendole una cosa che tanto le dispiace; le dirò quindi che l’amor loro s’intepidì e s’avviò alla morte come tutte le cose che hanno avuto nascimento. E come l’amor loro era stato una bella cosa, ed entrambi sentivano che la fine di una cosa bella è molto triste e che bisognerebbe a ogni costo impedirla, così essi ostinavansi a ravvivare il loro sentimento agonizzante; ma poichè l’impresa era disperata e gli sforzi si rompevano contro la fatalità della morte, così, vedendo inutili gli sforzi, e non potendo prendersela col destino irresponsabile, e dovendo per un bisogno tutto umano prendersela con qualcuno, ciascuno dei due se la prendeva con l’altro. S’accusarono, adunque, di colpe in piccola parte vere, in molta parte imaginarie; dalle accuse futili passarono ben presto alle maggiori e da queste arrivarono subito alla massima che, per due amanti, è quella del tradimento. Credendo ciascuno d’esser tradito dall’altro, naturalmente entrambi pensarono di potere, anzi di dover tradire a propria volta; talchè, come sempre accade, ciò che era dapprima ingiusta imaginazione divenne tosto ingrata realtà. Egli amò un’altra donna, ella un altro uomo. Persuasi d’aver ricevuto un torto, il torto estremo, non si videro più. I loro nuovi amori finirono rapidamente, ma essi continuarono ad evitarsi. Un giorno, impensatamente, s’incontrarono, per la via. Mentre egli scantonava, ella gli apparve dinanzi: i loro sguardi s’incrociarono un istante. E allora, tumultuariamente, le sopite memorie si ridestarono nel cuore di lui. Aveva più d’una volta pensato a lei, ma con un sentimento torbido, fatto di rancore e di sdegno; ora, a un tratto, per averla guardata negli occhi, tutte le dolcezze antiche gli rifluivano al cuore... Come s’erano amati! Era possibile dimenticare quella passione? Credeva d’averla dimenticata, aveva voluto cancellarne i ricordi; ed ecco che risorgevano, immortali!... Da quel punto egli non visse più della vita reale; le impressioni del presente si perderono nella continua evocazione d’un passato non tanto passato come pareva. Perchè, infatti, i sentimenti muoiono forse proprio come gli esseri, per non più rinascere? E si può mai ricordare un affetto senza ancora in certa guisa provarlo? Quando noi non lo comprendiamo più abbiamo un bel tentare di evocarne la memoria: essa ci sfugge. Rammenteremo bensì le circostanze concomitanti, le condizioni esteriori: penseremo a un nome, rivedremo una imagine; ma il moto dell’anima, ma il cordiale turbamento non si ridestano, anzi sono così ribelli al nostro sforzo che noi neghiamo perfino d’averli provati mai. E invece egli sentiva il cuore battergli in petto, al pensiero di lei, come la prima volta che l’aveva veduta. E non sapeva far altro che chiudersi in casa, rileggere le sue lettere, rivedere le reliquie del perduto amore, ricordare i tramontati giorni felici. E a poco a poco l’assiduità di quelle appassionate cogitazioni produsse in lui un mirifico inganno: gli parve che il tempo trascorso dalla rottura, tutto il triste tempo della nuova sterile prova e della solitudine fredda non fosse trascorso realmente; gli parve d’aver sognato queste cose e di rivivere nella stagione dell’amore beato. Che faceva egli allora? Pensava a lei, sempre — come ora! Le scriveva — e come allora egli si metteva ora alla scrivania, per cominciare una lettera. Le antiche espressioni ferventi gli spuntavano sotto la penna; con la stessa tenerezza d’una volta egli tracciava sopra una busta il nome di lei, il bel nome tante volte, quante volte mormorato tenendola fra le braccia!... Andava anche da lei, allora — e guardando ora il cielo nebbioso, udendo i fischi del vento, lo scrosciar della pioggia, egli vedeva con gli occhi del cuore il Faro splendente nella notte, la guida fedele additargli il Porto delle Soavità. Ora, pensando che se fosse passato dalla nota via, dalla via della quale conosceva ogni angolo, ogni sasso, egli non avrebbe più visto risplendere il Faro, che tutto sarebbe stato chiuso ed oscuro, che quel porto gli era vietato, che quelle soavità erano finite, ei pianse le lacrime del rimpianto e del rimorso. La propria colpa gli apparve evidente e il dolore lo schiacciò. Qual riparo tentare? Che fare per vivere ancora? Mandarle una di quelle lettere che veniva scrivendo e poi lasciava dov’erano? Ma come l’avrebbe ella accolta?... Non era stata di lei stessa la colpa? Che sperare da chi lo aveva tradito?... E la disposizione del suo spirito mutò; egli credette un momento d’essersi agguerrito contro la lusinga, contro sè stesso. Ma il dubbio tornò ad occuparlo: non aveva tradito egli stesso? Il torto non era suo proprio? Sì, suo: principalmente suo. E che pensava ella di lui? Lo incolpava? Aveva tutto dimenticato?... Non era possibile! Vedendolo, guardandolo negli occhi, improvvisamente, le memorie avevano dovuto travolgere anche lei: ne era sicuro. Ella aveva dovuto pensare alla forza, alla dolcezza della loro passione; dire a sè stessa — come lui — che una passione simile non si dimentica. Anch’ella aveva dovuto tentare d’uccidere la memoria; ma i suoi sforzi dovevano essere rimasti sterili — come quelli di lui. Che faceva ella in quei giorni? Come lui, senza dubbio, evocava il passato; ricercava, rivedeva le mute e inerti testimonianze dell’amor loro; come lui s’incolpava d’aver ucciso questo amore. Era possibile che pensasse ad altro, che provasse altro? Guardando quel cielo costantemente grigio, i vetri rigati dalla pioggia, i tetti imbiancati dalla neve, che altro poteva pensare se non che meno d’un anno addietro, nelle notti come quelle, illuminato il Faro, ella stava ad aspettar l’amato, dietro un uscio, per gettargli le braccia al collo appena varcava la soglia della sua casa? E come egli, all’ora dell’amore, si struggeva dalla tentazione di ripassare da quella casa, con la lusinga di poter vedere ancora una volta risplendere il Faro, non provava anch’ella la tentazione d’illuminarlo ancora una volta e d’aspettare la venuta di lui? Quest’idea, l’idea di rivedersi al modo antico, ora che s’erano incontrati, ora che l’amarezza della separazione era passata, ora che la stessa stagione correva propizia ai convegni, che lo stesso cielo pareva favorirli; quest’idea che occupava e invadeva lo spirito di lui e ogni sera gli suggeriva di rifare la via consueta, non doveva occupare e invadere lo spirito di lei? Logicamente, necessariamente, il contemporaneo risveglio di comuni memorie non doveva produrre in due anime che avevano vibrato all’unisono un identico stato di coscienza, la stessa disposizione sentimentale, eguali speranze, bisogni simili, gli stessi impulsi? Egli ne ebbe in breve la morale certezza. Senza aver parlato con lei, senza aver saputo nulla di lei, senza neppure averla riveduta dal giorno dell’incontro, fortuito, la sentì tutta piena dei ricordi dell’amore, tutta amante, aspettarlo ansiosa dopo aver disposto l’usato segnale... e una sera, una notte che la neve fioccava a larghe falde, egli s’avviò... Non s’era ingannato, contessa. E vede come io avessi ragione d’assicurarle che lo spiritismo non entrava per nulla nel mio fatterello? L’analisi psicologica, la legge secondo la quale le idee si associano e i moti dell’animo si seguono, basta a spiegare un’intuizione simile. L’amica nel cuore della quale egli leggeva a distanza, leggeva anch’ella nel cuore di lui. Tutti i sentimenti per i quali egli era passato, dopo l’incontro imprevisto, avevano occupato successivamente, e con lo stesso ordine, l’anima di lei. Ella aveva realmente evocato e rimpianto il passato, aveva tentato di scrivere all’amico, poi lo aveva accusato, poi aveva accusata sè stessa; ad un tratto era stata sicura che anch’egli pensava a lei com’ella pensava a lui. Vedendo quella successione di sere propizie ai convegni s’era sentita struggere all’idea d’averne ancora uno: e certa che egli partecipava a quel desiderio, a quel bisogno, una sera che pioveva a diluvio dispose il segnale ed aspettò. Aspettò, tremante di freddo e ardente di rancore, dalle nove a mezzanotte: non venne nessuno... Egli era passato la sera prima, quando nevicava soltanto; se n’era tornato indietro con la morte nel cuore e l’ironia sulle labbra vedendo che il Faro era spento... Sì, contessa, ella ha ragione: le anime si comprendono, i cuori s’accordano, le volontà s’uniformano; senza parlarsi, senza vedersi, i nostri amanti provarono gli stessi sentimenti, obbedirono agli stessi impulsi; solamente, sbagliarono giorno... L’INDISCRETA DOMANDA _Spiritosa contessa ed amica spirituale,_ Quando, per darle a intendere che ero d’accordo con lei e che mi accostavo alla sua tesi della comprensibilità delle anime, io le narravo l’apologo della _Muta Comunione_, sapevo bene quel che facevo. Con una dama arguta come lei, siano pure gravi ed incomponibili i divarii delle opinioni, si è sempre certi di potersi accordare in quella media e sensata verità nella quale le menti equilibrate s’acquetano. Se pur misi una punta ironica nella mia narrazione, ella mi ha dato ragione, perchè «la vita è piena d’un umorismo come il vostro amaro e dissolvente;» e mentre io ho fatto un passo verso di lei, anch’ella ne ha mosso uno verso di me temperando la vivacità delle sue prime recriminazioni. Nondimeno, quantunque ella ponga ora una maggiore indulgenza nel ribattere le mie idee, non per questo è disposta ad accettarle. Una specialmente le dispiace: ella rifiuta di credere che, in amore, la fredda, impassibile e vuota bellezza delle forme sia, da parte delle donne, maggiormente apprezzata del valore morale e dell’intellettuale grandezza negli uomini. Il caso di Mirabeau, che a onor del vero io stesso citai, le pare dimostrazione della regola e non mai, come io sostengo dell’eccezione. Ella dice che ogni Mirabeau, cioè ogni uomo fisicamente orribile, con un piede storto, col viso crivellato dal vaiolo, «brutto come Satana» — diceva lo stesso padre del grande oratore — ma grande moralmente, troverà una ed anche più d’una marchesa de Monnier capace d’amarlo di un immortale amore. Io dico, sì, che ad un genio sovrano la bruttezza non impedirà d’essere amato, ma che alla media umanità un poco di bellezza giova più di molta grandezza; perchè la bellezza si rivela immediatamente allo sguardo e basta aver occhi per apprezzarla; mentre le qualità del cuore e della mente richiedono una più o meno assidua frequentazione avanti d’essere riconosciute; quindi un uomo bello ma stupido produce una prima impressione favorevole, mentre un grand’uomo orrido produce una prima impressione repulsiva; ora ella non ignora che le prime impressioni sono le più importanti e sogliono anche resistere alle contrarie impressioni susseguenti. Il vantaggio dello stupido Adone sul Genio mostruoso mi pare quindi evidente; senza contare che la bellezza plastica, l’armonia delle proporzioni, la freschezza della gioventù, come sono immediatamente riconoscibili, così non si possono neppure negare; mentre le qualità morali sono, perchè morali, di più ambigua natura e più discutibile essenza, e corrono il rischio, pertanto, di restare disconosciute. Senza contare ancora che, mentre l’assoluta bellezza plastica, quantunque rara, pure esiste, l’assoluta simpatia, la perfetta grandezza morale e intellettuale non esistono; anzi, come ha luminosamente dimostrato un filosofo che è onore d’Italia, il Genio più alto ha più lati manchevoli. Con questo non voglio negare ciò che le ho già concesso, cioè che il Genio, a dispetto delle brutte forme, possa esercitare ed eserciti una forte attrazione. E guardi come sono arrendevole; non mi basta d’averle addotto l’esempio di Mirabeau; ne voglio aggiungere ancora un altro, forse più significativo! Sofia de Monnier era una donna moderna — o press’a poco — e come tale s’intende che il fascino dell’ingegno la facesse passar sopra alla diabolica bruttezza di Onorato Gabriele di Riquetti. Di più, aveva un marito di settant’anni, e ciò spiega una quantità di cose... Ipparchia, invece, della quale le voglio narrar l’avventura, era una fanciulla greca, e quantunque l’avessero educata come per farne un’etera — ella sa che in Grecia le etere erano le sole donne cui s’impartissero gli alti insegnamenti della filosofia — pure è maggiormente notevole che s’innamorasse di Crate, celebre filosofo cinico, il quale era poverissimo, gobbo ed orribile. La passione d’Ipparchia divampò così gagliarda, che ella volle lasciar tutto per vivere con costui, a dispetto di quanti la accusavano di pazzia, a dispetto dello stesso filosofo — che non doveva poi esser tanto cinico quanto pareva, se le mise sotto gli occhi la propria miseria e la propria infermità. Tutto fu inutile: Ipparchia rispose a lui, come ai parenti ansiosi di distoglierla da quell’amore, che non avrebbe mai potuto trovare un marito più bello d’un tal filosofo. Allora Crate, il quale non poteva sempre dimenticare i precetti della sua canina filosofia, la condusse nel Pecile, che era uno dei portici più frequentati d’Atene — come dire quelli della Galleria qui a Milano — e lì... ma io non farò come Sant’Agostino, che ricamò pepati commenti su quanto accadde lì tra quei due; farò piuttosto come fece un amico del cinico, traversando per caso il Pecile nel punto culminante dell’avventura: getterò sulla coppia un mantello... E poi? Che cosa importa? Due, dieci, cento, mille eccezioni potranno infirmar mai la regola? E la regola è che, per l’opera di seduzione, le qualità fisiche esercitano un’azione più pronta e producono un risultato più decisivo delle morali virtù; che, per essere amati, è più importante, è necessario essere semplicemente belli, e giova meno possedere una grande bontà, un’anima ardente, un’intelligenza sovrana. Se noi distingueremo l’amor sensuale dall’amor morale, potremo forse dire che la bellezza fisica accenderà il primo e che le qualità morali susciteranno il secondo. Ma se ciò sta bene astrattamente, la distinzione non è così facile in pratica. Imaginiamo un caso. C’è un uomo brutto, ma quest’uomo possiede — e la gente sa che possiede — un grande ingegno, una squisita sensibilità, le migliori disposizioni del cuore e della mente. La sua bruttezza gli nocerà, dinanzi alle donne, più che non gli gioveranno queste magnifiche disposizioni, oppure quest’ultime faranno dimenticare la prima? Ella m’ha detto che la cosa dipende «dall’indole diversa delle diverse donne,» e va bene; perchè, evidentemente, una donna superiore, che nell’amore cerca l’appagamento di cordiali e ideali bisogni, apprezzerà le virtù e passerà sopra alla bruttezza; ma su cento donne prese a caso in mezzo alla folla, quante provano a un tal grado questi bisogni? Reciprocamente, se c’è un Adone inanimato come la statua del bellissimo dio, le sue probabilità di riuscita non saranno maggiori, paragonate a quelle del brutto grand’uomo? «Sois beau!» dice l’amabile autore dei _Consigli ad un giovane che si dedica all’amore_. «Sinon, n’aime pas. Sans beauté l’on peut être choisi; il arrive aux plus jolies de préférer les plus laids; c’est une histoire souvent renouvelée que celle de la femme de Joconde. Toi cependant, mon élève, docile aux bons conseils, qui te fais enfin de l’amour l’idée qu’il convient d’en avoir, défends toi d’aimer si tu n’as pas reçu les dons qui charment les yeux...» — «Un’altra citazione?...» l’odo esclamare di qui; «e avete il coraggio di citarmi proprio quel gran moralista che si chiama Catulle Mendes?...» Non vada in collera, contessa: io lascerò lì subito l’autore di _Zo’ har_, e le narrerò invece un altro fatterello: va bene così? Le narrerò un fatterello che dimostra appunto quanto sia grande e superiore a quello esercitato dalla eccellenza morale, l’impero della plastica e corporea bellezza. Ella conosce la storia del mio povero amico Raeli. Nella breve esperienza di questo infelice vi furono molte cose che sarebbero state degne di nota; disgraziatamente la più gran parte egli le portò via con sè, nel sepolcro che troppo presto si schiuse. Io posseggo tuttavia molte sue lettere ed anche un suo libro di memorie, del quale una volta o l’altra le riferirò alcuni curiosi passaggi. Già narrai, tempo addietro, la crisi tremenda che spinse l’amico mio a togliersi la vita; la strana fatalità per la quale ad un uomo come lui, disgustato dei reali amori, assetato di purezza, doveva venire incontro un’altra disgraziata che non poteva più dargli ciò che le avevano portato via. Ma prima di questa tragica avventura egli aveva amato, una volta: se ne rammenta? Egli s’era acceso, a Vienna, della Woiwosky, d’una dama che avrebbe fatto — ed aveva fatto veramente! — la felicità di molti uomini, ma con la quale egli non poteva andare a lungo d’accordo. L’amor loro finì male, come ella sa; e la brutta fine di quest’amore non fu una delle minori ragioni che resero Ermanno Raeli così esigente e tanto dolorosamente sensibile; ma, sul principio, la felicità sorrise ad entrambi. La Woiwosky non aveva ancora idea delle delicatezze ingenue, delle poetiche fantasie, delle invenzioni sentimentali che un uomo come Raeli sapeva mettere nella passione. Con una cultura fuor del comune, con un’anima bizzarramente complicata e quasi duplice, ora sottilmente indagatrice, ora tumultuosamente appassionata; con uno spirito ora critico, ora inventivo, mezzo tedesco e mezzo arabo, scettico per esperienza, tollerante per persuasione, buono in fondo d’una bontà candida, a quel giovane non mancava proprio nessuna delle doti intellettuali, delle morali disposizioni che, secondo lei, importano principalmente. Ne aveva fin troppe ad un tempo, ed appunto per ciò egli sofferse tanto e non potè mai contentarsi di quel che la vita gli diede. Ma ora io non voglio ragionare di queste cose; voglio rammentarle che pochi uomini avevano un’anima ed uno spirito più riccamente dotati dei suoi. E non era neppur brutto! Bello non si poteva dire, nel preciso senso di questa parola; ma la curiosa fusione del tipo nordico e del meridionale dava alla sua persona un gran carattere, oltre che la sua espressione era delle più simpatiche. Ed alla Woiwosky egli era dapprima piaciuto fisicamente; costei aveva cominciato ad apprezzare più tardi la rarità del suo spirito. Ma, pure amandola e sentendosi amato da lei, Raeli, che fu chiamato con Byron _the child of doubt and death_, indagava assiduamente, come sempre, il proprio sentimento e l’altrui. Egli pensava, ed era nel vero, che le sue proprie qualità morali sopravanzavano di gran lunga le fisiche, e che, se pochi uomini potevano stargli a fronte nel campo del pensiero e del sentimento, moltissimi altri erano senza fine più avvenenti di lui. Allora, curioso come quei bambini che spezzano i balocchi pur di vederne il congegno, egli cominciò a smontare l’amore dell’amica sua per vedere com’era fatto. Discutendo tra sè il problema che ci occupa e ci divide, egli pensava come me, contessa: che la bellezza preme sopra ogni cosa. A questa persuasione lo aveva condotto non l’astratto ragionamento, ma il positivo studio della storia naturale. Grazie a questo studio egli sapeva che in tutto il mondo vivente c’è una scelta sessuale e che questa scelta è fatta con i criterii della vistosità delle forme, della vivacità delle colorazioni, della ricchezza degli ornamenti. Gli uomini, animali ragionevoli, sono, prima che ragionevoli, animali; quindi obbediscono a quelle stesse leggi che regolano tutto il mondo animato: in forza di questa argomentazione egli non dubitava della capitale importanza della venustà. Così pensando, si proponeva questo problema: «Che cosa varranno le mie doti morali e quella poca bellezza che posseggo, se un giorno un uomo veramente bello tenterà di portarmi via il mio bene?...» Egli non prevedeva ancora, non sospettava neppure che l’amica sua l’avrebbe tradito, — nè realmente ella poi lo tradì per un Adone! — ma, pur concedendo che la virtù di costei avrebbe saputo resistere a ogni seduzione, egli temeva d’essere menomato nel concetto di lei, di dover necessariamente scapitare ai suoi occhi quando ella avrebbe conosciuto un vero Adone. Un giorno essi andarono insieme a Schönbrunn. Provveduti d’un permesso, visitarono il Palazzo d’estate. Nella corte, mentre stavano per avviarsi alla scalea, apparve dinanzi alla coppia amante un militare, un alfiere delle Guardie del Corpo. Ermanno Raeli soffermossi, turbato dalla maraviglia. Quell’uomo aveva la bellezza d’un Dio. Alto oltre la media, e tanto che appena un poco più sarebbe parso sgraziato, la sua dominatrice statura, il portamento marziale, la stupenda proporzione delle membra, la felice armonia dei lineamenti, l’agile forza che rivelavasi all’incesso, alle mosse; la delicata morbidezza della carnagione, la serica biondezza dei capelli e dei baffi, la dolce e nobile espressione degli occhi, le stesse smaglianze della divisa che non pareva sovrapposta alla persona ma far tutt’uno con essa, mortificavano ed avvilivano ogni altra figura, intorno a lui. Ed Ermanno, con una stretta acutissima al cuore, sentiva di non valere più niente, d’esser meschino, povero, inutile, spregevole; ma tuttavia il senso di felicità che la vista di quella miracolosa creatura gli procurava, il sentimento estasiato che lo invadeva quasi contemplando una sublime opera d’arte, erano ancora più forti della sua umiliazione. Se in lui, uomo, rivale, si produceva un effetto tanto profondo, che cosa doveva provare l’amica sua?... Egli si volse verso di lei: la donna non esprimeva meraviglia alcuna. Quando il militare, allontanatosi, non potè più udirli, le domandò: — Hai visto che bella figura? Ella rispose semplicemente: — Sì, molto bella. Più tardi, quando furono proprio soli, intimamente, egli tornò a interrogare: — È proprio vero che sei rimasta indifferente dinanzi a quell’uomo?... Ne vedesti mai di più belli?... Non è possibile che tu non abbia nulla provato!... Ella continuò a rispondere che gli era parso molto bello, che non rammentava d’averne visti altri così, e che aveva appunto pensato: «Ecco propriamente un bell’uomo!....» Ma da quel giorno egli non la lasciò più in pace, cupido di sapere. Le descriveva con calore la divina bellezza del militare, le domandava se lo avrebbe amato; ella rispondeva che le persone non si amano così, per averle viste a pie’ d’una scala. Le diceva ancora: — Se io sembro una marionetta, vicino a lui, come ti posso ancora piacere? Ed ella rispondeva: — Tu non mi piaci soltanto, ti amo. — Riconosci dunque che è più bello di me? — È bello come una statua. Le statue s’ammirano, non si amano. — Se non amassi me?... — Che idea! Gli sfuggiva; ma Raeli sentiva che in fondo al pensiero di lei c’era qualcosa che ella non diceva, che non voleva dire. Naturalmente la paura di offender l’amato, di perdere la stima di lui, la vergogna e il morale pudore le impedivano di rivelare il proprio sentimento, di confessare che la sola venustà della forma bastava ad accendere il suo desiderio. Ermanno voleva però ad ogni costo ottenerne la confessione. E una volta, in uno di quei momenti che ogni pudore è dimenticato e la sincerità trionfa di tutte le vergogne, dopo aver ripreso a descrivere, ammirato, la bellezza del militare, egli le domandò improvvisamente, prendendole una mano, guardandola negli occhi: — Ascolta: se io partissi, se tu non avessi più notizie di me, se fossi come perduto, come morto per te; se in queste condizioni tu ti trovassi sola con lui e se egli ti cadesse ai piedi, che cosa faresti?... Ella liberò la mano dalla stretta, chiuse gli occhi, portò le mani agli occhi chiusi, stette un istante così, in silenzio, come per raccogliere tutta la propria pazienza contro l’offensiva insistenza dell’amico suo; poi, molto piano, rispose: — _Non me lo domandare_... L’OMONIMO _Mia cara amica,_ E va bene! Ancora una volta ella ha ragione!... Noi dovevamo discutere se l’impero della bellezza è maggiore del prestigio del genio, e per dimostrare che il genio è posposto alla bellezza io le ho riferito il sentimento d’una donna che del genio non poteva comprendere il valore. «Questa vostra signora Woiwosky, per vostra stessa confessione, non aveva ancora idea d’una sensibilità squisita, d’una imaginazione feconda, d’un intelletto acuto come quelli del vostro amico. Ed aveva avuto altri amanti prima di lui, e lo tradì: come volete dunque che io la prenda sul serio? Era, evidentemente, una di quelle disgraziate che non obbediscono se non agli istinti, che ignorano il mondo superno dei sentimenti e delle idee: e vi meravigliate, allora, che un paio di baffi biondi la titillasse e che ad un paio di baffi biondi ammettesse di poter sacrificare un’anima come quella del vostro amico? Ma se voi volete provare che la musica è superiore alla pittura, fatemi un poco il piacere di non addurmi il giudizio d’un cieco!...» E se io le dicessi, contessa, che rispetto al genio tutte le donne sono cieche?... Ella non si offenderebbe di questo giudizio; perchè, se noi non andiamo spesso d’accordo, molte volte ella ha riconosciuto, con una schiettezza che non so se faccia più onore alla sua intelligenza o alla sua modestia, l’intellettuale inferiorità delle donne. Così stando le cose, se la mente muliebre non vive nè arriva alle altezze dove il maschio intelletto opera e spazia, che cosa importerà alle donne la grandezza intellettuale? Che cosa faranno esse di ciò che non intendono?... Naturalmente, noi metteremo da parte le eccezioni. Nè mi dica che la galanteria mi suggerisce questa concessione. Io non commetterò ora l’insulsaggine di lodare l’intelligenza di lei; ma, se dobbiamo discutere il nostro problema, il quale, mentre mi pareva risolto con un assioma, sta per diventare — grazie alla sua ostinazione! — un apòro, io le ripeterò che alle donne di molta levatura sicuramente la grandezza importa più della bellezza; farò anzi di meglio: le riferirò il motto d’una non volgare Amatrice dinanzi a cui qualcuno, riferendo certe fortune galanti di Guy de Maupassant, diceva, quasi per giustificarle, che il grande scrittore era anche un bell’uomo. — _Chi si chiama Maupassant non ha bisogno di essere bello_, — rispose costei; ed ella batta pure le mani, si giovi fin che vuole di questa risposta: io debbo dichiararle che questi ed altri simili esempii sono tutti esempii dell’eccezione, non mai della regola. Esempio della regola è quello che racconta Chamfort e che ella mi permetterà di riferirle. Il filosofo Elvezio era, da giovane, bello come l’amore. Una sera che se ne stava, al teatro, tranquillamente seduto vicino alla celebre Gaussin, un molto ricco e noto banchiere venne a dire all’attrice: «Mademoiselle, vous serait-il agréable d’accepter six-cents louis, en échange de quelques complaisances?...» L’attrice rispose, forte abbastanza perchè il giovane filosofo potesse udire, e additandolo: «Monsieur, je vous en donnerai deux-cents, si vous voulez venir demain matin chez moi avec cette figure-là...» La regola, signora mia, è che al più gran numero delle donne il genio importa poco e che quasi tutte gli preferiscono un bel viso. Se noi enunzieremo il nostro psicologico problema così: «Dato un uomo di genio, il quale sia anche un bell’uomo, trionferà egli più presto per il suo genio o per la sua bellezza?» io dico che la soluzione non può esser dubbia: la bellezza eserciterà l’azione più pronta ed efficace. E se le ho dianzi citato un esempio storico, glie ne aggiungo un altro che non è storico ancora, ma sarà tale, perchè riguarda un genio non meno grande nell’arte di quel che fosse Elvezio nella filosofia. Stia un poco attenta: la storiella che le narrerò è una delle più graziose fra quante mi furono confidate. Crede ella che sia permesso ignorare, in Italia, chi è Guglielmo Valdara? Chi non ha letto i suoi magnifici versi, chi non ha almeno udito ripetere i più famosi, quelli divenuti popolari, entrati ad arricchire il patrimonio della lingua parlata, come i proverbii e i modi di dire? Ma se a nessuno riesce nuovo il suo nome, molti non avranno idea della sua persona e non sapranno che egli possiede quel genere di maschia bellezza destinata a piacere alle donne ed a formare l’invidia degli uomini. È alto, magro ed agile; ha lineamenti nobili e puri, capelli folti e dorati come nella prima gioventù. I suoi amici gli chieggono, scherzando, di quale tintura si serve; ma Valdara è veramente un miracolo di conservazione — poichè, come ella saprà, è più vicino ai cinquanta che non sia lontano dai quaranta. Ma il tempo passa per lui senza offenderlo, e la sua figura è di quelle la felice armonia delle quali muta di carattere, ma non si distrugge. Quando le sue chiome saranno tutte d’argento, sembrerà ch’egli abbia messo, per civetteria, una bella parrucca — e piacerà ancora. Quando non avrà più capelli, la sua testa parrà scolpita nel marmo pario — e non dispiacerà. Ma veniamo all’avventura della quale fu l’eroe. Due anni addietro, sul principio dell’estate, egli andò ai bagni d’Aix, dove trovò parecchi connazionali, ma nessuno di sua conoscenza. Qualcuno di quegli Italiani, tuttavia, avendo letto il suo nome sulla lista dei viaggiatori, lo considerava con l’occhio attento ed un poco attonito col quale si guardano i grandi uomini, le bellissime donne e le bestie rare. Certuni gli gironzavano attorno, cercando l’occasione di dirgli che sapevano chi era; ma, naturalmente nemico di questo genere di esposizioni, Valdara evitava costoro, ed era molto contento quando lo scambiavano con uno dei tanti Valdara così numerosi nell’alta Italia, specialmente col proprietario o direttore che sia del celebre lanificio di Biella. La corte degli uomini lo seccava; però egli faceva la corte alle signore. Una sopra tutte gli piaceva: la moglie graziosissima ed elegantissima d’un ingegnere piemontese, il cui nome si omette per discrezione. Fin dal primo giorno che costei apparve alla _table d’hôte_, Valdara le piantò gli occhi addosso, con una persistenza legittimata dalle occhiate rapide e frequenti che anche ella gli rivolgeva. La sera, al Casino, uno di quei curiosi che era finalmente riuscito ad esprimergli la propria ammirazione e che conosceva l’ingegnere e la moglie, lo presentò alla coppia di fresco arrivata. E, credendo di riescirgli particolarmente gradito, si mise a parlare di letteratura. Valdara, lieto della conoscenza fatta, era un po’ seccato da quel discorso, temendo da un momento all’altro di sentir citare le proprie opere o di dover rispondere alla solita incresciosa domanda: «E che cosa ci regalerà di nuovo?» Per fortuna il seccatore ebbe il buon gusto di non alludere a lui; nè la signora, la quale del resto era un poco stanca e si ritirò molto presto, gli fece gl’immancabili ed immancabilmente stupidi complimenti. Fin dal domani Valdara cominciò l’assedio, e con gran piacere s’accorse che le cose si mettevano bene. Il seccatore se ne partì, l’ingegnere stava poco bene, quindi egli ebbe l’agio di veder spesso sola la dama dei suoi pensieri. Una settimana dopo, ottenne di fare con lei una passeggiata clandestina. Parlarono di tutto, fuorchè di letteratura; anzi, non di tutto, ma d’una cosa sola. Ella indovina quale. Valdara disse alla sua bella connazionale, con tutta l’eloquenza che gli era consentita dall’assoluta solitudine, quanto gli piaceva — e la sua bella connazionale se lo lasciò dire. Dopo un’altra settimana di colloquii, di balli, di strette di mano furtive, di baci un po’ rubati e un po’ concessi, ella andò a trovarlo in camera sua. E allora, come facilmente comprenderà, non parlarono di niente. Le visite si rinnovarono, e furono tutte poco verbose, perchè necessariamente brevi. Insomma, Valdara assaporava beatamente la dolcezza dell’avventura, e come non chiedeva null’altro all’amica, così non gli faceva senso che neppur ella gli chiedesse null’altro. Ora, un giorno, mentre l’aspettava, la posta gli portò due pacchi contenenti sedici copie del suo nuovo volume _Le Memorande_, che l’editore proprio in quei giorni doveva diffondere per tutta la penisola. Siccome mancava più d’un’ora al convegno, egli si mise a scrivere le dediche su quei volumi che s’era fatti mandare appunto per spedirli agli amici. Non aveva ancora finito che l’uscio si schiuse e l’amica sua gli venne incontro. Egli lasciò a mezzo le dediche e tese le braccia alla dama, esclamando, a bassa voce, ma con l’accento della più lieta meraviglia: — Che piacere!... Tanto più presto!... Non vi speravo ancora!... Ella spiegò che una felice circostanza l’aveva lasciata libera prima dell’ora consueta e che perciò avrebbero potuto restare insieme più a lungo del solito. — Ma io non disturbo?... — domandò con un discreto sorriso, per farsi assicurare del contrario; e Valdara: — Voi?... Se non mi par vero?... Se m’avete risparmiato la febbre dell’attesa!... Accennando alla scrivania, ella soggiunse: — Facevate però qualche cosa... — e andò a vedere. Le copie delle _Memorande_ erano distribuite in due pile: da una parte quelle dove la dedica era già fatta, dall’altra quelle dov’era ancora da fare; nel mezzo, aperto alla prima pagina bianca, l’esemplare dove Valdara stava scrivendo; «_A Giuseppe Giacosa, fraternam_...» Ella guardò curiosamente quei libri, prese l’esemplare aperto e considerò un poco la dedica. — Questo libro è dunque vostro? — domandò, senza nessuna espressione di compiacimento o di stupore; e Valdara, stupito invece un poco per proprio conto, rispose: — Si, è mio... Ne gradite una copia?... Allora, con l’espressione di chi si sovviene a un tratto di qualche cosa, la dama insistè: — Dunque voi siete Valdara, il poeta?... L’autore delle _Elegie d’autunno_?... — E naturalmente, tranquillamente, come se il sapere che l’amico suo era uno dei più grandi poeti della patria non gli aggiungesse nè gli togliesse nulla, ella continuò: — _Io avevo creduto che foste quell’altro, quello del lanificio..._ Per la verità debbo aggiungere che Valdara, quella volta, restò un po’ male. LA VEGLIA _Cara Contessa,_ Pare che l’avventura di Guglielmo Valdara, se non l’ha proprio convinta, l’abbia scossa, almeno, e indotta a dubitare di ciò che prima asseriva con troppa fermezza. Infatti, concedendomi che le donne stiano attente alla bellezza degli uomini da amare più che non alla morale altitudine di essi, ella mi domanda: «E gli uomini, allora? Che altro cercano, se non le qualità fisiche? Che prezzo dànno alla bontà, all’intelligenza, alla virtù? E allora oserete fare una colpa a noi donne se la bellezza ci seduce? Ma se noi le diamo tanta importanza, se la cerchiamo con tanto impegno, se non amiamo senza trovarla vuol dire, mi pare, che siamo ad essa sensibili; voialtri, invece, non ne fate anche a meno, tantissime volte? Non avete riconosciuto che una donna qualunque, una femmina purchessia, è dai maschi desiderata e cercata? Dite benissimo; ma la conseguenza che traete da queste premesse è storta, stravagante e tutta opposta a quella che dovrebbe essere; perchè mentre la logica dovrebbe farvi riconoscere che gli uomini amano meno bene, la presunzione vi fa dire che essi soli sanno amare!...» Io direi, contessa, di non ingolfarci in questo dibattito. Tanto, è fuori di dubbio che, dopo avere versato fiumi d’inchiostro, ciascuno s’affermerà nella propria opinione. Sarà anche inutile tirare in ballo i grandi scrittori passati e presenti; perchè, se Shakespeare ha detto che «l’impronta dell’amore nel cuore delle donne è come la figura disegnata sulla neve, che un raggio di sole cancella,» ella mi rovescerà addosso una quantità di moralisti, di pensatori, di poeti che dànno ragione a lei. Dunque, lasciamola lì. Soltanto, perchè ella non mi scambii le carte in mano — tutte le signore sono felici quando riescono a barare al giuoco — la pregherò di notare che noi parlavamo d’uomini e di donne, non già di maschi e di femmine. Nella bruta ed infima umanità, come in tutto il regno animato, l’ardenza dei bisogni mascolini è tale, che fa passar sopra ad ogni qualità nelle femmine da amare, mentre la freddezza femminile ha bisogno dello stimolo e dell’eccitazione prodotti da maschi appetibili per bellezza o per forza. Ma questi amori meccanici sono amori nell’umano senso della parola? Amori sono quelli delle creature dotate di spirito, d’anima, di mente, di cuore: or siccome il cuore, la mente, l’anima, lo spirito degli uomini sono più vasti, più potenti, più alti, più forti di quelli muliebri, così gli uomini amano meglio delle donne. L’istinto inferiore potrà bensì talvolta vincerli; ma anche allora essi trovano modo di riscattare le loro cadute. Ella mi dice che nessuna donna va in cerca del solo piacere, e sia come ella vuole; mentre un’infinità di uomini, soggiunge, e non già dei volgari ma dei più nobili, cercano un’infinità di volte «la pura — l’impura! — e semplice soddisfazione degli appetiti;» ma ciò che a lei par semplice non è poi tanto semplice come le pare; e ancora quando uno di costoro si trova in cospetto d’una mercenaria, sa ella che cosa prova? Invece d’imaginare i sentimenti che questi uomini possono provare in tali circostanze, ascolti piuttosto il fatto che voglio narrarle. Non posso dirle a chi lo debbo. Il cantastorie di professione non avrebbe difficoltà di attribuirlo ad un personaggio fantastico, del quale foggerebbe lì per lì il nome e il cognome; ma se così facessi mi parrebbe di scemare la verità, di menomare il valore di questo fatto. E mi basterebbe, per un altro verso, dire il nome del mio confidente, che è uno dei più potenti e venerati Principi del Pensiero, perchè ella si disponesse a udirmi con più intensa curiosità e m’accordasse più sicura fede; ma io non posso e non debbo dirlo: giacchè, quand’anche l’usanza non vietasse di narrare intime cose del Genio finchè la manchevole vita lo tiene e quasi menoma la grandezza sua, il rispetto che ho per gli scrupoli di questo mio grande Maestro, i quali sono fra i più gelosi e delicati che la sensitiva Anima abbia mai educati, mi vieterebbe di tradire la confidenza della quale egli mi onorò. Ella si contenterà pertanto ch’io lo chiami Protagonista, senz’altro. Protagonista significa, secondo l’etimologia, primo gareggiatore, ed egli era veramente alla sua prima gara d’amore. Non aveva ancora, non che posseduta, ma neppur vista una donna; intendo che il mistero della forma muliebre gli era sconosciuto. E doveva ancora compiere vent’anni, il che le dica se sentisse ardenti gli stimoli dell’istinto. E s’era abbeverato di poesia, il che le dica con quanto struggimento aspettasse e sognasse d’amare. Ma il tempo passava, egli avanzava nella vita, e la Terra Promessa non appariva. Egli sentivasi solo, monco, incompiuto: ma la metà di sè stesso della quale era privo, l’essere del quale aveva bisogno, non compariva ancora. Per appagare, con l’ardente bisogno, l’esasperata curiosità, egli non trovò di meglio che varcare, una sera, la soglia d’uno di quei luoghi dove si vende il Piacere, ma si compra il Disgusto. Quanti uomini sono stati iniziati alla vita nuziale in modo meno indegno? Pochi uomini, in verità; tanto pochi che non è da stupire se, dopo questo primo avvilimento, s’ode poi così spesso negare ogni ideale richiamo nei rapporti d’amore e tutto ridurre alla soddisfazione del cieco appetito. Ma la sete di qualche altra cosa, se fu provata una volta, potrà mai spegnersi del tutto, qualunque sia stato l’orror della prova? Ed ella udrà che cosa fece, per questa sete, il mio Protagonista. Era la prima volta che aveva denaro da buttar via, e alle miserevoli creature che annegano la tristezza nel vino egli pagò da bere. Voleva forse annegare la sua propria tristezza? No, non era triste; era risoluto, cosciente di sè; aveva precisamente deliberato di fare ciò che faceva. Pagò del vino di Sciampagna, il vino delle cortigiane, e ne bevve anch’egli; poi condusse con sè una di quelle sciagurate. Seppe scegliere: in mezzo alle maschere di belletto e di cerussa, alle forme deturpate dal vizio, alle animalesche bellezze destituite d’ogni espressione, egli vide e preferì la figura più umana. Denudato, il corpo della Mercenaria appariva perfetto. Come mai, dirà ella, poteva costui giudicare intorno a questa perfezione, se ancora non aveva visto altre donne? Vive donne non aveva vedute; ma la pura idea della Bellezza che l’arte miracolosa ha saputo esprimere dalla greggia realtà gli stava da tempo dinanzi agli occhi dell’anima; e di che senso d’arte egli fosse e sia dotato, dissero e dicono i prestigi delle sue opere. Quand’anche il suo giudizio d’allora non paresse troppo attendibile perchè egli non aveva termini di paragone, i paragoni che più tardi istituì, nel corso d’una molto variata e sagace esperienza d’amore, gli fecero riconoscere che non l’accesa imaginazione nè la violenza dei desiderii conferivano a quella donna qualità che non possedeva, ma che veramente egli si trovò, per un caso fortunato e troppo infrequente, dinanzi a una grande bellezza avvilita. Dunque la sua vista pascevasi alfine del fantasticato spettacolo, questa volta alfine non i sogni lo visitavano; materiata di elastiche polpe e di purpureo sangue, palpitante di vita, docile e pronta gli stava al fianco una donna, la Donna. Perchè, dove ogni altro avrebbe visto una femmina, il Protagonista, dimentico del luogo che l’accoglieva e del mestiere che vi esercitava, o non dimentico, anzi cosciente di queste cose, vedeva e sentiva che, nonostante, la creatura distesa accanto a lui era la creatura aspettata e promessa, il sospiro delle sue solitarie notti, il bisogno della sua monca esistenza; vedeva e sentiva che, qualunque fortuna l’avvenire gli potesse serbare, mai più egli sarebbe riuscito a dimenticare la turbata meraviglia, il piacer trepido e quasi pauroso del quale era pieno in quell’iniziale momento. Di chi la colpa, se la prima donna ch’egli aveva al fianco non era una vergine come lui ignara e turbata, ma una mercenaria? Non di lui, non di lei. La colpa era degli uomini, delle loro dure leggi, o piuttosto della più dura, dell’iniqua e incorreggibile legge della vita. E un bisogno di ribellarsi alla stolta logica umana, di giudicare con la sua mente e col suo cuore, dall’alto; di correggere la tristezza della profanazione che questa vita gli faceva commettere; e una tenerezza pietosa per la sciagurata che gli s’offeriva, e un istinto di nobiltà e di rispetto dal quale ella potrà giudicarlo; il cumulo di queste e d’altre ragioni non bene precise nella sua coscienza, lo indussero... a che cosa? A restare tutta una notte con la mercenaria, senza toccarla. Ella sa l’usanza della cavalleria, ai tempi andati: un libro immortale, il romanzo di Don Chisciotte, l’ha fatta nota a chi meno s’intende delle cose della Tavola Rotonda. Il giovane signore, prima che fosse armato cavaliere, doveva passare tutta una notte vegliando l’arme. Rammenta ella la scena che descrive Cervantes? Don Chisciotte, raccolti e indossati i pezzi spaiati d’un’arruginita armatura, li dispone entro una pila, accanto a un lavatoio, nel cortile d’una taverna: per l’imaginoso hidalgo della Mancia quegli oggetti in quel luogo si trasformano prodigiosamente, sono il più forbito e prezioso arnese nella chiesetta del più signorile e potente castello; la qualità reale delle cose sfugge ai sensi del sognatore: l’anima sua accesa dalla bellezza conferisce a tutto le qualità desiderate. Come l’eroe leggendario, il Protagonista non vide, dimenticò, volle ignorare la mercenaria e la suburra: egli si sentì come dinanzi a una Sposa, e come dinanzi a una Sposa restò timido e trepidante. Ella sorride; anzi non sorride, deride. Ella pensa un bisticcio e dice tra sè che anche questo mio Cavaliere fece una «trista figura.» Io debbo disingannarla. Certo non è raro che il morale turbamento impedisca le operazioni dell’istinto, ed è vero che il segno del massimo amore consiste nel non potere temporaneamente amare. L’amor proprio, che si caccia dovunque, rende insoffribile agli uomini il fiasco stendhaliano che invece suol essere molto lusinghiero all’amor proprio delle donne. Ne godono esse perchè è sintomo del sentimentale invasamento, o non piuttosto perchè, l’amore essendo fatto di odio e l’abbraccio dei due amanti somigliando troppo alla lotta di due nemici, le sconfitte e le mortificazioni dell’uno sono naturalmente vittorie ed esaltazioni dell’altra? Lasciamo che ciascuno risponda a suo modo: il fatto è innegabile, e una donna molto esperta, ad un amante che, per assicurarla dell’amor suo, le rammentava la foga del primo amplesso, ebbe ragione di dire: «_Ciò non prova nulla, al contrario!..._» Ma, per tornare al nostro soggetto, tutt’altro fu il caso del Protagonista. Non i sensi gli disobbedirono, ma egli stesso si dominò. A cogliere il frutto delizioso egli era pronto; niente e nessuno gl’impediva d’assaporarlo, fuorchè la sua propria volontà. Egli non doveva metter opera ad eccitarsi, come accade a coloro cui manca d’improvviso l’ardire; al contrario, faceva di tutto per domarsi, per resistere a un impulso veemente. E comprende ella lo sbalordimento di quella donna? Alla sciagurata per cui le fantasie dei clienti erano leggi, qual altra fantasia dovè far sospettare quel nuovo contegno? Per un poco si sforzò di comprenderlo, invano; perchè se il Protagonista racconta ora quella sua avventura a chi è capace d’intenderla, non poteva allora aprire alla mercenaria l’animo suo. Che stranezza, è vero? E come stranezze simili sono frequenti in più degni amori! Una donna c’ispira uno scrupolo ideale, ci fa provare un sentimento raro e ineffabile, ci procura impressioni insolite e squisite; noi l’amiamo per questo, l’amor nostro è fatto di questo... e non possiamo aprircene con lei, perchè sentiamo che non c’intenderebbe; e, ciò sapendo, continuiamo ad amarla... Che cosa prova questo fatto, se non che l’amore è un impulso prepotente ed una fioritura miracolosa soltanto nei sensi e nel cuore degli uomini? Se la Mercenaria non poteva comprendere lo scrupolo di rispetto e il bisogno di nobiltà che tormentavano il Protagonista, quante altre donne comprendono la poesia che a loro insaputa suscitano nel cuore dei loro amanti? E di quasi tutte non si potrebbe dire ciò che un Poeta disse di una: Ce que j’aimais, en toi, c’était ma propre ivresse; Ce que j’aimais, en toi, je ne l’ai pas perdu. Ta lampe n’a brûlé qu’en empruntant ma flamme. Comme le grand convive aux noces de Cana, Je changeais en vin pur les fadeurs de ton âme, Et ce fut un festin dont plus d’un s’étonna. Tu n’a jamais été, dans tes jours les plus rares, Qu’un banal instrument sous mon archet vainqueur, Et comme un air qui sonne aux bois creux des guitares, J’ai fait chanter mon rêve au vide de ton coeur... La mercenaria, rinunziato a capire il capriccio del nuovo cliente, finì col prender sonno. Ella dormì fino all’alba stupidamente serena. Il Protagonista, il Poeta, l’Uomo, vegliò, si tormentò per vegliare, senza toccarla, la Forma della Bellezza, per non profanarne la prima rivelazione, per fare di quella notte, che doveva essere una stupida orgia, un puro ricordo. All’alba si levò, baciò in fronte la mercenaria, e andò via. IL SOSPETTO _Amica mia,_ Siamo alle solite! Noi non riusciremo a metterci d’accordo mai. Non neghiamo i fatti, non ne disconosciamo il significato, ma diamo ad essi un diverso valore: ciò che io considero come regola, a lei pare eccezione, e viceversa. E se provassimo un poco a rammentarci di quel precetto secondo il quale ogni eccezione è conferma della regola? Ecco qui, per esempio: ella se la prende un’altra volta con me perchè «sfondo le porte aperte.» Dovendo provarle che, in amore, gli uomini mettono sentimenti rari, forti, delicati; dovendo darle una prova della poesia con la quale essi sanno condire le cose meno poetiche, le ho narrato l’avventura d’uno dei più insigni poeti, di un Principe del Pensiero. «Che Sua Altezza sia tant’alta non è da stupire! Ma per un Principe capace di fare ciò che m’avete riferito, che spaventevole numero di borghesi bassissimi ed infimi i quali non amano — cercate un’altra parola! io non voglio profanar questa usandola a tale proposito! — se non nei luoghi dove il vostro cavaliere fece la veglia dell’arme? Invece le donne capaci di soli amori d’epidermide esistono, sì; ma sono, per buona sorte e ad onore del nostro sesso, tanto poche che, quando ne trovate qualcuna, voi la considerate come un’inferma degna non solo di compatimento ma anche di cure. Senza un qualche morale richiamo — e siano pure, come voi dite, quelli poco morali della vanità e della curiosità — le donne non capiscono ciò che voi altri capite troppo bene. Molte volte, è vero, il sentimento della pietà le spinge ad appagare i loro amanti per farne cessare le pene, per vederli lieti e felici; molte volte ancora l’idea di padroneggiarli, di farne quel che vogliono, le riduce a fare ciò che vogliono essi; ma sia l’idea di un dominio da esercitare, sia la commozione pietosa, siano gli eccitamenti della curiosità, siano le soddisfazioni di vanità procurate dall’adulazione mascolina, bisogna che almeno un’idea, se non proprio un sentimento o un affetto, le persuada e le pieghi. Senza di ciò, state pur certo che tutte saranno dell’opinione della duchessa d’Orléans....» Se ella pone così la quistione, io le dirò, contessa, che sono del suo parere e che non abbiamo più bisogno di discutere. Che le femmine animali siano fredde e si possano considerare addirittura come ghiacciate a paragone dei maschi ardentissimi, è un fatto che la storia naturale dimostra fino all’evidenza. Che l’ardore dei sensi sia estremo negli uomini, e che i sensi muliebri non ardano come fiamma, ma covino piuttosto come brace sulla quale occorre soffiare perchè dia vampe e riscaldi, lo abbiamo già detto, nessuno lo mette in dubbio e non accade più dimostrarlo. Ma perchè nella costituzione dei sessi corre questa differenza innegabile, dovremo noi dire, come a lei piace, che tutte le donne sono come la duchessa d’Orléans? Dichiarava costei che quella di fare i figliuoli è «une vilaine, sotte et dangereuse chose qui ne m’a jamais plu». Ma se ella mi concede che, a parte le differenze araldiche, una marchesa vale, come donna, quanto una duchessa, io le riferirò l’opinione della marchesa di Richelieu, la figlia della duchessa di Nevers. «Tous les romans qui paraissent,» diceva dunque la marchesa di Richelieu all’abate di Grécourt, «sont bien denoués d’évènements piquants; si j’écrivais ma vie, vous verrez bien d’autres aventures. Par exemple, en allant un jour à la campagne, je fus arrêtée dans un bois, loin de tout secours, par un voleur. Mes gens prirent la fuite; quand il m’eut bien volée, le galant s’avisa de me trouver belle et, en conséquence, il fallut passer par ce qu’il voulut; il demandait d’une façon si pressante et si tendre — avec un pistolet à la main — qu’il n’y avait pas le moyen de le refuser. Eh bien, l’abbé, croirez-vous bien qu’il y eut un moment où je ne pus m’empêcher d’écrier: _Ah! charmant voleur! Oh! voleur charmant!..._» Bisogna credere, è vero? alla narratrice; perchè la sua confessione è di quelle che, per universale consenso, recano pregiudizio alla reputazione di una donna; ma se l’avventura le pare poco persuasiva come troppo romanzesca, io glie ne narrerò un’altra assolutamente autentica. Il fatto è successo in Sicilia ed è per molti rispetti caratteristico dei costumi isolani. C’era una volta un avvocato, giovane, nè bello nè brutto, eccessivamente barbuto, con due occhi che parevano cinti di fiamme, il quale s’era innamorato a modo suo d’una buona e bella signora, lontana sua parente. Dico che s’era innamorato a modo suo, perchè, senza parlarle mai d’amore, non pensava ad altro che ad averla. È pur vero che se non le parlava d’amore ciò dipendeva dalla difficoltà di parlarle d’una cosa qualunque. Ella avrà sentito dire che laggiù i mariti sono molto gelosi; e se pure, a suo giudizio, gli uomini sentono tutti ad un modo, non mi negherà che la diversa latitudine sotto la quale vivono eserciti una certa influenza almeno sui costumi; ora in Sicilia, se la gelosia non è più fortemente sentita, è certo che i gelosi hanno maggiori mezzi di garentirsi. La libertà che le signore godono nel mondo un po’ cosmopolita delle grandi città continentali è ignorata nell’isola rude e mezzo selvaggia; la casa maritale ha ancora molto dell’_harem_ dove nessun altro fuorchè il signore può penetrare. A poco a poco la civiltà occidentale distrugge queste tradizioni, specialmente nelle classi più alte; ma il caso che un uomo innamorato non possa trovar mezzo d’accostare la donna amata, anche innocentissimamente, nè in casa di lei, nè in casa altrui, nè per istrada, nè in chiesa, è tutt’altro che raro. Il nostro avvocato, però, vedeva di tanto in tanto la signora da certe comuni cugine. Tutte le volte che la incontrava lì, i suoi occhi mandavano vampe più fosche. Ella era una di quelle donne semplici e pudiche che, dal modo col quale si vestono al modo col quale guardano — o meglio, non guardano — tolgono ogni speranza ai seduttori. Aveva il viso bianco, quasi pallido, un po’ magro; i capelli nerissimi, raccolti in una treccia attorcigliata sulla nuca; le forme modeste, l’aria dolce e serena. L’avvocato struggevasi, arso, disperato; quando un giorno, andato da quelle sue parenti e non trovatele in casa, la vide apparire mentre egli stava per andarsene. Veniva a cercare anch’ella delle cugine, e udendo che non c’erano si disponeva a tornarsene indietro dopo essersi riposata un istante; ma l’avvocato concepì repentinamente un piano di aggressione. Mandata via la persona di servizio con un pretesto qualunque e chiuso a chiave l’uscio, si gettò ai piedi della donna. Ella s’alzò, gridando dalla paura, tentando di sfuggirgli. Ma l’altro che — come quasi tutti i suoi conterranei — portava sempre a spasso il revolver, lo cavò di tasca e ne diresse la canna contro il petto dell’inerme e debole creatura. Consideri dunque: abbiamo qui una donna naturalmente casta, alla quale non è stata detta una parola d’amore, che si vede aggredita inopinatamente e selvaggiamente, che è minacciata di morte; alla quale il disgusto, l’orrore, il terrore, tolgono quasi i sensi. Orbene: quando l’avvocato la ebbe, con mezzi così eloquenti, persuasa a udire ciò che aveva da dirle, ella rimase muta e sorda; ma quando egli, non contento di una prima.... dichiarazione, la ripetè con nuova lena, ella si riscosse, e la terza volta anche gli rispose.... Ella nega ancora, dice che tutto ciò non prova niente. E io le dirò che, prima di credere alle donne che dichiarano di sentire repugnanza per l’amor fisico, bisogna aspettare di vederle in presenza di un Ottavio di Malivert. E siccome ho cominciato con le storielle, eccone subito un’altra. Personaggi: Lui e Lei. Lui faceva la corte a Lei. Dicendo _corte_, non adopero un’espressione molto propria, perchè essa implica l’idea d’una certa tal quale disinvolta leggerezza, poco compatibile con la passione vera. E Lui amava Lei appassionatamente. Era un uomo d’affari; ma, giovanissimo ancora, le cifre ed i conti non gli avevano tolto il bisogno e la capacità d’un puro affetto. Lei non era alle prime armi; anzi molto sinceramente soleva dire che con i grandi lavoratori, con gli artisti, con tutta la gente che ha poco tempo da perdere, non bisogna eccedere nella resistenza. Tuttavia, quanto più era abituata a cadere, tanto più aveva bisogno di dimostrare agli altri ed a sè stessa che solo l’irresistibile slancio dell’anima determinava le sue molteplici cadute; quindi, benchè disposta, per dirla col gergo legale, ad affrettare i termini, pure recitava la commedia del sentimento e allontanava il momento della capitolazione. Ciò le riusciva tanto più facile, quanto più sincero era l’amore che il giovane le portava. Non sapeva costui adoperare se non il linguaggio della più devota e disinteressata passione; e le confessava la passione sua con tanti riguardi e scrupoli, che ella temette veramente d’essersi mostrata troppo crudele e d’aver tolto ogni ardire a quel poveromo parlandogli troppo del cielo, delle stelle, delle anime erranti e degli angelici sponsali. Pensò dunque che le convenisse scendere un poco verso terra perchè egli non dimenticasse che entrambi erano di carne. E infatti, quando, senza offrirgli nulla, ella gli suggerì l’idea di prendere tutto — arte della quale ogni donna è maestra — egli tentò, delicatamente, timidamente, di prendere non tutto, ma qualche cosa; proprio in quel punto, pensando che un ultimo conato di resistenza non era fuori di posto, ella si ritrasse, come crucciata. Una parte degli uomini sono brutali per paura di parer timidi; l’altra parte sono timidi per paura di parer brutali. Il nostro eroe apparteneva a questa seconda categoria. Lasciò pertanto a mezzo i suoi tentativi ed implorò perdono, giurando che non le avrebbe chiesto nulla, mai più, pago e superbo della felicità di saperla, con l’anima, sua.... Però, com’è naturale, la visione di ciò che avrebbe potuto ottenere se ella non fosse stata tanto severa gl’impedì di continuare a contentarsi della troppo spirituale comunione; e violentemente combattuto dai nuovi desiderii e dal timore di mancare alla data promessa e di offendere la creatura amata, un bel giorno prese una decisione che le dimostrerà fino a che segno egli fosse sincero e starei per dire ingenuo nella sua passione: fece le valige e partì. Imagini adesso lo stupore e la contrarietà della dama! Ella s’era dunque mostrata tanto inumana da spingerlo a quel passo estremo? Più esaminava la propria condotta, più si persuadeva di no. Aveva opposto, è vero, qualche difficoltà, ma — Dio buono! — soltanto per non essere confusa con quelle donne che non ne oppongono per professione. Allora?... Che il suo adoratore fosse talmente innamorato da perder di mira il fine ultimo dell’amore, ella non poteva capire; nessuno aveva spinto con lei il rispetto fino a questo segno; neppure quando, più pura, ella ne era veramente degna. Allora?... Allora?... Del resto, egli aveva fatto, sì, un primo ed unico tentativo; ma con tanta fiacchezza, come per darle il tempo d’interromperlo. Allora?... Allora?... Allora?... Ma ella avrebbe presto ottenuto la spiegazione dì quella condotta! Prima di partire, il troppo rispettoso e obbediente amatore le aveva lasciato una lettera nella quale, con adeguate parole, le diceva che non l’avrebbe più riveduta, che fuggiva non reggendo al tormento di dover stare dinanzi a lei come dinanzi a un’imagine; ma che viceversa avrebbe portato l’imagine di lei nel cuore, sempre, fino alla morte. Ella gli rispose con poche parole, semplici, ma molto eloquenti: «Non è permesso lasciare una donna così, dopo averle tolto la pace dell’anima. Tornate subito e venite a spiegarvi. Dopo, farete quel che vorrete.» E per evitare altri equivoci aggiunse: «Vi aspetterò a casa mia, il giorno tale, all’ora tale; ci sarò per voi solo.» Egli tornò. E il giorno tale, all’ora tale, si presentò da lei. Il cuore gli batteva così forte come se gli si volesse schiantare, i suoi occhi guardavano senza vedere; e con la gola strozzata il poveretto non sapeva come avrebbe potuto dire una sola parola. Aveva creduto di non più rivedere l’amata, e adesso era sul punto di trovarsela accanto. Che cosa dirle? Doveva confessarle il disperato dolore sofferto nel prendere la risoluzione disperatissima, il vuoto che gli s’era fatto intorno lontano da lei, l’orrore d’una vita alla quale era mancato a un tratto ogni scopo?... Ma se egli sentiva di dover dire queste cose, le sue labbra erano suggellate; e appena la vide, appena strinse la mano che ella gli tendeva, non potè più dominare la commozione: due lacrime gli spuntarono sugli occhi. Allora, senza tante storie, ella gli buttò le braccia al collo, esclamando: — Ma dunque?... Perchè?... Perchè partire? Perchè lasciarmi?... — e come meglio gli venne fatto, rispondendo agli abbracci ed ai baci di lei, egli disse tutto quel che aveva nel cuore. Allora il duetto divenne un _a due_ di passione impetuosa e trionfante che avrebbe riscosso gli applausi della platea, se simili scene si rappresentassero in pubblico; ma nel momento che il tenore doveva metter fuori la nota più acuta, sentì mancarsi improvvisamente la voce e fece quel fiasco che, secondo Stendhal, è, alle prime rappresentazioni, troppo frequente. Tuttavia, se la commozione gl’impedì di sfoggiare i suoi mezzi, più tardi, calmatosi, egli tornò a disporne.... e da quel giorno la coppia felice restò legata dal più dolce nodo. Passò del tempo, e col tempo, come accade di tutte le cose di questo povero mondo, la passione di lui cominciò a intepidirsi, ma restò sempre forte il desiderio. Poichè egli era sincero, la cosa fu manifesta; mentre ella, che avea finto prima, continuava con eguale facilità a fingere dopo e a non giurare se non sopra l’immateriale connubio dell’anime. Egli voleva farle riconoscere che anche l’altro ha del buono, ma tutto era inutile. — No, — sentiva rispondersi, — non mi parlare di ciò; mi fai male. Per noi donne esistono soltanto le ragioni del cuore e dell’anima; ci rassegniamo al resto non potendo fare altrimenti; ma se voi foste capaci d’intenderci, come saremmo felici!... Allora egli replicava: — Perchè mai dunque mi richiamasti, quando partii? — Perchè non si lascia una persona amata nel barbaro modo col quale tu mi lasciasti! Perchè volevo vederti un’ultima volta! Egli dunque disperava di farle riconoscere ciò che, nel suo intimo, colei doveva riconoscere indubbiamente; quando una volta, discorrendo del passato, si decise a domandarle una cosa della quale era curioso, ma che aveva taciuta perchè non lusingava il suo amor proprio. La domanda era questa: che cosa aveva ella pensato la prima volta che erano stati insieme, quando, nel provare il duetto d’amore, sul più bello gli s’era abbassata la voce?... Ella si mise a sorridere, ma non volle dir niente; e l’altro dovette insistere un pezzo prima di sentirsi rispondere: — Pensai.... pensai che tu non ne avessi molta.... Egli reprimeva un trionfale scoppio di risa. Dunque, mentre era fuggito per troppo rispetto, per troppa obbedienza, per troppo amore, torturandosi all’idea di averla perduta, d’averla voluta perdere, ella aveva creduto.... che cosa?... — Che cosa credesti, dunque?... Candidamente ella rispose: — Eh! dissi tra me: è dunque scappato perchè non può cantare!... LA CERTEZZA Io le ho riferito nella mia precedente lettera, cara ed ostinata amica, un fatto il quale dimostra come le donne che giurano soltanto sull’amore-sentimento restino male quando temono di doversene unicamente appagare. La protagonista della mia storiella, spettatrice della momentanea debolezza dell’amico suo, non pensò già, come sarebbe stato naturale e come infatti era, che questa debolezza dipendesse dalle morali commozioni che, secondo voleva dare a intendere, le importavano sopra ogni cosa; ma andò invece fino a sospettare che fosse indizio d’una troppo frigida costituzione! Mi vuol ella concedere che questo sospetto rivela il disinganno provato dalla poco sincera amatrice? Tanto costei aspettava quelle realità dell’amore sdegnate a parole, che, per un breve indugio, ne credè incapace l’amico. Costui potè dimostrarle presto l’inganno e poi la confuse; ma che cosa sarebbe avvenuto se il sospetto di lei fosse stato certezza? Possiamo noi imaginare i pensieri, i sentimenti, gli atti e le parole d’una donna la quale scoprisse che l’uomo amato.... non è uomo? Ella dirà che un caso simile non si può dare perchè i disgraziati nativamente o casualmente immeritevoli del nome di uomini non amano, o pure amando sono prudenti ed evitano le occasioni di rivelare la specialissima natura della loro passione. Ella s’inganna. Certo, se questi uomini — chiamiamoli così tanto per intenderci — sapessero che la loro incapacità è senza riparo, farebbero come ella dice. Ma è molto difficile che le prove più evidenti li convincano; poichè, avendo fallito ieri e fallendo anche oggi, essi possono credere di valer meglio domani. Ho bisogno di rammentarle che le leggi civili e le religiose consentono la dissoluzione del legame matrimoniale quando il matrimonio non potè essere consumato? Le leggi non prevedono casi ipotetici, provvedono anzi ai casi reali; e debbo io raccontarle qualche successo di questo genere per dimostrarle come vi siano uomini che non avendo potuto percorrere le vie già aperte e molto battute, si sono stimati capaci di aprirsene una nuova? Poichè lo sdegno di dissetarsi a una tazza che serve a tutta la folla può togliere realmente la voglia di bere, costoro hanno spiegato con lo schifo la loro ritrosia dinanzi alle mercenarie, e si sono legati ad una vergine con la quale hanno continuato a ritrarsi. Se la presunzione di valere, nonostante le reiterate sconfitte, quanto ogni altro uomo, spinge questi incapaci al matrimonio, cioè ad un atto gravissimo, al più grave atto della vita, vuol ella che s’arretrino dinanzi a un meno serio impegno? Se dunque costoro sposano le vergini e richiedono d’amore le donne fatte, io torno alla mia domanda e dico: c’è forza di fantasia che possa ricostruire lo stato d’animo di queste donne e di queste spose quando i millantatori restano smascherati? Ella sa che i romanzieri naturalisti procedono per via di documenti umani, cioè di osservazioni precise, di confessioni sincere, di testimonianze irrecusabili. Ecco uno dei casi nei quali il loro metodo è solo buono. Nè mi dica che fanno meglio i romanzieri romantici tacendo di queste miserie. Sono miserie umane, e niente di ciò che è umano dev’essere indifferente all’artista. Non creda che soltanto i lettori e le lettrici preferiscano i soggetti belli, nobili e grandi: lo scrittore è un uomo come gli altri, e la bellezza, la nobiltà, la grandezza lo seducono come seducono i suoi simili; ma, se per obbedire al proprio istinto egli dovrebbe scegliere e sceglie infatti più volte gli argomenti allettanti, il suo dovere di storiografo della vita, di anatomista del cuore, di esploratore del vero lo spinge anche a trattare gli argomenti repugnanti. Il soggetto del quale discorriamo è del resto repugnante senz’altro? Non può esso ispirare un tragico interesse? Non è una tragica storia quella di Ottavio di Malivert che Stendhal ci narrò?... Ne ho anch’io una da parte, più breve e meno triste; e come ella ha già compreso, le ho scritto questo lungo prologo perchè mi conceda di raccontargliela. Una dama che conosciamo io e lei, ma della quale mi permetterà di tacerle il nome — tanto più che non le sarà difficile indovinarlo — conobbe un giorno, in una città di questo mondo, un capitano di cavalleria, signore di nascita, avvenente della persona, stimato dai superiori, bene accolto in società. Il nome di questo qui non glie lo dirò per un’altra ragione, per la ragione opposta, cioè che ella non lo conosce. Lo nominai una volta, in presenza di lei, ed ella mi disse di non sapere chi fosse. Dunque: capitano in Piemonte reale; bande e manopole rosse; in testa quel lucente elmo che per l’elegante sagoma è il copricapo più sospirato dai giovani ufficiali italiani — e Massimo d’Azeglio, nei suoi _Ricordi_ ne dice qualcosa. Il capitano aveva la statura di un corazziere, baffi biondi e serici, capelli, ahi, pochi capelli; ma le fronti nude non sembrano chiudere un pensiero molto profondo e una larga esperienza della vita? Moralmente egli era serio, quasi malinconico; intellettualmente coltissimo: ma nonostante la coltura, gli studii e la serietà, ricercava le amabili compagnie, dove il suo nome, le sue belle maniere, la vantaggiosa presenza e la solida reputazione lo rendevano generalmente simpatico. E molto simpatico riuscì veramente alla dama di cui voglio parlarle. Costei, che da sua parte è ispiratrice di grandissima simpatia, s’accorse d’aver fatto colpo sul capitano; ma forse nulla sarebbe accaduto fra loro, se qualcuno non l’avesse particolarmente complimentata per essere riuscita a sedurre quell’uomo, il cui gusto doveva essere molto difficile, giacchè nessuno gli conosceva ancora un’amante. Ciò le provi, mia cara amica, come nell’amore entri quasi sempre, per non dire proprio sempre, una buona dose di vanità. L’idea d’essere apprezzata dal capitano, così sdegnoso di bellezze se non maggiori — la vanità poteva farle riconoscere d’essere meno bella delle altre? — certamente diverse, quest’idea lusinghiera la dispose a dimostrargli in cambio un interesse e un’attenzione che altrimenti non avrebbe forse accordati. Di questa sua e mia amica nessuno ha mai potuto dir nulla di male. I soliti maligni e le non meno solite maligne si sono provate a sospettarla, ma il motto famoso è stato questa volta fallace: hanno calunniato, hanno calunniato, e niente n’è rimasto. Alla serietà di quella dama la serietà del capitano doveva pertanto necessariamente piacere. Se non gli si conoscevano amanti, ciò voleva dire che, rifuggendo dagl’indegni legami, dai capricci fugaci, egli serbava il suo cuore a una forte, a una grande, a un’immortale passione. Era tanto più naturale che costei spiegasse in tal modo l’austerità della vita del militare, quanto che ella stessa era austera per la stessa ragione. Dica pure, cara contessa, che sono troppo scettico; ma io credo che, come nell’amore entra una dose stragrande di amor proprio, così l’astensione dall’amore il più delle volte non è suggerita tanto dalla virtù quanto da una vanità estrema: chi non ama è colui che non crede nessuno degno dell’amor suo. Ora, se quella dama pensava che il capitano era passato indifferente nella vita per l’anticipata certezza di non poter trovare chi fosse capace d’intenderlo, ella già prevede che cosa doveva accadere dopo il loro incontro: la dama dovè credere d’essere per lui — e d’aver trovato in lui! — l’anima sorella e l’essere predestinato. Così avvenne realmente. Il capitano espresse il suo sentimento alla dama, e trovò parole così rispettose, le diè prova d’una discrezione così reverente, che ella vide confermate le proprie imaginazioni intorno alla nobiltà dell’animo di lui, e non trovando più ragione di sottrarsi all’amore, si lasciò finalmente andare alle dolcezze troppo lungamente rifiutate. Corse una stagione molto felice, specialmente per lei. Una causa di discordia, in amore, ciò che avvelena l’amore più fortunato è quella specie di contrattempo morale per il quale gli stati d’animo dei due amanti non coincidono: se l’uomo supplica e la donna resiste, se la donna cede e l’uomo trionfa, ciascuno dei due amanti proverà gli stessi sentimenti dell’altro, ma in tempi diversi, anzi con ordine inverso. Il puro affetto, l’onesta amicizia non solamente bastavano alla dama, ma erano il suo desiderio e il suo sogno; appunto per la sfiducia di poterli mai ottenere ella s’era difesa contro le tentazioni quotidiane. Noi abbiamo detto, mia cara amica, che le donne non sono, generalmente parlando, ardenti: ma se la media di esse sta, poniamo, a una temperatura di 10 gradi — essendo 30 quella degli uomini — alcune salgono fino a 15, altre scendono a 5. La nostra protagonista è fra quest’ultime. Suo marito, rompicollo famoso, la disgustò dell’amore rivelandogliene alcuni modi dei quali gli uomini sono ingordi ma che le donne non capiscono se non in circostanze molto rare d’ardore sensuale. Separata dal marito, visse lungamente nella castità; e l’amor casto le era, come si dice in matematica, tutt’in una volta necessario e sufficiente. Ma un uomo poteva lungamente sopportarlo? Ella era casta, ma non sciocca; e comprendeva che la sua propria soddisfazione doveva costare all’amico suo: vedendolo avido di prenderle la mano, di baciarle la bocca, di stringerla al petto, ella temeva che un giorno o l’altro non si sarebbe più frenato, che il purissimo incanto si sarebbe rotto; e ne gemeva, e i suoi gemiti arrestavano il riguardoso amante; al quale ella pensava che un giorno avrebbe dovuto pur cedere, ma era frattanto grata della discrezione. Ora, l’inverno scorso, quando le cose della Colonia Eritrea si guastarono e tutti in Italia trepidavano per la sorte dei nostri bravi che avevano chiesto ed ottenuto di andare a battersi laggiù, si sparse la voce che il capitano... — or ora lo nominavo! — era stato destinato, non si sapeva se dopo sua domanda o per ordine superiore, ai presidii africani. La dama seppe questa notizia da una sua amica, presso la quale si trovava con altre due o tre signore. Giudichi ella come rimanesse all’annunzio! Era possibile che egli avesse voluto lasciarla? Se il decreto non era stato da lui stesso sollecitato, non avrebbe potuto ottenerne la revoca? Ciò non era possibile, in tempo di guerra: egli si sarebbe disonorato, neppur ella poteva consigliargli tanta viltà. E se anzi egli aveva chiesto di partire appunto per non poter più resistere alla resistenza di lei? Perciò dunque non glie ne aveva detto nulla, e le toccava udir la notizia da altre persone?... Questi dolorosi pensieri occupavano talmente la poveretta, che ella non aveva più udito ciò che le amiche dicevano vicino a lei. Una delle dame più commosse al pensiero del destino serbato agli ufficiali d’Africa, aveva detto che, se la guerra è sempre cosa triste, tristissima è laggiù, tanto lontano dal proprio paese, in regioni deserte, contro orde selvagge ed ignare di quelle leggi d’umanità che nelle lotte più accanite tra popoli civili vigono ancora. Un’altra soggiungeva che ciò sarebbe stato quasi nulla senza l’orrore di certe mutilazioni alle quali erano sottoposti i morti, i feriti e gli stessi prigionieri; allora una terza, con un sorriso che le parrà, mia cara contessa, intempestivo, ma che è troppo naturale, osservò che il nostro capitano era assicurato contro questo pericolo. E con nuovi sorrisi un’altra confermò che, infatti, egli non aveva nulla da perdere... La dama, assorta nei gravi e molesti pensieri, aveva ricominciato a porgere ascolto udendo il nome di lui; ma, sul principio, era rimasta senza comprendere. Che volevano dire?... Quando il senso dell’osservazione fu precisato, ella avvampò. Di sdegno, di vergogna, di dolore? Contro quelle donne, contro di lui, contro sè stessa? Non avrebbe saputo dirlo. Certe commozioni sono d’una natura così complessa ed ambigua, che solo un’attenta indagine può rendercene conto; ma l’indagine vuol tempo e la commozione è fulminea. Dominandosi per non darne spettacolo alle ciarliere, ella andò via senza saper bene che cosa facesse, dove fosse diretta. Fuori, all’aria aperta, la subitanea impressione parve sedarsi; ma come, dopo la tempesta, la superficie del mare sembra tranquilla, mentre tutta la massa dell’acqua è ancora in movimento, così la sua mente ancora tumultuava. Quelle pettegole avevano mentito? Leggermente, come irresponsabili, perchè le faceva ridere, avevano ripetuto una voce bugiarda che qualche malevolo aveva messo in giro? Perchè il capitano faceva una vita diversa dagli altri uomini, da quasi tutti gli uomini, gli scapestrati, i viziosi, gl’invidiosi, gl’incapaci di castità avevano malignamente messo in giro la voce bugiarda?... Ma simili voci si possono propagare ed ottengono credito se non hanno fondamento?... E se era vero? Se il capitano aveva chiesto d’andare a combattere e a vincere in Africa per non aver da patire una sconfitta in Europa? Perciò, dunque, la rispettava e la obbediva? Mentre fingeva d’obbedirla a malincuore, pensava di fuggire per evitare che il nessun merito della sua obbedienza fosse evidente?... No! non era possibile! Se egli avesse provato questa paura, perchè avrebbe cominciato a parlarle d’amore, a richiederla d’amore? Lo aveva forse ella sollecitato a dichiararsi? Gli aveva ella detto di amarla?... No, non era possibile!... Eppure?... Il dubbio così tenzonava nella sua mente; e, senza ch’io insista, ella già vede che non mancavano presunzioni a sostegno delle due ipotesi. Come uscire dal dubbio? Il mezzo non mancava. La prima volta che si trovò sola con l’amico, senza aspettare che egli parlasse, la dama lo prese per ambe le mani e figgendogli gli occhi negli occhi: — È vero che andate in Africa? — gli domandò. Il capitano, quasi cascando dalle nuvole, negò risolutamente. — Avevo dunque ragione? E’ impossibile! Mentiscono!... Voi resterete con me?... — Con voi, vicino a voi! — Sempre? — Sempre!... E quantunque ella avesse studiato la sua parte, il piacere della prima certezza, la fiducia che anche l’altra voce sarebbe apparsa tosto bugiarda, la fecero cadere nelle braccia di quell’uomo con impeto sincero. Il capitano... il capitano senza essere stato in Africa in mano degli Abissini, e neppure in Oriente in mano dei provveditori del Serraglio, e neppure a Roma al tempo dei cantori della Cappella Sistina, non tentò neppure, contrariamente al dovere di ogni buon militare, di penetrar nella piazza che già gli apriva le porte, che già lo invitava all’occupazione... Allora la dama, risollevatasi, lo colpì con una mano sulla guancia: — E’ dunque vero? — esclamò, accesa dallo sdegno e dal disprezzo. — Uscite di qui!... Non m’apparite più innanzi!... Egli, come ebro, uscì barcollando. Potrà ella, cara contessa, condannare questa donna? A me pare che non solamente fece bene, ma che, in una situazione simile, tutte dovrebbero fare — e farebbero — altrettanto. Per finire la storia, che è, come tutte quelle che io le narro, autentica, le dirò che questo capitano non chiese d’andare in Africa neppure dopo la disastrosa avventura. Chiese soltanto ed ottenne — ma quando al ministro della guerra piacque! — di essere destinato a un altro reggimento. UN’INTENZIONE DELLA DUFFREDI _Contessa mia,_ Sia lodato il sommo Iddio! Finalmente ci siamo posti d’accordo! Ella approva pienamente la condotta della signora di cui le narrai nell’ultima mia lettera la curiosa avventura e riconosce che quel capitano, degno soltanto di compassione se avesse atteso al suo mestiere guerresco — ma non avrebbe potuto sceglierne, in verità, uno più adatto alla nativa mitezza dell’indole sua? — fu degno dello schiaffo somministratogli dalla donna troppo idealmente amata. Ella conviene espressamente con me sul significato di quel fatto; anzi — sia onore al suo spirito — istituisce in proposito alcuni paragoni molto, come si dice, calzanti: «La castità del vostro capitano,» (perchè _mio_, poi?) «somiglia al nobile disdegno della volpe per l’uva alla quale non poteva arrivare. S’intende,» ella soggiunge, «che non c’è merito se non c’è sforzo, e quando si parla di resistenza agli istinti, la prima cosa è che gl’istinti operino; come quando voi volete fare un intingolo di lepre dovete cominciare col prendere una lepre.» Bene! Benissimo! Mi consenta tuttavia di farle osservare che la quistione era un’altra e che, per colpa senza alcun dubbio mia, ora essa mi pare vicina a fuorviare. Il punto dal quale partimmo è questo: le realità dell’amore, alle donne che danno a intendere di non apprezzarle, sono infatti così indifferenti come esse dicono? Che, nonostante l’innegabile loro calma, esse esagerino un poco nelle dichiarazioni d’indifferenza, io ho tentato di provarle; ora questo appunto ella negava. Forse, anzi certamente neppur ora si arrenderà. Ella già dice che l’avventura del capitano non prova niente, già mi butta il suo guanto sfidandomi a una più luminosa dimostrazione; ed io mi precipito a raccogliere il morbido e odoroso involucro della sua bella mano. Se vinco, me lo lascia come trofeo? Diciamo dunque — o meglio dico io soltanto, per ora — che queste benedette realità non sono poi tanto disprezzate nel fatto quanto a parole. Certo, il primo patto che quasi tutte le amate pongono ai loro amanti è di contentarsi... delle sole parole. Questa è una cosa tutta istintiva; è la naturale riluttanza della femmina a cedere; riluttanza notabile in tutta la scala animale. Nella prima fase, adunque, la resistenza è proprio sincera. È sincera fino all’ultimo? Non si può credere, perchè ha pur da arrivare un momento nel quale il secondo istinto, l’istinto di cedere, fa udire finalmente la sua voce e, se proprio non reprime e soffoca quell’altro, viene certamente in contrasto con esso. Allora le dichiarazioni di repugnanza non sono mentite? Nelle femmine animali che non pensano, o almeno non parlano, non c’è ipocrisia: finchè l’istinto della resistenza ha il sopravvento, esse resistono, graffiano, mordono, fuggono; quando il secondo predomina, si sottopongono al maschio. Nelle donne, cioè in esseri dotati di coscienza, noi dobbiamo _a priori_ ammettere che debba necessariamente prodursi una contraddizione, un contrasto, il sentimento d’un intimo dissidio. La donna che, obbedendo al primo moto di repulsione, ha messo come patto di non dover pagare di persona, deve necessariamente pentirsi d’avere avuto troppa fretta quando il secondo moto, l’impulso al consenso, si manifesta. Noi possiamo qui trovare fra parentesi, amica mia, un’altra prova di ciò che io ho ripetutamente asserito e che ella ha costantemente negato: cioè la miglior qualità dell’amore maschile. Gli uomini, come maschi, obbediscono sempre a un istinto solo: quello della conquista. Essi sono coerenti, logici, sinceri; vedono la donna, la desiderano; desiderandola, fanno di tutto per ottenerla. Tutti i loro atti sono direttamente rivolti a uno scopo nettamente definito: la loro volontà è ferma, la loro costanza strenua. Le donne invece, dibattendosi fra la repulsione e l’inclinazione, disvogliono e vogliono, dicono una cosa e ne pensano un’altra, si ritraggono mentre starebbero per cedere, cedono quando stanno per ritrarsi, non sanno che cosa sentano veramente, tengono una condotta ambigua, e dicono parole false. E l’insistenza degli uomini non è soltanto lodevole ma provvidenziale; giacchè grazie ad essa le incoscienti creature escono finalmente dall’ambiguità e, cedendo nonostante le prime dichiarazioni di repugnanza, se la cavano col fingere, all’ultimo, una vergogna e un rimorso poco sinceri. Ma supponiamo un caso che si sarà dato realmente chi sa quante volte, supponiamo che la supplice resistenza della donna abbia persuaso l’uomo a desistere ed a tralasciare il suo atteggiamento aggressivo. Se quest’uomo si sarà persuaso, per far piacere all’amata, di non chiederle più nulla, che cosa dovrà provare costei quando sarà disposta ad accordare ciò che non le è più chiesto? Dovrà ella stessa istigare il suo rassegnato compagno? Le precedenti dichiarazioni non glielo consentono: chiedendo ora ciò che prima rifiutava, costei temerà giustamente d’essere mal giudicata. Dovrà dunque a sua volta comprimere, come ha voluto che lo comprimesse l’uomo, il suo desiderio? Non cercherà un modo d’uscire da questo imbarazzo per non prolungare l’attesa troppo penosa?... Il fatto ch’io voglio narrarle si riferisce appunto a questa situazione. Dico _fatto_ perchè ho preso l’abitudine di dire così; ma ella troverà qui narrata un’idea, un’intenzione, l’indizio d’uno stato d’animo, più che un vero e proprio avvenimento. Ella conosce la protagonista, ed io glie ne dico subito il nome. E’ Donna Teresa Uzeda Duffredi di Casaura. La vita di questa donna fu per me altra volta argomento d’un lungo studio, che le dispiacque un po’ meno degli odierni ragionamenti sull’amore, ma che pur le dispiacque. Con la benevola indulgenza che mi ha sempre — almeno prima d’ora — accordata, ella volle trovare parole troppo lusinghiere per l’arte con la quale trattai quel soggetto, ma si dolse che, fra centinaia e centinaia di soggetti, io pensassi di scegliere proprio quell’uno. Pure concedendo che quella donna non meritasse la severità con la quale il mondo la giudicò, ella avrebbe preferito ch’io mi fossi esercitato intorno a un argomento più nobile. Ormai il fatto è fatto, e procurerò di contentarla meglio un’altra volta. Non starò neppure a difendere qui Donna Teresa e non dirò che fosse vittima inconsapevole dell’eterna illusione e che non volle e non meritò il suo triste destino. Certo fu una disgraziata. L’eredità del vizio, gli esempii che le furono troppo presto e nella stessa famiglia posti dinanzi, la disgrazia d’un marito incapace di darle soccorso, anzi quasi intento a precipitarla nel baratro, spiegano com’ella dovesse fatalmente precipitarvi. Non cadde una sola volta, è vero. Ma l’incapacità dei disinganni a salvarci dal persistente allettamento delle illusioni e la logica inesorabile delle situazioni false dovevano produrre questo effetto, immancabilmente. Se io m’indugiai a studiare quella vita che a lei non parve degno soggetto di storia, ciò fu appunto per rendermi e per rendere altrui ragione di questa fatale persistenza dell’illusione a dispetto degli ammaestramenti dell’esperienza. Tutti i romanzi ci narrano la storia di qualche colpa, e l’adulterio è il tema eterno delle opere d’arte. Ora l’arte che s’interessa ad una colpa, scusandola e dimostrandone la fatalità, non ci aveva ancora interessati a tutta una vita di colpe altrettanto fatali quanto la prima. I romanzieri, dopo aver narrato l’adulterio, lasciano l’adultera in asso, non ci dicono che cosa è poi accaduto di lei e talvolta la fanno più comodamente morire. Nella realtà la morte viene raramente a sciogliere le false situazioni; e se qualche rarissima volta le adultere riscattano nella restante lor vita l’unica colpa, quasi sempre fatalmente trascorrono di errore in errore. Madame Bovary, alla quale taluno volle immeritevolmente paragonare Teresa Duffredi, ebbe dopo il primo un secondo amante. Quante non sono le donne che ne hanno avuto tanti che non saprebbero neppure esse noverarli? Perchè mai, dunque, l’arte non avrebbe da studiare una di queste vite tanto avventurose? Certamente molte, e se vuole dirò anche la quasi totalità di simili donne, sono incapaci d’ogni più fugace sentimento, e le meccaniche loro cadute, potendo forse interessare gli scienziati delle cliniche, non hanno nulla che attiri l’attenzione dell’artista; alcune tuttavia, e siano pure pochissime, obbediscono a qualche sentimento, comprendono il rimorso, non cadono senza qualche lotta, invidiano quelle che restarono pure, sono insomma degne di studio. La Duffredi ebbe, da ventisei a quarant’anni, cinque amanti, mettendo nel conto quell’Aldobrandi che, per adoperare la frase del giocondissimo Armand Silvestre, le diede soltanto qualche idea sui _tributi indiretti_.... Alcuni pensano che cinque amanti siano troppi. Che cosa direbbero costoro se io dicessi che sono pochi e che un artista più abile di me imprenderà un giorno a scrivere la storia d’una di quelle donne che conosciamo io e lei, le cui avventure si contano a dozzine? Tutto sta che in questa serie di avventure ci sia qualcosa che importi, che commuova le nostre viscere umane con la rivelazione d’un aspetto nuovo od insolito dell’umana natura! Eccomi un poco lontano dal soggetto. Ma ella non si duole, mi ha scritto, delle divagazioni e degli episodii, perchè, bontà sua, dice che aggiungono sapore alle mie lettere. Veniamo però senz’altro alla nostra protagonista. Il penultimo dei suoi amanti, anzi quello che ella credette fermamente dovesse essere l’ultimo — ciascuna caduta pare l’ultima perchè ogni amore sembra eterno; ma Donna Teresa che oramai sapeva il giuoco dell’illusione, aveva altre ragioni per credere alla saldezza di questo legame — il penultimo dei suoi amanti, dico, fu Enrico Sartana. Era stato quasi suo promesso prima dell’infausto matrimonio con Guglielmo di Casaura; s’erano amati del puro amore della prima giovinezza; poi non s’erano più visti. Incontratisi dopo più di vent’anni tempestosi per entrambi, negli stessi luoghi dove avevano sognato di unirsi, in Sicilia, a Palermo, il sentimento antico si venne ridestando. Questa resurrezione procedè per vie opposte: mentre in lei derivò dalla paura d’essere disprezzata per la vita troppo avventurosa, dall’idea che Sartana dovesse stimarsi fortunato di non essersi legato a una donna che aveva fatto tanto e così male parlare di sè, dalla secreta speranza di mostrarglisi migliore della propria reputazione; egli invece pensò a lei pieno di pietà e di commossa simpatia per le disgrazie delle quali la credè vittima. C’era in questa benigna disposizione di lui il rimorso di non aver forzato la mano alla propria famiglia? C’era la presuntuosa certezza che, se fosse stata sua moglie, ella non avrebbe pensato a tradirlo e sarebbe vissuta felice ed onesta? O non piuttosto la brama di averla lo disponeva a tanta indulgenza? Lasciamo stare quest’indagine; perchè, se dovessi dirle la mia opinione, io le direi che la pietà di Sartana e la pietà di tutti gli uomini per le adultere che da lontano condannano severamente, è semplicemente dettata dall’appetito, come la miglior via di soddisfarlo. Ho ragione? Confessi che la metto in un bell’impiccio. Ella vorrebbe darmi dello scettico perchè nego la sincerità d’un buon sentimento; ma poi pensa di applaudirmi, giovandosi del mio giudizio per sostenere che gli uomini sono incapaci di buoni sentimenti e non pensano se non alle proprie soddisfazioni!... Comunque sia, fatto è che Sartana rammentò alla Duffredi il loro passato felice, e le lasciò dapprima intendere e poi le disse chiaramente la sua speranza di farlo risorgere, di tramutarlo in un più felice presente. La Duffredi, contenta d’ottenere la prova che egli non aveva orrore di lei, vinta ella stessa dai ricordi buoni, lo lasciò dire. Ma poteva ella cedere a quest’uomo? Dopo la triste esperienza, non doveva stare in guardia contro nuove cadute? Dopo che Aldobrandi le aveva corrotta l’anima, dopo che ella aveva tradito Paolo Arconti col visconte de Bienne, dopo che lo stesso Arconti l’aveva abbandonata, dopo che ella aveva presunto vendicarsi cedendo al principe di Lucrino, si sentiva ridotta a tale avvilimento, che aveva un solo bisogno: purificarsi con qualcosa di nobile, di alto, di immacolato. E se ciò era molto difficile, anzi, con altri uomini, impossibile, non doveva ella cogliere l’occasione insperata e conseguire questa specie di redenzione sentimentale per opera di Sartana, cioè di uno che l’aveva purissimamente amata da giovanetta, di uno che solo fra tutti poteva e doveva rispettarla in nome dell’innocenza del loro passato?... Dobbiamo dire che questo fosse un sofisma? Certo, se pur fu sofisma, Teresa non ne ebbe coscienza e restò sincera; la sua condotta posteriore lo provò. Il Sartana accettò d’esserle amico secreto, promise di non macchiare la santità del loro affetto e per un certo tempo mantenne la promessa; poi, naturalmente, la dimenticò ed insistette presso l’amica per indurla a ciò che era e doveva essere il naturale coronamento dell’amor loro; ma costei spinse a tal punto la resistenza e dimostrò d’essere stata tanto sincera mettendo il patto insostenibile, che fuggì dopo avergli diretta una romantica lettera d’addio e senza dirgli dove andava a nascondersi. Fu questo uno dei migliori atti della sua vita, una delle prove che ella era degna di miglior sorte. Ho chiamato romantica quella lettera, ed ella che forse la rammenta, riconoscerà che merita d’esser chiamata così. Tutte le perverse e abominevoli creature che sono vissute nel male per istinto, per genio, dicono che la storia di Teresa Duffredi è la loro, presumono ottenere come lei indulgenza e perdono; ma esse non fuggono: si buttano alla testa delle persone, non sanno che cosa sono gli scrupoli, ignorano il senso della parola rimorso, non s’acquetano neanche con l’età, quando la loro carne è vizza, quando i loro capelli sono canuti. Sì, ella ha ragione: la storia della loro vita, soggetto buono per qualche pornografo, non rivela altro che una spaventevole ipocrisia. Ma il romanticismo di Donna Teresa, quella sua velleità di distinguersi, quella sua idea d’esser fatta a un modo tutto particolare, di dover provare e far provare cose arcane e ineffabili; quel suo concetto della vita esagerato e falso che la faceva parlare ed agire come sopra un palcoscenico dove tutto è dramma, giuramenti infrangibili, fatalità tenebrose, spasimi sovrumani, questo suo romanticismo, dico, questa forza di un’illusione che la sottraeva alla realtà e la poneva in urto con la logica, fu la sua scusa ed è ciò che può interessarci a lei. Dunque, fuggì. E dopo la fuga, Sartana, saputo il suo rifugio da un’amica comune, la raggiunse. Allora accadde ciò che doveva accadere. Ma a chi le domandò, molti anni dopo, se durante la supplice insistenza di lui e nel punto di fuggirlo, ella non si fosse pentita dell’ostinata resistenza, confessò quanto segue. Sì, ne provò pentimento. Da principio aveva creduto sinceramente di dover esser felice grazie a un sentimento tutto ideale; la possibilità di cadere anche una volta le repugnava. Noi vediamo dunque che il primo istinto della donna e della femmina, l’istinto della resistenza, era ancor vivo ed operante in lei. Per obbedirne i suggerimenti, ella volle prendere un impegno solenne con sè stessa e con l’amante, impegno che contrariò più tardi molto vivacemente il secondo istinto, il desiderio, il bisogno di cedere. A chi le parlava di queste cose ella non voleva neppur confessare, dopo tanto tempo, il risveglio del desiderio... ma disse, — come dicono tutte — che si pentì del divieto imposto a sè stessa ed all’amante perchè comprese che l’amante ne soffriva troppo. — Io non potevo sperare che egli mi restasse lungamente a fianco senza tentar d’infrangere la promessa; se pure la mia esperienza non me l’avesse fatto prevedere, io vidi il tormento di Enrico, ne udii le roventi espressioni. Allora... allora... E incitata a confessare, ella spiegò che allora le venne un’idea. Non la pose in atto, anzi fece tutto il contrario, fuggendo; ma l’idea fu questa. Non vi sono certe case discrete dove gli uomini come Enrico Sartana trovano, grazie all’opera di esperte mediatrici, le donne ridotte a vendersi dal duro bisogno o cupide di procurarsi secretamente danaro per sopperire ai bisogni del lusso? Ella pensò di andare in una di queste case, fittamente velata, per intendersi con la mediatrice: costei avrebbe dovuto chiamare il Sartana dicendogli di avere un donna per lui, una signora che metteva come patto infrangibile di restare velata..... Solamente in un cervello romanzesco e diciamo pur folle una simile idea poteva spuntare. A questo modo ella pensava di risolvere il problema: non si sarebbe disdetta e intanto si dava.... — E voi volete sostenere, — le fece osservare il suo interrogatore, — che, così facendo, non eravate mossa dal desiderio che avevate di lui, ma soltanto dall’idea di far cessare la sua pena? — Senza dubbio! — insistè. — Allora, perchè andare velata? — Se non andavo velata, tanto valeva cedergli in casa mia, anzi dirgli: «Prendetemi!» — Ma pensateci un poco: se egli non sapeva d’esser con voi, e se voi solamente sapevate di esser con lui, chi era soddisfatto e chi restava inappagato?... L’INDOVINELLO Dunque noi dobbiamo proprio tornare, amica mia, sopra un punto che credevo d’avere — senza presunzione! — assodato? Torniamoci pure, se così le piace; e si prepari a sdegnarsi ancora di più ed aguzzi i suoi fulmini, perchè io sono più che mai fermo nella mia opinione. Io le ho detto e le ripeto, e niente mi persuaderà dei contrario, che le donne sono, in amore, se non proprio false — la parola le sembrerà ed è veramente poco parlamentare — certamente doppie. Esse non ne avranno colpa, come ella dice, perchè la natura le ha volute così, dando loro due istinti l’un contro l’altro cozzante: l’istinto della resistenza e quello della dedizione; e noi uomini saremo anche ingiusti prendendocela con esse; ma questa nostra ingiustizia è, se non altro, scusabile. Io sarò ingiusto, senza dubbio, se me la prenderò con una vipera che m’avvelena mordendomi, perchè la natura ha voluto che questo rettile avvelenasse col morso; ma la filosofia della quale bisogna essere provveduti per giudicare in tal modo non è troppo comune, e le vipere sono giudicate velenose e le donne... non sincere. Addurre esempi di questa loro doppiezza? Glie ne potrei riferire tanti da formarne un volume; ne scelgo uno che mi pare molto significante. In villa, presso un amico, il signor Tale incontra una lontana parente del padrone di casa. Prima di tutto per rispetto all’ospite, questo Tale non pone mente alla dama; in secondo luogo perchè non gli piace molto. Ha costei un viso bellissimo, con una carnagione soave; ma una corporatura piccola, asciutta, poco aggraziata. I denti sono irregolari, brutte le mani, bruttissime le unghie. Questa minuzia d’osservazione critica mi pare un buon segno della calma del nostro personaggio; perchè, quando una creatura ha la virtù d’infiammarci, noi troviamo in lei tutto bello, anche ciò che è destituito di qualunque bellezza. Dunque per queste due ragioni, una migliore dell’altra: che la dama non gli piace molto, e che egli è in casa d’un parente di lei, il nostro personaggio se ne resta tranquillo. Se non che s’accorge ben presto, con stupore ed imbarazzo, che la dama è troppo complimentosa a suo riguardo. Una sera, passeggiando con lui, gli dice che è stata molto fortunata d’incontrarlo in fondo a quella campagna; glie lo dice a bassa voce, guardando per terra, in un certo modo che dà a quelle parole un significato recondito. Un’altra sera, come egli esprime un’opinione, ella afferma vivacemente: — Stavo per dire la stessa cosa!... — poi soggiunge: — Vi sono certi incontri che il destino sembra avere voluti... Il signor Tale, sempre più imbarazzato, lascia cadere il discorso; ma la dama riprende: — Lei non crede al destino?... Egli risponde borbottando alcune parole che non significano niente. E’ venuto per pochi giorni, e si dispone a partire. Ella gli dice di non andar via così presto, di restare ancora un poco a tenerle compagnia. Egli è invece più che mai risoluto ad andarsene, anche perchè ha da fare. Evita frattanto di trovarsi solo con la dama, parendogli una goffaggine lasciare che ella gli dica cose troppo amabili senza risponderne alcuna. Non potrebbe costui, osserverà ella, prendere lo stesso tono di costei? No, contessa mia. Come uomo egli è logico, è conseguente. Quella donna non gli piace; dirle cose galanti sarebbe un’ipocrisia. Poi, sempre in virtù della logica, egli pensa anche che, quantunque quella donna non gli piaccia, la via delle galanterie è pericolosa: il maschio che sonnecchia in lui come in ogni uomo potrebbe alfine destarsi. Ma egli ha fatto i conti senza la dama. Costei, il cui marito è lontano, trova modo di dire, parlando della musica che il Tale adora e che un tempo ella stessa coltivava: — Mio marito non capisce mai niente... Un giorno, oltre una siepe fiorita, passeggiando insieme, vedono una coppia di rustici amanti baciarsi. — Il peccato!... — ella esclama; poi soggiunge: — Ma questa natura, quest’aria, quest’ora!... Quasi peccherebbe ognuno... Il nostro eroe — per modo di dire! — rivolge allora a sè stesso poche ma sentite parole: «Caro mio, tu sei geloso della fama di Giuseppe il casto!» E allora, non solo per non emulare il casto Giuseppe, ma anche perchè egli soffre realmente dell’innaturale invertimento delle parti, vedendo fare alla donna tante spese di seduzione; allora, ripeto, egli comincia a dire qualche parola galante. Le dice, a proposito della propria partenza contro la quale ella protesta continuamente: — Decida ella stessa che cosa debbo fare. Sento che restare qui è rischioso, che io corro il pericolo di innamorarmi di lei. Pensi che io obbedirò senza discutere. Ella tace. — Ci pensi, — continua il nostro personaggio; — me lo dirà domani. Il domani, quando le domanda che cosa deve fare, ella esita un poco; poi dice, con gli occhi chini, e a bassa voce: — Non me lo chieda!... Questo scambio di parole avviene in mezzo a tutta la compagnia ospitata alla villa. Egli pertanto le mormora: — Senta, qui non possiamo parlare. Abbiamo bisogno d’essere soli. Mi permette di venire un momento, oggi, quando tutti riposano, in camera sua? Dapprima ella dice: — No. Ma di lì a poco, mentre gli altri ospiti fanno per ritirarsi, gli propone: — Venga con me a fare una partita al cerchio. Invece di andare in giardino, entra in una sala, e ne chiude la finestra. Ora io non posso chiederle, mia cara amica, che cosa ella avrebbe fatto in una situazione simile, perchè ella è donna; ma se rivolgessi una simile domanda a cento uomini uno dopo l’altro, tutti e cento risponderebbero che, nonostante il dovere dell’ospitalità, se pure quella donna fosse stata, non già lontana padrona dell’ospite, ma sua moglie o sorella, essi difficilmente avrebbero potuto soffocare la voce del dovere sessuale che, per il maschio, è di non lasciar cadere inascoltati gl’incitamenti della femmina. Qualcuno di questi cento uomini, i più ardenti o i meno scrupolosi, avrebbero forse spinto le cose al punto estremo; ma anche i più delicati avrebbero pur dimostrato, e forse loro malgrado, il tormento al quale quella donna li metteva. E il mio protagonista afferrò per le braccia la dama e le disse che non poteva più partire, che il suo destino dipendeva oramai da lei, anzi che era già segnato. — Voi non m’avete voluto dire ciò che debbo fare, perchè volete che resti: è vero? — È vero.... Allora egli le baciò la mano, le baciò il viso, la strinse al cuore: perchè, quantunque da principio non gli piacesse, le parole di lei, la voluttà di tenere stretto al suo quel corpo di donna, l’idea che quella donna voleva essere e sarebbe stata sua, avevano naturalmente prodotto l’immancabile effetto: ora egli la desiderava, la voleva, quasi l’amava... Ella tentava resistere, diceva: — Lasciatemi! Che cosa vi ho fatto? Nessun uomo mi ha mai trattata così!... Era naturale che ella dicesse queste cose; ma era ancora più naturale che, uscendo da quel luogo e accompagnandola su, egli la seguisse nella camera di lei. Stia adesso bene attenta, cara contessa; perchè qui abbiamo la _scène à faire_ della commedia. Entrato, senza aver dovuto vincere una troppo grande resistenza, in camera di lei, quell’uomo ricomincia ad abbracciarla strettamente dicendo parole infiammate, che sono adesso tutte sincere, perchè egli arde tutto quanto. Ella continua a resistere: si scioglie dall’abbraccio, si lascia andare sopra una poltrona; e come egli le cade in ginocchio dinanzi, si rialza. Egli l’afferra ancora una volta, la bacia sulla bocca, in un certo modo che non ho bisogno di descrivere. Ella si nasconde la faccia tra le mani, lo scongiura di lasciarla. — Ora me lo dite? — esclama egli; — dopo avermi detto tutto il contrario? Dopo avermi tolto alla mia pace?... Ella risponde: — E’ vero, son stata io: dimenticate tutto ciò che vi ho detto... E a un tratto si rovescia bocconi sul letto, coi piedi a terra, piegata in due, la faccia nascosta contro le coperte. A questo punto l’uomo ha l’esatta percezione di quel che avrebbero fatto molti altri — e che ella indovina senza che io lo dica. Ma perchè costui crede sinceri gli ultimi conati di resistenza, perchè non vuole essere brutale in un primo incontro, perchè è in fondo molto riguardoso e quasi timido, il nostro personaggio si china su lei, la solleva castamente, le dice che ella non ha nulla da temere, che egli vuole soltanto sapere se le è proprio indifferente, se deve proprio andar via senza più rivederla. — Sì, mi dimentichi, mi lasci... — ma, come egli la tiene stretta al cuore, anch’ella gli stringe le braccia alla vita e nasconde la faccia contro la spalla di lui. Allora egli riprende: — Vedete che non è possibile? Che le vostre parole non sono sincere? Dopo che io vi ho tenuta così tra le braccia non possiamo separarci come i due primi venuti! Ella si scioglie dalla stretta esclamando: — Andatevene! Lasciatemi! Ed egli: — Sì, me ne vado; ma debbo rivedervi. Stasera permettete che ritorni un istante? Ella risponde: — No. — Perchè? Che cosa temete? Non vedete che faccio la vostra volontà? — Andatevene! — e schiude l’uscio. — Me ne vado, ecco: a stasera?... La sera ella si chiude in camera e non gli apre. Stabilito di partire il domani, egli le scrive una malinconica lettera di saluto — malinconica, quasi triste, perchè naturalmente, logicamente, egli non può dimenticare quel che è accaduto fra loro. Il domani, all’aria aperta, incontrandola, fa per dirle la sua malinconia, per darle la lettera; ella non gli consente neppure di cominciare: — Lasciatemi, o faccio uno scandalo! — E fugge. Naturalmente, logicamente, egli si sdegna di questo voltafaccia improvviso, e invece di darle la lettera, sul punto di partire, vedendo aperto l’uscio di lei entra un momento per dirle: — Vi avevo scritto due parole d’addio; guardate che cosa ne faccio!... — E straccia il foglio. E se ne parte. Ora, contessa mia, se ha già risolto la sciarada del suo giornale e se le avanza ancora un poco di tempo da perdere, mi spieghi un poco questo indovinello. Che cosa era la dama di cui le ho narrata la condotta? Si trovava veramente la prima volta dinanzi alla possibilità del peccato? Le parole e gli atti con i quali eccitò quell’uomo erano le parole e gli atti di un’ingenua che non sapeva a qual rischio si metteva allettando un uomo, un maschio? La sua ingenuità e la sua inesperienza furono stupite e sdegnate dalla troppo naturale conseguenza della sua condotta? Oppure aveva ella l’abitudine di queste cose, e mutò improvvisamente atteggiamento per paura del parente, degli ospiti, essendosi forse accorta che avevano scoperto quel che avveniva? Gli scrupoli di delicatezza di quell’uomo che non volle essere brutale nel primo convegno — e nell’unico! — furono fuori di luogo e la offesero? Aspettava ella che tutto si fosse compito in quell’unico convegno e fu poi così severa con lui perchè, avendogli perdonato la freddezza dei primi giorni, non gli perdonò che restasse con le mani in mano quando si trovarono soli l’una dinanzi all’altro? Se egli non fosse restato con le mani in mano, sarebbe stato felice? Oppure l’avrebbe vista risollevarsi, sonare il campanello e chiamar gente e metterlo alla porta? Doveva egli dunque lasciar sempre cadere inascoltate, come aveva fatto sul principio, le provocazioni della dama? Se costei si sdegnò contro di lui dopo quel che accadde, non si sarebbe sdegnata di più, anzi non avrebbe riso di lui, vedendolo impassibile agli iterati inviti? O con tutte quelle parole e quegli atti non credeva di invitarlo a niente, tale e quale come se gli avesse parlato della pioggia e del bel tempo?... Ella vede, cara amica mia, che questo indovinello appartiene al genere dei logogrifi: la serie delle combinazioni che io potrei proporre al suo acume è molto lunga. Tralascio tutte le altre, e sarà già un bel fatto se ella riescirà a risolvere quelle che le ho già sottoposte. FINO A MORIRNE _Mia cara amica,_ Ella non risponde? Chi tace acconsente! E col suo silenzio non mi dice ella veramente che io ho ragione, che la condotta della mia ultima protagonista è proprio una specie di logogrifo, e che la mancanza di logica nella psiche muliebre è quella che produce tali risultati? Se non m’inganno, se proprio ella non mi ha risposto perchè, rispondendomi, dovrebbe darmi ragione, io voglio ricambiare il suo assenso e darle ragione a mia volta. Queste illogiche creature, queste sfingi viventi ogni parola delle quali è un enimma, non fanno soltanto soffrire gli uomini che le incontrano, ma soffrono esse medesime, prima di essi; soffrono della propria indecisione, dei contrasti della loro natura, delle contraddizioni della loro volontà; ne soffrono acutamente, talvolta fino a morirne. E poichè è inteso che io debba comprovare le mie asserzioni con altrettante parabole, eccole quella che fa al caso presente. Ella legge le opere di molti, di tutti i romanzieri moderni; ma uno gode più degli altri le sue simpatie: un romanziere che è al tempo stesso filosofo; uno scrittore che, come a lei, piace a tutte le signore, e che, per la felice complessità della mente eletta, è anche apprezzato dai pensatori; un romanziere filosofo, poeta e critico, psicologo e osservatore. Non aggiungo altro, se no ella indovina chi è; ed io le dico i peccati, non i peccatori... Peccatore? Quest’uomo non ha nulla da rimproverare a sè stesso! Giudichi, piuttosto. Egli che vive, poniamo, a Cosmopoli, va un giorno, poniamo, a Flirtopoli. Qui incontra, presso un’amica, una signora. Costei, bellissima fra le più belle, lo conosce di fama; ma egli resta poco tempo nella città dove è venuto a visitare qualche amico, e se pure lascia intendere alla dama l’effetto che la sua bellezza ha prodotto in lui, pure non crede di prolungare il proprio soggiorno per farle una corte d’esito incerto; e bastandogli la soddisfazione d’amor proprio provata nell’udire le lodi letterarie delle quali ella gli è stata larga, se ne parte, torna al suo paese, credendo di non doverla più rivedere. Al suo paese, dopo un certo tempo, riceve un giorno una lettera della quale non riconosce la scrittura: questa lettera porta il francobollo di città. Egli corre alla firma, e vede il nome di lei... E’ dunque venuta a Cosmopoli? Per che motivo? E che cosa vuole da lui?... Egli legge la letterina; è brevissima: la dama gli dice che, essendo venuta a Cosmopoli per vederne le principali curiosità, avrebbe piacere di visitarne l’Arsenale; e che perciò si rivolge a lui, sperando ch’ei voglia accompagnarvela. Dovrò io, cara contessa, spendere molte parole per dimostrarle lo stupore di quell’uomo? E’ vero che a Cosmopoli c’è un famoso Arsenale, la visita del quale nessun viaggiatore coscenzioso, che abbia meditato il suo Baedeker prima di mettersi in via, suol tralasciare; ma rivolgersi a un letterato per visitarlo non le pare che sia press’a poco come pregare un marinaio di guidarci per qualche valico alpino?... Ora se questa dama, appena arrivata a Cosmopoli, invita il nostro scrittore presso di lei con un pretesto discretamente ridicolo, non è naturale che egli pensi di non esserle indifferente? L’amor proprio, che suggerisce simili persuasioni, si chiama vanità quando opera con poco fondamento, e degenera in fatuità quando non ha fondamento di sorta. Il pericolo di doversi dare del fatuo da sè stesso impedisce al nostro artista di accogliere la lusinghiera idea — quantunque essa non sia interamente gratuita. Dopo aver girato mezza giornata per i ministeri, egli ottiene il permesso di visitare l’Arsenale insieme con una dama; e mandata a memoria una descrizione del luogo per non fare cattiva figura, va a prendere la nostra signora. Saluti, complimenti, ringraziamenti, discorsi sui comuni amici di Flirtopoli, visita all’Arsenale, spiegazioni, esclamazioni dinanzi agli oggetti più curiosi; altri ringraziamenti, nuove strette di mano. — Io resto ancora un poco a Cosmopoli, — dice la dama nel momento che il signore prende congedo: — spero che vi lascerete vedere!... Egli non ha tempo di pensare se gli conviene cercare di lei, — come desidera in cuor suo, perchè quella donna è sempre più bella che mai e l’idea di poterne essere amato lo infiamma; — quando, il domani, riceve un nuovo biglietto. Questa volta ella lo invita, «se non ha di meglio da fare,» ad andare con lei, la sera stessa, al teatro. Sarà quest’uomo ancora fatuo se penserà che questa donna lo invita all’amore? Non è evidente che lo vuole? Trascinarlo una prima volta all’Arsenale, il giorno dopo al teatro, col ritorno notturno in carrozza, in una città dove nessuno la conosce, non è una dimostrazione molto eloquente? Ed egli l’accompagna allo spettacolo. Ella ha preso un palco di proscenio, uno di quei palchi — come ce ne sono nei teatri di Cosmopoli — dove non si è visti dagli spettatori, dove si sta come in un salottino della propria casa, liberi di fare ciò che più talenta: uno di quei palchi dove non si va se non proprio per essere liberi di fare ciò che talenta..... E allora, come è troppo naturale, egli che lungo la strada ha fatto molte spese di galanteria, che è molto eccitato dall’avventura, nell’aiutare la dama a sbarazzarsi del mantello, nel vedere il bel corpo sprigionarsi della serica e odorosa custodia, si china su lei, le prende la testa fra le mani e la bacia sulla bocca. Allora, contessa mia, sa che cosa accade? Questa donna diventa rossa come di fuoco, poi impallidisce terribilmente; poi con voce strozzata, acre, sprezzante, dà a quest’uomo dell’indegno e del vile; e come egli, agghiacciato, petrificato dall’imprevedibile accoglienza, balbetta qualche parola per tentare di giustificarsi, ella non lo lascia dire: raccoglie il mantello ed i guanti, e domanda imperiosamente la carrozza. Come un servitore congedato egli va innanzi a chiamare la carrozza, si cava il cappello mentre la dama vi prende posto, e resta in mezzo alla via. Un uomo che riceve il massimo insulto, uno schiaffo sul viso, freme e s’arrovella e soffre come nessun altro; ma egli può dare sfogo in più modi all’impeto della rabbia e dell’ira. E ciò precisamente rende insoffribile più che uno schiaffo sul viso l’insulto d’una donna alla quale si credè di potere, anzi di dover chiedere l’amore: l’impossibilità di prendersela con lei o con altri. A questa donna quest’uomo non può dire, afferrandola per un braccio e scotendola: — Maledetta, chi t’ha detto di provocarmi? Per qual gusto sei venuta a metterti sui miei passi? Credevi che io avessi animo di divertirti? Che cosa c’è nella tua testa vana e folle? Non c’entrerà mai la logica, la ragione, il buon senso, il senso comune?... Egli non può andare a narrare queste cose alla gente, svelare la doppiezza di costei, ottenere che sia riconosciuto il torto di lei e la ragione sua propria. Mentre il maschio originario vorrebbe battere e sottoporre questa donna, l’uomo civile deve sorridere, inchinarsi, chiedere scusa; perchè la femmina è diventata un essere sacro anche quando è spregevole, che dice la verità anche quando mentisce, che bisogna difendere anche quando vi offende... E il più grave è che ciò è giusto! Le leggi, i costumi, gli stessi pregiudizii che ci reggono non sono arbitrarii; hanno tutti una qualche ragione. Le donne debbono essere perdonate e difese perchè non sanno quel che si fanno. Se il nostro protagonista avesse sfogato il suo sdegno contro quella disgraziata, si sarebbe procurato un rimorso senza fine amaro. Se costei non seppe quel che fece, ella stessa ne sopportò le conseguenze — fino a morirne! Il domani della scena del teatro egli mandò qualcuno all’albergo dove ella stava, per sapere, roso come era da una torbida curiosità, che cosa aveva fatto. Era partita. Allora egli si strinse nelle spalle, borbottò l’eterno: «Donne! Chi vi capisce?...» e riprese le sue esercitazioni letterarie. Ora un giorno, dopo aver messo fuori un nuovo volume, ecco arrivargli una lettera sulla busta della quale riconosce il carattere di lei... Ma è proprio di lei? Non è possibile! Egli deve ingannarsi: vide due volte la sua scrittura; questa che ora considera le somiglierà, ma non è, non può essere la sua! Che cosa ha da scrivergli ancora? Ardisce ancora rivolgersi a lui? Gli chiede di farle vedere un Panificio e lo invita in un gabinetto particolare di qualche caffè elegante, per far poi la casta e la sdegnata?... La lettera è proprio di lei; viene da molto lontano. Ella gli parla del suo nuovo libro, gli dice che le piace moltissimo, che l’ha fatta piangere, che da molto tempo non le accadeva di leggere una cosa tanto bella e forte. Gli chiede che cosa scrive ancora. Non un accenno al passato. Il primo impeto del nostro romanziere è di stracciare quel foglio e di buttarlo nel cestino. Ma è trascorso molto tempo, la riflessione sopravvenuta gli ha dimostrato che le donne non sono responsabili delle loro azioni; la cavalleria, anzi una cosa molto più semplice, il galateo, gli rammenta che a tutte le lettere, ma più specialmente alle cortesi si deve una risposta. Un altro consigliere, più accorto, più ascoltato, l’amor proprio, gli suggerisce di rispondere perchè quella donna non creda che egli l’ha ancora con lei. E risponde; poche righe di ringraziamenti, studiatamente cortesi. Tre giorni dopo egli riceve un’altra missiva lunga quattro facciate. Ella gli parla un po’ di letteratura, un po’ d’arte, un po’ di sè stessa; gli dice che è triste, che cerca nella lettura una distrazione e un conforto. Ragiona dei sogni, delle illusioni, della poesia. Ora la disposizione dello scrittore è modificata: egli ride. Dica la verità: ne ha ben donde! Quella pazza ricomincia sopra un altro tono! Prima erano gl’inviti prosaici, ora sono le istigazioni poetiche! Ma se crede di coglierlo un’altra volta!... Le risponde pertanto menando — scusi la stupidità dell’espressione, contessa; ma non le pare che convenga alla stupidità dell’avventura? — menando, dico, il can per l’aia. Ella riscrive, e in breve scambiano epistole ad ogni corriere. Un sentimento spinge quest’uomo a mantenere viva la corrispondenza: la curiosità. La sua curiosità, non più torbida, anzi ilare, s’appagherà soltanto quando egli vedrà come mai questa storia anderà a finire. E’ ora evidente che la dama è innamorata di lui. Era innamorata fin dal primo principio? Quando venne a Cosmopoli, e cercò di lui, e lo invitò all’arsenale ed al teatro, voleva proprio darglisi? O era ancora un’ingenua inesperta? Il suo sdegno, dopo la scena del teatro, fu un poco esagerato, ed ella si pentì poi di non essersi frenata? Oppure fu sincera, e solamente più tardi, lontana da lui, vedendo che egli non faceva nulla per rivederla, per ottenere una spiegazione, si accese di lui? Problemi!... Ma, benchè la sua curiosità di sapere tutte queste cose sia enorme, quando egli legge le nuove lettere, quando le vede piene di ardente passione, d’umile pentimento, d’implorante rimorso; allora, sia perchè non arde, sia perchè non è interamente sicuro di non fare un altro fiasco, sia perchè quell’anima cieca, vagolante in una specie di limbo, gli fa pietà; allora, dico, per una di queste o per tutte queste ragioni insieme, risponde gettando molta cenere sul fuoco, facendo intendere che egli non vuol rivederla, che pure restando amici, da lontano, nulla deve più accadere fra loro. Riceve ancora, uno dopo l’altro, due o tre biglietti pieni di molta tristezza, di dolente rassegnazione, di espressioni ambigue, oscure, delle quali non considera bene il significato; ma che comprende un triste giorno, quando corre a rileggerle dopo aver letto, in un giornale, al caffè, che quella dama, buttatasi dal castello di Chillon nel lago Lemano, vi è morta annegata... OMISSIONI La quistione è appunto questa, cara amica mia: che uomini e donne avranno torto, avranno ragione, saranno scusabili o no di rigettarsi a vicenda i torti come le palline in una partita di _lawn-tennis_; ma tra loro non potrà esserci accordo. Non è possibile che due esseri fatti diversamente pensino e operino a un modo. Se all’amore furono sempre innalzati inni di gioia trionfale come al sommo bene, alla massima dolcezza, all’unica felicità, la medaglia ha un rovescio, e chi volesse mettere insieme tutti i sospiri di dolore e le grida di maledizione che questa passione ha strappato nei secoli al genere umano, ne farebbe un libro altrettanto grosso quanto quello degli inni. C’è un momento nel quale gli amanti s’accordano, e il piacere in questo momento è infinito; e l’infinito piacere pare che compensi le pene innumerabili; pare, perchè il fugacissimo e alato attimo dell’accordo è pagato con un dissidio interminabile. E, come abbiamo visto, il dissidio comincia troppo presto, comincia con lo stesso amore, è suo gemello. La resistenza delle donne alle ardenti e supplici sollecitazioni degli uomini è molto penosa. Non solamente questi uomini soffrono per non ottenere l’appagamento della spasimata brama; ma anche perchè l’inutile implorazione lede il loro amor proprio e quasi la loro stessa dignità. Quest’idea di doversi umiliare supplicando è talmente incresciosa, che può persino impedire d’amare. Si rammenta ella di quel sognatore, del quale narrai altra volta la storia, famoso per aver fatto reiteratamente e per motivi molto speciosi, il gran rifiuto? A proposito di costui, ricevetti un giorno una lettera di un anonimo lettore il quale, per dimostrarmi che le gesta tutte passive del mio protagonista non sono poi tanto rare, mi narrava che anch’egli aveva più d’una volta, sotto l’impero di certe sue ragioni, omesso d’amare. Questa lettera voglio oggi riferirle perchè fa al caso nostro. Mi confessava dunque l’anonimo mio corrispondente che spesso, sul punto d’accendersi di qualche bellezza, la previsione delle repulse immancabili lo gelava subitamente. — «Siano queste repulse dettate da un sentimento sincero o siano finte, l’idea di doverle affrontare m’è grave egualmente. Se la donna ch’io sto per sollecitare d’amore mi resiste perchè è veramente fredda, perchè non ama come me, io penso d’avere mal riposto l’amor mio in una creatura insensibile; se, al contrario, la sua resistenza è mentita, io penso che non merita l’amor mio una creatura bugiarda... Certamente gli altri uomini non ragionano così: essi sperano d’infiammare la insensibile e sono certi di confondere la mentitrice; ma, per arrivare a questo risultato, bisogna sopportare le repulse, tornare ad insistere, affrontare nuovi rifiuti, inchinarsi ancora e sempre; e il mestiere del seduttore somiglia allora troppo a quello dei sensali, dei commessi viaggiatori, degli agenti d’assicurazione che voi congedate infastiditi dalle loro offerte, e che tornano nondimeno imperterriti ad annoiarvi. Questo pericolo è immancabile se io sollecito d’amore una donna fredda. Ed io rinunzio alle sollecitazioni perchè temo di riuscire importuno e noioso. Se questa donna non capisce il mio ardore, gli appassionati miei atteggiamenti non le sembreranno, per soprammercato, ridicoli? Ella forse non riderà troppo, è vero, di un desiderio che, se pure non le dice niente, solletica quando non altro la sua vanità; ma l’eccitazione della vanità sua è tutta a costo della dignità mia! E quando mi trovo dinanzi ad una che finge, debbo io darle questa soddisfazione di umiliarmi perchè la sua menzogna trionfi ed ella si prenda secrete beffe di me?...» Il ragionamento di costui potrebbe parere stravagante se non fosse giustissimo, e forse molti uomini, per non dire quasi tutti, lo fanno; ma poi il timore di riuscire importuni, di umiliarsi, d’esser beffati, cede all’impeto del desiderio. Perchè questi timori impediscano alla passione di nascere, bisogna avere — ed io sarei curioso di vedere se la mia diagnosi è giusta — una costituzione molto sensibile, capace d’esagerare, con l’aiuto d’uno spirito un poco sofistico, i più piccoli moti dell’animo e di opporli ai maggiori; bisogna anche avere una buona dose, come dirò? di timidità. Tuttavia, se gli uomini normali non arrivano, come il mio corrispondente, all’omissione, si mantengono, per le stesse ragioni alle quali egli dà un peso eccessivo, in un prudente riserbo. Prima di mettersi sul serio a desiderare una donna vogliono tastare, per modo di dire, il terreno; e non si arrischiano se non quando comprendono di poter riuscire. C’è qui, senza dubbio, un calcolo, operazione che ella giudica prosaica e indegna d’un vero amante, e che sarà anche come ella dice; ma della quale chi la compie si trova sempre molto bene. Mettersi a spasimare dietro alla prima venuta, senza sapere se costei potrà e vorrà rispondere all’amor nostro, è molto imprudente. C’è anche un altro sentimento che impedisce queste brusche accensioni, un sentimento del quale le confesso che non avevo notizia prima che l’anonimo mio corrispondente mi scrivesse la lettera della quale le ho riferita una parte. Mi dice dunque costui che molte volte egli ha rinunziato all’amore _per educazione_. «Quando noi abbiamo fame la buona creanza ci impedisce di buttarci sul cibo, c’insegna a contenere, a moderare il nostro bisogno, ci vieta di darne spettacolo. Se siamo soli ci sfamiamo senza tanti riguardi; ma in società, dinanzi alle persone che non sanno il nostro tormento, dobbiamo frenarci. Dinanzi alle donne che non capiscono o giudicano esagerata la nostra fame d’amore, un istinto che ho chiamato di _educazione_ e che non merita veramente altro nome, frena in me l’altro istinto. L’impresa è tanto più facile, quanto che la fame d’amore non è così ardente come quella del cibo... Io temo di non avere forse bene spiegato la particolare natura di questo mio scrupolo. Vi darò un altro esempio. Supponiamo che voi siate, come me, goloso di confetti, e che entriate nel salotto di una signora la quale ne ha dinanzi a sè piena una scatola. Che cosa fate? Allungate la mano per prenderne? Mai. Ne chiedete? Sì, talvolta, se siete in dimestichezza con la dama. Se la conoscete da poco, se non avete la sua confidenza, che fate? Aspettate che ella stessa ve n’offra. Così vuole il galateo. L’abitudine di rispettare queste convenienze m’impedisce molte volte di chiedere l’amore e mi consiglia d’aspettare, non che mi sia precisamente offerto — cosa difficile, anzi impossibile e quasi assurda data la costituzione femminile — ma che almeno mi sia consentito di chiederlo...» Una delle accuse, cara contessa, che ho spesso sentito muovere da lei alla società moderna è motivata da quell’affettazione di sgarbatezza con la quale gli uomini d’oggi trattano le donne. Ella è in buona compagnia. Non solamente tutte le donne, ma anche molti uomini rimpiangono i bei tempi dell’antica galanteria, la cavalleresca reverenza che faceva piegare i ginocchi ai giovani, ai vecchi, ai grandi della terra dinanzi alla più umile gonnella. La donna era una cosa regale e sacra, l’oggetto di una specie d’iperdulia. Trattarla da pari a pari, o peggio dall’alto in basso, pareva una mostruosità. Tutti i giorni, per le strade, sui marciapiedi, noi vediamo i giovanotti, con le mani in tasca, il sigaro in bocca, soffiare il fumo sotto il naso delle passanti, non cedere loro il passo, non cavarsi il cappello; noi vediamo tutte le sere, al ballo, i cavalieri non più pregar le dame di accordar loro una danza, ma le signore e le stesse signorine costrette a supplicare i giovanotti perchè si decidano a muovere le gambe. La nicotina è preferita al ballo ed agli amabili ragionamenti. L’uso del tabacco segna un’èra di decadenza nella storia dell’amore. Io ho un amico che non va in casa d’una bella signora e che ha rinunziato a farle la corte e, molto probabilmente, ad ottenerne i favori, perchè da lei non si fuma... Alcuni, considerando che questi costumi datano dal principio del secolo, ne rovesciano la colpa sulla democrazia che, non soffrendo nessuna regalità, ha buttato giù dal suo trono anche la donna; altri se la pigliano col positivismo del nostro tempo, con la scienza che minaccia d’uccidere, dicono, la poesia. Io direi che nè la scienza nè gl’immortali principii dell’Ottantanove abbiano da rispondere del nuovo delitto; neanche mi pare che ci sia delitto, ma semplicemente reazione. Gli estremi si toccano, dice il motto. L’eccesso della reverenza accordata alle donne doveva naturalmente produrre presto o tardi un eccesso contrario. Poichè ne avevamo fatto una _religione_, dovevamo presto o tardi aspettarci lo scisma e l’eresia. L’idolo non poteva restare sempre sugli altari, la ragione doveva dire che l’oggetto dell’iperdulia era una creatura debole e misera più dei fedeli adoranti: La femme, enfant malade et douze fois impur... Dalla prepotenza e dalla ferocia con la quale il maschio barbaro trattava la donna, noi passammo alla soggezione di Don Chisciotte per Dulcinea; il ridicolo che fece cadere la cavalleria errante doveva pure coinvolgere la cavalleria galante; allora un Alfredo de Vigny doveva cantare: Une lutte éternelle, en tout temps, en tout lieu, se livre sur la terre, en présence de Dieu, entre la bonté d’homme et la ruse de femme, car la femme est un être impur de corps et d’âme... Ma se oggi gli uomini si comportano verso le donne con troppo mal garbo, giova sperare che un giorno le tratteranno come meritano, senza cortigianesca viltà e senza volgare arroganza. O come mai, chiedo ora a me stesso, sono venuto dettando questo bellissimo squarcio di sociologia erotica? Ah, ecco: volevo dire che nell’amore, ai nostri giorni, si può vedere da parte degli uomini una tendenza a mutare l’ufficio assegnato ai sessi dalla natura. Le donne che devono naturalmente essere sollecitate, dovrebbero invece prendere l’iniziativa. Lo scrupolo di buona creanza del mio anonimo corrispondente, l’ostentata freddezza della gioventù moderna che fa così poche spese di galanteria e che affetta di non dar prezzo all’amore e di non sospirarlo, anzi di soffrirlo con una certa annoiata rassegnazione, sono veramente sinceri? E’ incredibile. Ciò che la natura ha voluto, niente potrà distruggerlo. Ma la natura ha voluto una cosa alla quale la ragione tenta di ribellarsi. Gli uomini respinti, non compresi dalle donne, pensano di reprimere il loro impulso. Stanchi di dover corteggiare, accavalcano una gamba sull’altra e aspettano che le signore vengano a corteggiarli. Una volta per uno non fa male a nessuno... E il male è appunto questo: che spesso il giuoco riesce. Le donne hanno torto di lagnarsi d’un danno al quale esse medesime contribuiscono. Tra chi le supplica e chi finge di sdegnarle non scelgono esse lo sdegnoso? Per piegarlo, per convertirlo, per avvincerlo, non gli concedono ciò che negano al devoto della cui devozione vivono sicure? E allora si spiega la sentenza che Hans Ruthe dette una volta a un suo giovane amico. Questo Ruthe è l’uomo più fortunato in amore ch’io abbia mai conosciuto: si chiama Hans e possiamo chiamarlo proprio Don Giovanni. La sua fortuna è meritata, perchè non solamente egli è molto avvenente, ma quanto piacevole è la sua persona altrettanto grande è il suo ingegno e — nonostante una certa affettazione di scetticismo — buono il suo cuore. Ma vi sono molti uomini che, pure avendo le sue doti, non possono vantare la lunga serie dei suoi felici successi. Qual è dunque il suo secreto? Con quali argomenti trionfa? Che cosa dice alle donne perchè nessuna gli resista? — Niente! — rispose egli all’amico che l’interrogava a questo proposito. — Il miglior mezzo d’ottenere è non chiedere. Come tutte le altre sentenze umane, anche questa è suscettibile d’essere capovolta. Un proverbio dice: _Chi non risica non rosica._ Proprio accanto ce n’è un altro che ammonisce: _Chi va piano va sano e va lontano._ Un filo di coltello separa la verità dal paradosso: chi non lo vede ci si taglia. Per ottenere bisogna chiedere. E gli uomini che non chiedono l’amore ma aspettano che sia loro offerto, ne otterranno, sì; ma di che qualità? UNO SCRUPOLO DI DON GIOVANNI Protesti, gridi e strilli fin che le pare, cara contessa mia; ma ella non mi rimoverà dalla mia opinione — dalla mia certezza. Gli uomini, in amore come nel resto, sono più logici. E poichè discutere astrattamente non giova, ma conviene addurre le prove di ciò che s’afferma, io le voglio subito provare, con un altro fatto, l’affermazione mia. I Don Giovanni, avendo qualcosa della natura effeminata, non sono capaci di sentimenti duraturi e non hanno una coscienza coerente come tutti gli altri uomini — è vero? Orbene, io voglio narrarle uno scrupolo di Don Giovanni! Don Giovanni adunque (lasciamogli questo nome che vale e quindi risparmia una biografia) aveva spezzato l’esistenza della povera Principessa. Alla nostra debolezza di «umili marionette,» come dice magnificamente un poeta, dont le fil est aux mains de la necessité, giova addurre, nelle meritate disgrazie, l’impossibilità di prevedere l’avvenire, l’eterna congiura delle illusioni, l’inganno universale del quale siamo predestinate ed immancabili vittime. La Principessa non aveva neppure questo conforto. Il passato di Don Giovanni, non che esserle ignoto, era stato anzi il massimo fattore della seduzione esercitatasi su lei. Chi nega la potenza seduttrice dei Don Giovanni, addebitando le loro fortune all’insania muliebre, è ordinariamente colui che nel secreto del proprio animo più invidia questa potenza e più si strugge di possederla. Altro è però accertarne l’esistenza, altro è definirne l’essenza. Si nasce col dono di piacere alle donne, come si nasce con la facoltà di condurre a bene gli affari. Ed a quel modo che i primi quattrini sono i più difficili da mettere insieme, così pure le prime conquiste costano sforzi maggiori. E’ nota ai fisici la potenza d’attrazione che risiede nei grandi cumuli di materia: vicino a una rupe il filo a piombo non cade più verticalmente ma s’inclina dalla parte del masso; le nuvole vagabonde corrono incontro alle grandi montagne. Qualcosa di simile deve accadere al morale, se tante creature non resistono al fascino di chi, avendo fatto strage dei cuori, sembra avere accumulato nel cuore suo proprio grandi tesori di sentimento... La Principessa s’era dunque gettata nelle braccia di Don Giovanni senza ragionare, o meglio ragionando come tutti i veri amanti, agli occhi dei quali non esistono altre ragioni fuorchè quelle della persona amata. Rinunziava ella al suo posto nel mondo, ne affrontava i severi giudizii, andava incontro alle difficoltà materiali della vita, sacrificava la pace e l’onore del marito e — ahimè! — dei figli? Ma tutto ciò avrebbe dato a Don Giovanni la misura della passione che egli aveva ispirata! Era a lei vietato sperarne il ricambio, e il passato di quell’uomo escludeva la possibilità ch’egli si dedicasse tutto, sinceramente, ad un’affezione? Ma ella aveva tanto pensato e vissuto che non poteva più nutrire certe illusioni. Se l’eguaglianza sociale è una sublime utopia, della quale alcuni spiriti generosi prevedono il conseguimento in un avvenire più o meno lontano, chi potrà mai sognare che l’eguaglianza si estenda alle anime, ai cuori, alle coscienze degli uomini? L’esperienza di questa ineluttabile disparità è altrettanto dolorosa e frequente nelle vicende sentimentali quanto in tutte le altre della vita: se non si sente molto parlarne, egli è che i vinti dell’amore non scrivono sui giornali e non tengono comizii... Torniamo però alla nostra eroina. Ella si era trovata, per sua disgrazia — e forse per vendetta di tanti uomini indegnamente immolati — dinanzi a un compare Turiddu, al Don Giovanni che sulla piazza del villaggio o nel salotto della grande città resta sempre eguale a sè stesso. Siccome è troppo raro che la previsione e l’attesa del dolore ne scemino l’intensità, così la Principessa, benchè sapesse che cosa era quell’uomo, sofferse atrocemente provandolo; ma l’amore di lei — vecchia storia! — cresceva in diretta ragione della freddezza di lui. Ella gustava un’amara e mortale voluttà nel proprio sacrifizio; e finchè Don Giovanni non la respinse, si stimò ancora fortunata e felice. Don Giovanni però cominciava a stancarsi. Egli aveva accettato il sacrifizio dell’amante come una cosa naturale e quasi dovuta, poichè egli le aveva concesso l’insigne onore di preferirla a quante se lo contendevano. Vedere in quel sacrifizio la prova d’un prepotente e sovrumano amore gli era impossibile, se nell’amore egli non aveva mai visto null’altro fuorchè il capriccio. E soddisfatto il suo capriccio per lei, era inevitabile che egli ne concepisse uno nuovo. Fra le tante donne che tacitamente gli s’offerivano, chi preferì? Una creatura che era stata di chi l’aveva voluta: la più indegna, — vo’ dire la più degna di lui. E poichè la Principessa si ribellò finalmente a quell’oltraggio, e pianse, e implorò, e gli rinfacciò la propria rovina, e negò che quell’altra potesse amarlo quanto l’aveva amato e quanto l’amava ella stessa, egli le significò che non la voleva più. La Principessa non morì; non impazzì nemmeno. Come questo fosse possibile il mondo non seppe. Eppure è semplicissimo. L’esasperato amor suo per quell’uomo la sostenne, come dicono che certe febbri mantengono la vita. Quante lacrime ella pianse ai piedi di Don Giovanni, quali accenti trovò per vincerne la freddezza, che preghiere, che rampogne, che minacce uscirono dalle sue labbra aride e ardenti, io non le dirò: uno spasimo simile s’immagina più presto che non si descriva. Tutto inutile: ella fu congedata. Che sarebbe dunque avvenuto di lei ora che la stessa speranza era morta?... Non era morta! La Principessa sperava ancora!... Ella ebbe una forza veramente straordinaria e diede un esempio veramente poco credibile di costanza nell’abbandono, di fede dinanzi al cinismo e di rassegnazione, anzi di umiltà, anzi di pazzia. Accettò, la sentenza di Don Giovanni; non volle più essergli d’ostacolo, credette all’amore della rivale poiché egli lo accettava e lo preferiva al suo, e si trasse in disparte — aspettando. Che cosa?... Non andò via, non evitò lo spettacolo della felicità toccata alla rivale, non fuggì la vista dell’antico amante. Nei giorni più fortunati la gioia di lei non era stata mai pura: come di un veleno preso lungamente a dosi sempre più forti, ella aveva contratto l’abitudine del dolore; e il veleno le era divenuto quasi necessario. Ma ella non viveva del presente; se questo fosse stato ancora più triste ed oscuro, se la tortura di lei fosse stata cento volte più atroce, la luce che ella vedeva brillare lontano, l’idea del premio che l’aspettava, le avrebbero tolto, come le toglievano, d’avvertire la miseria dove era caduta. E la speranza della Principessa era questa: un giorno, immancabilmente, Don Giovanni si sarebbe stancato della sua nuova fantasia; allora, forse, egli non avrebbe più opposto la spietata indifferenza di prima allo schianto di lei. Prima, l’aveva duramente respinta perchè ella gli contendeva il nuovo capriccio; sazio e stanco, non avrebbe forse rifiutato di rivederla... Non doveva dunque esser proprio pazza questa infelice se, invece di trarre profitto dalla separazione per tentar di guarire radicalmente, fondava le sue speranze sull’abitudine che quell’uomo aveva del tradimento, e lo amava ancora dopo che ella stessa era stata tradita una prima volta, e lo sospirava ancora per essere tradita una seconda?... Pazza, sì, era pazza; ma come son pazzi gli uomini che dopo avere assaggiato il tossico dell’esistenza, sul punto di guarire del mal della vita, chiedono a mani giunte che sia loro prolungata d’un giorno, d’un’ora... E sono essi proprio pazzi, o non piuttosto vittime d’un inganno fatale? Nel momento che invocano la continuazione di questa esistenza, ne ricordano forse l’amaro? In quel momento non ne vedono altro che le promesse, credono di poter evitare gli errori, sperano di esser felici... Così quella donna scagionava in cuor suo Don Giovanni, scusava il suo scetticismo pensando che egli non aveva incontrato ancora l’amor vero, e intendeva compiere un’opera di redenzione infondendo la fede in quell’arido cuore con lo spettacolo della salda fede che ella stessa nutriva. Il momento sperato, previsto, aspettato, al fine arrivò. Don Giovanni s’annoiava, cercava qualche altra cosa. Allora ella gli andò incontro. Era passato più d’un anno dalla separazione violenta e crudele, ma la piaga della povera donna sanguinava come il primo giorno, quasi che il tempo non fosse trascorso per lei; e se il dolore la mordeva come quel giorno, la speranza che ella aveva educata l’abbandonava ora ad un tratto appena visto quell’uomo. Lontana da lui, il calcolo sul quale aveva fatto assegnamento le era parso sicuro; in cospetto di Don Giovanni ne comprendeva repentinamente l’insania, e riconosceva la fallacia dei propri disegni, e si vedeva irremissibilmente perduta. Nell’istante che il suo sguardo incontrò lo sguardo di Don Giovanni, ella provò l’impressione di chi sta per annegare, e un senso d’ineffabile sgomento e di vergogna, e il bisogno di fuggire, di nascondere a quell’uomo, a quell’estraneo, a quel nemico, la propria debolezza e la propria miseria. Ma, d’improvviso, prima che una sola parola fosse pronunziata, l’ambascia che le serrava il cuore si risolse in una tempesta di lacrime, di singhiozzi, di lamenti soffocati, di convulsivi sospiri: una cosa straziante, capace d’impietosire un cuor di macigno. Don Giovanni era turbato. Mai più egli avrebbe creduto che, dopo tanto tempo, l’abbandonata soffrisse tanto dell’abbandono; aveva, sì, visto piangere molte donne, ma sapeva che non costa ad esse un gran sforzo versar qualche lacrima. Quante erano parse impazzite, che avevano trovato poi altri conforti? Egli aveva anzi supposto che la Principessa si fosse già consolata, e precisamente quest’idea, più che il rimorso od altro, aveva, dopo la rottura, ridestato in lui con un certo senso di rammarico il ricordo dell’amore disprezzato e respinto. Adesso, dinanzi a quella donna che dopo tanto tempo pareva sul punto di morire strozzata dal pianto, un immenso stupore occupava il suo spirito; a suo dispetto, il contagio della commozione gli s’apprendeva. Quell’infinito dolore era dunque opera sua? Quella donna era diversa dall’altre? O la passione sulla quale ella aveva giurato esisteva realmente?... E non sapendo nè potendo dir altro, egli tentava frattanto, con sommesse parole, di arrestare le lacrime della Principessa; e questa sentiva più forte il bisogno di fuggire, di evitare l’ultima vergogna, l’elemosina della pietà; ma la voce umile e quasi supplichevole di quell’uomo che la teneva per mano, che la chiamava per nome come al tempo antico, fiaccava la sua volontà, dissolveva i suoi propositi, l’abbandonava, cosa vinta ed inerte, nelle braccia di lui, le strappava la confessione delle torture rassegnatamente sofferte, delle speranze secretamente nutrite. E lo stupore di Don Giovanni non aveva più limite. Si soffriva dunque tanto, per amore? L’alterezza d’una donna, se l’amore l’accendeva, si disperdeva al punto da consentire alla felicità d’una rivale? L’amore esisteva dunque realmente, se era una cosa più forte della gelosia, se aveva dato a quella donna l’incredibile virtù d’una simile rinunzia e d’una simile attesa?... E due lacrime spuntarono sulle ciglia di Don Giovanni. La Principessa gli si stecchì tra le braccia. Gettato il capo indietro e guardandolo negli occhi come se gli occhi di lui fossero l’unica cosa visibile, gli disse: — Tu piangi?... Dunque non mi respingi più?... Dunque non m’odii?... Credi adesso all’amore?... all’amor mio?... M’ami anche tu?... Egli rispose: — Sì. — M’ami d’amore?... Non mi dici così perchè hai paura?... perchè ti faccio pietà?... — No. La Principessa avvertì finalmente, dopo più di un anno, l’impressione dell’aria che le vivificava il petto. — Torneremo dunque, — soggiunse, pianissimo, con l’espressione dell’estasi e quasi sognando, — torneremo come fummo un tempo?... Don Giovanni non rispose. Egli aveva da regolare la sua situazione con quell’altra, comprendendo bene che l’abnegazione della Principessa non poteva arrivare fino ad accettar di spartirlo con la rivale. Bisognava dunque liberarsi della nuova amante; e questo che per lui, in altre condizioni, sarebbe stato affare d’un’ora, adesso gli pareva una cosa formidabile. Giacchè la nuova amante, la creatura incostante, licenziosa e decaduta che, come lui, aveva riso di tutto e di tutti, lo amava — i Don Giovanni fanno di questi miracoli — d’un amore non meno intenso, non meno profondo, non meno cieco di quello che gli portava la Principessa. Come la Principessa, ella aveva sofferto vedendo di non poterne ottenere in cambio uno eguale, e tremato all’idea di perdere quel poco che egli poteva darle. Era stata gelosa di lei quando aveva compreso che Don Giovanni ricominciava a ricordarla, ma gli aveva dato ragione, mortificandosi anch’ella per riconoscere la superiorità della rivale; e si era accusata d’indegnità e s’era torturata per non aver più nulla da immolare all’uomo amato affinchè egli credesse a quell’amore... Ma adesso Don Giovanni credeva all’amore, e la paura di procurare alla nuova amante un dolore come quello alla vista del quale egli s’era convertito, gli impediva d’abbandonarla. La Principessa gli aveva tutto sacrificato, e quell’altra, secondo il giudizio del mondo ed il proprio, era una donna perduta; ma, alla luce fattasi in lui, egli vedeva adesso che l’amore non dipende dalle qualità della persona amante nè si misura dai sacrifici che costa. Quelle due donne avevano uguali diritti su lui, ed egli quasi voleva potersi dividere fra loro, come un tempo avrebbe fatto senz’altro; ma poichè ciò gli riusciva impossibile, malediceva sinceramente il fascino che aveva esercitato, l’irresistibile potenza di seduzione della quale altre volte s’era compiaciuto e adesso apprezzava le conseguenze funeste... La Principessa, sentendo nuovamente fuggire le sue speranze, ricominciò a implorare; ma più egli vedeva l’insanabile acerbità di quella disperazione, più capiva di non poterne cagionare una simile. Supplice ancora, l’antica amante non addusse più in proprio sostegno le prove d’amore che gli aveva date, la rovina che aveva affrontata, l’irreparabile perdita del proprio onore; non accusò di disonore quell’altra. — Tu sei mio, — supplicò, — per quel che m’hai fatto soffrire. — _Quell’altra non soffrirebbe egualmente?_ Allora soltanto la Principessa chinò il capo, non trovando nessun argomento da opporre allo scrupolo di Don Giovanni. Sa ella, invece, che cosa fanno quasi tutte le donne in una condizione simile a quella di costui? Le Donne Giovanne — veramente il loro nome è un altro!... — presumono di tenersi a fianco l’amante abbandonato ed implorante senza sbarazzarsi dell’altro per il quale l’hanno abbandonato! E sono ancora gli uomini, le menti più logiche e gli animi più dignitosi, quelli che non accettano tale situazione, e preferiscono soffocare la propria passione — ma con poco merito, dopo che hanno conosciuto che cosa valgono coteste creature... UN GIGLIO Non ho avuto più sue nuove, mia buona amica. L’ha con me? Non credo! Se ella m’ha lasciato dire, senza offendersene, le cose piuttosto vivaci delle quali erano piene certe mie lettere, non avrà potuto sdegnarsi delle ultime anodine narrazioncelle. Starebbe piuttosto preparando una lunga e poderosa confutazione delle mie dottrine? Non credo neppure. Ella ha di meglio da fare! Il silenzio significherebbe invece che s’annoia delle mie lettere, alla lunga? Dovrei dire: «Temo di sì!» Ma ella mi risponderebbe che, così dicendo, darei prova d’una falsa modestia e dimostrerei che false non sono soltanto le donne... Sarebbe ella semplicemente partita per le bagnature, e questa lettera le correrà dietro un pezzo prima di trovarla? Ne saprò presto qualcosa dal mio buon amico Dastri, che torna posdomani. Senza dubbio è venuto a trovarla. Dica la verità: non è simpaticissimo? Sono certo che l’avrà fatta arrabbiare, ma che ella gli avrà perdonato grazie allo spirito del quale è pieno. Ella avrà anche visto come io non sia solo a sostenere quelle che a lei sembrano eresie. Dastri, anzi, va più innanzi di me, ed è molto più rigido nelle sue affermazioni. L’altra volta io le dicevo, per esempio, che gli uomini, obbedendo a un istinto unico e costante, essendo sempre avidi d’amore, amano in un modo più logico e mettono nell’amor loro maggiore sincerità. Da questo teorema Vico Dastri cava un corollario e sentenzia: «Quando un uomo si trova in presenza d’una donna, comunque ella sia, — purchè non abbia sessant’anni o la gobba, — deve rammentarsi che è uomo e dimostrarlo.» Fino a ieri io credevo che il giudizio fosse esagerato. Certo, se agli uomini è toccato il dovere dell’iniziativa, essi non dovrebbero guardare, come infatti non guardano, troppo per il sottile; si potrebbe anche ammettere e dimostrare, con l’esperienza alla mano che, alle volte, essi si rammentano dell’esser loro perfino dinanzi a donne di sessant’anni o con la gobba; ma, ripeto, Dastri mi pareva, fino a ieri, troppo assoluto. Da ieri mi sono ricreduto. Quando meno me l’aspettavo, ebbi la prova delle cose dispiacevoli che possono capitare a chi dimentica il precetto dell’amico mio. La vuol sentire anch’ella? Eccole calda calda la storiellina. Bisognerebbe conoscere il mio amico Bernazzi, la correttezza inglese del suo portamento, il sussiego diplomatico delle sue maniere, quella specie d’innocente ostentazione di freddezza ch’egli non lascia neppure in mezzo alle liete brigate degli antichi compagni di studii e di piaceri, per comprendere il mio stupore quando me lo vidi dinanzi, ieri sera, per via, così rabbuffato in viso, così nervoso nei gesti, così scucito nei discorsi come nessuno deve averlo mai visto. Era stato fuori qualche mese, ma dov’era stato, che cosa aveva fatto, quando era tornato, non mi fu possibile comprendere in mezzo alle risposte ingarbugliate, frammentarie ed anche un poco contraddittorie che mi veniva dando. Se io non lo interrogavo, non diceva più nulla; soffiava, guardava per aria, e a un tratto usciva in qualche esclamazione bislacca, a proposito del tempo, o dei passanti, o delle mostre dei magazzini. Quando fummo all’angolo di via Monte Napoleone qualcuno, scantonando, l’urtò un poco: Bernazzi si voltò di scatto dicendo, con un tono di voce irriconoscibile: «Malaccorto!...» Quel povero diavolo biascicò uno «Scusi!» sommesso e tirò via rapidamente. Io proposi: — Torniamo indietro? — A patto che non si vada a finire in Galleria. Bernazzi, l’uomo senza volontà, mettere un patto! Bernazzi, la compitezza in persona, apostrofare a quel modo uno sconosciuto colpevole di non averlo potuto cansare a tempo! Io ci perdevo il mio latino. Arrivati che fummo sotto i Portici, egli volle rifare il Corso; ma ero stanco e proposi di andarcene a sedere al Savini. — Il Savini mi secca. Andiamo all’Accademia. — Ma tu stasera hai qualche cosa! — non potei trattenermi dall’osservare. — Ti senti poco bene? — Io? Benissimo. M’obbligò a fare il giro da Santa Radegonda, e durante la via non pronunziò più di due parole. — Puoi negare quanto ti piace, — insistetti; — ma tu sei di malumore. Eravamo dinanzi al Caffè. Bernazzi mi prese per il braccio, mi condusse a un tavolino appartato e disse: — Senti un poco quel che m’accade! Il tavoleggiante si presentò a chiedere le nostre ordinazioni. Bernazzi lo guardò come avrebbe guardato una bestia rara, ed anch’io l’avrei volentieri mandato via, curiosissimo com’ero di sentire quella confidenza che il mio amico, per l’irritazione che lo dominava, poteva pentirsi da un momento all’altro di farmi. Ma appena ebbi chiesto il primo liquore che mi venne a mente, Bernazzi chinò il capo in atto di assenso alla mia scelta e riprese: — Senti un poco che cos’ho. T’ho detto che son partito da Bologna l’altr’ieri, col diretto delle 11 e 55? Non fa nulla, te lo dico adesso. Arrivo tardi alla stazione, appena in tempo per prendere il biglietto; entro sotto la tettoia che il capo-treno sta gridando: «Partenza!» e che il conduttore gli risponde: «Pronti!» Non so dove ficcarmi, quando a un tratto mi sento chiamare: «Bernazzi! Bernazzi!...» Mi volto a destra e a sinistra senza capire di chi è quella voce, ma scorgo finalmente un braccio guantato fino al gomito che fa un gesto... Arrivò il cameriere con i liquori. Bernazzi fece scoppiettare il pollice contro il medio, poi ripetè: — ... che fa un gesto. Quel braccio era attaccato a un busto il quale sporgeva da un finestrino; il busto era vestito d’azzurro e il capo era avvolto in un gran velo grigio. Non ho il tempo di stare a guardare, accorro cavandomi il cappello, apro e salgo. Sai chi era? Ti rammenti la Hundington? — Donna Clara? — Donna Clara. Allora, se la rammenti, non ho bisogno di spiegarti tante cose. Sai quanti anni ha? — Non ho visto la sua fede di nascita; ma, così a occhio e croce, credo che i cinquant’anni debba ancora compirli. — I quarantacinque però li ha bell’e compiti, eh? Va bene. Da quanto tempo non la vedi? — Ma, da un bel pezzo... da qualche anno. — Allora, non sai una cosa: è ingrassata. — Davvero? — Non pare impossibile? Quel manico di granata? Ebbene, adesso ha qualche rotondità. Ma il viso sempre affilato come un coltello, le mani nocchiute come quelle d’un uomo, i denti sporgenti e lunghi come quelli di un cavallo; e la stessa sciatteria nelle vesti, la stess’aria di governante a spasso. Appena salgo e mi sento dire: «Bravo!...,» io la riconosco. «Donna Clara!... Scusi, con quel velo!...» Risponde: «Avete ragione!... Dove andate?» Le rispondo che vado a Milano, e chiedo dove va ella stessa. Dice che va a Parigi, ma che si ferma a Milano una giornata. Il treno parte ed io metto a posto la mia valigia. Un momento: Donna Clara non era sola; aveva con sè... — La solita Betsy. — Precisamente! Che cosa le fa? — Le tiene compagnia, suppongo. — Sarà benissimo. Ma io ti dirò una cosa. Hai visto che Betsy porta sempre, di giorno e di notte, d’estate e d’inverno, a piedi e in carrozza, un sacco in mano? Or bene, costei m’ha sempre fatto l’effetto di quella vecchia che dipingono dietro a Giuditta, col sacco destinato alla testa d’Oloferne... — Oh! Oh!... — E’ un’idea stravagante; ma è più stravagante quella figura! Lasciamo andare. Dunque s’incomincia a discorrere, di tutto un po’. Da principio la va bene. Poi Donna Clara, al solito, mi fa centomila domande, una sopra l’altra, intorno a tutte le cose dell’universo. Io rispondo del mio meglio. Nota che dopo quarantacinque anni di studio, ella parla sempre quell’orribile francese che sai; aggiungi che io, da mia parte, mastico maluccio l’inglese: tira la somma, e capirai che il divertimento era abbastanza magro. Modena, Reggio, Parma: le stazioni sfilano una dopo l’altra, e sfilano contemporaneamente le domande di Donna Clara. Mio caro, io ho sempre sospettato che quella donna faccia la spia. — Oh! Oh! Oh! — Allora, di’ tu; che cosa fa? Sentiamo!... — Ma non lo so!... Quel che fanno le altre, probabilmente nulla! — Ma le altre non seccano la gente con quell’aria inquisitoria, con quella curiosità importuna, con quegli sguardi indiscreti che vi si ficcano in tasca e vi frugano sotto i panni! Poi, perchè diamine va sempre attorno, da Bologna a Parigi, da Roma a Dublino, da Ginevra a Vienna? Spia, forse ho detto male; ma, tu stesso lo supponesti una volta, dev’essere l’emissaria di qualche partito, di quelli che lavorano sott’acqua: dei nihilisti o dei gesuiti... — Il diavolo o l’acqua santa! — Che vuoi ch’io sappia! Ma torniamo al nostro viaggio. Continuano le interrogazioni: vuol sapere quanto starò a Milano, che cosa vado a farci, perchè lascio Bologna, che cosa ci ho fatto, se ci tornerò, quando ci tornerò, che gente ho visto, perchè sono arrivato tardi alla stazione!... A un certo punto, cava da una sua borsa uno scatolino di pastiglie Panerai: ma viceversa è pieno di sigarette. Me ne offre una, e si mette a fumare... — Fuma, adesso? — Dammi ascolto! Sigarette pestifere, caro mio, che quelle delle Regia sono un balsamo. Il treno va sempre a rotta di collo. Ora le sue domande sono d’un altro genere: vuol sapere dove scendo, a Milano: se vi ho casa, se scendo all’albergo, quale albergo le consiglio. Dico: «Vada da Spatz». Un’altra filza di quesiti; finalmente si decide per Spatz. Siamo di là dal Po. Si dichiara contentissima d’aver fatto il viaggio con me. Anzi, osservo, la fortuna è mia. «Venite a trovarmi, domani; ripartirò doman l’altro, con l’espresso delle 6 e 20.» Rispondo che temo di disturbarla; insiste: «Venite dopo colezione; mi troverete in casa; non ho da fare nella seconda mezza giornata, la passeremo insieme». Si arriva a Milano; ripete: «Venite; vi aspetto». Io l’aiuto a scendere, l’accompagno fino al carrozzone dell’albergo; nel salutarmi insiste: «Dunque, non mancate.» «Il domani, che fu ieri, io sto un bel pezzo in forse: l’idea d’essere sottoposto a un altro interrogatorio mi spaventa; ma poi penso che ogni soggetto di domande è stato esaurito durante quelle cinque ore di viaggio. Inoltre mi spinge la curiosità di vedere Donna Clara a casa sua, quantunque questa casa sia un albergo. Sei mai stato a farle visita? E neppur io, come nessuno di tutti quelli che conosco. Che cosa fa? Perchè gira il mondo? Perchè non resta due settimane di seguito in un posto?... Ma la curiosità di guardare un poco dentro a quell’esistenza misteriosa non è tanto forte da impedirmi di ricorrere a un piccolo espediente per evitare il pericolo di un’ora di noia mortale; così, invece che alle due, vado al _Milano_ alle quattro, nella previsione che Donna Clara non ci sarà e che me la caverò con un biglietto di visita. Arrivo all’albergo, e Donna Clara c’è. Salgo su, ed entro in un salottino mezzo scuro, dove odo una voce che in tono di discreto rimprovero mi dice: «Disperavo di vedervi arrivare. Sono due ore che v’aspetto!». Balbetto qualche scusa, stringendole una mano che stende verso la mia. Seggo, ed abituati gli occhi alla penombra, vedo a poco a poco disegnarsi la figura di Donna Clara. E’ distesa sopra un’ampia poltrona; porta una veste da camera gialla, a lungo strascico, guarnita di merletti neri: una cosa incredibile! I capelli non le si arruffano come di consueto sulla fronte e sulle tempie; ma sono elegantemente acconciati. Trasformazione totale! Per l’aria c’è un odore composito ed acutissimo. E niente Betsy!... Io rinnovo le mie scuse per il ritardo, invento una serie di brighe impreviste. Donna Clara mi parla dell’albergo, della sua corsa mattutina per la città; e niente domande! Guardando un poco per il salotto, io scopro la scaturigine dell’odore: sopra il pianoforte c’è un vaso con un magnifico mazzo di fiori: una quantità enorme di rose che fanno corona ai calici purissimi di tre o quattro gigli. Di che cosa mi parla Donna Clara? Di un libro di versi che sta leggendo e che le piace molto: a un certo punto cerca sul _guéridon_ il volume e me lo porge. «Avvicinatomi per prenderlo io scopro che l’odore non viene soltanto dai fiori: da tutta la persona di Donna Clara esala un profumo di non so che cosa. Mentre sfoglio il libro ella s’accomoda meglio sulla poltrona, rovesciando il capo sullo schienale e stendendo le gambe che si delineano sotto le pieghe della veste. Allora, non so come, non so donde, non so perchè, un’idea mi passa per il capo: un’idea inverisimile, assurda, bislacca: che Donna Clara sia... donna! T’è mai venuta, quest’idea? Hai creduto mai possibile che costei susciti un desiderio?... Ma è un lampo, e passa subito. Ella m’invita a leggere qualcuno di quei versi — versi inglesi, s’intende — ed io eseguisco. «Come vi piacciono?» Dichiaro che sono bellissimi; in verità ci ho capito poco o niente. «Leggete,» mi dice, «_La spalliera dei lilla_.» Cerco nell’indice questa spalliera, e leggo. Mi accorgo di leggere malissimo, d’amputare qualche piede a certi versi e di crescerne parecchi a certi altri; ma Donna Clara non mi corregge: riprende il volume, rilegge il componimento, lo traduce in francese, e si passa la lingua sulle labbra. «Secondo lampo. Io penso, e mi stupisco di pensare, che se Donna Clara si tagliasse la mani e la testa, tutto ciò che si vede, quel corpo, sotto quella veste, forse potrebbe indurre in tentazione. Passa anche questo lampo; ma Donna Clara, seguitando a discorrere tranquillamente del più e del meno, accavalca una gamba sull’altra, si rovescia di più sulla poltrona e di tratto in tratto mi guarda... E’ dunque possibile? I miei sensi sono pervertiti fino a questo punto? Mi lascio sedurre da un profumo, dal taglio di un abito, fino a rimaner lì, imbarazzato, col cappello in mano, senza trovar nulla da dire?... Sostiene ella stessa la conversazione; io rispondo qualche monosillabo; a un certo punto faccio per congedarmi. «Così presto?» dice; «fermatevi un altro poco!» E suona, per il the. Prendendo il the si parla di viaggi; Donna Clara s’alza e va a cercare una cartella di fotografie. Me le mostra ad una per volta, e siamo così vicini che il suo profumo mi dà alla testa. Per fortuna le fotografie finiscono, e torniamo a sedere. Vedo che imbruna e ritento di andarmene: nuovo invito a restare «... se non avete meglio da fare...» Seggo a un altro posto e Donna Clara racconta una storia. Non ascolto neppur una delle sue parole, tutto occupato dalla stranezza di quel che avviene in me. Ma io debbo essere ammalato! Pensare: Donna Clara!... Quarantotto anni!... Forse anche quarantanove!... E quelle mani! E quel naso! E quei denti!... E se i miei amici sapessero?... Che cosa diranno se sapranno una cosa simile? Dove andrò a nascondermi?... E se Donna Clara si offende e non lascia che?... Via! via! Non facciamo sciocchezze!... Torno in me, afferro a volo il soggetto del suo discorso e mi rimetto in carreggiata, rispondendole, interrogandola. La sua storia finisce ed ella chiama, per il lume. Alla luce della lampada che il cameriere ha acceso io mi stupisco della rapidità con la quale il tempo è passato: che cosa sono stato a fare due ore lì dentro? A un tratto s’ode la prima campana del pranzo. Questa volta m’alzo per battermela. Donna Clara mi fa: «Aspettate un altro momento: verrà adesso Betsy.» Insisto per lasciarla in libertà: mi risponde: «E Aspettate che venga Betsy!» e scotendo lentamente un piede riprende a discorrere. Allora un’altra idea mi balena per il capo: che quegli inviti reiterati, quell’eleganza, quei fiori, quei profumi, tutte quelle spese siano state fatte per sedurmi.... Ma è una cosa tanto balorda che rinsavisco del tutto. Chi ha mai imaginato Donna Clara nei panni d’una seduttrice? Chi ha mai pensato che sotto quelle gonne si possa trovare un corpo di donna? Non deve ella possedere ancora intatto il tesoro della sua verginità? Ed io?... Sia lodato il Signore: una specie di doccia gelata mi seda. Mentre ella vuol sapere quando ci rivedremo e se capiterò quest’inverno a Parigi, mentre mi dice di andarla a trovare a Roma, io torno a pensare ciò che ho sempre pensato: che Donna Clara è una di quelle povere creature senza bellezza, senza grazia, senza sesso, le quali cercano un compenso alle mancate gioie dell’amore col dedicarsi tutte ad una causa, col lavorare al conseguimento d’un ideale religioso o sociale. Come ho potuto dimenticare queste cose?... Ed ecco sonare la seconda campana, ed ecco Betsy che s’affaccia dall’uscio. Ci alziamo nello stesso tempo. Donna Clara mi stende la mano nodosa, stringe la mia cordialmente, mi ringrazia della compagnia. Io ringrazio Iddio che mi ha tenuto le sue sante mani sul capo. Avrei fatto un bel marrone, eh? E se mi metteva alla porta? O, peggio, se mi dava del matto? Avrei avuto quel che meritavo, è vero?.... Allora Donna Clara, lasciata la mia mano, va al pianoforte, spicca un giglio dal mazzo e viene ad offrirmelo dicendo, molto tranquillamente: — _E questo per la vostra virtù._ LA VENERE DI SIRACUSA Grazie, amica gentilissima, dell’amabile letterina. Tutti i miei sospetti e tutte le mie supposizioni sono dunque senza fondamento, ed ella non m’ha scritto per un motivo semplicissimo, «per mettermi,» dice, «alla prova». L’esperienza pare sia andata secondo i suoi desiderii; io dirò che, se lei se ne contenta, sono contento anch’io. Quanto a Vico Dastri, avevo proprio indovinato; ella mi scrive che questo mio amico è «insoffribile ma delizioso;» stasera, appena lo vedrò, gli voglio riferire il suo giudizio. Non abbia paura: Dastri non si avrà a male dell’«insoffribile,» anzi se ne compiacerà molto più del «delizioso.» Gli dia anche dell’«impertinente,» perchè egli pensa che quando un uomo è apprezzato dalle donne, vuol dire che vale pochissimo... E, da ultimo, quanto alla sentenza dell’amico mio ed alla storiellina del _Giglio_, ella mi dice una cosa — onore al merito! — giustissima. Sì, Bernazzi avrebbe potuto essere un poco più galante con la Hundington e, pure non spingendo le cose fino a un punto troppo rischioso, dare a quella donna qualche soddisfazione di amor proprio; se così avesse fatto, il vantaggio sarebbe stato tutto suo. Vedendolo andar via dopo due ore che erano soli in una camera d’albergo senza che egli le avesse detto una parola amabile, quasi si fosse trovato dinanzi a un altro uomo, Donna Clara, che aveva fatto unicamente per lui tante spese di civetteria, fu scusabile se, ferita nella vanità muliebre, lo punse con l’ironica offerta del simbolico fiore dell’innocenza; se invece egli avesse dimostrato d’appetire la sua compagna, se avesse finto di lodare la bellezza che la poveretta non possedeva, ella naturalmente si sarebbe schermita, per modestia o mentita o sincera, ed egli si sarebbe potuto ritrarre lasciando di sè un lieto ricordo. Per ottenere questo risultato Bernazzi doveva fingere. Mentre Donna Clara gli pareva disgraziata e peggio che brutta, ridicola, egli doveva darle a intendere che la giudicava seducente. Questa finzione, questa menzogna non sono molto biasimevoli. Tanto è naturale che gli uomini appetiscano avidamente le donne, che essi, come quasi tutti i maschi animali, non debbono quasi aver preferenze: dinanzi a qualunque persona del sesso diverso hanno da rammentarsi del proprio. Quella specie di diritto che le donne hanno acquistato alla lode, alla deferenza, alla reverenza di questi uomini, non riconosce la sua origine nel dovere sessuale di costoro? Noi possiamo asserirlo. Sicuramente la debolezza del sesso chiamato appunto debole diede agli uomini l’obbligo di rispettare e proteggere le loro compagne, specialmente quando il cristianesimo fortificò nei cuori umani i sentimenti di fratellanza e di carità; ma se le donne fossero state deboli senz’altro, voglio dire senza esser necessarie agli uomini, questi non le avrebbero nè protette nè rispettate; e la predicazione d’amore del cristianesimo sarebbe stata poco feconda. Invece gli uomini hanno tanto bisogno di piegare le donne, che per ottenerne l’assenso le esaltano: essi si sono obbligati a lodarle, a incensarle, tutte, indistintamente. Dinanzi a una vecchia, a una gobba, a una storpia, si comportano galantemente perchè da questo loro contegno le giovani e le belle li giudichino degni d’essere amati. A onor del vero bisogna riconoscere che questo calcolo è divenuto incosciente. Bisogna riconoscere ancora che, talvolta, non c’è calcolo di sorta, nè cosciente nè incosciente, e che un istinto pervertito oppure un particolare sentimento induce gli uomini a dimostrare amore per donne vecchie od orribili. Ha ella letto quella novellina di Catulle Mendès dove si discorre del giudizio di Don Giovanni?... Quando l’anima del morto eroe compare dinanzi al Giudice supremo, tutte le donne che in vita egli ingannò, offese e perdè, sorgono a deporre contro di lui: le accuse sono innumerevoli, le testimonianze schiaccianti; pare inevitabile la più severa condanna; ma ecco sorgere a un tratto una vecchia, una donna che già conobbe le dolcezze dell’amore e, volendo ancora gustarle, non le potè più trovare quando, per gl’insulti del tempo, gli uomini già supplici e adoranti la fuggirono e la derisero. Or bene, Don Giovanni, l’insaziabile, non fece come gli altri; si chinò verso di lei, la raccolse, le procurò ancora una volta gli spasimi ineffabili... e per questa carità d’amore egli è perdonato! Catulle Mendès fa opera di fantasia, ed io so che ella non tiene nessun conto delle finzioni. Le narrerò dunque un fatto, una storia vera e non una novella. Il protagonista è un romanziere francese che ebbe gran fama verso la metà di questo secolo e che si legge ancora, quantunque l’opera sua, innegabilmente rivelatrice d’un grande ingegno, non procuri le squisite impressioni e i fremiti arcani dei quali sono avidi gli amanti della dea Arte. Senza tanti discorsi: Eugenio Sue. Eugenio Sue, dunque, s’atteggiava, come tutti gli scrittori del romanticismo, a depravato; ma forse, o senza forse, era naturalmente sano, e la troppa salute dovè nuocere alla sua grandezza se è vero che il genio è una malattia. Per dimostrare la propria corruzione egli narrava agli amici alcune gesta che Alessandro Dumas riferisce giustamente come altrettante prove di bontà. Oda questa. Una sera l’autore dell’_Ebreo Errante_ seguì per via una di quelle creature che i Francesi chiamano _filles_ forse perchè non sono mai madri, e salì in casa di lei. In un angolo della camera — lascio parlare l’autore dei _Tre Moschettieri_ — egli vide un mucchio di scialli, di vesti, di stracci, dai quali usciva tratto tratto un sospiro. — Che cos’è? — domandò il Sue. — Non ci badare, — rispose la mercenaria: — è una mia amica. — Una donna, quell’affare? — Ma sì! — E dove ha cacciato la testa? — Non puoi vederla, la tiene nascosta fra le mani. — Perchè? La mercenaria, chinatasi allora all’orecchio del romanziere, gli spiegò: — Il suo amante le ha gettato in viso del vetriolo: è tutta sfigurata... E la disgraziata, compreso che parlavano di lei, ruppe in pianto. Eugenio Sue le si fece dappresso. — Ah, povera ragazza! — esclamò. — Ti duole, è vero, di non poter più fare la vita? — Qualche volta... — rispose la sfregiata, sogguardandolo di tra le dita. — Qualche volta... quando vedo un bel giovane come te... Allora il Sue andò a spegnere la candela... e poi lasciò anche due luigi sul caminetto. Lo scrittore che con tanta simpatia studiò le umane miserie nei _Misteri di Parigi_, fece dunque una doppia elemosina alla infelice, e noi non possiamo dire quale delle due riuscì più gradita: il denaro o l’amplesso. Sicuramente uno scrupolo caritatevole, l’idea di consolare la deturpata, di dimostrarle che, nonostante la perduta bellezza, qualcuno poteva ancora chiederle — e darle — la sensazione d’amore, spinse Eugenio Sue a quell’atto. Egli che quasi invidiava l’infame reputazione del marchese di Sade — il quale era semplicemente conte — diede una vera prova di gentilezza. Ma che riesca facile imitarlo non è da credere. Quando pure ogni uomo volesse fare la carità d’amore alle donne orride, gli accadrebbe, novantanove volte su cento, come a quei pietosi che, posto mano alla borsa per dare una moneta in elemosina, la trovano vuota... Far concepire una speranza e non appagarla è senza dubbio molto peggio di non far niente; talchè chi prevede di trovar vuota la borsa farà bene di non portarvi la mano... Tuttavia, quando pare che le ricerche siano inutili, può ancora darsi che una moneta si trovi in fondo a qualche scompartimento, e l’atto di carità non è, alle volte, tutto caritatevole, perchè una donna orrida di viso può ancora avere un corpo perfetto; e allora, superata la repugnanza per il viso deforme, l’ammirazione per il rimanente spiega la possibilità d’un atto che non è più generoso, ma interessato. La sciagurata in cui Eugenio Sue s’imbattè aveva soltanto il viso rovinato; le sue forme erano rimaste intatte. Gli anni che sciupano troppo presto la faccia visibile lasciano durare più a lungo le celate bellezze; l’amore per una donna che pare finita mentre possiede ancora secrete seduzioni da far valere resta pertanto spiegato. Senza dubbio le due bellezze sono diversamente importanti, e se le donne, non potendole avere entrambe, fossero costrette a sceglierne una, è certo che tutte eleggerebbero d’avere un volto stupendo con un corpo sgraziato, e nessuna si contenterebbe d’avere un corpo divino con un’orrida faccia. Il giudizio degli uomini forse non sarebbe altrettanto sicuro, e più d’uno, pensando che il viso è una parte troppo piccola e non troppo importante, si rassegnerebbe alla sua bruttezza pur di trovare venusto tutto il resto della persona da amare. Io già la vedo, cara contessa, battere le mani e godere cogliendomi in fallo. Ella dice che l’amore degli uomini deve pur essere materiale, volgare e indegno, se preferisce la consistenza delle membra stupide e inerti, trascurando la perfezione del viso che è il vivo specchio dell’anima. Sì, la bellezza della faccia importa specialmente per questo: che la faccia, la bocca, gli occhi esprimono le interiori qualità della creatura, e la cordiale simpatia e il puro sentimento non si possono destare senza la bellezza del viso. Per una donna orribile di volto e apprezzabile soltanto in ciò che non si vede, si potrà provare un amore fatto soltanto di desiderio, un amore quasi costretto a nascondersi come nascoste sono le qualità di chi lo ispira; ma non è sempre vero, mi consenta di dire, che, tolto il viso, il resto del corpo sia stupido e inerte e senza espressione. Ne domandi, se non mi crede, agli artisti, ai pittori, agli scultori specialmente: li sentirà affermare che, a parte la faccia, l’eleganza delle forme, la purezza dei contorni, l’armonia delle proporzioni hanno una loro propria virtù espressiva e producono, più che un moto di cupidigia, un senso di pura felicità, un vero e proprio e tutto morale sentimento. Ed io le voglio a questo proposito narrare un altro fatterello che fa proprio al caso nostro. C’è nel Museo nazionale di Siracusa un meraviglioso pezzo di scultura greca: una statua di Venere, dinanzi alla quale si resta compresi di stupore e quasi di religioso rispetto. Però, mentre la fama delle sue sorelle di Milo, dei Medici, del Campidoglio, vola per il mondo, la Siracusana è quasi sconosciuta, e solo i vagabondi inglesi che non sdegnano spingersi fino nell’estrema Sicilia sanno qualcosa di lei. Poichè ella non l’ha veduta, avrei il dovere di dirgliene una parola; ma, per fortuna mia, un grande scrittore francese che amò, come gli scialbi figli dell’Inghilterra, girare per il mondo, descrisse con mano maestra la statua della Dea. Riferendole la pagina del Maupassant io eviterò che ella mi accusi di mania descrittiva e mi risparmierò una prova della quale sento tutto il pericolo. Come potrebbero infatti le mie parole esprimere la sublime bellezza del marmo greco? Prima di tradurre il passaggio del mirabile prosatore, io le riferirò una sua dichiarazione. Discutemmo già intorno al prezzo che la bellezza degli uomini ha per le donne, ma non abbiamo detto quanto la bellezza delle donne sia importante per gli uomini. È bensì vero che questi uomini sono tanto accensibili che qualunque donna, anche non bella, può essere oggetto del loro desiderio; tuttavia il desiderio ardente, se per un verso è di facile contentatura, è anche capace d’apprezzare molto più che il tepido le qualità dell’oggetto; così noi vediamo che, mentre tutte le donne possono essere desiderate, pure il loro dovere è di essere belle. Ciò che io vorrei farle particolarmente notare è che l’ammirazione degli uomini per la bellezza arriva a tal grado, da liberarsi dall’istinto erotico che la determina e da mutarsi in un culto quasi ideale, in un sentimento estasiato e purissimo. Già Enrico Heine aveva malinconicamente confessato: «Io non ho mai amato altro che statue e donne morte...» Guido de Maupassant dice: «Se avessi da scegliere fra la più bella delle creature vive e la donna dipinta da Tiziano, io preferirei la donna dipinta da Tiziano». Capovolgiamo la proposizione e facciamo che una donna debba scegliere fra il più bell’uomo vivo e l’Apollo del Belvedere: costei sceglierebbe... un abbonamento a un giornale di mode. L’autore di _Bel-Ami_, dunque, avendo visto nell’album d’un viaggiatore la fotografia della Venere siracusana, narra che s’innamorò di lei «come ci si innamora d’una donna viva. Ella, probabilmente, mi decise a fare il viaggio: io parlavo e sognavo di lei assiduamente prima ancora d’averla veduta.» E arrivatole dinanzi così comincia a parlarne, senza nominarla, quasi non si possa dubitare di chi parla: «Entrando nel museo la scorsi in fondo a una sala, bella come l’avevo imaginata... Non è la donna poetizzata, la donna idealizzata, la donna divina o maestosa come la Venere di Milo; è la donna come realmente è, come noi l’amiamo, come la desideriamo, come vogliamo abbracciarla. E’ grassa, col petto forte, l’anca potente e la gamba un poco pesante; è una Venere carnale che sogniamo coricata vedendola in piedi. Il braccio che ha perduto nascondeva le mammelle; la mano che le resta solleva un drappo per ricoprire, con un gesto adorabile, le grazie più misteriose. Tutto il corpo è fatto, concepito, inchinato per questo movimento tutte le linee vi si concentrano, tutto il pensiero vi corre. Questo gesto semplice e naturale, pieno di pudore e d’impudicizia, che nasconde e mostra, vela e rivela, attira ed evita, sembra definire tutta l’attitudine della donna sulla terra;» — (quell’attitudine contraddittoria, ella noti di passata, sulla quale ho già richiamato la sua attenzione). — «E il marmo è vivo. Vorremmo palparlo, con la certezza che cederà sotto la mano come carne. I fianchi, segnatamente, sono animati e belli in modo inesprimibile. Si svolge in tutta la sua grazia la linea sinuosa e grassa dei dorsi muliebri che va dalla nuca ai talloni e che mostra, nel contorno delle spalle, nella rotondità decrescente delle anche e nella lieve curva del polpaccio assottigliato fino alla caviglia, tutte le modulazioni della grazia umana. Un’opera d’arte non è superiore se non quando è nello stesso tempo un simbolo e l’espressione esatta di una realtà. La Venere di Siracusa è una donna, ed è anche il simbolo della carne.» Qui il Maupassant fa una digressione per parlare di quell’amore misterioso e mistico che suscita la testa della Gioconda e lo sguardo di certe donne vive. La Venere di Siracusa non ha testa. E ciò nonostante, quantunque per la mancanza del viso e dello sguardo parrebbe dover mancare anche l’espressione, ella ha pure il suo significato. Se lo sguardo di certe donne ci dice cose che realmente non sono nelle loro persone e determina in noi un’esaltazione per la quale ci crediamo capaci di spiccare le stelle dal cielo, altre eccitano nelle nostre vene l’impetuoso amore dal quale è uscita la nostra razza. «La Venere di Siracusa è la perfetta espressione di questa bellezza potente, sana e semplice. Ella non ha testa! Che importa? Il simbolo è perciò stesso più integro. E’ un corpo di donna che esprime tutta la poesia reale dell’amplesso.» Ora un pittore tedesco amico mio, Franz von Rödrich, andato anche egli in pellegrinaggio a Siracusa per ammirare il portentoso marmo, ne restò, come accadde al Maupassant e come accade a quanti hanno occhi, turbato e quasi oppresso. Egli non era solo, un giovanotto suo connazionale lo accompagnava. Dovevano partire il domani per Malta e Tunisi, e non sapevano come occupar la serata in quella piccola città che, racchiudendo tante memorie d’un grande passato, è troppo sprovveduta delle attrattive della vita presente. L’artista sarebbe andato a letto se avesse potuto dormire, se la contemplazione del capolavoro non l’avesse sconvolto come ci sentiamo sconvolti incontrando una troppo bella creatura di carne e d’ossa. Seguì pertanto, sperando distrarsi, il suo giovane amico, al quale la vista della Venere aveva messo addosso un’altra febbre, meno pura e più facilmente guaribile. Nonostante il contrario consiglio di un cicerone di piazza, l’acceso giovanotto volle andare in cerca di veneri vive; e la turpitudine del luogo e l’orrore delle due sole creature che lo popolavano non valse a tranquillarlo; scelta la meno orrida, andò con lei. L’artista restò solo, disgustato, pentito di aver accompagnato il troppo ardente amico, e con la mente perduta dietro la raffigurazione della sublime bellezza della statua, col rammarico di non essere vissuto ai tempi che gli artefici incontravano i viventi modelli di simili opere. Siracusa! La Magna Grecia! La statua di marmo pario! La Venere callipige! Ateneo e Lamprido!... Egli ripeteva tra sè quei classici nomi, quasi assaporandoli, quasi esprimendone la secreta virtù prima di abbandonare i memorabili luoghi dove forse non sarebbe tornato mai. I luoghi erano immutabili, ma come il tempo aveva compito l’opera sua! Il teatro era vuoto, vestito d’erba; il tempio di Diana era divenuto una mediocre cattedrale di provincia: non più Dionisio udiva dall’alto dell’orecchiuta latomia le voci dei prigionieri; il papiro dell’Anapo dava inutilmente al vento le verdi chiome vegetali, spodestato dalla carta fatta di stracci. E che cosa era divenuta la razza, l’uomo e la donna, dopo tanti miscugli di sangue? Come paragonare, senza sentirsi stringere il cuore di pietà e senza fremere di sdegno, la statua del Museo alla turpe creatura che gli stava dinanzi e che tentava di eccitarlo?... A un tratto egli udì gridare: «Franz!... Franz!... Franz!...» Era la voce del suo giovane compagno. Franz accorse, cercandosi istintivamente un’arma addosso, credendo che l’amico chiamasse aiuto, rammentandosi le parole del cicerone che li aveva sconsigliati d’avventurarsi in quei luoghi... Egli s’ingannava, nessun pericolo li minacciava; il compagno lo chiamava per farlo partecipare alla sua meraviglia. La donna che questi aveva portata via, con una testa orribile e ignobile, irregolare, cotta dal sole, premuta da una zazzera untuosa come quelle delle Abissine, aveva il corpo della statua. Viva, calda, palpitante, essi si vedevano dinanzi la forma di Venere: avevano toccato il marmo ed era parso loro carne; ora toccavano la carne che parea marmo. Le loro mani tremavano nel premere le polpe scultorie; la loro meraviglia era estatica, non riusciva a saziarsi. Chi li avrebbe creduti, quando avrebbero narrato l’incontro? Aver visto la statua della Dea qualche ora prima, quelle forme che tutti i viaggiatori ammirano con un secreto senso di sfiducia, pensando che l’arte sola ha potuto plasmarle, ma che in realtà quella perfezione non esiste; e trovarle qualche ora dopo, non di pietra inerte, ma di muscoli elastici, e così perfette, in ogni parte, in ogni linea? Tutta lei, nel seno, nei fianchi, nel grembo: tutta lei, dai piedi al collo; solo la testa, la testa orrida e turpe, pareva una terracotta barbarica sovrapposta al marmo di Paros! Il signore di Sade, redivivo, avrebbe pensato di decapitare quel corpo; Franz von Rödrich ripensava le parole del Maupassant: «Non ha testa! Che importa? Il simbolo è per ciò stesso più integro. E’ un corpo di donna che esprime tutta la poesia reale dell’amplesso....» L’ESTRO Diciamo il vero, signora mia: la dose d’ingenuità della quale madre natura volle provvedermi dev’essere proprio grandissima se da due mesi, contro le ostinate denegazioni di lei, e con la previsione dell’inutilità d’ogni ulteriore insistenza, io persevero a dimostrare concetti che ella dice arbitrarii, riprovevoli e insostenibili. E giacchè siamo a parlare d’ingenuità, le confesso proprio ingenuamente che comincio ad essere un poco stanco di predicare, come si suol dire — nè il paragone ha nulla d’offensivo per lei! — di predicare, come si suol dire, al muro. Ella è più salda nelle sue idee di un buon muro di sassi e di cemento! E di questa cosa evidente, della quale le ho dato una moltitudine di prove — senza che ella le abbia distrutte con prove contrarie! — cioè che l’amore degli uomini è una passione fortissima, uno struggimento ineffabile, un impeto veemente, senza fine maggiore di quello delle donne, ella non si vuol persuadere. Ella mi ricanta il solito ritornello: gli uomini amano più con i sensi; ma con l’anima amano meglio le donne; l’amore degli uomini è più positivo e pratico; più ideale e poetico è l’amor delle donne!... Ma, in nome di Dio, entri in una biblioteca e ne sfogli il catalogo. Quanti sono i libri d’amore, d’amore romantico, poetico e ideale, scritti dagli uomini? Sono milioni! Quanti quelli scritti dalle donne? Forse uno, in proporzione. E tutta la poesia che esiste al mondo sarà stata scritta dagli uomini senza che essi la sentano; mentre invece soltanto le donne sentiranno poeticamente; le donne, che di questa loro sublime poesia non ci riferiscono neppure una rima?... E’ vero, è purtroppo verissimo che uomini e donne non si possono intendere perchè ciascun sesso considera le cose sotto un certo aspetto tutto suo proprio; ma c’è pure una logica superiore al modo di ragionare dei sessi; e questa logica dice che la poesia delle donne amanti dev’essere un sentimento mediocrissimo, se non si esprime, se non le spinge a cantare; mentre forte e grande e sublime è la prorompente poesia degli uomini innamorati che empiono il mondo dei ritmici gridi della loro passione!... Sissignora: la prima sartina incapricciata del primo commesso di negozio che le dice una galanteria, spasima d’ideale e poetico amore; mentre l’amore di Francesco Petrarca e di Alfredo de Musset, di Dante Alighieri e di Giorgio Byron, di Enrico Heine e di Ugo Foscolo e di Victor Hugo e di Leopardi e di Shelley e di Goethe e di Lamartine è una roba — adesso scrivo in milanese! — tutta prosaica e materiale! Io avevo messo da parte per lei, secondo la promessa fattale altra volta, alcune cose di Ermanno Raeli. Ella che non giudicò detestabili, come al povero amico mio parevano, le sue poesie, mi richiese di cercare se tra le carte del defunto se ne trovavano altre. Precisamente io avevo trovato un passaggio del suo giornale pieno di versi, e volevo trascriverli e mandarglieli senz’altro; ma la sua lettera odierna mi spinge a fare un’altra cosa. Queste poesie del Raeli sono intercalate in mezzo alla prosa, si riferiscono ad un suo stato d’animo, ai sentimenti che egli provava nell’atto di scrivere certe sue note. Or bene: egli aveva incontrato allora allora Massimiliana di Charmory e s’era innamorato di lei. Che cosa fu l’amor suo io narrai altra volta: qui ella leggerà dentro all’anima amante, assisterà all’improvviso divampar della fiamma. Perchè ella dia a queste note il loro giusto valore, comincerò col trascrivere le precedenti, le pagine anteriori all’incontro, nelle quali egli significa la sua depressione e il suo disgusto. Quando d’una donna che s’innamora ella mi riferirà qualcosa di simile, io le darò ragione. Noti che non le do ora queste pagine come sublimi: sono anzi molto mediocri, ma dimostrano di che straordinaria eccitazione, di che prodigiosa esaltazione, di che intellettuale e sentimentale fioritura è causa nel cuore d’un uomo l’amore. Ed eccole: avverto ancora che trascrivo senza mutare una sillaba, senza alterare neppure la disposizione dello scritto; rammento infine, per certe stranezze di stile, che Ermanno Raeli, come mezzo tedesco, scriveva spesso in un italiano tutto suo. ———— _Martedì, 3._ — Piove. E’ la stagione floreale, e piove. Il cielo è di fuliggine, la terra è di fango. _Mercoledì, 4._ — Ricomincia a piovere, l’aria è calda e umida, una viscida bava pare sia stata spalmata su tutte le cose da un popolo di lumache e di serpi. _La sera di Giovedì._ — Un cielo di Goya, lubrico, infame, pieno di turpi visioni. _Sabato._ — Ora un sole di fuoco scotta ed abbrucia. La campagna fumiga, tutte le putredini fermentano sotto la terra acre. _9 sera._ — Questi fiori sono germinati dalla putredine. Mi disgustano tanto quanto certe carni di sozzi animali che si nutriscono degli escrementi. _Il 15._ — Per le vie io mi diverto a osservare l’andatura delle persone. Alcuni strisciano tortuosamente come rettili, altri saltellano come conigli, altri incedono come pachidermi. E l’impronta animalesca è nei loro visi. Certi nasi sono proboscidi, certe bocche sono grifi; ecco due orecchie pendule come quelle del bracco. E gli occhi! gli strabuzzati occhi bovini, gli occhi ferini del gatto, gli occhi rapaci del gufo! E le mascelle prognate, come quelle degli antropoidi! Se io stesso mi guardo allo specchio, l’espressione bestiale che scopro nel mio viso mi abbrutisce. Siamo tutti bruti. Niente ci differisce dai bruti. Udite le voci: nel piacere si grugnisce, nella preghiera si miagola, nella collera si abbaia; il grido del nostro dolore è in tutto simile a quello del dolore animalesco. _Sera._ — Io guardo le donne, le eredi della bellezza. Non una, non una che me la riveli. Già le forme sono troppo nascoste dall’abito; e l’abito è goffo, innaturale e snaturante. Molte, la più gran parte, ne sono oppresse come le testuggini dalla scaglia; altre, quelle che chiamano regine della moda, lo sfoggiano come il pavone le penne. E i visi sono artefatti, le chiome o tinte o accresciute di peli morti, tolti a cadaveri; la pelle vellutata dai cosmetici e dalle polveri, le orecchie stirate dai pendenti come tra i Barbari. Bene è che i corpi siano nascosti, senza di che noi vedremmo una più lamentevole vista! _Giovedì, 18._ — Ho incontrato una bella donna. La mia critica non ha potuto esercitarsi su lei. Era bella. Ma, sovraccarica di vistosi ornamenti al pari d’un idolo, il suo viso era vuoto d’espressione come quello d’un idolo di stucco o di marmo. _Sabato, 20._ — Queste bellezze muliebri sono tutte vuote. Il loro sguardo è stupido, come la loro mente è pigra. In nome di Dio, evitate di udirle se non volete piangere della loro sciocchezza. _Domenica._ — Forse la colpa è mia? Forse è il mio occhio, il mio giudizio, quello che niente riesce ad appagare? Forse un troppo alto ideale mi fa sentire tutto meschino? Se io leggo nel libro d’un grande scrittore non ammiro tanto le pagine sublimi quanto m’indugio e quasi mi compiaccio dinanzi ai passaggi meno felici, ai segni della fatale umana imperfezione. Io sento tutto imperfetto, manchevole e maculato. _La notte._ — I miei versi! Ho riletto i miei versi antichi. Miseria ed ignominia! Io ho scritto queste cose!... _Lunedì, 30._ — Gli uomini si festeggiano mangiando insieme. L’animalesco bisogno del cibo, che bisognerebbe contentar da soli, di nascosto, si soddisfa in comune, solennemente, tra faci e fiori. Le bocche si aprono, le mascelle masticano, gli esofagi ingozzano il bolo che la saliva ha impastato... _Mercoledì, 14._ — Non c’è poesia senza bellezza e senza amore. Dove trovare una bellezza e come nutrire ancora un amore? _Dopo un mese._ — Come è lungo il tempo! _Tornando dal Museo._ — La bellezza espressa dall’arte, nel quadro o nella statua, è quasi perfetta e certamente amabile. Ma è anche muta ed è anche falsa: nella realtà non esiste. _Sabato, 7._ — Forse il solo spettacolo capace ancora d’accendermi è questo della natura. Le rive boscose che si riflettono nelle acque d’argento, le sinuose linee dei monti, ora graziosamente inclinate e digradanti, ora erte e sfidanti il cielo; un paese lontano in mezzo a un virido piano o ad una valle rocciosa; un promontorio che s’allunga come una schiena immensurabile, un seno d’acque lucenti al par d’uno specchio, attraggono l’occhio mio, mi contentano e acquetano. _Lunedì, 9._ — Questa natura è sublime. Più la contemplo più sento un’eccitazione secretamente prepararsi dentro di me; ma tosto ritorno allo scontento e alla disperazione di prima pensando che non ho alcuno cui comunicare l’eccitazione mia. Se pure io trovassi una creatura cui sentissi di poter dire tutto ciò che s’agita nell’anima mia, come potrei dirle queste cose? Esiste una creatura non solamente capace d’intendermi ma di farmi parlare? _Martedì, 22, sera._ — Eccola. _Otto ore._ — E’ lei. _Mercoledì._ — La mia mano trema. Non so più scrivere. Volevo fissare sopra una pagina lo stato dell’animo mio, dire il mio turbamento, esprimere la meraviglia, la gioia, la gioia ancor quasi incredula, la meraviglia quasi ancor sospettosa; volevo indagare il tumulto di sentimenti che imperversa dentro di me, e non ho potuto dir nulla. Forma della Bellezza, lo sguardo tuo mi parla. Io mi sento rinascere. Io sogno. Io vivo. Dice una voce chiusa che questo sogno svanirà; e non me ne dolgo, e la tristezza delle previsioni oscure è incapace di sedar la mia febbre. Da un canto interiore, dalla musica delle cose, io mi sento spronato come dal clangore d’un’epica marcia. Partirò, me ne andrò lontano, riprenderò la vagabonda mia vita. Ma la memoria sua, come una luce pura, schiarirà la mia vita. Che dire? Sinfonia. Il silenzio, la pace. Dormono l’acque dei ricordi, come uno stagno. Il silenzio, la pace; dormono le Memorie... Non è questo. Non so dire. Chi mi suggerisce? Tu Bellezza, tu Grazia, tu Dolcezza ti chiami... No, no, no. Forma della Bellezza, Anima sospirosa, non ti vedrò piú mai. Ecco. Ho trovato. Lucente Anima pura, perchè sul mio cammino prima non t’incontrai? Ah, se mi fossi apparsa quando, di fede acceso, anch’io credei, sperai! Quando non conoscevo il pianto e la vergogna! Allora io t’aspettai! Or che passata è l’Ora, mi son vietati i cieli sereni ove tu stai. Grazia, Purezza e Riso, l’orrore della vita non puoi saper, non sai. O, generosa e buona, conforto del tuo pianto alla miseria dài. Ma guai al vinto, se tenta ancora illudersi, sognare, sperare; al vinto, guai! No, la Speranza è morta per mano del Dolore: è troppo tardi ormai. Io sparirò. Ma innanzi di perderti per sempre, odi: vissuto ho assai se pur t’ho conosciuta, se a te d’accanto un giorno vivere meritai. Forma della Bellezza, Anima luminosa, non ti vedrò più mai, ma Fior della memoria, immacolata Idea, Spera d’ardenti rai, Faro delle mie notti, Sole dei giorni miei, eterna in me vivrai... Il pianto è dolce, soave, grato. Quantunque io disperi, la mia disperazione non è insopportabile. Forse una secreta inconfessata a me stesso speranza germina nell’anima mia? Vederla! Vederla! Ancora vederla! Nutrirmi ancora della sua vista! Voci di gioia. Parole arcane. Sospiri e fiamme. Ah! le parole, le parole sonore, clamorose, squillanti, le parole che dicano tutto, io so le parole, sento di poterle trovare. Come un liquore di fuoco scorre per le mie vene; io mi sento travolto da un turbine risplendente e risonante. Il tempo precipita. Ho bisogno di cantare. Io ho riso della poesia, me ne sono vergognato come d’un linguaggio ridicolo, fuor della vita, fuori del vero. Ora il linguaggio di tutti i giorni mi par rigido, frigido, vuoto ed ingrato. Io canterò la sua bellezza buona, io canterò la grazia sua soave. Ecco che le mie frasi, senza ch’io me ne accorga, prendono naturalmente la misura del verso. Cantare, cantare: sciogliere un inno che echeggi nei secoli! No, Ella non vuole. Un dolore secreto la rode. Ella non vuole udire i superbi canti della gioia, ma i canti sospirosi della pietà. Quale dolore cinge la sua fronte? Che visioni ricordano i suoi sguardi velati? Muta, lassa, dolorosa. Ella passa nella Vita. La divelta rosa langue, china il capo, scolorita. O pallore della fronte pura, della mano pura, o dolore senza fine delle labbra sigillate! Nostalgia d’altri cieli, agonia dell’amore: chi può dire la passione che la strugge? Chi guarire la potrà? Forse un’urna di memorie ha nel cuore, e di pianti sanguinosi la conforta. Taciturna, come morta. Ella passa. Che pietà! No, io non esercito più la mia critica. Che è la critica, l’ingrato, l’inutile, lo sterile esercizio? Io vivo, io vivo, io vivo. Crea la mia mente, il cuore palpita; le mie parole traducono il ritmo del cuore. La sera è calata. Io sono lontano da lei, ma così pieno di Lei come se Ella fosse compenetrata e confusa in me. Non alitar di vento, non voci; divino Silenzio. Già l’Ombra nuziale tutte le cose cinge... Un altro poeta già chiamò nuziale l’ombra. Io ripeto l’imagine felice. L’ombra è nuziale. Che altre imagini misteriose essa risveglia! Non bisogna indagare. Il velo dell’ombra nuziale cinge, nasconde tutte le cose. Le vegetali forme, immote nell’aria clemente, posano anch’esse in braccio al Sonno prestigioso. Il salice argentino che sogna? Che sogna il nebbioso ulivo, il rovo ardente, la folleggiante vite? L’anima della pia Desdemona bianca tremante erra d’intorno al salce, prega, sospira, geme. Sere lunghe d’inverno, il Ceppo, le fiamme guizzanti, gli urli dell’aquilone, i baci della neve sogna l’ulivo; e il rovo un cuor lacerato che gronda sangue, due rosse labbra, rosse di sangue umano. Danzar felici amanti al rezzo di folti aranceti, al carezzoso suono di flauti e di viole, correr Fauni e Baccanti, disciolte le chiome, roventi le fronti inghirlandate, mirano l’ebre viti. E i monti secolari, e l’acque perenni, voraci sepolcri di viventi, sognano anch’essi. L’Ere sognano disparite, i tempi che l’uomo non visse, le prime operazioni della virtù vitale. E l’Anima turbata, oppressa, smarrita, perduta, l’Anima vulnerata, l’Anima senza speme, l’Anima senza pace per nuovo prodigio si placa, le spasimate veglie tregua han di sogni alfine. Sogno! Visione! Ebbrezza! O come lontani i tormenti! Vinto è l’orrore, vinti i malefizii sono. Giorni delle speranze ingenue, dei buoni pensieri, giorni di pura fede, o tramontati giorni, ecco: sorgete ancora, risorge il Passato, la santa gioia dell’innocenza ecco fiorisce ancora. Anima tenebrosa, la luce t’inonda, il sorriso d’una miracolosa Anima sfolgorante schiara la notte tua, ti trae dagli oscuri perigli, nitidamente addita le vie della salute. Tempo, t’arresta! Vita, rattieni il tuo corso fatale! Sogno, sorridi ancora! Volgi tu eterna, o Notte!... Non alitar di vento, non voci, non suoni, non moti: alta, soave, augusta, o non sperata Pace! Ahi! Già si sbianca il cielo!... Distrutto è l’incanto supremo; fuggono le visioni, riede il dolor col sole... ANACRONISMO _Cara Contessa_ Hauptig di Mannheim, celebre artista tedesco di cui ella avrà sentito qualche volta parlare, fu, anni addietro, in Italia, e precisamente a Roma. Abitava in una casa mobiliata, in via Margutta, dove stavano altri artisti; ma egli non aveva neppur veduto i suoi vicini, occupato com’era tutto il giorno a lavorare. Il lavoro di questo mutabile ed inquieto dilettante al quale nessuna forma dell’arte è sconosciuta consisteva allora nella pittura. Il suo studio, un immenso stanzone al quarto piano, riceveva luce, dalla parte del cortile, da due balconi aperti sopra un ballatoio che girava lungo tutti i quattro muri interni del fabbricato e sul quale si aprivano tutti gli altri balconi delle stanze di quel piano. Siccome non era diviso da cancellate, i casigliani potevano comunicare facilmente gli uni con gli altri; ma Hauptig, nascosto dietro le sue tele, non aveva notizie del resto del mondo. Un giorno, mentre disegnava un paesaggio, udì grida infantili e un rumore affrettato di passi e un esclamar minaccioso: — Monella!... monella!... Egli aveva appena sporto il capo, quando vide una bella bambina di otto o dieci anni precipitarsi, dal balcone aperto, nello studio e quasi trincerarsi, con aria tra spaventata e trionfante, dietro di lui; mentre una donna, fermatasi sulla soglia, esclamava ancora, ma con voce più concitata: — Torna a casa, monella!... — e, alla vista del pittore, soggiungeva confusa: — Scusi, signore... scusi... Questi benedetti bambini!... L’artista s’alzò, prese per mano la fanciullina, le diede una chicca e con belle maniere la rappattumò con la mamma. Giacchè era proprio la mamma, come egli seppe durante un breve scambio di nuove scuse e di complimenti. Così fece conoscenza con la vicina. Da quel giorno, la bambina che aveva guardato con grandi occhi attoniti le tele disseminate per lo studio, cominciò a fare qualche visitina al suo protettore d’un momento. Si metteva a sedere sopra uno sgabello e restava estatica a guardare il lavoro dell’artista, così tacita e tranquilla che spesso Hauptig ne dimenticava la presenza; finchè la madre, comparendo un momento dal balcone, chiamava: — Rosetta!... Ancora a disturbare il signore?... — e la piccolina, salutato gravemente il suo vecchio amico, andava via. La madre era molto bella; alta, bionda, ben fatta; ma Hauptig, dopo averla conosciuta, era rimasto più calmo di prima: non aveva neppur pensato di farle una visita, e la vedeva appena un istante, quelle rare volte che Rosetta, indugiatasi nello studio, la costringeva a venirla a chiamare. Nè, tanto meno, la donna mostrava d’esser rimasta turbata dall’artista; non aveva neppure avuto la curiosità, tante volte che s’era affacciata sulla soglia dello studio, di entrarvi. Un giorno che il pittore lavorava, solo, ella apparve dinanzi al balcone, col cappellino in testa e l’ombrellino in mano, come se stesse per andar fuori o rincasasse proprio allora. Disse: — Rosetta, ancora qui?... — ma la bambina non c’era. Hauptig si levò e andò a salutarla, spiegandole che la sua piccola amica non s’era vista. Restarono così un poco a parlare del lavoro del pittore; senza che nessuno dei due sapesse come, si trovarono vicini alla tela già quasi finita. Dinanzi al quadro, la donna espresse, con parole che parevano sincere, la propria ammirazione; e Hauptig, solleticato nella sua vanità d’artista, mostrò gli altri suoi studii. Per osservare con agio un grande cartone pendente da una parete, ella sedette un poco sul divano. Hauptig si mise al suo fianco, spiegandole il soggetto. E a un tratto, vicino a quella donna bella ed elegante che gli parlava il dolce linguaggio della lode, dal cui corpo esalava un profumo acuto e turbatore, l’artista che non le aveva ancora dedicato un pensiero sentì la vampa del desiderio salirgli alla fronte; ma d’un desiderio violento, furioso, che gli annebbiò la vista e gli fece allungare le mani... E quella donna che non s’era mai occupata di lui, che non aveva ancora avuto neppure la curiosità di varcare la soglia dello studio, si lasciò prendere come da amante amato... Non c’era stato fra loro null’altro fuorchè l’incontro di due desiderii e l’appagamento di due appetiti: l’artista tornò alle sue tele, la donna... a che cosa? Hauptig non ne sapeva nulla. Non sapeva se era maritata o vedova o libera, se aveva altri figliuoli, che cosa faceva in casa e fuori. La bambina tornava spesso a veder lavorare il pittore, e la mamma s’affacciava a chiamare: «Rosetta!» col tono un po’ corrucciato che soleva prendere quando la scopriva nello studio. Due, tre, parecchie altre volte ella tornò quando la bambina non c’era; nell’andar via gli dava convegno per un altro giorno, ma spesso non manteneva la promessa. Quando finalmente appariva, inaspettata, non dava ragione della mancanza; nè Hauptig ne chiedeva, un poco per discrezione, ma più per indifferenza. Quelle visite gli facevano comodo, e nient’altro; nè la sua amica chiedeva giuramenti o promesse, nè parlava di sacrifizii o di rimorsi. In quattro o cinque mesi non si scrissero un rigo, non scambiarono una sola parola _romantica_. Finalmente, stanco della pittura e chiamato in Germania da gravi interessi, l’artista annunziò un bel giorno che doveva partire. Nessuno versò una lacrima; si strinsero la mano da buoni amici che si debbono reciprocamente molte ore piacevoli. Ci fu, invero, la promessa di scriversi, e anzi Hauptig lasciò il suo indirizzo di Mannheim; ma nè ricevette nulla, nè si ricordò della promessa. I mesi passarono un dopo l’altro; passò un anno, ne passarono due. Dopo due anni egli aveva quasi dimenticato quella donna, la cui figura si perdeva in mezzo a tante altre incontrate un momento e scomparse, quando un giorno ricevette una lettera scritta con carattere sconosciuto. Era di lei. Gli si rammentava, sicura ch’egli l’aveva già obliata. Gli chiedeva sue notizie, glie ne dava di Rosetta e di sè stessa. Diceva d’aver sofferto, senza spiegare nè come nè perchè. Tutta la lettera era scritta con un tono d’affettuosità timida, umile e quasi paurosa. Sperava di ricevere una risposta. Hauptig, molto stupito, sospettò una cosa volgare ma naturale: colei preparava una domanda di quattrini. Però, curioso com’è, rispose senza far trasparire il suo sospetto, mantenendosi sulle generali. Ricevette una seconda lettera più calda della prima, e senza che avesse ancora risposto a questa seconda, una terza ancora più appassionata. Quella donna non aveva bisogno di danaro, ma d’un po’ d’affetto; con espressioni amaramente dolenti gli diceva di non aver raccolto sul proprio cammino altro che disinganni e tristezze; solo il ricordo di lui non era avvelenato, ed a lui si rivolgeva in un momento di nero sconforto. L’artista, un poco intenerito, un poco lusingato, ma più che altro curioso, rispose secondandola; e in breve le lettere di lei si moltiplicarono, piovvero tutti i giorni. Esse erano traboccanti di passione, scottanti di amore, bagnate di lacrime: Hauptig non ne aveva mai lette di simili. Ella non spiegava nulla, non diceva perchè era rimasta tanto calma quando, avendolo vicino, gli si era data senza sentir nulla per lui; nè perchè aveva lasciato passare due anni senza scrivergli una parola, quando poi, tutt’ad un tratto, il ricordo di quest’uomo doveva brillare nelle tenebre della sua esistenza, sino a fugarle. Ma aveva ella veramente bisogno di spiegare queste cose; e, benchè ignorasse le circostanze speciali nelle quali quella donna si era trovata al tempo del loro incontro e nelle quali si trovava adesso che tanta distanza li divideva, l’artista non era in grado di comprenderne la natura? Forse, quando s’erano incontrati, ella amava un altro, ed aveva ceduto a lui per capriccio, per curiosità, per debolezza; forse, con l’anima libera e serena, non aveva ascoltato altra voce fuorchè quella dei sensi: chi sa? Sono tante le ragioni per le quali il cuore resta freddo! Più rare sono quelle che lo infiammano; e la sofferenza della quale ella parlava non dava ragione del mutamento? Abbandonata, tradita, delusa, il bisogno di una cordiale consolazione era naturalmente nato in lei, ed ecco che la memoria di quell’uomo s’era ad un tratto svegliata. La rammentava egli ancora? Come pensava a lei? Perchè non le aveva mai detto una parola d’amore e non le aveva mai scritto? Aveva forse capito che, amando ella un altro, egli non poteva menar vanto del suo breve trionfo? L’amor proprio offeso lo aveva ridotto al silenzio? Forse egli era buono, diverso dagli altri, capace d’un sentimento sincero; forse anch’egli aveva sofferto... e non ci voleva altro che la spinta perchè, lavorando di fantasia, ella cominciasse ad attribuire tutte le qualità a quello sconosciuto e trovasse cento ragioni d’interessarsi a lui. Quando l’imaginazione aveva compito l’opera sua, ella aveva arrischiato la prima lettera; e per le risposte incoraggianti il sentimento era divampato, gagliardo e contagioso. Perchè, a leggere quelle lettere, a sapere quell’anima unicamente occupata dal suo ricordo, un turbamento profondo s’era prodotto nell’anima dell’artista; e quelle due creature che da vicino si erano amate al modo volgare, adesso che non si vedevano più e disperavano perfino di potersi mai rivedere, spasimavano entrambe d’ideale amore. Le ho voluta narrare subito questa storia, mia cara amica, per rispondere alle sue ultime osservazioni. Ella si compiace pensando che nelle anime grandi, ed anche nelle umili, che non siano però volgari, l’amore comincia con un puro commovimento. Se il poeta letterato compone il carme laborioso, il poeta contadino improvvisa la strofe ingenua, l’agreste stornello. Mentre l’istinto è aggressivo, impaziente, brutale; il sentimento è sommesso, delicato, remissivo. Dopo un tempo più o meno lungo la poesia dà luogo, ella dice, alla prosa; ma io non le farò il torto di dare al suo pensiero un significato che non ha e non potrebbe avere. Ella si lagna, è vero? perchè la prosa soffoca e disperde la poesia; ma riconosce, naturalmente, che non si può vivere di poesia unicamente. Ciò che ella chiama prosa, sopravviene necessariamente, e deve sopravvenire; ma senza soffocare la poesia, anzi alimentandola. La poesia che, se dapprima è purissima, è anche un po’ troppo nebulosa e inconsistente, diventa, dopo, mescolandosi alla prosa, un poco più torbida forse, ma anche più forte, più vera, più umana. Questo è l’ordine consueto delle fasi d’amore: un primo tempo di commozione tutta morale; un successivo risveglio dei sensi latenti, un periodo nel quale la poesia dà così strettamente la mano alla prosa che la prosa è tutta poetica. Ma non potrà accadere che la voce dei sensi predomini fin dal primo principio? Che l’istinto, troppo veemente, si manifesti subito com’è, senza alimentare il sentimento poetico? Certo, ciò non solo può accadere, ma accade ogni giorno; ed a lei che giudica così male l’amore degli uomini io non avrò bisogno di dire quante volte, anche dinanzi a donne che potrebbero nobilmente ispirarli, essi non provano altro che un semplice appetito. Certo è pure che con la repentina eccitazione dei sensi l’amore resta quasi sempre tutto sensuale; ma il sentimento mancato sul principio può sopravvenire. Se, d’ordinario, la poesia iniziale si unisce più tardi alla prosa e anzi, secondo alcuni, si converte tutta in prosa, l’ordine delle fasi d’amore può capovolgersi e ad una prosa iniziale seguire una commozione poetica. Il caso di Hauptig di Mannheim mi pare un bell’esempio di questa specie di anacronismo morale, il quale non è molto frequente ad osservarsi; ma prova nondimeno, quando si avvera, che sentimento ed istinto non sono, come i materialisti vorrebbero dare ad intendere, la stessa e identica cosa, ma due diversi elementi della passione, che neppure si trovano sempre associati. IL GRAN RAPPORTO _Cara contessa_ Io ebbi, conveniamone, un’eccellente ispirazione lasciando parlare Guy de Maupassant intorno alla Venere di Siracusa. Se ella critica con tanta vivacità le affermazioni del grande scrittore, che cosa avrebbe fatto delle mie? Il Maupassant è morto, e non può difendersi; debbo difenderlo io? L’impresa mi pare, sotto ogni riguardo, inopportuna. Ma è pur necessario che io risponda qualcosa alle sue ultime critiche. Sì, cara amica, c’è una _poesia reale_: queste due parole messe insieme dall’autore di _Notre Cœur_ non sono nient’affatto stonate. Se io non m’intrattenessi ora con lei ma con un militare, temerei di dar luogo a qualche curioso equivoco parlandole d’un «gran Rapporto». Il militare intenderebbe quell’adunanza alla quale il comandante chiama tutti i suoi ufficiali dopo la manovra. Con lei, ed al punto al quale siamo della nostra controversia, non ho bisogno di spiegare che il gran Rapporto del quale ho da occuparmi è quello che intercede fra il sentimento e l’istinto. E la quistione è così posta: l’amore non può esser fatto di sola poesia, senza di che avrebbe ragione quel capitano di cui le narrai tempo addietro la pietosa avventura: e neppure di sola prosa, cioè di soli appetiti, senza di che nulla ci distinguerebbe dai semplici bruti; ma le due cose, preceda l’una o pur l’altra, debbono poi andare insieme e darsi la mano. Ora, se noi dobbiamo cercare il peso di questa poesia e di questa prosa insieme operanti, bisogna riconoscere che, sebbene il peso della poesia sia grandissimo, pure quello della prosa è ancora un poco più grande. Consideri una pianta. Il tronco s’erge nobilmente, al pari d’una colonna; i rami, via via più sottili, delicati e graziosi, si distendono tutt’intorno bizzarramente; le foglie, tinte di un verde purissimo, venate come da una sottilissima rete, sono cose di bellezza. Che dire del fiore? della sua forma, dei suoi colori, del suo profumo? Orbene: tutte queste cose nobili, delicate, belle, squisite, sono pure sopportate, anzi derivate dall’oscura, dalla nera, dalla poco netta radice. Noi potremo tagliare il nobile tronco e i rami bizzarri, potremo spiccare le foglie delicate e i fiori balsamici; ci parrà, sì, che essi stiano da soli, che vivano d’una propria lor vita indipendente; ma la radice è sempre quella alla quale essi tutti la debbono. Ogni qual volta l’amore sembra un purissimo spasimo, il meno puro istinto — ma questa distinzione di diversi gradi di purezza non esiste in natura, è tutta opera nostra! — l’istinto a nostro giudizio meno puro si trova alla sua origine. Esso potrà restare e resta moltissime volte nascosto, ignoto allo stesso amante nel quale opera; ma da un momento all’altro, e quando meno si pensa, può rivelarsi. Di queste subitanee, impreviste, imprevedibili e quasi direi intempestive rivelazioni io voglio oggi darle due curiosissimi esempii. C’era una volta un uomo, un marito, il quale, amando d’un indicibile amore sua moglie, d’un amore che era poesia e prosa, spasimo ideale e reale, sentimento dell’anima e impeto dei sensi, una cosa insomma perfetta, ne era ripagato tanto male che da più tempo portava quello che il nostro grande poeta Ariosto chiama araldicamente il cimier di Cornovaglia. Tuttavia la destra infedele aveva saputo tenergli nascosta l’immeritata disgrazia; e tanto più facilmente era riuscita ad ottenere l’intento, quanto che, come dice sempre il nostro divino Lodovico, L’incarco delle corna è lo più lieve Che al mondo sia, se ben l’uom tanto infama: Il vede quasi tutta l’altra gente, Ma chi l’ha in capo poi non se lo sente... Un triste giorno questo marito amante scoprì l’orrenda verità. Il grido del suo dolore fu così acuto, che la stessa adultera ne rabbrividì. Ma il sentimento della dignità, dell’onore ferito e calpestato insorse formidabile in quest’uomo, che scacciò l’indegna. Tutti gli diedero ragione. Ella non aveva nessuna scusa, e solo la perversità dell’indole sua l’aveva spinta alla colpa; ciò si dimostrò tanto più vero, quando si vide che, non contenta d’aver tradito il marito, tradì poi anche l’amante; e a poco a poco, di tradimento in tradimento, scese sino in fondo alla lubrica scala del vizio. Il marito fu visto cercare altre donne e vivere della vita degli altri uomini liberi. Nessuno sospettava la piaga che nel cuore di lui grondava sangue, continuamente. Non tanto nell’amor proprio egli era stato ferito, quanto nell’amore; egli non si doleva tanto del disonore quanto del disamore. E lontano da lei, dall’infedele, dall’adultera, dall’indegna, egli pensava a lei come alla sola donna che meritasse d’essere amata. I suoi sensi erano appagati da altre femmine, più belle, più esperte; egli non pensava più al corpo di quella creatura: piangeva sconfortatamente il puro, il sincero, il fedele sentimento dell’anima amante. Egli non sapeva più nulla di lei, imaginava che un altro solo possedesse il tesoro dell’anima sua; e un’invidia immensa e un infinito rancore l’occupavano e l’opprimevano. Quando la gente lo credeva contento d’essersi sbarazzato di quella infame, il rimorso lo straziava. Egli era pentito d’avere scacciata sua moglie, la donna sua; egli pensava che il suo dovere, il suo piacere, il suo bisogno era di perdonarle. Doveva perdonarla per riscattarne l’errore, per non darla ad altri, per averla sempre con sè. Il suo perdono l’avrebbe fatta accorta del momentaneo inganno, l’avrebbe ridata a lui migliore, più grata, più amante... E un giorno egli seppe la vita di lei. Allora, sapendo che quella donna, la creatura che egli aveva eletta fra tutte, era passata da un uomo all’altro, continuamente, senza amore, senza pudore; nel sapere questa cosa, quando lo sdegno e il disgusto dovevano invaderlo, quando egli doveva ridere di sè stesso, delle sue velleità di perdono, delle speranze di redenzione, della fede ancora riposta in quell’indegna: allora sa ella che cosa provò? Egli lo confessò più tardi a una persona di mia conoscenza: vedendo che quell’impudica si dava a tanti uomini, ai primi venuti, egli, il marito offeso, l’amante tradito, lo spasimante dell’anima, si sentì.... come dirò? si sentì acceso da una brama veemente, si sentì spinto a tornare da quella donna per chiederle, come tutti quegli altri, come i primi venuti, un’ora di ebbrezza... La ragione subitamente intervenuta sedò costui. Diversamente andarono le cose nel secondo caso che voglio narrarle. Abbiamo anche qui un tradito, ed io ho scelto appunto queste situazioni, perchè, se c’è un tempo nel quale si spasima d’amore tutto immateriale, nel quale l’amore dei sensi sembra perfino scordato, questo è appunto il tempo quando il tradito, per la stessa depressione fisiologica prodotta dal patema, è incapace di procurarsi la voluttà. Quest’altro tradito, dunque, non era un marito; cosa che, se attenua la colpa della donna, non scema il dolore dell’uomo — al contrario! Ora costui, accortosi del tradimento e piante tutte le sue lacrime, deliberò di lasciare la traditrice. Ella aveva dapprima negato: poi, sbugiardata dalle troppe prove, aveva dovuto riconoscere la verità. E con una stretta al cuore l’amante comprendeva che ella non era molto responsabile dell’errore. Apparteneva costei a quella poco numerosa categoria di donne che hanno — per dirla alla francese — molto temperamento, e che non solo difficilmente resistono alle sollecitazioni del maschio, ma spesso esse medesime lo provocano. Quantunque questa categoria sia, come ho detto e come si sa, non molto numerosa, data la calma nativa della generalità delle donne, pure si può trovare in essa una distinzione non indifferente e suddividerla pertanto in due sottospecie: la prima composta di donne che per l’ardore eccessivo null’altro intendono fuorchè gli appetiti, pertanto spudorate, cattive, temibili; la seconda, nella quale noi troveremo creature capaci di qualche sentimento, sincere a certe ore, migliori di quel che sembrano, non indegne insomma di simpatia e, per gli osservatori, oggetto fecondo di studio. La donna dalla quale l’amico mio fu tradito — è uno dei più cari amici miei, e dei più desiderati ora che la vita ci ha disgiunti — apparteneva a questa seconda categoria. Dopo la confessione del tradimento ella comprese — e ciò le dimostri come il suo cuore non fosse addirittura volgare — che un uomo come lui, per il quale solo i sentimenti più alti e puri importavano, non poteva essere più suo; ed ella che pure lo aveva apprezzato, lo pianse a sua volta, sinceramente. Ebbero un ultimo convegno. Fu un convegno molto triste: lacrimavano entrambi: ella di rimorso e di dolore, egli di dolore e di pietà. Ma, quantunque costei sapesse che quel convegno sarebbe stato senza domani, pure, vedendo per il momento dinanzi a sè l’amante di tanto tempo, sentì ciò che d’ordinario sentiva in presenza di tutti gli uomini; e la stretta della sua mano e lo sguardo dei suoi occhi e il suono della sua voce rivelarono il suo, diciamo così, sentimento. Allora quell’uomo si sentì invadere dalla meraviglia; perchè, comprendendo ciò che avveniva in lei, scorgendo che gli istinti di quella creatura le prendevano con tanta facilità la mano da accenderla in un’ora drammatica come quella, vedendo che ella non aveva neppure la capacità di fingere; la coscienza di queste cose, la previsione sicurissima che se colei gli si offeriva in quel momento, si sarebbe offerta al primo venuto quando egli sarebbe andato via; questa coscienza e questa previsione che avrebbero dovuto naturalmente accrescere il suo dolore, il suo rancore, la sua pietà, il grave patema dell’animo suo, e col patema rendere ottusi i suoi sensi, lo sospingevano al contrario in braccio a quella donna, gli suscitavano un violento desiderio di servirsi ancora una volta di quel mirabile e vibrante e fremente strumento di voluttà. E benchè egli sentisse che cedere in quel punto alla tentazione sarebbe stata una profanazione ed una viltà, che se egli voleva ancora rispettarsi doveva fingere di non accorgersi dell’invito tacitamente rivoltogli da quella donna, pure comprese che la resistenza era vana; e allora dal contrasto fra gli alti sentimenti e l’infime brame egli fu disposto a una sottile ironia, a un riso interiore, che lo spinse a fare una cosa stravagante. Tratto di tasca il portafogli, scrisse col lapis due righe sopra un pezzetto di carta; piegatolo poi in quattro lo porse alla donna, dicendole: «Vorrete leggere questo, quando sarò andato via?» La donna infatti, piena di curiosità, lesse lo scritto quando egli fu scomparso; e lo scritto diceva quel che era avvenuto: «Prima di andarmene, dopo che ci siamo dolorosamente persuasi che non possiamo più essere l’uno dell’altra, noi...» l’espressione precisa non posso, cara contessa, riferirgliela; metterò invece: «noi... saremo stati l’uno dell’altra ancora una volta!...» L’AFFARE DEI QUATTRINI _Contessa!_ Ho proprio da continuare? Ella mi dà proprio carta bianca? Dice davvero, o non piuttosto per ironia? Giudica tanto enormi le idee e i fatti che le ho esposti, che oramai non teme più di poter essere scandalizzata?... Io non voglio escire dall’incertezza. Credere d’averla persuasa mi farebbe molto piacere; però la modestia mi vieta d’accogliere questa persuasione; esser certo d’avere sprecato tempo ed inchiostro mi dispiacerebbe troppo. Mi lasci nel dubbio, che è l’ordinaria condizione della nostra mente; ed io intanto continuo. Sì, precisamente: se io sostengo che l’istinto è la radice del sentimento, affermo per conseguenza che da un istinto più forte e veramente irresistibile si sviluppa nel cuore degli uomini un sentimento più ricco e lussureggiante che non nel cuore delle donne; come le piante più frondose e fruttuose sorgono da una più profonda radice. Sì, precisamente: io sostengo che gli uomini non solo amano essi soli, o tanto meglio delle donne che l’amore di essi assomiglia ai biglietti veri e quello di esse ai biglietti falsi; ma sostengo ancora che i sullodati uomini comprano l’amore e pagano — molte volte con veri e proprii biglietti di banca — le donne suddette. Lascerò da parte — tanto, mi pare che ella sia proprio sincera quando mi dà ragione su questo punto — i modi indiretti di pagamento. Quando il maschio dedica gran parte delle sue forze a conquistare la femmina; quando, dopo averla conquistata, la difende e con lei difende la prole, è evidente che fa una vera spesa, un consumo di forza, un sacrifizio di energia. Quando un marito si mette sulle spalle il peso della famiglia, è innegabile che l’amore gli costa. Lasceremo ancora da parte — e non dubito che questa omissione le piacerà — il mercato d’amore propriamente detto, dell’amore avvilito e impropriamente detto amore. Noi dobbiamo ragionare dell’amore libero, dell’amor degli amanti che non contrattano nè dinanzi al notaio nè dinanzi a un più servizievole personaggio. Quest’amore costa anch’esso; e, come ella sa, si suol dire che le donne più care non sono quelle che si vendono. Tuttavia, quando un uomo si rovina per fare la vita che piace all’amica sua, per seguirla dove ella va, per nascondere in un degno nido la propria fortuna, per avere un vantaggio sopra i proprii rivali; tutte queste volte e sempre che l’amata non ottiene nulla per sè, potremo dire che l’amore costa a lui, ma non già ch’egli paghi lei. Il punto più controverso e più scabroso è un altro: ella non ammette che vi siano donne capaci di ottenere un materiale vantaggio nei loro amori; o meglio afferma che donne capaci di ciò meritano di stare con le mercenarie ed hanno sbagliato mestiere. Io dico invece che alle donne più pure di questo mondo l’idea di ottenere qualche vantaggio reale nell’amore più ideale non repugna affatto; anzi che a questa idea vanno naturalmente quando si vedono pregate, supplicate, implorate; quando odono dire e ripetere che per esse l’amante farebbe tutto, _darebbe tutto_, che l’amor loro è _impagabile_. Sicuramente fra l’idea di vedersi deporre ai piedi i tesori di Golconda e l’atto di accettare uno spillo ci corre; sicuramente molte donne reprimono la lusinghevole idea e rifiutano perfino lo spillo; ma altre moltissime si comportano diversamente senza che per ciò siano da mettere insieme con le sciagurate che fanno dell’amore un mestiere. «L’oro e i doni splendenti hanno una muta eloquenza,» ha detto Shakespeare, «che muove il cuor d’una donna meglio dei più belli discorsi...» Vico Dastri, che è l’uomo, come ella sa, più curioso e, per la smodata curiosità, più impertinente di questo mondo, suole tentare spesso la seguente esperienza. Accompagnando per le vie qualche bella dama con la quale fa il galante, se questa dama si ferma dinanzi alla mostra d’un gioielliere e ci lascia, come si suol dire, gli occhi, Vico Dastri, con l’atteggiamento e la voce del serpente nell’Eden, pronunzia una frase composta per la circostanza, alla quale non muta mai una sillaba: «Dite una sola parola, fate un cenno soltanto e tutto questo è vostro...» Egli sa che non può esser creduto, che l’offerta deve parere ciò che è, uno scherzo d’equivoco gusto; ma egli scherza sulla virtù delle sue amiche; dice loro, in altre parole: «Venite con me, ed io vi darò non tutte queste gioie, ma quelle alle quali la mia borsa mi permette d’arrivare...» Orbene: nessuna delle sue amiche gli ha mai espresso o ha finto di esprimere sdegno: molte hanno scrollato le spalle come udendo una qualunque sciocchezza; la maggior parte hanno rivelato il vero sentimento destato nel loro intimo da quella proposta con un sorriso di solleticato compiacimento, di contenuta e discreta vanità, con un sorriso il significato del quale non è dubbio: «Se voi poteste ottenere così ciò che chiedete, credo davvero che non fareste un cattivo affare!...» Quel povero Raeli del quale le ho più volte parlato, stimando che la sua amica, la signora Woiwosky, fosse donna di sentimenti sublimi, cominciò, come ella rammenta, a dubitare e perciò a soffrire quando, all’indiscreta domanda che già le riferii, la dama rispose in modo che voleva essere evasivo, ma era molto, anzi troppo chiaro. «Debbo io dolermi della sua risposta?» trovo scritto nel suo _Giornale di bordo_. «Non l’avevo anzi prevista? Se già sospettavo l’effetto prodotto in lei da quell’uomo, perchè questo malsano bisogno d’ottener la conferma d’una cosa ferente? La dolorosa certezza è preferibile al dubbio? Ma il dubbio non è forse doloroso ancor esso? Qual è dunque il dolore più grave?... Se prevedevo la sua risposta, vuol dire che questa era una logica, naturale ed umana risposta. E perchè dolermi di ciò che è umano, naturale e logico? L’idea ch’io m’ero costruita di quest’Essere era dunque illogica, innaturale e fuor dell’umano? Come il selvaggio, che derido, al quale mi credo tanto superiore, avevo fatto d’un Essere un Ente, un Feticcio?... Stasera un altro poco dell’oro del quale l’Idolo è rivestito s’è scrostato, è caduto. Ella è stata al ballo del principe di Walckenstein; vi ha incontrato il banchiere Grünmeyr. E’ giudeo, nano, vecchio, ignobile; ma possiede cento milioni. I suoi cento milioni lo rendono più attraente di un Don Giovanni che abbia avuto cento avventure, d’un artista che abbia fatto cento capolavori. Ella ha parlato con lui, gli ha parlato dell’immenso potere che un uomo tanto ricco deve aver la coscienza di esercitare, del sentimento ineffabile che il possesso di tanta ricchezza deve procurargli, dei piaceri regali, dei capricci fantastici che egli può pagarsi: che cosa può mancargli, chi può resistergli? Grünmeyr — mi pare d’udirlo — brevemente, come quando patteggia un affare, le ha detto: «Credete? Allora io vi darò un _chèque_ in bianco: metterete voi stessa la cifra...» Ella mi ha narrato questa cosa. Io ho detto, con una stretta al cuore: «Scherzi da gaglioffo». Ella m’ha domandato: «_Non credi che dicesse davvero?_» Ella vede di qui, cara contessa, il discorde atteggiamento di quelle due anime. La donna resta male perchè, sicuramente incapace di prendere lo _chèque_ del banchiere, è tuttavia certa che Grünmeyr ha detto sul serio; perchè giova alla sua vanità credere che per ottenere l’amore di lei il banchiere darebbe qualcuno di quei tanti milioni; l’amante, che già alla narrazione dell’offerta s’è sentito offeso nella persona amata, ed anche un poco nella propria — giacchè a paragone del milionario egli è povero — sente ora scemare la stima e l’amore comprendendo che l’offerta non ha tanto offeso quanto solleticato l’oggetto dell’amor suo... Ma qui siamo ancora nelle possibilità e non tra i fatti compiuti. Ella vuol fatti che dimostrino in qual modo la _question d’argent_ è risoluta. Non è già facile addurne molti. Per delicatezza, per amor proprio, tanto è difficile che gli uomini rivelino la venalità delle loro amanti, quanto che le donne confessino d’avere ottenuto nulla nei loro amori. Certo, gradire un dono non è vendersi; ma non pare che la differenza sia tanto grande; pare anzi che il proverbio del vecchio Brantôme abbia, in fondo, ragione: «_Femme qui prend se vend._» La consegna è dunque di tacere. Però la verità non sta sempre in fondo al pozzo, ed io ho qualche cosa per lei. A dire il vero, seppi le storielle che oggi le narrerò in circostanze molto particolari, le quali dimostrano che la verità non sta tanto nell’acqua dei pozzi quanto nel vino delle bottiglie. L’estate scorsa, girando per le stazioni di montagna, capitai a Valsorrisa. Trovai l’albergo in rivoluzione. C’erano venuti da qualche giorno tre signori i quali parlavano una lingua a tutti sconosciuta: sul registro dei viaggiatori avevano scritto i loro nomi con caratteri incomprensibili. A uno Scozzese di mia conoscenza, il quale mi dava notizia di ciò, uno di essi aveva fatto capire, in un inglese orribile, che erano dell’Afganistan. E i tre Afgani, mi diceva l’amico mio, erano divertentissimi: le scene comiche tra gli Asiatici e gli Europei che o non s’intendevano o riuscivano a intendersi per via di vere pantomime, facevano morir dalle risa gli spettatori. Con le dame gli stranieri erano d’un’arditezza molto vicina all’impertinenza: nessuno propriamente capiva ciò che dicevano, ma s’indovinava che dovessero dire cose enormi. Alle cinque la commedia si svolgeva nella sezione idroterapica dello Stabilimento, dove gli Afgani prendevano la doccia. E alle cinque io scendo ai bagni, per andare a vedere; ma, appena mi scorgono, i tre Afgani s’arrestano, si turbano ed esclamano ad una voce: — Siamo perduti!... Questi Afgani erano tre miei amici piemontesi, i quali, per passar mattana, per dimenticare certi loro dispiaceri e per _épater les bourgeois_, avevano combinato di fingersi originarii dell’Afganistan, adoperando una lingua di loro invenzione, che è poi un italiano scombussolato secondo certe regole non molto difficili da ritenere. Ed ecco che la mia presenza li rovina! — Qui bisogna far le valigie! — esclama Tito Castelli, e Giovanni Gabotti: — Si salvi chi può! — Io avrei promesso di fingere di non conoscerli, per godermi lo spettacolo; ma, sapendosi scoperti, essi non erano più capaci — e neppur io, in verità — di star serii. Deliberarono di partire la sera stessa, e, senza scendere a _table d’hôte_, mi vollero con loro a pranzo, in camera di Gabotti. Il ricordo delle scene più divertenti della loro farsa li metteva tanto di buon umore, che non badavano alle bottiglie vuotate; all’arrosto erano più che brilli. Ciascuno vantavasi di aver detto alle signore, in quel linguaggio convenzionale, le cose più incongrue di questo mondo; e come io, udendole riferire, mi mostravo un poco scandalizzato, Grolla disse: — Va là, che meriterebbero d’averle ripetute in buon italiano! — E allora, tutt’e tre, cominciarono a dir cose, contro la più bella metà del genere umano, che neppure i Padri della Chiesa han detto le simili. Ella sa infatti, contessa, che secondo San Pietro la donna è vipera fischiante, secondo San Bernardo opera del diavolo, secondo San Cipriano peste, contagio, ruina... e le faccio grazia del resto. Dopo la frutta, il cameriere venne a portarci la nota, che essi avevano chiesto di pagare: doveva essere molto salata, perchè Castelli apostrofò il tavoleggiante così: — Giovine! Noi ci siamo spogliati della cittadinanza afgana, ma il tuo padrone ci vuol ridurre in camicia! Io feci notare che il padrone aveva messo nel conto le beffe che s’eran prese di lui e degli altri; e Grolla esclamò: — Hai ragione; tutto si paga!... — Anche l’amore! — Specialmente l’amore!... Allora io li feci parlare. Erano mezzo ubbriachi: dissero la verità, la verità vera, quella che alle volte non confessiamo neppure a noi stessi. Grolla narrò: — Imaginate che io ero al mio primo amore. Altrettanto non posso dire, in coscienza, dell’amica mia. Ella stessa mi dava a intendere che fosse al secondo; ma credo piuttosto che convenisse servirsi dell’espressione algebrica e chiamarlo _ennesimo_. Voi potete strappare alle donne la verità intorno al loro passato, ma come potete tirare il tappo di sughero da una bottiglia quando non avete cavaturaccioli: a pezzetto a pezzetto. Or bene: a pezzetto a pezzetto io strappavo all’amica mia il sughero — voglio dire la confessione della verità. Ella aveva una quantità straordinaria di gioielli; ma era tanto ricca, che avrebbe potuto averne, senza che me ne stupissi, anche il triplo. Un giorno me li mostrò tutti. Io notai che in qualcuno di quei braccialetti, di quelle spille, di quei monili, erano tracciate certe iniziali, certe date. Compresi che dovevano essere regali, i regali dei miei predecessori. Le domandai: «Sono ricordi?...» Ella mi rispose, chiudendo gli occhi: «Sì...» Notate che chiuse gli occhi non già perchè riconosceva d’aver preso quel ben di Dio, ma semplicemente perchè confessava alla fine d’avere avuto più d’un amante. Allora, se i miei predecessori avevano creduto di dover aiutare la memoria di lei, non dovevo anch’io mettermi in grado di non esser dimenticato? Qui però mi cascava l’asino. Io non avevo quattrini nè sapevo come farne. Gli amici miei ne avevano meno di me, e gli usurai mi negavano credito. Non vi narro per quali vie tortuose e con quali disgustosi espedienti misi insieme mille lire. Con mille lire credevo di poter fare le cose decentemente. La mia idea era di offrirle un ricordo nell’anniversario del nostro primo incontro. Ma come quel giorno s’avvicinava, la cosa m’appariva meno facile di quel che avevo creduto. Ero alle mie prime armi, vi ho detto. Cominciavo a temere di offenderla. Ella era molto poetica, e tutte le cose dove entrano i quattrini sono molto prosaiche. Bisognava trovare un’occasione propizia, inventare un modo lirico per offrirle un oggetto di valore. Ma non avrebbe rifiutato? Non si sarebbe sdegnata?... Io facevo un conto: ero stato con lei non più d’una cinquantina di volte: a venti lire, venivano appunto mille lire. Mi pareva, spendendo per lei tale somma, di pagarla a questa stregua; e tutto il mio proprio lirismo — ne avevo ancora! — insorgeva, disgustato ed offeso... Però, quegli altri, i miei predecessori?... Ma non mi diceva ella d’amarmi a un modo diverso da tutti gli altri?... Non mi giurava che, se era passata per altre prove, queste erano state tutte tristi, anzi orribili, e che solamente io le avevo rivelato l’Amor vero, con l’A grande? Dunque non avevo l’obbligo di comportarmi in modo diverso dagli altri? Dunque non era da prevedere che ella avrebbe male accolto l’offerta? Io mi tormentavo nell’imbarazzo, quando un giorno la trovai tutta eccitata. Veniva dall’aver visto i doni nuziali raccolti dalla figlia di una sua amica: cose regali. E cominciò a descrivere i bagliori dei brillanti, le iridescenze delle perle, le fiamme dei rubini; cominciò a noverare i fili delle perle, i cerchi dei braccialetti, le gemme degli anelli. Era inesauribile; i suoi occhi lampeggiavano. Io non l’udivo bene, pensando al caso mio, al modo di conciliare il rispetto che le dovevo col desiderio, col piacere di offrirle, non una di quelle cose sontuose che ella descriveva, ma la cosuccia che il mio biglietto laboriosamente messo insieme m’avrebbe permesso di comperare. Ed ecco che adesso ella descriveva un orologio: «Una cosa non di gran prezzo, ma d’un gusto, d’un gusto!...» E intanto che diceva com’era fatto, io pensavo che forse con le mie mille lire un oggetto simile potevo procurarmelo; ma dove? Altro imbarazzo: io non avevo pratica dell’oreficeria. Se avessi potuto dirle: «Vuoi cercarne uno eguale, affinchè io mi procuri il piacere di offrirtelo?...» ma come dire questa cosa? Avrei dovuto dirgliela abbracciandola, all’orecchio, piano, per non offenderla; o piuttosto prender le mosse più da lontano, così per esempio: «Senti... vorrei dirti una cosa; mi prometti che non me la negherai?...» L’espressione del mio volto, per quella cogitazione, doveva essere molto curiosa, se a un tratto ella mi disse, interrompendosi: «_Non temere, sai: non te lo descrivo perchè tu me ne comperi uno eguale_...» Gabotti e Castelli picchiarono coi pugni sulla tavola, ridendo sgangheratamente. — Ah! Ah! Bellissimo!... Straordinario!... Ah! Ah! Ah!... E tu, allora? — Io, allora, le offersi le mille lire, perchè appunto ella scegliesse qualcosa di suo gradimento... — E le prese? Le prese subito? — Subito, no; mezz’ora dopo, quando andai via... Le risa salirono al cielo. Rideva più di tutti Castelli; Gabotti faceva piuttosto per dire qualcosa. Disse infatti, quando la clamorosa ilarità dell’amico sedossi, con un’enfasi e una stravagante preziosità di linguaggio dentro alla quale si sentiva uno sdegno amaro: — Il tuo caso, tuttafiata, non parmi eccessivamente inedito e inopinabile. Vorrei quasi dire che è un caso alquanto ovvio. Ridotto alla più semplice ed assiomatica espressione, lice formularlo così: quando gli uomini dimenticano di pagare le donne, reclamano esse il pagamento. Anch’io provai, altrafiata, un imbarazzo molto simile al tuo. Sarò breve. Ero alle mie seconde armi. Avevo acquistato — e pagato! — una certa esperienza. Sapevo che, se avessi offerto qualcosa, non sarei stato messo alla porta. Tuttafiata, prima di offrire, mi restava da trovare l’opportunità dell’offerta. Una volta, nella ricorrenza di non so più quale anniversario, mandai alla metà dell’anima mia un gran fascio di rose bianche. Le rose bianche erano i fiori che ella portava alla cintura il giorno del quale si celebrava il ricordo. Il dono fu gradito in modo straordinario. La metà dell’anima mia mi disse, sul tardi, quando andai a trovarla, che le avevo procurato un piacere ineffabile. Non si stancava dal ringraziarmi; e come io tentavo di sottrarmi a così grata lode dicendo che non avevo proprio un gran merito nell’invenzion dell’omaggio: «_No!_» proferì ella: «_Tanto piacere non m’avrebbe forse fatto una riviera di brillanti_...» E allora le risate degli altri mi assordarono. Grolla, specialmente, pestava coi piedi per terra, si dimenava sulla seggiola, come sul punto di scoppiare: — _Forse!_... Ah! Ah! Ah!... Immenso quel _forse_!... Gotico! Tricuspidale!... E allora, tu? Il narratore concluse: — Allora io le offersi non una riviera, ma una piccola spiaggia!... Restava Castelli, che non aveva detto ancora nulla. Io lo incitai a non esser da meno degli altri e a raccontar la sua. Castelli, smesso di ridere, narrò: — Io voglio riferirvi due frasi che udii dirmi, a uno stesso proposito, da due donne diverse. Una apparteneva alla migliore società, aveva ricevuto la più squisita educazione, esprimeva i sentimenti più delicati. Eravamo amici da molto tempo, ed io avevo fatto per lei più di quel che potevo. L’amavo molto, non credevo alla mia fortuna e non la volevo perdere per paura di ricadere negli amori volgari, di dover ricorrere un’altra volta alle mercenarie vili. Se spendevo ciò che non avevo per quella donna, potevo forse dire di pagarla? Potevo dire di pagare ciò che non aveva prezzo? In verità credo che con i miei doni procurassi maggior piacere a me che a lei! Non già che le dispiacessero, ma il mio piacere per il piacer suo era veramente grandissimo. Un giorno le portai una cosa di molto valore. Quantunque i suoi occhi ridessero dal contento, mi rimproverò e rifiutò d’accettarla; le pareva che fosse troppo. Io le dimostrai che era niente. E dopo le mie eloquenti dimostrazioni non oppose più difficoltà; ma, dopo avermi ringraziato con effusione, mi domandò a un tratto: «_Ti costo molto?_...» Allora, subitamente, io mi rammentai dell’altra frase che m’aveva detto, molto tempo prima, un’altra donna. Era una mercenaria, una creatura degradata e avvilita; una di quelle al cui increscioso ricordo sentivo sempre più alto il valore della creatura eletta che ora mi accordava liberamente un nobile amore. La mercenaria, un giorno che non sapeva come fare, che forse non avea da sfamarsi, era venuta a trovarmi, ad offrirmisi. La conoscevo da un pezzo, solevo chiamarla quando avevo voglia di lei, le dimostravo una certa preferenza perchè mi dispiaceva meno delle altre. Ma quel giorno avevo cose gravi alle quali badare, e la congedai. Allora, con molta titubanza, a capo chino, mi chiese qualcosa come dieci lire. Io le diedi, ella le prese e fece per andarsene. Giunta sull’uscio si fermò, esitante; poi tornò indietro, mi venne accosto, e mi domandò con voce sommessa, tentando di prendermi la mano: «_Non mi vuoi più bene?_...» UN’EQUAZIONE MORALE _Mia buona amica,_ Precisamente: una punta di volgarità, da parte d’una creatura eletta, ferisce tanto, quanto conforta un senso di delicatezza da parte di un’avvilita creatura. Ella dice ch’è strano? Scusi, perchè? La stessa idea di paragonare una signora con una mercenaria le pare sconveniente e indegna. In generale, sì, ha ragione; ma non mi ha già concesso, altra volta, che vi sono signore delle quali bisogna proprio dire che hanno sbagliato mestiere? Ella mi vorrà da un altro lato concedere che, se la più gran parte, anzi la quasi totalità delle mercenarie meritano il loro avvilimento, ce n’è pure qualcuna che era degna di miglior sorte. Ora, secondo che le signore galanti si degradano e che le mercenarie s’innalzano, la distanza che le separa tende naturalmente a sparire e le differenze si riducono tutte esteriori e trascurabili, fino al punto da giustificare la curiosa impressione che provò una volta il mio amico Raeli. Trascrivo ancora una volta dal suo _Giornale di bordo_: «—... Tanto, proprio tanto piacere. Vi avevo già visto altre volte, da lontano, insieme con quel vostro amico, quel magro, biondo — toscano, credo? — e avevo domandato di voi ai comuni conoscenti. Mi rincresce solamente di una cosa: vado via domani! Guardate che assedio: tutta la roba sottosopra. Ma come si fa! Del resto, non conta: c’incontreremo certo in qualche altro posto. Io vado a Milano, per le feste di Maggio: è la stagione brillante. Poi sarò a Genova; in settembre partirò per l’America del sud, dove farò un teatro. Canterò la _Carmen_, una parte che mi va. L’ho studiata molto, con pazienza, con amore, sotto la direzione del maestro Brunetti: lo conoscete? Fino a ieri avevo ancora il pianoforte, pagavo trenta lire il mese d’affitto. Qui a Roma è tutto d’un caro! Pago centosessanta lire il mese, per questo quartiere: l’anticamera e la sala che vedete, la camera lì, con lo spogliatoio dietro; da questa parte la stanza da pranzo e la cucina, delle quali intanto non so che farmi, perchè vado sempre fuori a desinare. Vorrei farvi sentire qualche cosa, ma come si fa? Avervi conosciuto un poco prima! Non ho una gran voce; oh, proprio no; ma lo studio aiuta tanto; e poi faccio assegnamento sull’azione scenica, sull’espressione drammatica. E’ una parte brillante, elegante, che s’attaglia alla mia natura tutta fuoco e brio. Non vi pare?» «Io non avevo potuto ancora pronunziare una sillaba, tanta foga metteva nel parlare la mia compagna. Era una creatura alta e bionda — ma d’un biondo innaturale — e di forme vistose, ed anche bella in viso; d’una bellezza tuttavia un po’ dura e forte che rivelava, con l’accattata eleganza dell’abito e degli atteggiamenti, la nativa volgarità. Ma andavo io precisamente in cerca di nobiltà, in quelle camere mobiliate molto più volgari della persona che le abitava?... Benchè fosse giovane, non si poteva giudicare esattamente dell’età di costei: aveva forse venticinque anni, forse trentacinque. Le braccia, nude dal gomito in giù, e le mani spoglie anch’esse dei guanti, erano fresche come quelle d’una fanciulla; ma la carne del viso, troppo matura e quasi macerata, riconosceva dai cosmetici il colorito e la finezza. Sotto l’ala grandissima d’un gran cappello di paglia sontuosamente impennacchiato di rosso, gli occhi grigi, slavati, acquistavano una fattizia vivacità grazie al bistro del quale eran tinte le occhiaie e al nero artificiale delle sopracciglia. Un violento profumo di _Jockey-Club_ sprigionavasi dall’abito rosso e giallo dove le linee del taglio di moda erano esagerate fino alla stravaganza. A ogni moto del capo le grosse buccole di brillanti — o di _strass_? — mandavano fiamme multicolori. «— Io ho sempre avuto, — continuava ella frattanto senza darmi tempo di rispondere un monosillabo, — una grande inclinazione, una vera passione per l’arte. Ah, l’arte! l’arte! Le sublimi impressioni che procura a chi la comprende, a chi vive di essa e per essa! Ma che volete! Se fossi stata libera di fare a modo mio! Volevo dedicarmi al canto sin da ragazza; a quest’ora sarei già innanzi nella carriera, avrei l’avvenire assicurato, non dovrei dipendere da certe persone con le quali non voglio più avere nessun rapporto di nessuna specie. E invece mi tocca litigare, salire e scendere scale, tener conferenze con avvocati e notai: considerate un po’ voi se una donna come me è fatta per queste cose! Eppure bisogna far così, per tutelare i miei interessi, per non passar da stupida agli occhi di mio marito. Del resto io chiedo soltanto ciò che ho diritto di chiedere, e nessun tribunale al mondo potrebbe mai darmi torto. Mio marito mi paga una pensione di duecentocinquanta lire il mese, e per esser puntuale finora è stato puntualissimo; ma posso io correre il rischio di dipendere da lui, di dovergli correr dietro se un bel giorno, per una ragione qualunque, per il gusto di farmi dispetto, per amareggiarmi la vita ora che grazie a Dio non abbiamo più niente di comune, gli saltasse il ticchio di rifiutarsi? Ne è capacissimo: pensate se lo conosco, dopo cinque anni di martirio, di vero martirio vissuti con lui! Un uomo volgare, senza istruzione, senza educazione, incapace di comprendermi; buono per una contadina, adatto a rendere felice una stupida qualunque, non una persona come me. La colpa è tutta della mia famiglia; io non volevo sposarlo; imaginate che fino alla vigilia delle nozze m’ero proposta di risponder di no al municipio e in chiesa; ma come si fa, ero una ragazza di sedici anni, dove potevo prendere tanto coraggio? E ciò che ho sofferto in cinque anni non si può ridire: ci sarebbe da scrivere tutto un romanzo. Una volta m’ero anche messa a buttarne giù le prime pagine. Scrivo un poco, ho dato qualche cosa alla _Crisalide_; ma come si fa? Anche il direttore del _Pensiero_ voleva che gli mandassi qualche corrispondenza di tanto in tanto, e finora non ho proprio potuto: non ho tempo. Conosco molti letterati, però: il Rampelli, Diego Giostra, la _Principessa azzurra_. Con quest’ultima siamo intime: facemmo conoscenza ai bagni d’Acqui, due anni addietro: ci siete stato? Una stagione elegantissima. C’era tutta la società piemontese, anche quelli che non avevano bisogno della cura e venivano per semplice diporto: la marchesa Briziè, la contessa Garresio, tante altre signore con le quali si stava sempre insieme. Ce n’erano anche di quelle che facevano le schifiltose, che pareva si contaminassero a stare insieme con gli altri; e poi se ne sentivano delle belle, sul conto di certe santarelline. Ma a me non la danno a intendere, sapete, le così dette donne oneste! Del resto ci siamo divertiti lo stesso; anzi di più; gli uomini erano tutti di scelta compagnia, figuratevi che venne anche Sua Altezza Reale il duca del Monferrato; anzi si fece una volta un gruppo fotografico, tutti insieme: guardate qui sul divano: vedete Sua Altezza? Questa qui dovrei esser io! Poi c’erano molti giovanotti dell’aristocrazia, molti signori francesi, parecchi artisti che per mio conto io preferisco agli altri: tutta gente di spirito, con la quale c’è sempre da apprendere qualche cosa mentre si scherza e si ride. Lì ho conosciuto Balducci, il commediografo Salsi, e Filipponi, il pittore mantovano, sapete?...» «Il torrente delle sue parole, quando pareva arrestarsi un momento dinanzi a un punto interrogativo o esclamativo, precipitava indi più rapido come, dopo un ostacolo, l’acque scorrenti. E seduto al suo fianco, io restavo immobile e attento quasi pendendo dalle sue labbra, come se quei discorsi m’interessassero fuor di misura. Ma già cominciavo a non più udire, e un sentimento sorgeva dentro di me, un sentimento di curioso stupore. «— Anch’io disegno un poco: da ragazza facevo qualcosa di non troppo brutto; ma poi ci ho perduto la mano. Disegnavo a pastello e mi ero anche messa all’acquarello e alla pittura a olio giusto poco prima del matrimonio, quando mi fidanzai. Da quel tempo non feci più nulla: appena adesso riprendo il lavoro. Faccio il mio ritratto; aspettate, ve lo voglio mostrare. Dev’essere in questa cartella. Ma che confusione, mio Dio! Non mi par l’ora di sistemarmi a Milano, dove ho già fissato un quartierino in via dei Rastrelli, sapete, vicino alla Posta. E’ vero che non ci resterò più d’un mese, ma come si fa! Dove diamine l’ho ficcato? Doveva essere proprio qui. Ah, eccolo; guardate... «Era un pastello appena abbozzato; poche linee stentate e qualche ombra; una cosa tutta puerile. «— È cominciato da poco, però non credo che verrà male: il mio amico Marcorati vorrebbe anzi ch’io lo mandassi all’esposizione _In arte libertas_ — ella pronunziò _libertàs_; — ma ancora è un po’ presto per giudicarlo degno di tanto onore. Lo copio da questa fotografia del Sorgato di Venezia, ma correggo poi dal vero, perchè la mia figura è di quelle che la fotografia non coglie mai bene. Forse dipende anche un po’ dai fotografi, che ordinariamente non capiscono niente e lascian fare alla macchina, senza intelligenza, senz’arte. Non basta mettersi dinanzi al modello; bisogna saperne cogliere l’aspetto più favorevole, più adatto, più caratteristico; perchè il vero può anche non essere verisimile. È quel ch’io predico sempre, a proposito della scuola naturalista, che di questi tempi inonda il campo dell’arte di produzioni dove la verità nuda e cruda non fa palpitare il cuore, non suscita il più piccolo ideale. La verità è certo una gran bella cosa; e nessuno può preferirle in buona fede la menzogna; ma io domando e dico che bisogno c’è di riprodurre la realtà volgare dalla quale siamo circondati? Purtroppo di certe cose e di certi spettacoli non possiamo farne a meno come vorremmo; e se ci disgustano quando sono veri come è possibile gustarne la rappresentazione? Perciò io non leggo più Zola. Riconosco benissimo che è un forte talento, un genio anche, se vogliamo; ma è troppo brutale, urtante, sconveniente addirittura. Quella _Terra_, per esempio: non ho potuto andare oltre i primi capitoli, ma proprio non ho potuto. E’ una cosa veramente dispiacevole che un’artista di quella forza lì si perda in mezzo al sudiciume. E poi dite quel che vi piace, un libro deve insegnare qualche cosa, deve procurare di renderci migliori. Io non faccio la predicatrice; certamente sappiamo tutti che la vita è quella che è, ma quando uno prende la penna in mano deve venirci a dire qualcosa di diverso, di nuovo, d’interessante. Deve interessare il cuore e divertire lo spirito sopratutto; e che cosa volete? Zola non mi diverte e tanto meno m’interessa. Mentre Ohnet! Ed anche Feuillet! Ma Ohnet specialmente! Quel _Padrone delle ferriere_! Quella _Contessa Sara_! Che verità e che fascino! Che scienza del cuore umano! Ecco come tutti dovrebbero scrivere! Ma quando si prende in mano uno di questi libri, io non so: è impossibile più metterli da parte, bisogna andare sino in fondo, sino a perderne il sonno e l’appetito. E il _Romanzo d’un giovane povero_! Romanzo e commedia, due capolavori! Nella commedia recitai anch’io una volta, in casa Critta, a Bologna: il teatro m’ha sempre affascinata: se non avessi potuto darmi al canto a quest’ora sarei già sulle scene di prosa. Cesare Rossi mi fece l’anno scorso una mezza proposta: non era splendida, naturalmente, per una esordiente; ma l’avrei accettata a ogni modo se non avessi avuto di meglio...» «Così il discorso svolgevasi, inesauribile, passando da un argomento all’altro, con giri tortuosi, con salti improvvisi; ed io restavo sempre lì, immobile più di prima, ma non più attento, anzi molto lontano, infinitamente lontano da quel luogo e da quella donna. Con gli occhi della mente io ne vedevo ora un’altra, l’Idolo dei tempi andati, la creatura della cui perdita non m’ero mai tanto crucciato come un’ora innanzi, quando, in cerca di distrazioni, per uccidere l’immensa noia, per procurarmi un istante d’oblio, avevo seguito costei la cui voce mi faceva ora l’effetto di un confuso ronzio, in mezzo al quale solo di tratto in tratto afferravo un lembo di frase. E non era molto umano il mio cruccio? Il valore da noi attribuito alle cose ed agli esseri non è sempre relativo e tutto dipendente dal reciproco paragone al quale li sottoponiamo? Non mai, pertanto, come in presenza di quella volgare creatura io avevo apprezzato il valore dell’Altra già stimata nobile e rara. Perchè, dunque, superato il primo momento di tristezza e quasi d’ambascia, la meraviglia avea occupato il mio spirito? Perchè mai, soltanto a considerare gli artifizii di eleganza, l’esagerazione del taglio e lo sfoggio di colori nell’abito che la mia compagna indossava; soltanto a esaminare l’affettata ricercatezza delle mosse e dei gesti di costei, già inconsapevolmente il paragone istituitosi nel mio pensiero cominciava a dare risultati diversi dai primi, e dove avevo visto un abisso, vedevo ora simiglianze ed affinità? Disprezzavo tanto l’antico oggetto dell’amor mio fino a giudicarlo poco diverso da questa donna che cercava clienti per le strade?... Certo, la critica nasce quando la fede muore; ed io che avevo un tempo attribuito tutte le bellezze e tutte le grazie a un’indegna, mi trovavo ora in una disposizione d’animo che avrebbe umanamente spiegato la radicale mutazione del mio giudizio; ma questo giudizio nuovo dipendeva tanto poco da considerazioni interessate, che il mio primo movimento, nel ricordare il passato, era stato tutto di rammarico. Il giudizio mi s’imponeva, invece, e derivava interamente dall’esame del quale facevo oggetto la donna che mi stava dinanzi. Come avrei potuto restare indifferente alla rivelazione d’una fisionomia morale che offriva tanti strani, imprevisti riscontri con quella che un tempo m’avea deliziato? Quell’ostentato e così mal corrisposto amore dell’arte del quale la mercenaria faceva sfoggio, quante volte non era stato addotto dall’altra? E, segno più notevole, entrambe quelle donne chiedevano all’arte un contenuto morale, mentre una di esse faceva pubblica professione di immoralità, e l’altra... sì, l’altra s’era posto sotto i piedi tutte le leggi e tutti gli scrupoli?... Avevo però io veramente il diritto di riconoscere queste cose? Non avevo io stesso amato d’un immorale amore, spingendo l’antica amante ad una nuova caduta?... Tuttavia pensavo che c’è una specie di virtù anche nella colpa, come c’è una specie di logica nella pazzia. Perchè dunque la donna che ebbe il fiore del mio sentimento, alla quale io volli esser legato da un legame indissolubile, non se ne contentò e scese ancora per le scale del vizio, se non perchè appunto del vizio ella aveva l’istinto ed il genio?... E negava l’onestà delle altre, come questa — incontro ancora più rivelatore! — e quando aveva riconosciuto la falsità della propria situazione s’era giustificata rigettando la colpa sugli altri, sulla famiglia, sul marito — come questa, ora!... Intanto che la ciarliera continuava a citar nomi di gente nota, ad enumerare le sue relazioni e a giudicar di tutto e di tutti con una vanità e una presunzione più grossolane, ma non essenzialmente diverse da quelle dell’altra; intanto che a furia di rovesciar parole sopra parole ella si contraddiceva, dimostrando a propria insaputa d’aver detto una quantità di menzogne — ed anche l’altra non aveva quest’abito? io non riuscivo a spiegarmi, tanto n’ero stupito, come entrambe quelle donne si fossero lagnate con le stesse precise parole del destino che le aveva unite con uomini indegni di loro: «Una persona sciocca, egoista, volgare, incapace di render felice una donna come me!...» _Come me_, cioè vana, ingannatrice e falsa, a cominciare dal viso imbellettato e dai capelli tinti, fino al cuor sordo ed alla mente vuota! _Come me_, cioè perfida, sfrenata ed impudente fino a pretender negli altri le cose delle quali ella era la negazione vivente... «— Ho troppo sofferto, — udivo dire in quel punto, — e adesso _vo’ prender la mia rivincita_: non è forse giusto? _Sono ancora giovane e piacente_, ho ancora molti anni dinanzi a me per compensare quelli passati fra tante angustie. _Vo’ conoscer la vita_, vivere anch’io, libera come l’aria, arbitra di me stessa: _voglio amare, lottare, soffrire anche, che importa? ma vivere!_... «E facendosi vento col grande ventaglio di piume bianche, dalle stecche di tartaruga bionda, che agitava con moto largo e maestoso, s’atteggiava a gran signora, non dimostrava alcuna maraviglia, anzi pareva tutta soddisfatta nel vedere questo strano avventore pendere dalle labbra di lei, chinare il capo in atto ossequente a tutto ciò che ella diceva, senza toccarle la punta di un dito... E dalla tristezza, dal rancore, dalla maraviglia io passavo finalmente a un senso di sottile compiacimento spirituale. Ero venuto a cercare il piacere dei sensi e trovavo quello del pensiero, nel curioso paragone psicologico che s’era imposto alla mia attenzione e mi forniva gli elementi d’una specie d’equazione morale. Come l’esercizio d’uno stesso mestiere e l’influenza d’uno stesso ambiente imprimono nelle persone nativamente più dissimili un carattere di simiglianza, così tra la mercenaria e la dama che in condizioni e a patti diversi vivevano dell’amore, le differenze s’andavano riducendo, per adoperare ancora il linguaggio delle scienze esatte, infinitesimali e trascurabili: la cortigiana nel salire verso la signora, questa nel discendere, tendevano a darsi la mano. Fra quelle due anime si poteva veramente già porre il segno dell’eguaglianza.» LE CICATRICI Le nuove pagine del giornale di Ermanno Raeli che ultimamente io le trascrissi non le sono dunque piaciute, incontentabile amica, quanto le prime. Me l’aspettavo. Non vi si parlava di poesia, una signora vi era agguagliata ad una semplice mercenaria: ella quasi ritoglie pertanto alla memoria del povero amico mio la stima che prima gli aveva concessa. Per vero dire ella si degna di ammettere l’esattezza dell’equazione morale di Ermanno, ma teme che, «secondo il solito,» da un caso particolare io tragga conseguenze troppo generali. Si rassicuri: se un tempo caddi in questo errore, dopo che ella m’ha dato sulla voce starò più attento e andrò più cauto. Io non affermerò, per non farle dispiacere, che quasi tutte le signore galanti somigliano troppo alle mercenarie; dirò invece che, alle volte, c’è delle mercenarie che valgono più delle signore galanti... Per fortuna, molte centinaia di chilometri ci dividono, e se io le faccio rabbia, sono, come direbbe un artigliere, fuori del tiro della rabbia sua. Il meno che potrebbe capitarmi, se invece di scriverle queste cose glie le dicessi, sarebbe d’esser messo alla porta. Ma forse ella non spingerebbe fino a tanto lo sdegno; come non l’ha finora spinto fino a rimandarmi indietro, senza leggerle, queste mie lettere. Loro signore hanno una passione irresistibile che si chiama _curiosità_. E’ naturale: poichè non conoscono, e non possono e non debbono conoscere certi fatti umani, i fenomeni sociali troppo tristi, le miserie, le vergogne, le piaghe, tutto il lato della vita che resta nell’ombra e nel mistero, ma del quale presentono l’importanza, sono cupide di saperne qualcosa dagli uomini, la cui molteplice e libera esperienza non ha secreti. Non dico che se la gente sapesse di che cosa le scrivo ella non m’ingiungerebbe di smettere; ma — sia sincera! — poichè nessuno sa gli argomenti delle mie lettere, ella se ne sdegna, va bene, ma poi le aspetta curiosamente. Già una volta io dovetti parlarle d’un luogo che i chinesi chiamano poeticamente _barca di fiori_, ma dove di poesia non ce n’è punta. Le vicende di questa nostra discussione epistolare mi fanno andare un’altra volta là dove il grande Poeta di cui non potei dirle il nome fece la veglia dell’arme. Senza dubbio le sciagurate che popolano queste case hanno perduto quasi sempre le ultime vestigia dell’umana dignità e sono oggetto di orrore e di ribrezzo; ma non possono esse talvolta ispirare un altro sentimento, tutto caldo, tutto cristiano, il sentimento della pietà? Quando la loro miseria sembra inguaribile, non possono esse dar prova che erano degne d’un meno infame destino?.... Io le narrerò quel che accadde una volta ad un altro poeta, non grande come l’Anonimo, ma certo non infimo. Ella non dirà così che nelle mie lettere non c’è mai poesia. Quest’altro sognatore, adunque, una sera che i fumi del vino gli avevano annebbiato il cervello, si trovò non solamente incapace di resistere agli incitamenti della chiassosa compagnia con la quale aveva banchettato, ma perfino di giudicare dove fosse e che cosa facesse. Se, nella prima gioventù, arso di amore, egli non aveva troppo badato, come tutti gli altri uomini, al bicchiere nel quale dissetavasi; con gli anni era divenuto molto riguardoso, e le nobili amicizie nelle quali aveva attinto alte ispirazioni lo avevano per sempre distolto dagl’impuri piaceri che un tempo erano per lui amari argomenti di torbidi canti. L’arte sua, da principio degna d’un orgiastra, impudica, satanica, piena di volute reminiscenze baudeleriane, erasi purificata; egli rideva ormai dei suoi antichi atteggiamenti e non comprendeva perfino come avesse potuto trovar materia d’arte — d’un’arte sia pure corrotta — nelle case del vizio. Senza dubbio i ricordi delle letture, le imagini rettoriche delle quali la sua mente era popolata, e non già le dirette impressioni della realtà avevano alimentato la sua antica produzione; mutata ora la disposizione del suo spirito, egli era certo che dove un tempo aveva trovato creature diaboliche, tragiche vittime o dolenti sorelle; dove aveva scoperto l’antitesi della carne impura e dell’anima vergine, dell’oro e del fango, del riso e del pianto, non avrebbe rinvenuto altro che la più vile stupidità. Senza sua volontà, pertanto, anzi a propria insaputa, si destò quella sera accanto a una donna che gli aveva gettato le braccia al collo, una creatura bella e strana ad un tempo, grande, forte, con una testa che pareva sbozzata nel marmo, a larghi tratti, rassomigliante tutt’insieme a qualche animata statua della cacciatrice Diana. Ma la fredda e quasi scultorea espressione del viso era animata dagli occhi azzurri, dolci e ridenti come un celeste spiracolo. I capelli castani, crespi, foltissimi e corti, le mettevano sulla nuca come un casco enorme ed opprimente; una lunga veste azzurra, stretta alla cintura, stretta ai polsi, pudicamente copriva tutto il suo corpo ed era appena aperta intorno all’attaccatura del collo, tanto tuttavia da lasciar scorgere, sulla pelle bianchissima, la riga esile ed ancora un poco più bianca d’una cicatrice. — Che è questo? — domandò il poeta quando si fu liberato dall’abbraccio e per vincere in qualche modo l’imbarazzo al qual’era in preda. — Non vedi? — rispose ella con un forte accento esotico sgraziato a udire ma che si traduceva plasticamente in un vezzoso atteggiamento delle labbra ed era, insomma, una stranezza di più. — Non vedi? Una cicatrice. E’ stato un colpo di coltello: potevo morirne. Trapassò il polmone; quando fui guarita stetti tanto tempo tossendo. Il mio amante mi fece questo, per gelosia; mi voleva bene! E mettendo tratto tratto una mano sulla spalla del suo cliente, costringendolo a prestarle attenzione, esclamando: «E senti!... e ascolta!...» narrò la storia. L’amante suo, al quale non faceva senso la rivalità di tutta la folla, aveva impeti di cruccio violento se ella accordava un sorriso o se rivolgeva più spesso la parola o se stringeva più forte la mano a qualcuno, al primo venuto. Le voleva proibire di muoversi, di parlare, di guardare! Proibirlo a lei che s’era ridotta a quella vita per non aver potuto tollerare l’obbedienza, che aveva abbandonato il marito per non soffrire il suo dominio, per esser libera di fare quel che le pareva?... E, da principio, l’amante non se la prendeva tanto con lei quanto con gli uomini dei quali era geloso: metteva mano alle armi per impaurirli e indurli a smettere. Quando ebbe dato e ricevuto molti colpi di bastone e di rasoio, s’accorse che sbagliava strada, che non doveva prendersela con gli altri ma con lei stessa. E allora cominciarono le minaccie terribili di morte e di sfregio. Non le parlava più se non con il coltello in mano, tenendola afferrata per il collo, facendole sentire il freddo della lama sulle guance, sulla gola, sul seno, alzando continuamente il braccio in atto di ferire. Ed ella esclamava: «Su, vediamo se sei buono!... Andiamo, presto!... Ma su!...» E poichè egli non riusciva a compiere le minacce, ella gli consigliava compassionevolmente: «Vattene, piuttosto, e non ci tornare più... Non è affar tuo!... M’hai seccato, insomma!...» Finchè un giorno che le aveva ingiunto con più furore di smetterla e che ella gli aveva risposto con maggiore durezza: «No! Vattene, se non ti piace! Ammazzami, se sei buono!...» egli aveva gettato un grido, affondando l’arma con tutte le sue forze. Subito dopo s’era messo a fare come un pazzo e a piangere come un bambino, credendola morta; ma ella lo aveva costretto a fuggire, a nascondersi; e aveva asserito d’essersi ferita cadendo, e lo aveva salvato dalla galera e dalla fame, togliendosi il pane di bocca per sovvenirlo nel rifugio da lei stessa procuratogli. La narrazione di questo amore fatta con grande volubilità, divagando, sorridendo, cantilenando, procurò un gran senso di freddo al poeta, il quale, interamente tornato in sè, avrebbe pagato qualche cosa per essere fuori di quel luogo e lontano da quella creatura. Come doveva esser mostruosa, se l’amore non l’aveva redenta!... Ma imbarazzato più d’un adolescente alla sua prima scappata, egli non sapeva ancora come fare per andarsene, quando la donna, credendo esaurita la curiosità di lui, si mise a cantilenare: _Amour, mystérieux oiseau?_ e cominciò a slacciarsi il corpetto. Allora egli scorse, sulla mammella destra, in prossimità del capezzolo, un’altra riga più piccola, un’altra cicatrice più bianca, più sbiadita, appena notabile sull’avorio della pelle; la cicatrice d’un’altra ferita meno grave ma molto più antica. — E questo? — domandò, punto da una malsana ma prepotente curiosità dinanzi a quella turpe carne crivellata. — Un altro colpo di coltello? La donna rispose, sorridendo un poco: — Oh, no! Un’operazione dolorosa, un taglio che dovettero farmi, al primo latte. — Hai avuto figliuoli? — Due. E riprese a narrare. Uno l’aveva avuto col marito, dieci anni addietro; il secondo _dopo_. Suo marito era matto per quel bambino, ed anche per lei; a segno che, dopo la sua prima fuga con un ufficiale, la riprese in casa quando costui la lasciò. Ma ella era insofferente del giogo coniugale, e la rischiosa avventura e il perdono ottenuto, invece di persuaderla a restarsene tranquilla, la spinsero a ricominciare. E una seconda e una terza volta il marito innamorato la riprese con sè, la sottrasse alla fame, all’ultima perdizione. Si stava bene in casa di lui; era un armatore inglese venuto a stabilirsi a Marsiglia, e faceva molti affari; non le lasciava mancar nulla. Ma _qui a bu boira, n’est-ce pas?_ ed una volta ancora ella scappò, facendo però in modo da non poter essere più rintracciata. Venne in Italia sotto falso nome, errò di città in città, ebbe amanti d’un anno e d’un giorno; finchè, piena di debiti, sul punto d’ammalare d’inedia, cadde in mano degli sfruttatori. — E tuo marito, — domandò il poeta, — non sa più dove sei? — Mai più. — Se lo sapesse? — Verrebbe a riprendermi. — Perchè non glie lo dici? — Per non tornare con lui. — E i tuoi figli? — Morti. Il poeta non domandò più nulla. Il senso di freddo gli serpeggiava più acuto per il corpo. Quella creatura era stata madre, e neppure la maternità era valsa a salvarla! I suoi bambini vivi non l’avevano trattenuta sulla via dell’abbiezione, la memoria degli innocenti morti non la faceva neppure arrossire. A che punto era dunque discesa? E preferiva l’orrore di quella vita al perdono del marito, alla pace della famiglia!... Ma che marito! Ma che figli! Il poeta se la prendeva con sè stesso per l’ingenua e sciocca credulità della quale aveva dato prova. Esisteva un uomo capace di perdonare tante volte, di pensare ancora a quel mostro in forma umana? Non era tutta un’invenzione suggerita dall’idea d’interessar la gente, di farsi credere meno ignobile e infame, ma che otteneva invece il risultato precisamente opposto? Non sapeva egli che non bisogna credere neppure una parola di tutto ciò che queste donne dicono? Come s’era lasciato prendere dalla spudorata menzogna? Ed aveva anche creduto la storia della coltellata per gelosia, della romantica rinunzia alla vendetta e degli aiuti prestati all’assassino! La coltellata era vera, poichè esisteva la cicatrice; ma chi sa in qual rissa glie l’avevano data, per qual rifiuto di pagamento!... Tutto ciò, frattanto, invece di scemare la curiosità del poeta, l’aveva accresciuta. Persuaso dell’infamia di quell’essere, egli voleva vedere, giacchè c’era, fin dove arrivava. E poi, da esatto ragionatore, egli avvertiva una mancanza di logica in tutta quella storia. Ella aveva detto che in casa del marito stava bene; riconosceva dunque che adesso stava male? Ed asseriva d’aver affrontato tante miserie per amore della libertà; ma non era invece riuscita a piombare nella soggezione più vile?... E poi, quegli occhi dolci e ridenti mentivano anch’essi? La nobiltà quasi di statua divina di quella figura mentiva anch’essa?... Allora, quantunque si fosse proposto di non domandare più nulla, si decise a fare un’altra domanda — l’ultima, a suo giudizio. — Sei dunque contenta di quel che hai fatto? Subitamente, negli occhi della donna che il curioso mirava, passò qualche cosa; la loro limpidezza s’offuscò come uno specchio d’acqua s’intorbida per un’agitazione improvvisa. — Sei contenta di esserti ridotta qui? — ripetè egli giacchè non otteneva risposta. — Piango tutti i giorni, — ella disse. Ma la sua voce era calma, uguale a quella con la quale aveva detto le altre cose, forse appena più sommessa; e il poeta, incerto un momento se credere o no, fece come per alzare le spalle. Che sciocco! Come mai gli era venuto in mente di fare simili domande? Non gli restava in verità che mettersi a predicare per convertire la pecorella smarrita e dirle, a mo’ d’esempio: «Figlia mia, pensa alla vita eterna, e pentiti!...» Ed a quell’idea fu preso da una voglia matta di ridere. La donna frattanto, senza dir nulla, s’era sbarazzata del corpetto; le braccia bianche, delicate ed esili come quelle d’una fanciulla, apparvero nude. Subitamente il poeta fece un atto di raccapriccio, esclamando: — Che è questo? Il braccio sinistro era tagliato in due punti da due orribili cicatrici, un poco più su del polso e dalla parte del gomito: due tagli larghi ed irregolari, che pareva fossero stati fatti con uno strumento dentato, o poco tagliente, o tenuto con mano tremante; due ferite a stento rimarginate, simili a due rozze cuciture sulla viva carne, ed ancora accerchiate da due grandi chiazze paonazze. — Chi ti ha fatto questo? — ripetè il poeta inorridito e impietosito ad un tempo, sentendosi finalmente stringere il cuore da un moto d’umana simpatia dinanzi a quella creatura che aveva esaminata con la nauseata freddezza d’un medico dinanzi a un cadavere. La donna rispose, sorridendo un poco di quell’orrore e di quella pietà: — Nessuno; mi sono tagliata da me. Volevo segarmi le vene, e non ci sono riuscita. Vuol dire che questo è il mio destino. LA TOSCANINA Non mi aspettavo meno, mia nobile amica, dalla gentilezza del suo cuore, e le chiedo perdono delle irreverenti parole. Ma quanto delicato è il suo sentimento, altrettanto acuto è il suo spirito, ed ella ha ben compreso che se talvolta le mie espressioni non sono state rispettose come dovrebbero essere, ciò significa che fatalmente lo stato di guerra, tra uomini e donne, non può aver tregua: io, io stesso, compreso di tanta reverenza per lei, mi lascio pur vincere la mano dall’ironia! Vuol ella permettermi di stampare uno di questi giorni, senza nominar lei, beninteso, tutta la prima parte della sua lettera d’oggi? La cristiana pietà per le avvilite creature che hanno ancora coscienza del loro avvilimento non poteva dettarle parole più eloquenti. Ella giudica tuttavia che, per redimersi, esse potrebbero fare qualcosa di meglio che non tentare d’uccidersi, e crede che, volendola fermamente, otterrebbero la redenzione. Penso anch’io come lei: volere è potere. Se non le parrà presunzione ch’io citi me stesso, aggiungerò che altra volta già dissi: «Quando la volontà asserisce d’essere inefficace, bisogna dubitare un poco della sua sincerità.» Soltanto, noi non dovremmo abusare di questi giudizii. I casi nei quali la volontà sincera resta impotente sono disgraziatamente anche troppi. Che diremo noi allora? Se essa s’infranse contro ostacoli troppo grandi e veramente insuperabili, negheremo il suo merito? Anche quando fallì perchè non fu molto potente, disconosceremo quel tanto di virtù che la sostenne? Se volere non è sempre potere, noi potremo dire che in ogni caso chi vuole vale. Poco tempo fa, a proposito del costo dell’amore, io le riferii il motto d’una mercenaria al mio amico Grolla. Costretta dalla necessità a chiedergli un poco di denaro costei gli disse, timidamente: «_Non mi vuoi più bene?_» parole che fecero molta impressione all’amico mio, specialmente perchè gli rammentarono l’altra domanda, tanto meno delicata, rivoltagli da una dama: _Ti costo troppo?_ Io che ho accusato lei di curiosità non potrò oggi far meglio ammenda del mio torto se non confessandole la curiosità mia propria. Dopo che Grolla ebbe riferito i due motti, insistetti presso di lui affinchè mi narrasse qualche altra cosa della dama e della mercenaria. Egli soddisfece a mezzo l’aspettazione mia: della dama non volle dirmi nulla, ed io compresi che il rancore, lo sdegno e lo sprezzo glie ne rendevano incresciosa la stessa memoria; della mercenaria mi narrò la storia. Siccome, dopo le idee che abbiamo scambiate sulle infelici sue pari, potrà interessarla, così glie la voglio riferire. Trascrivo dalla lettera dell’amico mio: «Il suo vero nome» mi scrisse egli dunque, «era Margherita, ma la chiamavan tutti la Toscanina perchè era di Siena ed aveva un personaggio piccolino, magrolino, delicato, e un viso così dolce che la rassomigliava a non so qual Vergine Beata, e una vitina sottile che sarebbe parsa più sottile ancora, se ella avesse potuto stringersi nel busto, come fanno tutte, senza mandar sangue dalla bocca... Ella diceva questa cosa semplicemente, come diceva semplicemente, quando la padrona di casa, la serva, tutta la trista gente che l’attorniava le aveva dato qualche dispiacere: «M’hanno fatto molto male: ho sputato sangue, sono svenuta; allora hanno avuto paura...» Pure, fumava sigarette una sull’altra e beveva liquori, e se la rimproveravano di ciò, rispondeva: «Mi faranno male dopo; per ora mi danno animo...» Soffriva sempre di qualche cosa, accusava sordi dolori, ma il suo buon umore non cessava per questo, e le sue labbra piccole e bianche si schiudevano naturalmente al canto. Nella notte alta, per le vie deserte, o in barca, sul mare, si metteva a cantare a tutta voce: una voce leggermente stridula che tratto tratto s’arrochiva senza che ella si decidesse a smettere mai. «Capille nire cumm’a nu velluto, Capille nire ch’ardono d’ammore... «Erano così i suoi capelli, neri e vellutati, e quando ne disfaceva l’acconciatura e li lasciava cadere in due grosse bande sulle spalle, l’ovale del suo viso pallido ed affilato in quella cornice d’un nero lucente acquistava un’espressione misticamente ideale, una meravigliosa purezza, come quella d’una Suora sognante le letizie del paradiso. «Sette passi già gli ho contati, Quant’è lunga la mia cella... «Un’altra delle sue canzoni — e diceva d’averne trovato i versi e la musica quando suo padre l’aveva chiusa in un monastero: una storia nella quale non si sapeva bene dove finisse la verità e dove cominciasse l’invenzione — come in tutto ciò che dicono le sue pari. Però qualcosa la distingueva dalle altre: un fondo inalterato di naturale bontà e specialmente una semplicità di gusti, una grande facilità di contentatura, una remissione costante. I più piccoli regali la rendevan felice; non aveva mai voglie; sempre che le offrivano qualche cosa forzava gli offerenti a sceglier essi, quasi non si trattasse di far piacere precisamente a lei. «La luna nova ’ncoppa a lu mare stenne na fascia d’argiento fino... «Le notti della luna piena, nonostante l’umidità perniciosa della marina, era per lei una festa venire in barca: rammento certe sere nel porto, col mare tranquillo e piano come una tavola, quando la facevo distendere sul dorso, sorreggendola col braccio, perchè non vedesse altro fuorchè il cielo stellato; e certe altre quasi tempestose, quando in faccia alla scogliera del molo, dove le onde si scagliavano furibonde, ella cantava con voce più squillante, quasi a sfidar gli elementi, e rideva mostrando le perline dei denti, e mi afferrava fortemente il braccio ad ogni scossa della barca sballottata come un pezzetto di sughero. Una volta dimenticò di prendere il mantello, e siccome io avevo una gran paura che l’umidità le facesse male, tentai di persuaderla a buttarsi la mia giacchetta sulle spalle. Non l’avessi mai detto! Mi diede del matto, mi picchiò col ventaglio quasi rabbiosamente, e non ci fu verso di piegarla. Un’altra sera, ai piedi della scala della lanterna, vide un cagnaccio rognoso, una povera bestia che se ne andava lungo il muraglione, evitando le gente, quasi presaga dell’accoglienza che gli era serbata. La vista di quel cane le diede un brivido di ribrezzo, e poichè io, per chiasso, feci il gesto di chiamarlo, ella si mise a salire precipitosamente le scale, fuggendo. Allora finsi d’inseguirla, costringendola ad arrampicarsi più presto, e la raggiunsi sulla spianata; ma come mi pentii dello scherzo! La poveretta ansava ed era tutta sbiancata in viso, sul punto di perdere i sensi. Con le mani faceva un gesto che, sulle prime, io non compresi: voleva dirmi a quel modo, non potendo parlare, di metterle una mano sul cuore perchè sentissi come batteva. Che paura! Pareva si schiantasse. Ma di lì a qualche minuto, quando riscendemmo in barca, l’affanno era passato ed ella riprese il suo canto... «Le cure che io avevo per la sua persona la stupivano molto; spesso mi diceva: «Com’è curioso questo qui! Hai paura che io muoia? Sta tranquillo: non sarà per ora!...» Pure, aveva qualche momento di nera tristezza, di quella tristezza muta e profonda che non si sa come lenire. Mi faceva tanta pena, nel vederla così gentile e nel saperla in quella vita, con quel male che le rodeva il petto, che un giorno, avendola trovata in uno di questi momenti, tentai di esprimerle l’interesse e la simpatia che m’ispirava. «Non mi compiangere, sai,» rispose, «non voglio!...» ed era quasi duro il suono della sua voce nel dire queste parole. Per distrarla, la condussi in campagna; a tutti i poveri che incontrammo volle dare qualche cosa. Un vecchio cieco, accasciato sopra un mucchio di sassi, tendeva la mano scarna, rugosa e tremante: ella fece fermare la carrozza, discese, e gli mise in mano una moneta dicendogli: «Dite un’avemaria...» «Tutti quelli che soffrivano, che mancavano di pane le facevano molta pietà, forse pensando che un giorno sarebbe mancato anche a lei, o rammentando, chi sa, che le era mancato una volta. «Se io dovessi ridurmi a fare la serva, a vivere di elemosina,» diceva, «sta pur sicuro che mi ammazzerei. Il fiume non c’è per nulla, o il mare... E poi, posso chiudermi in camera, con molti fiori dentro, e lasciarmi morire così...» Ella doveva aver trovato questa idea in qualche libro — perchè leggeva! I suoi libri erano romanzi di Montépin e di Boisgobey, altra roba francese ancora più brutta, edizioni economiche ad una lira, dalle copertine rozzamente illustrate. In mezzo, come smarriti e vergognosi della compagnia, i versi dello Stecchetti, che la povera ragazza certamente non capiva. Infatti, non vorrei che attraverso questi miei ricordi tu la vedessi abbellita, nobilitata, migliore di quel che in realtà non fosse. Era una creatura perduta che portava nei modi, nel linguaggio e nello stesso pensiero il marchio della sua condizione, senza nulla che la riscattasse fuorchè i segni, intermittenti e non visibili a tutti, d’una primitiva delicatezza di sentimento, d’una nostalgia delle perdute serenità spirituali — parole forse un po’ troppo preziose per la cosa che debbono esprimere... Ma la sua tristezza era di breve durata; il canto e il riso fiorivano assiduamente sulle sue labbra. Parlava molto, di tutto, saltando di palo in frasca, ma tornando con insistenza su certi casi della propria vita. Certo, come li raccontò a me li avrà raccontati a molti altri; certo ancora, se si potessero paragonare le varie versioni, si troverebbe che non corrispondono, che i particolari variano, che le giunte e i ricami alterano il carattere e la significazione dei casi. Di quest’abitudine della menzogna, in tutte le Toscanine, tu hai già ragionato, ed è inutile dirti che io consento interamente con te. La coscienza del loro avvilimento presente le spinge a dar sapore di poesia alla loro vita passata; ora questo mi piaceva specialmente nella Toscanina mia: che le sue narrazioni non parevano molto abbellite, poichè, senza esservi costretta dalla presenza di nessun testimonio e contro il suo proprio interesse, ella diceva cose, della sua vita trascorsa, che le potevano nuocere. «Sì, la Toscanina confessava d’esser passata per il più infame servaggio. Noi usiamo, per indicare la somma d’ammaestramenti cavati dalle lunghe esperienze, una frase che dice: «Conoscere la vita,» e ciascuno di noi si forma di questa vita un’idea diversa secondo le diverse vicende per le quali è passato. Le Toscanine adoperano anch’esse una frase per indicare l’esercizio del loro mestiere, una frase molto espressiva: «fare la vita,» e fra il nostro «conoscere» e il loro «fare» c’è tutta la differenza che passa tra il dilettante e la vittima. Perchè, se il risultato della nostra esperienza consiste nella persuasione che l’esistenza non è tutta triste nè tutta gioconda, quale persuasione si dovrà formare nella coscienza di queste sciagurate? Forse... nessuna! Provvidenzialmente, esse vivono giorno per giorno, senza vedere gli orrori dell’Irrimediabile; e del resto se la loro miseria è spaventosa, ha pure talvolta qualche attenuazione e qualche compenso. La Toscanina, quand’io la conobbi, aveva vent’anni, ed era da sei nella _vita_; se aveva pianto, aveva pur visto il pianto di molti uomini; se aveva sofferto la fame, aveva pure distrutto vere fortune. Ed aveva conosciuto chi era stato pauroso di toccarla quasi ella potesse spezzarsi, e chi l’aveva presa a colpi di revolver e di rasoio... «Aveva amato. «Io credo che queste creature possano e sappiano amare; credo anzi che, se le Toscanine soffrono, piangono e all’occorrenza si uccidono per amore, ciò prova che questo famoso amore non è soltanto il desiderio delle carezze — esse non possono dire di struggersene invano! — ma anche un bisogno tutto morale. Si deve tuttavia essere molto accorti prima di credere a simili donne; quante ve ne sono indegne di fede? Precisamente l’indegnità della più gran parte rende sospette le poche eccezioni. A dar retta alle molte, l’amore le ha perdute: esse non mancano anzi di narrarvi un complicato romanzo. Ora, la Toscanina non diceva questo e non narrava romanzi. Particolare strano: non dava nessuna versione intorno alle origini ed alle circostanze del suo primo errore. «E’ tutta una storia» diceva; e questa storia consisteva, a suo dire, nel fatto che ella non serbava memoria, non aveva anzi mai saputo quando e in che modo aveva perduto la sua innocenza. Era forse un’arte più raffinata quella che le suggeriva di avvolgersi in un preteso mistero, o v’era un mistero realmente, e quale? Non potei saperlo. L’amore del quale la Toscanina parlava era nato in lei nei giorni peggiori della sua schiavitù. «Me ne rammento come fosse ora,» narrava; «la prima volta che vidi Riccardo fu una sera, tardi: io era rannicchiata sopra un divano, coi piedi mezzo fuori delle pantofole, il capo appoggiato sul braccio e avvolto in una fascia rossa che pendeva fin sul tappeto. Entrarono a un tratto tre o quattro allegri giovanotti che scherzavano fra loro; io mi voltai un poco per vedere chi fossero e poi mi raccolsi meglio nel mio cantuccio. Dopo un poco uno di loro si mise al pianoforte e cominciò a sonare. Sonava tanto bene; ma io non lo vedevo, perchè tenevo gli occhi chiusi; e anche li avessi aperti, egli mi voltava le spalle. Fra l’altro, sonò un valzer, ma così bello come non ne avevo mai udito altri. Quando finì e stava per alzarsi, m’alzai io prima di lui, e me gli avvicinai: — Se non le rincresce, vuol ripetere quel valzer? — Mi rispose: — Subito. — Così gli rimasi vicino e lo vidi in viso. Quante volte poi egli l’eseguì per me sola!...» Era un valzer non so bene se di Strauss o di Waldteuffel, uno di quei canti di gioia in mezzo ai quali par di sentire l’accento d’una indefinita tristezza e quasi l’avvertimento che nessun tripudio è durabile. «Sono stata tre anni a piangere sempre che m’è tornato a mente!...» — diceva la Toscanina — ma adesso non piangeva più, ripetendolo con voce leggermente roca, strozzata di tanto in tanto da un breve nodo di tosse. «— Perchè dunque il primo amore non si scorda più?... — mi domandava soltanto; ed io le facevo della psicologia, procurando di adattare il mio linguaggio all’intelligenza dell’umile creatura, ma accorgendomi tuttavia che, nonostante, ella non comprendeva. «L’amore per il suo Riccardo durò nella Toscanina molto tempo. Le anime sensibili che si decidono ad ammettere la possibilità di questi amori, chiedono almeno che la passione abbia tale virtù da riscattare le donne nel cui cuore è nata e da toglierle alla turpe esistenza. L’arte, quelle poche volte che ha degnato studiarle, ha avuto appunto cura di nobilitarle a questo modo, per non offendere con lo spettacolo della lacrimevole realtà il pudore — vero o finto non importa — della gente per bene. Ma purtroppo la realtà reale è una cosa un po’ diversa dalla romantica. La Toscanina non si riscattò per nulla. Il suo amante, che era semplice studente, le voleva bene, ma non aveva di che toglierla da quella vita. Per lei, come per tutte le sue pari, concedersi alla folla non è mancar di fede all’amico prescelto; esse fanno una gran differenza, nella quale risiede la loro gran prova d’amore, fra le carezze alle quali si sottopongono e quelle che ricambiano. La Toscanina dava a Riccardo questa prova d’amore, e Riccardo glie ne diede un’altra, traendola, appena potè, dalla miseria dove l’aveva trovata. Allora rifulsero tutte le buone qualità della Toscanina; la sua affezione, la sua umiltà, la sua costanza. Essere d’uno solo era stato sempre il suo ideale. Per le sue compagne di destino la virtù è un lusso: più fortunata di molte altre, ella potè concederselo. Ma quanto poco durò! Il giorno che l’amante non potè più assicurarla contro le difficoltà materiali dell’esistenza, ella tornò alla condizione di prima. Non cessò per questo l’amore. Anche svanito il bel sogno, la Toscanina continuò a voler bene al suo studente. Il dolore di lei cominciò anzi quando s’accorse che Riccardo s’intepidiva, che la trascurava, che le preferiva altre donne. Che scene accaddero fra loro due? Quali forme prese la gelosia dell’una e l’egoismo dell’altro? Quali accuse si scambiarono? Impossibile appurarlo con precisione. Queste confessioni mi furono fatte dalla Toscanina a varie riprese, senz’ordine; nè io pensavo ad interrogarla, perchè le risposte alle mie domande erano stentate, confuse, spesso contraddittorie; mentre in tutto quel che diceva spontaneamente c’era un accento di verità innegabile. Certo è che la Toscanina si mantenne lungamente sommessa ed implorante, minacciando soltanto quando quell’altro divenne più freddo e più duro. «Bada, Riccardo! Bada a quel che fai! Verrà giorno che mi piangerai dinanzi, e allora sarà troppo tardi!...» Infatti quel giorno venne. Quando ella scelse un altro uomo, non perchè sentisse nulla per lui, ma per farlo servire ai proprii disegni; quando a propria volta fece l’antico amante spettatore delle preferenze accordate al nuovo, quegli si ribellò, minacciò, pregò; ma tutto fu inutile. Con la bocca d’un revolver dinanzi agli occhi, ella diceva: — Ammazzami se ti piace, ma tutto è inutile, sai!... — Lo straordinario del rancore del quale adesso ella era oggetto, e ciò che rivela ancora una volta come l’amore sia qualcosa di più e di diverso dalle carezze, è questo: che i rapporti materiali fra il giovane e la Toscanina non erano punto mutati. Come prima, ella era di tutti continuando ad esser di lui; ma egli non poteva più ottenere ciò che prima gli era stato accordato: un pensiero, una parola, qualche cosa d’immateriale. E la Toscanina vide le lacrime che aveva profetate, e quella vista, invece di placarla, la rese maggiormente spietata; finchè, improvvisamente, chi sa perchè? senza che l’amante abbandonato avesse fatto nulla di più per riprenderla, ella tornò con lui come un tempo. «Quante volte si rinnovarono queste rotture e queste riconciliazioni? Un brutto giorno tutto finì per sempre: Riccardo dovè tornare al suo paese e la Toscanina non lo rivide più. Le scrisse, nei primi tempi; poi le sue lettere divennero rare e cessarono del tutto. Adesso che non l’aveva più vicino, ella pensava all’amante perduto con un accoramento senza fine. Quel valzer, al suono del quale avevano scambiate le prime parole, la faceva piangere; la miseria della propria esistenza le pareva più grande, più sconfortata. L’acuto dolore passò; ma dopo parecchi anni ella non parlava d’altro che del suo Riccardo, raccontava a tutti noi le opinioni e i gusti di Riccardo, in qual modo Riccardo la chiamava nei suoi momenti buoni, quello che le diceva nei giorni di burrasca. Vedendo che io prestavo attenzione ai suoi discorsi, non mi risparmiò nulla, e la mia buona grazia nell’accogliere quelle confidenze mi valse la sua simpatia. Quando le chiedevo qualche cosa di Riccardo le facevo un piacere straordinario; quel giorno che la condussi in campagna, scrissi sopra un pezzo di muro bianco il nome di lei e quello dell’amico suo: sorrise di contento, esclamando: «Povero Riccardo! Chi sa a quest’ora dov’è... se si ricorda anche lui!...» Altri uomini le avevano voluto bene; ella non ricambiò nessuno come quel giovane. Un Inglese s’era invaghito di lei e l’aveva colmata di regali; la Toscanina diceva di questi: «Serviranno per impegnarli, quando non ci sarà di che mangiare.» Invece un braccialino, un tenue filo d’oro datole da Riccardo, non lasciava mai il suo polso. Del resto, come poteva ella credere al bene degli uomini se, quando il male l’aveva minacciata più gravemente, nessuno di coloro pei quali ella era stata uno strumento di piacere, aveva pensato, non che ad aiutarla, ma neppure a dirle una buona parola?... Quanti avevano pianto, lasciandola; quanti avevano giurato di tornare da lei, di pensare a lei, di scriverle sempre! Erano scomparsi, e addio!... Ella non l’aveva con nessuno. Non mostrava la sua malinconia se non a chi le dimostrava un po’ d’interesse; nè la mostrava sempre; che anzi la sua fama era quella d’una ragazza piena di buon umore, fatta per aver posto in mezzo alle gioconde brigate. Soltanto, se qualcuno la stringeva alla vita, impallidiva un poco dalla pena. Ma della morte non aveva paura. «Non m’importa di morire; anzi, mi leverei da tanti guai! Che ci sto a fare? Morta io, ne resteranno tante altre!...» Ma subito dopo: — Vorrei morir nella stagion dell’anno... «E la storia di Margherita Gauthier l’affascinava. Correva al teatro quando c’era quello spettacolo, in prosa od in musica; e fra i suoi libri il più sgualcito era _La Traviata_ ovvero _La Signora dalle Camelie_. Più che la sua bellezza veramente delicata, la sincerità di certi suoi sentimenti, l’innata bontà dell’animo e lo stesso male che covava nel suo petto la rendevano degna d’interesse. L’idea che veniva a molti, pensando a lei, era di poterla trarre da quella vita, di mandarla lontano, sui monti, in riva al mare, a curarsi, a guarirsi. Ti dirò che l’ebbi anch’io. E poichè ella comprese questa cosa, e poichè le avevo dato altre prove della mia premura per lei, credette di dovermi dire che sarebbe stata volentieri con me. Scherzando io osservai: «E Riccardo?...» Restò un momento imbarazzata, poi disse: «Ora non penso più a lui come prima; col tempo lo dimenticherei del tutto...» Io soggiunsi: «Ma non dicevi che il primo amore non si scorda più?...» — «_Questo sarebbe il secondo_...» ella mi rispose: motto veramente straordinario, sul quale il tuo Stendhal avrebbe scritto un volume!...» LO SCANDALO Ma no, ma no, mia buona amica; io non mi sono mai sognato di dire che tutte, o la più gran parte delle mercenarie sono come quelle delle quali le ho parlato, ancora capaci di sentimenti buoni e degne di ispirarne. Lo scherzo è scherzo, ed ella sa, senza che io glie lo dica, a che punto comincia e dove poi finisce. Se un certo sdegno contro i giudizii volgari può spingere al paradosso, la verità vera non deve restare a lungo disconosciuta, e la vera verità intorno all’argomento che oggi ci occupa, è questa: che le mercenarie come la Toscanina e la sua compagna dalle cicatrici sono troppo rare eccezioni; d’ordinario non accettano e non gustano la turpe vita se non turpi creature. Tuttavia, hanno gli uomini il diritto di disprezzarle — intendo gli uomini che le cercano e se ne giovano? Non c’è in questa nostra società un’ipocrisia spaventevole grazie alla quale — diciamo meglio: per colpa della quale — i morigerati difensori della scrupolosa morale sono poi quelli che più godono nel vizio? Le persone molto virtuose sono sovranamente indulgenti — quando non sono spietatamente severe. E se questa sentenza le pare un bisticcio, io le dirò che ci sono diverse qualità di virtù: una arcigna, l’altra benigna; e che la virtù più vera, più _virtuosa_, è la virtù buona. Io credo che bisogni diffidare un poco dell’esagerazione scrupolosa. Mi pare che un’anima capace d’intendere veramente la vita debba inclinare al compatimento. E senza insistere questa volta nell’esordio, passo a narrarle una saporosa storiellina non solamente per dimostrarle questa mia idea, ma anche per darle ragione nella sua protesta contro il troppo indulgente giudizio delle donne che si vendono. In questa mia storiella vedrà una mercenaria-tipo, cioè volgare, cupida, odiosa; una di quelle per le quali non si può provare altro che sdegno — a patto di non frequentarle... Uscivamo una sera dell’inverno passato, io ed il mio amico Baglioni dal teatro dei Fiorentini: io spettatore, Baglioni autore d’un dramma intitolato _L’Onore_ che aveva fatto un fiasco tremendo. Il dramma era una cosa fortissima, straordinariamente bella, una vera opera d’arte. L’avevano fischiato dalla platea, dai palchi, dal loggione, tutti quanti, accaniti, feroci, inumani, perchè era immorale. Quelle poche persone non destituite interamente di senso comune con le quali avevo parlato, andando via, riconoscevano il valore dell’opera, ma disapprovavano altamente che sulla scena si portassero fatti tristi e personaggi abbietti. «Non sono neppur veri!» avevo sentito dire; «gli uomini non sono così indegni come questa nuova scuola letteraria li fa! Se pure fatti simili accadono, saranno eccezioni; e perchè mai l’arte avrà da cercare col lanternino i rari e oscuri esempii dell’infamia e della viltà, e non dovrà invece rappresentare gli esempii quotidiani e luminosi della bontà, della dignità, della grandezza?» Non avevo voluto discutere, tanto ero irritato ed offeso per l’amico mio dagli urli selvaggi, dall’osceno baccano che aveva accolto l’opera sua; se avessi discusso avrei risposto ai moralisti: «La prova della dignità, della bontà, della grandezza, eccola qui, lampante: un uomo pensa, studia, discute tra sè, giorno e notte; egli ha la febbre, non dorme, non riposa. Perchè? Che cosa fa? Che cosa vuol fare? Egli vuol rappresentare un pezzetto di vita, prendere tre o quattro creature umane e inchiodarvele lì, vive, palpitanti ed immortali! Con le parole, con segni immateriali, egli vuol darvi l’illusione della vita; l’illusione? No, qualcosa di reale, di più reale; perchè la vita passa e l’arte resta; perchè senza Dante, senza Shakespeare e senza Balzac noi non sapremmo che cosa furono e che cosa sono gli uomini! E perchè questo scrittore, questo artista, questo pensatore ha scelto male — concediamo! — perchè ha rappresentato cose non belle, costoro, i difensori della bellezza, per provargli che bisogna far meglio, lo ingiuriano, lo scherniscono, l’offendono, lo vilipendono, gli urlano dietro, lo pigliano a sassate come un cane rognoso. E chi sono costoro che si sollevano in nome dell’offesa morale? Prendeteli a uno a uno, guardate nella loro vita, cercate che cosa hanno fatto oggi, che cosa faranno stasera, stanotte, quando andranno via di qui, dopo compiuto il dovere di svergognare l’immoralità, e poi ditemi se hanno proprio il diritto di compiere questo dovere; se tutte queste reboanti parole delle quali s’empiono la bocca, il dovere, il diritto, il giusto, il bello, il buono, la dignità, il rispetto, non sono per la maggior parte di essi suoni, fiati, accozzamenti di sillabe dei quali sconoscono il senso...» Queste cose che non avevo detto ai critici le venivo ora dicendo all’amico mio, in istrada, tenendolo per il braccio; glie le dicevo perchè avevo bisogno di sfogarmi dicendole, non già perchè egli avesse bisogno dei miei conforti. Egli rideva, d’un riso schietto, d’un riso sonoro ed infrenabile. Prima della rappresentazione m’aveva, sì, espresso i suoi dubbii sull’arditezza del dramma e le previsioni della caduta; ma se ai primi sintomi del fiasco s’era crucciato come un padre che vede mal accolta la creatura sua, il selvaggio accanimento del pubblico, il rossiniano crescendo dell’indignazione, la sollevazione furente delle timorate coscienze dinanzi alla dipintura d’un fatto preso dal vero, d’un fatto disgraziatamente troppo frequente e tanto tollerato nella vita reale, lo aveva esilarato come una cosa buffa, come una caricatura morale. — Ah! Ah! Ah!... E’ incredibile!... E’ troppo!... E’ troppo!... — esclamava. — No, senti, è troppo!... E come dò ragione a quei filosofi che fanno consistere l’umorismo, il riso, nell’effetto d’una esagerazione, d’una sproporzione imprevista!... Se m’avessero zittito o fischiato solamente, avrei pensato ai casi miei, avrei dubitato di me stesso, dell’opera mia; ma questa tempesta?... Ah! Ah! il barone di Caggiano che non m’ha salutato, hai visto? quando gli son passato dinanzi!... Don Ferdinando Acquaviva che urlava come un ossesso!... Il generale Crozio che s’è alzato ed è andato via dal palchetto di Donna Irene!.. Ah! Ah! Ah! Che bellezza! Non misuri tu la bellezza di queste cose?... Il barone di Caggiano paladino della morale!... Don Ferdinando accanito contro di me che l’ho salvato dalla gogna!... E Caggiano con lui, e il generale e una trentina di costoro che hanno creduto di mettere alla gogna me e l’opera mia!... No, è incredibile! è grande.... Non dunque la sola goffaggine dell’indignazione pubblica faceva ridere tanto Baglioni; egli aveva un’altra ragione più intima, ottenendo da tanta parte degli spettatori una insigne prova d’ingratitudine. La mia curiosità fu naturalmente eccitata da questo accenno; talchè, non appena le sue risa si sedarono: — Come mai li salvasti dalla gogna? — gli domandai. — Come? In un modo semplicissimo!... Ma tu li conosci, costoro? Li conosci bene? Conosci le loro famiglie, la società dove vivono?... Sai che Caggiano ha una moglie giovane ancora, bella, buona, una fenice di moglie, e due figliuole, due pure giovanette, una più gentile dell’altra, delle quali la mamma sembra la sorella maggiore?... Tu non sei stato in quella casa, non conosci la vecchia madre di quel signore, una dama del vecchio stampo, tutta dedita alle opere di carità, rimasta fedele alla dinastia spodestata, legittimista e cattolica severa e sincera?... E don Ferdinando? Lo spauracchio dei suoi scapestrati nipoti! Un altro borbonico, amico di Sua Eminenza, frequentatore assiduo di tutte le sacrestie?... Ed il generale Crozio che fa piovere gli arresti sulle spalle dei suoi poveri tenentini, solo colpevoli di avere vent’anni?... E il cavaliere Stromita, il direttore del _Vesuvio_, il giornale più rugiadoso, più untuoso del mondo?... E il vecchio don Gennaro Debiase, letterato morigerato, dello stampo antico, strenuo idealista e romantico inconvertibile, a settant’anni, con i capelli tinti e le unghie in lutto?... Orbene, sta un poco a sentire. Ah! Ah! Ah!... Ricominciava a ridere, mentre ce ne andavamo per via Caracciolo, lungo il mare che ciangottava contro la riva e rompeva il riflesso della luminosa collana distesa dalla Vittoria a Posillipo. — Sta dunque a sentire!... Quattro anni addietro, subito dopo laureato, quando ancora la mania letteraria non m’aveva ben preso, o per meglio dire quando non aveva ancora trionfato dell’opposizione di mio padre, io feci, per obbedire al desiderio di lui, il vice-pretore. Ne vidi di belle! E il motivo dell’_Onore_ lo trovai appunto nelle severe aule di Temi. Dunque un giorno, mentre ero col pretore titolare ad accordarmi con lui intorno a ciò che dovevo fare durante la sua prossima assenza, entra l’usciere, tutto sossopra, con gli occhi spalancati dietro gli occhiali cascanti, e dice: «Signor pretore! Signor pretore! C’è una signora che le vuol parlare!...» Il mio principale domanda: «Non ne avete viste mai, che siete così sbalordito?...» E il poveromo: «Una signora, signor pretore... una signora! una baronessa!» Rido ancora rammentando con qual tono di stupito rispetto, di reverente e quasi annichilita meraviglia il povero don Pasquale riferì quel titolo: «Una baronessa!» E allora il pretore — bisogna averlo conosciuto anche lui: giovane ancora, ma unto, lurido, sbracato, con una chioma boscosa, la barba d’otto giorni, villoso fin sul naso — il pretore, dicendo all’usciere di farla passare, si ricompone sul seggiolone, porta le mani al nodo della cravatta, ficca le dita nella selva dei capelli, cerca di cavar fuori dalle maniche i polsini dei quali la camicia mancava, per esser meglio in grado di ricevere l’annunziata gran dama. E appena costei entra, con un fruscio di gonne insaldate, appestando d’_ylang-ylang_ la sala, egli si leva, fa un inchino spropositato, avanza una seggiola ed esclama: «Signora baronessa, voglia favorire d’accomodarsi!...» Mio caro, una scena da morire dalle risa. «La baronessa era un bel donnone stagionato, statura da carabiniere, capelli tinti del color rame, ciglia di nero fumo, occhiaie di filiggine, labbra di carminio: tutta una pittura. Sulle forme copiose portava un abito giallo abbarbagliante, un gran cappellone nero con una montagna di penne e di fiori, grosse perle alle orecchie e guanti lunghi fino alle ascelle. «In che cosa posso servirla?» fa il principale; ed ella, con la voce professionale, dolcemente rauca, e un terribile accento francese: «Signor pretor, si c’è une giustisia al mond, i calunniator debbon andar in prison!» Il principale, sprofondato adesso nella sua poltrona, con la testa affossata tra le spalle, stende ambe le braccia e risponde: «Non dubiti, signora baronessa: c’è una giustizia, ed io ne sono un indegno ministro; ma prima di mandare la gente in prigione, bisogna vedere! Ella è stata calunniata? Come? Da chi?» E la baronessa: «Da una _sale_ canaglia, che fino a quindici giorni addietro veniva in casa mia e mi faceva l’amico! Dopo tutto quello che m’è costato! Se gli presentassi il conto del solo _champagne_, non avrebbe come pagarlo, miserabile _crapule_!... E adesso tira a rovinarmi, a togliermi il pane, pezzo di _voyou_, che possa finire in galera!...» Che ti posso dire, amico mio? Il diluvio delle male parole era spaventevole. Agli epiteti più violenti il pretore emette un _sst!_ discreto e fa con le mani il gesto della moderazione: «La prego, signora baronessa: voglia calmarsi!... E dunque, questo suo, diciamo, ex-amico, adesso vuole rovinarla? In che modo, di grazia?...» Qui ti voglio! Io che pur vedevo prepararsi qualcosa di molto incongruo, mai più avrei sospettato che razza di calunnia la baronessa veniva a denunziare. Imagina dunque che questo suo ex-amico era un giovanottino di primo volo, il quale, o per non avere come pagarla, o perchè dava noia a qualche più ricco cliente, o per chi sa qual altra ragione, era stato da lei pulitamente messo alla porta. Su tutte le furie egli pensa di vendicarsi, e che fa? Va dicendo per tutta Napoli, a chi vuole e a chi non vuole saperlo, che la baronessa ha portato di Francia e regala ai suoi clienti un ricordo che non suol essere molto gradito!... Tu vedi di qui la testa del pretore quando la dama gli spiega la cosa in tutte lettere e gli chiede che, seduta stante, egli chiami un uomo della scienza, il quale accerti la verità e confonda il calunniatore!... Essersi creduto con una vera signora, e sentirsi narrare una storia che sarebbe stata benissimo in bocca a una abitatrice di Porta Capuana!... Ma, sia onore al vero, il mio principale fu molto come si deve e continuò a darle galantemente della baronessa, significandole tuttavia, come del resto era troppo naturale, che di tutta quella storia egli non poteva tenere nessun conto se non prima riceveva una querela su carta bollata. «Una _querella_? E come si fa?» domanda l’altra; e il principale: «Si va da un avvocato, gli si spiegano i fatti, e al resto pensa lui.» Ora, dopo una settimana da quella scena, quando il pretore era andato via, in permesso, arriva la querela a me in persona. Amélie Bourgand, niente più baronessa, nata a Montreuil, Passo di Calais, Francia, d’anni quarantadue, di professione... tu mi capisci, sporgeva querela contro Alfonso Mantiello, per aver costui detto e ripetuto sul conto di lei, in luoghi di pubblico ritrovo ed in presenza di più persone, cose che le recavano pregiudizio e allontanavano da lei le sue pratiche: volendo dimostrare come l’accusa fosse presentemente falsa, la querelante chiedeva una perizia medica; volendo provare che era stata falsa sempre, chiedeva che il magistrato citasse e udisse in pubblico giudizio le persone ragguardevoli e degne di fede che avevano avuto rapporti con lei: il barone di Caggiano, il generale Crozio, don Ferdinando, il direttore del _Vesuvio_, Debiase, tutta Napoli morigerata, castigata e timorata; i rispettabili padri di famiglia, i nonni severi, gli zii scrupolosi, i moralisti, puristi, idealisti che hanno seppellito il mio dramma!... Imagina come rimasi! Io potevo benissimo lasciare che lo scandalo scoppiasse; ma tutta questa gente che la mercenaria inferocita per vedersi mancare il pane trascinava nel suo fango e metteva alla berlina, mi fece tanta pena che volli vedere di trovare un riparo. Mandato a chiamare la baronessa, le tenni un discorso per persuaderla a desistere. Desistere? Ella era pronta; ma prima voleva essere indennizzata! Voleva cinque mila lire di danni-interessi; e diceva di essere discreta! Era una specie di ricatto; ma in qual altro modo rimediare? Con belle maniere, parlandole delle difficoltà della causa, consigliandole d’evitare il chiasso nel suo stesso interesse, ottenni che avrebbe desistito contro il pagamento di due mila lire. Allora andai io stesso dal Caggiano, da quel signore che m’ha tolto il saluto, e gli spiegai il pericolo dal quale egli e tutti quegli altri erano minacciati. Costoro già si videro, con l’imaginazione, in pretura, dinanzi a un pubblico di maligni sorridenti ed ammiccanti, attestare che la baronessa non aveva dato loro... nessun regalo; già videro i giornali pieni di relazioni dell’udienza, udirono i clamori dello sdegno, del disprezzo, il coro delle risa sardoniche; pensarono alla virtù delle loro mogli, all’innocenza delle loro figliuole, alla severità dei loro amici, e si tennero perduti. Allora mi si messero a tremare dinanzi perchè io li salvassi! E udendo che bastava pagare, furono felici di cavarsela con qualche biglietto da cento. Dirti gli scorporati ringraziamenti che mi prodigarono per avere evitato lo scandalo, non è possibile. E stasera li ho io scandalizzati! Ah! Ah! Non è bello? Non è grande? Ah! Ah! Ah!... LA JETTATRICE _Carissima Contessa,_ Ella ha riassunto in un quadro di fortissime tinte quelle quattro idee che io sono venuto enunziando. Pare dunque che Schopenhauer possa andare a riporsi, giacchè il celebre filosofo misogino è stato di tanto avanzato, che si può, anzi si deve oramai considerare come la stessa galanteria, come la cavalleria personificata!... Infatti: le donne prima di tutto non amano con tanta anima con quanta gli uomini; ma viceversa sono anch’esse, all’occorrenza, sensuali e libertine. Ciò che cercano, negli uomini da amare, non è la morale altitudine, ma semplicemente la bellezza tutta materiale. Esse sono, nei loro amori, venali, e spingono la venalità fino a reclamare ciò che loro viene. Tra quelle che si fanno pagare per vivere e le altre che esigono il prezzo come segno del loro valore non c’è differenza di sorta... «Sia lodata la sincerità!...» ella esclama «Bene, benissimo!... Avete finito? C’è ancora dell’altro? Mi pare, veramente, difficile. Credo che oramai avete vuotato il sacco. Sapevo, perchè me l’avete molte volte ricantato, che uomini e donne non possono intendersi e che s’accusano a vicenda e che stanno insieme come gatti e cani, ad eccezione di quei rari momenti quando stanno come gatti e gatte... Ma non imaginavo che da parte degli uomini si potesse spingere tant’oltre l’odio e il vilipendio. Avete almeno finito?...» No, contessa; non ho finito. C’è proprio dell’altro. Pensi un poco, o meglio rammenti ciò che le ho detto in principio: come i confessori, i cantastorie odono, molte volte senza volerlo, una quantità di fatti che gettano sprazzi di luce nei tenebrosi recessi dell’anima umana. E mentre il dovere professionale dei confessori consiste nel custodire gelosamente le confessioni, i novellieri hanno il dovere contrario: di ripeterle, di propalarle. Il risultato è poi tutt’uno; perchè, se i Padri spirituali hanno da trovar parole ed argomenti per lenire le anime piagate, il narratore che rivela a un pubblico più o meno largo le miserie delle quali è stato spettatore, acquista ai dolenti l’indulgenza pietosa, la commossa simpatia dei simili. Ora, fra le molte amare confidenze che io ho udite, questa che ora le riferirò è amarissima, e rivela fino a quale estremità può andare l’odio degli uomini per le donne, in che corrosivo e dissolvente sentimento può mutarsi l’amore che dovrebbe legarli. Dunque l’inverno passato io tornavo a Napoli dopo un’assenza di parecchi anni. Molte cose di quel caratteristico paese mi fecero quasi lo stesso senso che fanno la prima volta. La credenza alla jettatura, la paura dei jettatori m’impressionò specialmente. Ella non sa a che punto arriva, com’è funestata la vita di quegli sciagurati ai quali si attribuisce il fascino maligno. Evitati, sfuggiti, aborriti come la peste, senza un amico, col vuoto sempre d’intorno, se per loro disgrazia hanno da guadagnarsi la vita esercitando una professione si vedono alle volte messo in forse il pane quotidiano, sono costretti a espatriare, così grave è il terrore che incutono. Spettatore di questo terrore che un tempo mi pareva inumano, io ora lo provo a mia volta. Non credo già che vi siano uomini nativamente dotati del potere di nuocere, ma credo che questo potere possa essere acquistato — precisamente da quelli ai quali è attribuito. Perchè uno ha la pelle colorita d’una certa tinta; perchè ha il naso conformato a un certo modo; perchè, essendo miope, porta gli occhiali; certe volte senza nessuna di queste ragioni, si vede messo al bando dall’umano consorzio, si sente odiato da tutti; egli non può accostar le persone, non può salutarle, non può neppure incontrarle senza che tutti imprechino contro di lui; la sola sua vista è una sciagura. Non è naturale che l’anima di costui s’abbeveri di fiele e che tutta la sua volontà debba tendere a esercitare veramente il funesto potere che realmente non ha? E se c’è una forza psichica che si proietta fuori dell’anima ed opera nel mondo della materia, la tensione dell’esasperata volontà non potrà essere veramente efficace? Se pure questa forza non esiste, la disposizione a compiacersi nel male, a commetterlo realmente, occorrendo, per vendetta, per rappresaglia, non ci deve rendere odiosi i jettatori e spingerci a fuggirli?... Ma io non ho ora da comunicarle le mie particolari vedute su questo argomento: ho da narrarle un fatto. A Napoli, dunque, rividi molti amici, ma Vittorio Alfeni, fra tanti, fu quello la cui compagnia mi riuscì più cara. Alfeni, uomo per ogni rispetto superiore, crede alla jettatura in un modo affligentissimo; noi non potevamo stare insieme per le strade, in un caffè, al teatro, senza che, per pararla, egli facesse a ogni tratto un molto energico gesto, incontrando o scorgendo una quantità di facce, a suo vedere, proibite. Una sera al Sannazaro, intanto che guardavamo in giro per la sala, una dama entra in un palchetto di seconda fila, ed ecco Alfeni ripetere il gesto che sarà salutare, ma non è precisamente consigliato da Monsignor della Casa. Io credetti d’essermi ingannato: certo il preservativo atteggiamento era diretto contro l’influsso di qualche altra persona. Vi sono donne jettatrici? Il nefasto potere non è particolare agli uomini, agli uomini più brutti e sgraziati? Non bisogna avere lo sguardo losco, il naso adunco, il colorito terreo, l’andatura storta per far male al prossimo? I più spaventevoli jettatori non sono preti, gente tetra, vestita di nero, la cui vista rammenta la morte con la quale essa bazzica? La vista d’una donna, d’una dama giovine, piacente, elegante, sarà anch’essa capace di funestarci? E’ vero che quella dama guardava dietro l’occhialino e che tutti gli occhi armati di vetri sono, secondo i superstiziosi, fortemente sospetti; ma un occhialino dal manico di tartaruga bionda, ornato d’aurei fregi, maneggiato come lo scettro della grazia da una bianca mano soave, è da paragonarsi agli occhiali infissi sui nasi rostrati?... E poi, e poi... io conoscevo quella signora, sapevo quali rapporti eran passati fra lei ed Alfeni; l’amico mio mi aveva confidato, altra volta, la sua fortuna. S’erano amati, molto, a lungo; poi l’amor loro, naturalmente, era finito; come mai poter sospettare ch’egli avesse paura di lei?... Qualche giorno dopo, seduti alla terrazza del _Gambrinus_, vediamo passare la carrozza della dama; Alfeni mormora non so che cosa e si difende un’altra volta. Potevo dubitare ancora? Pure non mi capacitavo d’una cosa simile. Che l’amore dell’amico mio fosse finito, che avesse anche dato luogo all’odio, suo carnale fratello, avrei potuto ammettere e spiegare; ma la paura? la paura della jettatura? attribuire ad un essere che fu tanta parte di noi l’iniqua potenza, guardarsene come da un rettile?... Non potevo crederlo!... Ma noi non incontrammo mai quella signora senza che Alfeni si difendesse. Un giorno, su per Toledo, ella esce improvvisamente da un negozio dinanzi al quale passiamo: l’incontro è rapidissimo, inopinato; Alfeni non può subito mettersi sulla parata; egli borbotta un «Corpo del diavolo!» molto eloquente, schermendosi energicamente dopo che la dama è passata. Allora io non sto più alle mosse: — Sei ammattito? Che cos’è quest’altra paura, adesso? E’ jettatrice anche ella?... — gli dico. Ed egli, insistendo nelle tardive precauzioni: — Perdio!... Perdio!... — Non scherzi? — C’è poco da scherzare, sai! Non sapevo se alludere al loro passato; lo sdegno e più la curiosità mi spronarono: — E quando trascorrevi la vita ai suoi piedi? O credi ch’io abbia dimenticato?... Egli si fece così serio e buio che tacqui; poi con voce quasi brusca mi disse: — Ti prego di non parlarmi di ciò. — Non ne parleremo se non ti piace. Però mi pare che tu ripaghi in malo modo la felicità che un tempo godesti... Alfeni m’afferrò per il braccio, e concitato, fremente: — La pago, sì!... Hai detto bene!... La pago, perchè niente al mondo potrà più togliermi questa jettatura di dosso... Non credevo neppur ora! — Ma dici proprio sul serio? Non ti pare che sarebbe tempo di smetterla con questa indegna superstizione? Bada bene, sai, questa è la strada per la quale si va difilato alla monomania, al delirio della persecuzione... — Ho paura. Leggevo talmente nel suo sguardo sbigottito e nel suo accento gelato la sincerità del suo sentimento, che mi pentii delle dure parole. — Vediamo un poco, ragionaci su! Parliamone, perchè io voglio guarirti di un pregiudizio che non ti fa onore. E’ jettatrice anche lei? Come, perchè? Che cosa ha fatto? Quali prove mi dai del suo influsso maligno? — Le prove? Ne vuoi le prove? Non sono le prove quelle che mancano!... Ascolta un poco: nel metterla al mondo sua madre è morta! Capisci? Ha cominciato presto?... La morte, capisci?... E’ allevata da sua zia. Quando il padre la riprende con sè, la paralisi lo inchioda in fondo a una poltrona!... A vent’anni s’innamora d’un giovane e lo innamora; costui si ammala d’un male tremendo. Non può sposarla. Non la vede per molto tempo: e allora sta meglio! Si crede guarito, torna da lei, il matrimonio è concluso: ricade! Ella va a trovarlo: tre giorni dopo egli muore. Capisci?... Io non capivo niente. Tutte queste cose m’erano note. Alfeni me le aveva altra volta narrate, attribuendo ad esse un senso tutto opposto. Allora egli s’impietosiva sul triste destino di quella creatura, della povera orfana: la morte della madre, la malattia del padre, i dolori che ella aveva patiti erano altrettante ragioni per commiserarla, per proteggerla, per amarla. La morte del giovane che aveva amato, la cui vita aveva voluto associare alla propria, spiegava i nuovi, i maggiori dolori: un matrimonio non più d’amore ma di convenienza, l’infelicità d’un marito che non diceva niente al cuor suo, la caduta con un uomo che aveva saputo farle battere il cuore... Ora anche il senso di queste cose era interamente capovolto: Alfeni continuava a addurle come nuove prove di perniciosità: — A ventiquattro anni sposa un uomo, un galantuomo, che le vuol bene, che le dà un bel nome e una grande ricchezza, che crede d’aver assicurato la propria fortuna. Quest’uomo, dopo un anno di matrimonio, è tradito, offeso in tutto ciò che ha di più caro: nell’amore, nell’onore. Allora la scaccia: la sua casa è vuota, la sua vita infranta. Ma ella è lontana: egli torna a vivere tranquillo, se non felice... L’altro, l’amante, crede di toccare il cielo col dito: ha conquistato una bella donna, è l’eroe d’un dramma, si sente sollevato nell’altrui considerazione. Fa i conti senza la iettatura. Era ricco anch’egli, i suoi affari prosperavano: dacchè è con lei cominciano a andar male, precipitano: si rovina, fallisce, è costretto a lasciare il suo paese! Ella ha una figlia, il marito l’ha presa naturalmente con sè: ma la madre vuol vederla, vuole averla. Litiga lungamente finchè ottiene d’aver la bambina per pochi giorni, ogni tanto. Ecco sua figlia con lei: la bambina si mette a letto, febbricitante. In quindici giorni è morta: morta, capisci? Queste cose mi venivano nuove. E Alfeni parlava con tono così raccapricciante, che mi sentii turbato. — Quanto tempo è? — gli domandai. — Saranno due anni. — Tu eri ancora con lei? — No, c’era un altro. Allora io compresi. — Tu parli così per gelosia di quest’altro! — Gelosia di quest’altro?... Aspetta!... Credi che abbia finito? Quest’altro pensa anch’egli di aver toccato il cielo col dito. Io, che oramai so tutto, non provo gelosia, sento pietà di lui. Dico tra me: anch’egli la pagherà! Ma potevo sospettare in che modo? Ero sicuro che avrebbe sofferto, che gli sarebbe accaduta qualche disgrazia. Un giorno lascia Napoli, parte per Torino; non c’è ancora arrivato che il convoglio precipita fuori delle rotaie. Era uno dei più begli uomini ch’io abbia mai visti — pensa un poco se ne provavo gelosia! — e gli hanno da tagliare tutt’e due le gambe; anche le braccia, il viso, tutto il corpo è una piaga. Vive qualche tempo così, poi muore. Muore, capisci? _La morte ancor_, come dice Carmen! Rise d’un riso così funebre, ch’io inorridii. Ma volli reagire: — E poi? Che cosa prova tutto ciò? _Post hoc, ergo propter hoc?_ Anche tu col vecchio sofisma? Tu, intanto, non sei morto: stai benone, ti prendi beffe di lei dopo esserti divertito altrimenti. Avranno ragione gli altri di crederla jettatrice, non tu! — Io? Sai quanti anni ho io? — Trenta, mi pare. — A trent’anni sono vecchio come a sessanta. Questa donna mi ha corroso l’anima e il corpo. La morte è preferibile alla miseria nella quale io vivo. E guarda come costei fa a ciascuno il male più sensibile! Infama il marito e gli uccide la figlia, riduce il ricco a povertà, distrugge la bellezza di quell’altro che pareva una statua animata; a me, che non posso vivere se non col pensiero, con l’anima, ammorba l’anima, annebbia il pensiero. Non credo più a niente. Non aspetto più niente dalla vita. Non sono più capace di niente. Tutta la poesia, la fede, la speranza, son morte... — Questo è lo scotto dei tristi amori, non è jettatura! — E suo marito che cosa aveva da scontare? E sua madre? E gli altri?... — Domani mi farò presentare a lei. — Non credi?... Pensi di sfidare la jettatura? Io pensavo in quel punto a un verso di Alfredo de Musset, un molto malinconico verso che avevo fin lì creduto espressione della verità: Il n’est de triste amour qui n’ait son souvenir... Io pensavo che il Poeta s’è ingannato, che vi sono amori così tristi che non solamente non hanno ricordi ma finiscono con l’inaudito sentimento al quale Alfeni era in preda... — Allora, non vuoi credere?... — continuava egli a domandarmi; e scrollando il capo, reagendo ancora una volta contro le sue suggestioni: — Io credo una cosa, — risposi: — che tu ammattisci! — Allora, tu sei matto se ti senti gelare vedendo una biscia velenosa che ti guarda con gli occhi freddi? Che cosa provi per la biscia che schiacci col piede? Il ribrezzo sarà dunque da oggi in poi sintomo di pazzia? Non risposi. Tacemmo lungamente, salendo oltre piazza Dante. Dinanzi al Museo incontrammo due graziose signorine in mezzo alle quali stava una donna sulla quarantina, magra, clorotica, con le lenti sul naso affilato, una specie di governante, uno di quegli esseri disgraziati la cui vista fa pena. Alfeni borbottò: «Oggi è giornata campale!...» e ripetè il gesto preservativo. — Anche quest’altra?... Sono dunque molte le jettatrici?... — domandai, ridendo questa volta più schiettamente. — Sono le più tremende, — rispose Alfeni: — credo anzi che siano le sole veramente temibili... LA CONSOLATRICE _Amica carissima,_ Non abbia paura! Il mondo non è ancora presso a finire, come ella teme. Il genere umano non pare disposto a sopprimersi. Se dobbiamo credere alla statistica, anzi, si corre un altro pericolo, tutto opposto: l’evangelico precetto è sempre tanto onorato e obbedito, la popolazione universale cresce con progressione così rapida, che non è da temere che la terra si spopoli, c’è piuttosto il caso che non possa più contenere i troppo prolifici suoi abitatori. I filosofi arcigni hanno un bel dire, i narratori pessimisti hanno un bel fare: vivere e amare non è tanto increscioso come essi sostengono. Io conosco un pessimista il quale rifiuta questa qualificazione come troppo mite. «Voi dite pessimista per significare uno al quale la vita pare pessima?... Io sono orribilista!» Questo orribilista suole anche ripetere che vorrebbe avere mille vite per togliersele una dopo l’altra. Però, siccome ne ha una sola, la tiene da conto. Se gli uomini hanno scritto intere biblioteche di contumelie contro le donne, non vuol dir niente; anzi vuol dire il contrario di ciò che dapprima parrebbe: chi ben ama ben castiga. Se essi fossero persuasi, come Simonide d’Argo, che le donne sono simili alla cagna rabbiosa, alla volpe astuta, al mare capriccioso, alla terra bruta, all’asino — parla sempre Simonide — cocciuto, alla donnola ladra, alla scimmia cattiva, alla... femmina del cinghiale domestico; se fossero proprio persuasi di ciò, invece d’assordare il prossimo con le loro querimonie, cercherebbero — e troverebbero — qualche rimedio eroico contro il mal d’amore. Ma il loro giudizio non è sempre così severo. Lo stesso Simonide noverava dieci specie di donne: io le ho riferito quali sarebbero le prime otto; il greco ginofobo aggiunge che vi sono donne le quali somigliano al cavallo dalla bella criniera e all’ape industre. L’industria e la bellezza sono qualità non disprezzabili; ma le donne non si contentano di questi attributi, e non se la prendono tanto contro gli offensori brutali come Simonide, quanto contro quei freddi osservatori i quali affermano — e provano! — che l’intelligenza e la sensibilità muliebre sono molto inferiori a quelle degli uomini. Lasciamo stare l’intelligenza, intorno alla quale c’è poco da discutere, e parliamo un poco, se non le dispiace, della sensibilità. Nessuno s’è sognato di dire che le donne sono insensibili; s’è detto che la loro sensibilità non è molto lucida o, per adoperare la parola propria, cosciente. Per escire dal dubbio intorno al loro modo di sentire, ci sarebbe un mezzo semplicissimo: potrebbero esse dirci come sentono e che cosa provano. Ma, disgraziatamente, accade che le donne capaci di dircelo sono meno donne, hanno più caratteri virili nell’ingegno e nella stessa persona, e parlano e scrivono press’a poco come gli uomini; le altre, le donne veramente donne, quelle le cui rivelazioni importerebbero, non ci rivelano niente. Gli scrittori di professione sanno per esperienza che quando le idee o le imagini non sono ben precise, l’espressione riesce difficile, laboriosa, contorta. Precisata l’idea, fissata l’imagine, le parole vengono. Ma vi sono certe imagini e certe idee che non si possono precisare, perchè naturalmente ambigue, confuse, evanescenti; allora il tormento dello scrivere, ciò che Gustavo Flaubert chiamava _les affres du style_ dà maggior pena. E’ credibile e verisimile che le donne si trovino ordinariamente in condizioni simili a queste: i loro sentimenti sono incerti, ondeggianti, nebulosi, inafferrabili; non è che esse non sentano, ma non sanno precisamente che cosa sentono; se le accusate di insensibilità, s’offendono, si ribellano; ma quando hanno da esprimersi, da provarvi il vostro inganno, non ne trovano il modo. Perchè mai gustano ed apprezzano sopra ogni altra arte la musica, se non perchè l’espressione musicale è appunto imprecisa, ambigua, indefinibile come tutto il loro sentimento? Di tratto in tratto, quando meno ce lo aspettiamo, esse hanno però lampi di chiaroveggenza, intuizioni rapide, nitide comprensioni; e allora ci stupiscono e ci deliziano. Hauptig di Mannheim, celebre artista, mi riferì una volta un motto femminile di rara bellezza. Egli aveva un’amica, una povera modella, semplice, ignorante, primitiva. Gli voleva bene come il cane vuol bene al padrone, senza saperglielo dire. Una volta Hauptig — credo che già ella lo sappia — dovè venire in Italia, stette un pezzo lontano da lei, e fu anche ammalato. Non le scrisse, non sapendo che cosa dirle, non sentendosi disposto a strizzarsi il cervello per scrivere una lettera tanto pedestre da esser capita da lei. Di ritorno a casa, narrò alla modella il male sofferto. Ella giunse le mani, impietosita, dolente, esclamando: — E non averlo saputo!... Perchè si rammaricava dell’ignoranza nella quale era rimasta? Non aveva già da temere della salute di lui, ridivenuta ora perfetta. Voleva forse dire che, se lo avesse saputo ammalato, lo avrebbe raggiunto? Ma come, senza quattrini, tanto lontano? E Hauptig, curioso, le domandò: — Perchè avresti voluto saperlo?... Ella rispose: — _Per angustiarmi_... Adesso ella dice, cara contessa, che siamo finalmente sulla buona via. E giacchè ci sono ci resto. La modella tedesca seppe con due parole esprimere ciò che provava: il rimorso di non aver sofferto, per simpatia, per amore, mentre l’amico suo soffriva realmente, fisicamente, lontano da lei; la storiella che ora le narrerò è un poco diversa. In questo quadro contemplasi una donna che non legge nel proprio pensiero, ma nell’altrui. Abbiamo anche una diversa donna; non una semplice modella, ma una gran dama. La differenza è, però, più esteriore che intima. Questa dama è intellettualmente semplice quanto la pedina. Se così non fosse, l’esempio non vorrebbe dir molto. Noi dobbiamo prendere a esempio donne che sieno tali in ogni senso, non già quelle eccezionali e quasi mostruose creature sul cui sesso la natura par che si sia sbagliata. Dicevo dunque: una signora come ce ne sono tante. Guglielmo Valdara la conobbe in una molto triste stagione. Il cuore di quest’uomo sanguinava per un abbominevole tradimento del quale era stato vittima immeritevole. Aveva riposto tutta la sua fede in una donna, e costei l’aveva distrutta. Egli non viveva se non per lei; perdutala, voleva morire. Sarebbe morto, se pensare ancora a lei, dopo ciò che gli aveva fatto, non fosse stata una cosa amara quanto la morte. Quando egli conobbe la dama di cui vo’ parlarle, la notò appena, le disse appena qualche parola. Non poteva più notare niente e nessuno. Nondimeno la viltà di quel suo dolore per una indegna gli faceva talvolta salire al viso le fiamme della vergogna: allora egli si proponeva di strapparsi l’indegna dal cuore, di cercare e di gustare le distrazioni del mondo. Rivide la dama e s’informò di lei. Le davano molti amanti — ed ella li aveva presi, per dire la verità. Allora Valdara pensò di trovare presso di lei, se non un conforto, almeno una distrazione al proprio cordoglio. Era andato in cerca di altre donne, di mercenarie: il disgusto era stato più forte dell’ebbrezza. Quantunque la perfida avesse dimostrato, col tradimento, la nequizia dell’anima sua, Valdara non rammaricavasi d’aver perduto la persona di lei, ma quest’anima iniqua. Di simiglianti graziose contraddizioni e assurdità incredibili è pieno l’amore — com’è piena tutta la vita. Dunque, giudicando che la perfida non valesse più delle mercenarie, Valdara non voleva accostarle. Nè egli credeva di poter mai trovare nella dama con la quale tentava distrarsi le sublimi qualità del cuore e della mente che attribuiva — e negava! — alla perduta amante; ma, benchè il suo cuore restasse gelato, benchè neppure i suoi sensi ardessero, egli riconosceva spassionatamente che l’intimità di questa nuova donna valeva pure la pena d’essere acquistata. Se non che, egli non poteva fingere un amore che non provava, un desiderio che non lo struggeva. La menzogna gli repugnava; e poteva forse dire a costei il sentimento dal quale era spinto?... Così fu che, risoluto a tentare di guarirsi ma incapace di fingere, un giorno che era solo con lei — noti che l’aveva vista tre o quattro volte in tutto — durante un colloquio ch’egli procurava di rendere quanto più disinvolto gli era possibile, Valdara, cominciando ad apprezzare una cosa alla quale non era stato molto sensibile, cioè la bellezza di questa donna, una bellezza vivace, quasi direi aperta e tutta luminosa, Valdara, dico, spronato dal primo destarsi del desiderio, stese la mano per coglierla, come il viandante stende la mano per cogliere un bel grappolo pendente su da una siepe verso la via. Allora quella donna allegra e leggiera, cui tutti davano una lunga esperienza delle cose e nessuna delle idee, si schermì, si ritrasse, nè sdegnata nè offesa, e gli disse, semplicemente: — _Voi mi trattate così perchè un dolore vi rode._ Egli tremò. Non di vergogna perchè si vedeva leggere nel cuore; tremò dall’ambascia. — Voi non vedete in questo momento, — continuava ella, — voi non potete vedere quanto dovrebbe offendermi il vostro contegno. Come siete diverso da quello che mi sembraste la prima volta!... Capii che dovevate soffrire, allora... Ed anche oggi, ciò che oggi fate mi dice che non mi sono ingannata... Una donna v’ha tradito: è vero?... Voi piangete un amore perduto, e per guarire del vostro dolore mi trattate così... Egli aveva propriamente gli occhi rossi di lacrime. Questo appunto gli era stato più grave dal giorno che aveva perduto l’amor suo: di non poterne più parlare, di non avere alcuno al quale confidarsi. Il suo dolore era covato in lui, s’era mantenuto e diffuso covando chiusamente. Il conforto della confidenza, della confessione, della comunione simpatica gli era mancato. Ora, improvvisamente, da chi meno egli avrebbe creduto, era compreso, scusato, compianto. Non solo quella donna non s’offendeva della brutalità con la quale egli l’aveva assalita, non solo gli leggeva nel cuore, ma esprimeva, con la voce e con lo sguardo, una commossa simpatia per il suo dolore. Le lacrime che gli gonfiavano gli occhi erano dolci, pertanto; erano lacrime di consolazione. Molto più soavi riuscivano all’anima di lui quelle parole, il sentirsi compreso da un’altra anima, l’aver trovato un’intellettiva anima dove non la sospettava neppure, che non sarebbe stato dolce ai suoi sensi dissetarsi al bel grappolo. Egli non ha mai più ritentato di stender la mano; e di questa donna, di costei cui deve la sua prima consolazione, è rimasto amico sincero e devoto, come di Lei, contessa, io mi onoro di essere. LE PROVE _Mia Signora,_ Ed eccoci ritornati al punto donde partimmo! Ella batte le mani perchè, avendo io cominciato coll’ironia, ho finito con la commozione. La feci arrabbiare sostenendo che le creature umane non si possono intendere, e ho addotto da ultimo un esempio di questa comprensione! Ora m’accorgo — ella dirà che guasto tutto! — come gli esempii non provino nulla, perchè tanti se ne possono addurre a sostegno della tesi quanti a sostegno dell’antitesi. Varrà più l’una o l’altra? Ogni opinione è legittima; l’accordo dei concetti nel disaccordo delle espressioni mi pare che sia molto bene provato da queste due sentenze di due grandi scrittrici: Mademoiselle de Lafayette ha detto: «On pardonne les infidelités, mais on ne les oublie pas.» — «On oublie les infidelités, mais on ne les pardonne pas», ha detto Madame de Sevigné... Bene: siamo d’accordo: sarà possibilissimo comprendere l’anima altrui; ma, se ciò è possibile, non è già facile. L’Inquisizione aveva del buono. Quando un uomo vuole leggere nel cuore d’un suo simile, ma proprio nitidamente leggervi tutto ciò che sta scritto fino nelle ultime pagine, nei margini più ripiegati, qualche buon tratto di corda o meglio ancora qualcuno di quei più persuasivi congegni dei quali l’imaginazione dei Torquemada era fertile, rende comprensibile tutto. Mancando questo secolo di tanaglie e di cavalletti, come si potranno scoprire i pensieri e i sentimenti degli altri? E, veramente, non facciamo noi l’elogio dei Torquemada quando, per strappare a qualcuno la verità, lo afferriamo per le braccia, gli stringiamo le mani come dentro una morsa, gl’infiggiamo nello sguardo il nostro sguardo rovente?... Questi mezzi d’indagine sogliono essere adoperati dalle persone di natura violenta; le miti nature preferiscono di restare nell’ignoranza e nell’inganno, preferiscono anche patire piuttosto che far patire. E del resto che valore hanno le prove strappate per forza, specialmente quando si riferiscono ai casi della coscienza o agli stati dell’animo? Se è impossibile vedere con gli occhi i moti dell’anima amante, quali prove sicure noi potremo avere dell’amore? Chi ci confessa, ci attesta e ci giura l’amor suo, come potrà dimostrarcelo? Non potremo noi, non dovremo anzi dubitare delle sue parole? Come sapere se le parole sono vere, se sono tutte vere? Chi asserisce d’amare soltanto o soprammodo con l’anima, non può nascondere, non nasconde troppo spesso sotto questa dichiarazione una brama meno degna? Chi ci afferma di ripagarci d’un amore in tutto eguale al nostro, in qual modo, per qual via potrà farci leggere nel suo cuore così chiaramente come noi leggiamo nel nostro? Nell’anima altrui non si legge; ma le prove d’amore, le prove indiscutibili, luminose, lampanti, non mancano. — Soit, dit-elle, je cède et me voici clémente. Mais pour y croire, à votre amour, si je m’y rends, J’en veux un gage sûr et que rien ne démente. Potrebbe essere accusata di soverchia esigenza costei? Non sono le donne quelle che hanno ragione di sospettare che l’amore degli uomini si riduca al desiderio torbido? Questo dubbio non esiste negli uomini, perchè i desiderii delle loro compagne sono moderati e spesso mancano; ma, per ciò stesso, tutto l’amore femminile è tanto calmo e composto, che la maggior prova d’amore che le donne sappiano dare consiste nel lasciarsi amare... Dunque non basterà che questo amante confessi l’amor suo, bisogna ancora che lo dimostri! — Las! fit-il, où trouver des serments assez grands? E come è umano questo sentimento d’impotenza! Non solo l’amata dubita, ma lo stesso amante sa e sente che ella _deve dubitare_, perchè i giuramenti, le parole, gli effimeri suoni non potranno mai esser prova valevole, espressione adeguata della meravigliosa efflorescenza che invade ogni piega dell’anima sua. — Las! les plus solennels n’ont plus rien qui m’émeuve, Répondit-elle. Alors lui, soudain; «Je comprends! La preuve qu’il vous faut je l’ai superbe et neuve. O toi que j’aime, tu vas voir si je t’aimais!» Et comme en souriant elle attendait la preuve, Sans retourner la tête il s’enfuit pour jamais. Se il senso è tutto egoistico, come dimostrar meglio che questo amore non era sensuale? Se lo stesso sentimento, d’ordinario, è fatto più di amor proprio che d’amore, e se pertanto le ragioni della persona amata sono posposte alle proprie, come dimostrare più luminosamente che questa volta l’amore non era amor di sè stesso? Infine, se amare qualcuno importa quasi sempre più che odiarlo, giacchè chi odia può anche astenersi dal far male, mentre chi ama infligge sempre dolori e tormenti, la migliore, la vera prova d’amore sarà appunto questa: rinunziare all’amore... Che ne siano capaci molti, non è da credere. E poi, quand’anche molti ne fossero capaci, essa potrebbe parere un’ironia. Non sarebbe press’a poco come ucciderci per provare che viviamo? Allora noi dovremo cercarne un’altra, meno paradossale; una prova non dell’amore represso ma dell’amore operante ed attuale. — Io la conosco, — mi confidò una donna con la quale ragionavo un giorno di queste cose. Abbassato il capo e chiusi gli occhi, ella si raccolse un istante; e la sua faccia, non più illuminata dall’ardore degli sguardi, apparve qual era realmente: consunta dal tempo, ròsa dalle passioni, simile ad una maschera vecchia sulla quale tutti coloro che la portarono abbiano lasciato un’impronta. Quanti uomini avevano logorato a furia di baci quelle guance appassite, quelle labbra sbiancate, quelle rugose palpebre? Quante febbri avevano macerata quella carne flaccida e gialla? Quali spasimi avevano contorto gli angoli di quella bocca amara? Quali pensieri molesti, quali assidue cure avevano scavato i solchi di quella fronte? In quali notti di veglia s’erano brizzolati quei rari capelli che ella adesso stirava con una mano bianca e smagrita?... Bella non era mai stata, neppure ai giorni tanto lontani della prima giovinezza; ma qualcosa del fascino strano e irresistibile che aveva fatto di lei una creatura di turbamento rifulse ancora su quel tragico volto quand’ella si scosse, guardò fiso lontano e riprese a parlare. — Chi di voi ha dunque affermato che solo il primo amore è l’amor vero? Non aveva ancora vissuto, costui; non sapeva i giuochi imprevisti dell’esistenza, l’avvicendarsi delle fortune, le rivoluzioni che s’operano da un giorno all’altro nel mondo e nell’anima! Dicono impossibile un secondo amore perchè con la morte del primo la fede nella forza e nella durata della passione andò necessariamente dispersa; ma non si ricomincia piuttosto ad amare appunto perchè questa fede è immortale e perchè si riconobbe d’averla riposta in chi la tradì?..... Sì, l’amor vero può essere il primo, ma può anche essere l’ultimo — se per amor vero intendete quello che altri vi porta come voi lo portate, quello che vi promisero i sogni e che mai vi consolate d’avere perduto. Poichè molte volte potete amare con tutte le forze dell’anima, molte volte essere amati sopra ogni cosa; ma non c’è amore integro se non nell’incontro, nell’accordo, nello scambio delle due passioni; e ciò è tanto raro che la turba infinita dei diseredati lo nega..... Orbene: ascoltate. Per un uomo io abbandonai la mia casa, distrussi la mia famiglia, avvelenai la vita di chi mi mise al mondo — feci, delle creature che misi al mondo io stessa, altrettanti orfani. Dovevo amarlo per far queste cose, è vero? A giudizio del mondo egli mi costava sacrifizii non lievi — dite, è vero?... Ma se io li giudicavo insufficienti! Se non credevo d’avergli dimostrato abbastanza che mi teneva luogo di tutto, che era tutto il mio bene sulla terra, l’unico giudice del quale temessi le condanne! Che cosa non avrei fatto per dargli questa dimostrazione? Come lo scongiuravo, in ginocchio, con le mani giunte, di dirmi che cosa voleva da me per credere all’amor mio! Come sarei stata felice se fossi morta di sua mano! Egli m’uccise — altrimenti. Egli non credeva all’amor mio perchè non credeva a nulla. Vi sono di questi esseri fatali su cui sembra pesare la maledizione divina: belli come l’arcangelo caduto, come lui aridi e falsi. Un sorriso che sembra beato ed è schernitore illumina i loro occhi, parole che voi credete mistiche e sono bugiarde escono dalle loro labbra. Se per vostra sciagura v’imbattete in qualcuno di essi, siete dannati. Alla loro seduzione non si resiste. Secondati dalle ingannatrici apparenze, voi non metterete più un freno alle vostre aspettazioni, educherete le più folli lusinghe e precipiterete tanto più basso quanto più ardito sarà stato lo slancio. Voi crederete di trovare nella loro anima le rigogliose fioriture della vostra; crederete di fare un sol cuore e una sola vita; e quando v’accorgerete che ciò non è, accuserete voi stessi! Come sospettare la loro colpa se tutto ciò che in essi è parvenza brilla ed incanta? E vi torturate, vi rimproverate torti imaginarii, procurate di riscattare i difetti dei quali vi sentite pieni, sognate di conquistare tutte le virtù che vi mancano. E tutto ciò è invano; e voi pensate ancora: «La colpa è mia! Io non l’amo abbastanza, non so fargli vedere il suo pensiero all’origine d’ogni pensiero mio proprio, non riesco ad ottenere da lui la stessa fede ardente che io gli porto...» Infatti egli vi sfugge, e questa fede altri avrà forse saputo ispirargliela! Allora non vi rimproverate più nell’intimo della vostra coscienza, ma v’umiliate apertamente dinanzi a lui, lo scongiurate d’avere almeno pietà: almeno questo sentimento allignerà nel suo cuore! Improvvisamente, un atto, una parola, ve ne dimostra l’orribile vuoto: allora un crollo tremendo avviene dentro di voi; ma siete guarito — radicalmente. Ella fece col braccio disteso, con le dita adunche, il gesto di svellere qualcosa. Tacque un poco battendo rapidamente le ciglia, poi continuò: — Questo fu il mio primo amore. Mi costava tutto, quell’uomo; ma io gli avrei tutto perdonato se non m’avesse tolto ciò che mi rimaneva di unicamente caro: il conforto d’esser stata compresa, almeno un giorno, almeno un’ora; la fiducia di non essermi perduta per niente — per niente! Gli avevo perdonato tante vergogne, tanti abbandoni, tanti tradimenti! Ero stata sorda agli stessi dileggi, agli stessi sospetti, agli stessi affronti! Credevo sempre in lui, suo malgrado. Volevo trovare qualcosa di buono in fondo al suo cuore; stimavo sempre che ne avesse. Mi accorgevo che l’amore boccheggiava in lui, che era già morto; ma pensavo almeno che fosse stato vivo, una volta! Con una parola infame egli mi tolse quest’ultima lusinga, calpestò la stessa illusione; quando volli ricordargli questo amore, le parole che m’avevano esaltata, i giuramenti che m’avevano ubbriacata, egli mi disse: «E tu li hai creduti?...» E con la stessa bocca che li aveva proferiti disse ancora: «Ma sono la moneta con la quale si pagano quelle che non son da comprare!...» Allora, vedete, l’unico mio scopo, l’unico mio bisogno, ardente, imperioso, vorace, fu di diventar come queste..... La sua voce, che s’era fatta rauca tanto da costringerla a tossire replicatamente, si schiarì ad un tratto. — Non lo accuso più. Compresi, tardi, che la colpa non era stata neppur sua, che egli non poteva esercitare virtù che non aveva. Non crede chi vuole. Forse, chi sa, anch’egli soffrì. Ed alzò le spalle e scosse un poco la testa con l’espressione indulgente di chi ha visto molte miserie. — Comprendete bene dunque, — riprese, — la condizione mia all’apparire dell’Altro. Intatta, insaziata, esasperata, io portavo con me la mia fede — e non ero più degna d’esser creduta. L’Altro mi credette. Per lui era il primo amore. Nessuna donna aveva ancora sospettato il tesoro di sentimenti che egli portava in cuore; e questo tesoro tanto grande che non v’era purezza capace di pagarlo, io, l’ultima delle creature, l’ebbi, tutto. No, il povero linguaggio umano non potrà dir mai che cosa fu questo amore, l’esultanza divina di due esuli ciascuno dei quali ritrova nell’altro tutta la terra, tutto il cielo della patria lontana. Il linguaggio umano può dire soltanto le umane miserie, i dubbii, gl’inganni, i tormenti, — e chi sa la vita comprenderà quelli che fatalmente ci aspettavano. Per un uomo che m’aveva avvilita, profanata, perduta, io avevo dato tanto, che nulla più mi restava da dare a quest’altro — per cui avrei voluto versare il mio sangue fino all’ultima stilla. Io avevo imparato a costo della salute dell’anima che non basta sentirsi giurare un affetto, che bisogna anche ottenerne la prova. Ed io non potevo dargli altro che le mie parole, e sapevo che le parole possono mentire, e sentivo che in bocca mia la menzogna doveva esser giudicata facile e pronta. Allora il dubbio che egli non mi credesse più cominciò a insinuarsi in me. Era dubbio e divenne certezza. Se quell’uomo avesse potuto leggere nel mio cuore come vi legge Dio, sarebbe stato sicuro che tutti i palpiti del mio cuore erano suoi. Ma questo potere egli non lo aveva. Egli doveva paragonare, invece, sè stesso al mio primo amante, il bene infinito che mi faceva al male spaventevole che il primo m’aveva inflitto; ed avvertire che mentre il male era stato da me ricompensato come il massimo dei beni, a lui non potevo ora dare più nulla. E badate: non era già l’orgoglio suo che lo persuadeva a stimarsi di tanto superiore al suo predecessore, a pretendere che io facessi per lui molto più che per costui: io stessa glie lo dicevo, glie lo ripetevo, glie l’attestavo. Ma come più gli parlavo dell’influsso maligno esercitato da costui sulla mia vita — per esecrarlo — più egli pensava ad esso — per temerlo. Egli che sapeva le sciagurate contraddizioni del nostro cuore temeva che fossi ancora attaccata a quell’uomo in ragione degli stessi dolori che mi costava. Come dunque, come provargli il suo inganno, la dispersione assoluta d’ogni memoria di quel passato, la fine della stessa esecrazione — poichè tutto l’orrore nel quale ero affondata non m’impediva la nuova felicità? E vedete di quali reazioni continue è fatto il nostro pensiero: mentre il conseguimento di questa felicità attutiva il sentimento dell’indegnità mia, questo sentimento si ridestava da un’altra parte, più acuto, più torturante — poichè la mia indegnità mi toglieva di dare a quest’uomo la luminosa dimostrazione che egli era in diritto di esigere! Allora qualcosa di più strano — di più umano — accadde in me. Quando io avevo portato nell’amore un cuor nuovo, un’anima vergine, tutto ciò che questa vita può dare di meno indegno, io m’ero accusata di non meritare abbastanza il ricambio dell’amor mio; ora che non lo meritavo davvero, sentivo la ribellione prepararsi sordamente dentro di me. Dinanzi all’ideale Giustizia io era nel torto per avere criminosamente sperperato quei beni che andavano invece serbati con cura gelosa in attesa di offerirli a chi solo avrebbero dovuto appartenere; dinanzi a quest’uomo io ero in debito — e noi siamo così fatti da non tollerare il rimprovero dei nostri torti.... E se ancora quest’uomo m’avesse apertamente rimproverato la mia miseria, se m’avesse buttato in faccia la mia abiezione, se m’avesse torturata ogni giorno, forse sarei stata meglio difesa contro le folli aberrazioni dell’egoismo; ma egli non fece questo, mai! Una tristezza senza fine velava talvolta i suoi sguardi, ma il suo linguaggio era sempre quello della dolcezza, della devozione, dell’umiltà. Allora io pensavo che egli parlasse così per compassione, che intendesse farmi un’elemosina, che non contento ancora dei suoi tanti vantaggi volesse finire di schiacciarmi con la sua generosità — e la sorda ribellione diveniva più minacciosa. Avrei dovuto stargli in ginocchio dinanzi, e mi sentivo distaccare a poco a poco da lui... Il nostro cuore è così miserabile che non sopporta la gioia assoluta: una dose d’amaro è necessaria al suo nutrimento. Quell’uomo aveva una gran colpa, non mi faceva soffrire. E come io lo disconoscevo, anch’egli disconosceva me. Perchè la vita m’aveva contaminata, pensava che non fossi più capace d’apprezzarlo, che altre avrebbero saputo amarlo meglio di me. Presumeva ch’io dovessi portargli una gratitudine eterna per avermi sollevato fino a lui, che il pensiero di cercare altrove un altro amore — il pensiero che egli stesso accarezzava! — non dovesse neppure affacciarsi alla mente mia. E troppo sicuro d’essere amato, rispondeva meno all’amor mio, non pensando che questo fosse un torto, o pensando che fosse un torto minore e più tollerabile di quelli che altri m’aveva fatti. Ma le azioni umane non hanno tutte un valore relativo a chi le commette, alle circostanze nelle quali sono commesse, allo stato di colui che le apprende? E la freddezza d’un uomo come lui m’era più grave, dopo ciò che avevo patito, di tutti i tradimenti dell’altro amante... Così, giorno per giorno, il dissidio cresceva. L’ingrato destino ci era stato largo d’un bene incredibile; noi ce lo lasciammo sfuggire. L’amor nostro fu il vero, il grande, il solo amore; non sapemmo riconoscerlo. Come potevo riconoscerlo, io? Non m’ero ingannata altre volte? Non dovevo inevitabilmente sospettare di ingannarmi anche ora? A qual segno poteva riconoscerlo, egli che non aveva termini di confronto? Così il nostro inganno procedeva da opposte ragioni. Mancava ad entrambi la prova. L’avemmo. Ella ripetè: — Fu questa. E passatasi una mano sulla fronte, lentamente, da una tempia all’altra, disse, come in sogno: — Io lo tradii. Dopo una pausa riprese: — Imaginate voi che cosa dev’essere un pazzo che abbia perduto, insieme con l’intelletto, la vista? Soltanto un pazzo cieco avrebbe potuto fare quel ch’io feci — ragionatamente, deliberatamente. Pensai che egli non mi amava più, che non m’aveva amata mai. Credetti alle parole d’un altro, di quelli che ci troviamo attorno nelle agonie del sentimento, corvi che hanno fiutato il cadavere. No, non lo credetti! Non credevo più nulla. Ma questo scetticismo, la certezza che non c’era nulla, la persuasione d’esser discesa tanto basso da non poter cadere più giù mi buttò incontro ad un altro. Egli s’era accorto di quest’altro e non aveva trovata una sola parola per salvarmi. Io pensai: «Vuol dunque gettarmi via come una cosa inutile e vile!» E volli io stessa lasciarlo. Quando glie lo dissi... Ella s’interruppe, esitante; e ad occhi chiusi, rovesciando un poco la testa, irrigidita come per catalessi, con voce lenta e gelata soggiunse: — Dopo che sarò morta, dopo che m’avranno chiusa dentro una bara, dopo che la terra mi avrà ricoperta, io udrò ancora quell’urlo. Rimase quasi assorta qualche momento, poi ricominciò: — Saremmo stati ancora a tempo. Ma la benda non era ancora tutta caduta dagli occhi nostri. Io credevo d’averlo ferito nell’orgoglio soltanto, _trionfavo_ provandogli che valevo ancora per gli altri, ottenevo la _rivincita_! Egli vide confermato il suo giudizio sulla mia infamia. Un intimo senso di sollievo, quella calma ingannatrice che precede lo scatenamento delle tempeste, ci pervase entrambi. Egli scomparve ed io ricaddi. Allora, allora soltanto, quando un altro prese il suo posto, quando io mi sentii nelle braccia d’un altro, quando questa miserabile carne fu preda d’un altro, un gemito sordo e lungo, il gemito d’una disperazione mortale uscì dal mio petto. E un sorriso indefinibile, d’ironia, di pietà, di sprezzo, rischiarò quel viso. — Io sapevo, per averla tanto provata, la nausea del risvegliarsi accanto a qualcuno che fino alla vigilia è stato un estraneo e che dopo l’ultima intimità sarà più estraneo di prima. Io avevo curata questa nausea col procurarmene un’altra maggiore, e poi un’altra ancora maggiore. Ora non ne provavo alcuna. L’insensato stupore, il tremendo e senza fine sterile rimorso m’agghiacciavano troppo. No, io non credevo alla realtà; mi sentivo come sotto l’impero d’uno di quei sogni mostruosi durante i quali sappiamo però di sognare. Ed un pianto sconsolato, inesauribile, grondava dai miei occhi; uno di quei pianti che sembrano stemperare l’anima stessa, che nei sogni ci destano. Ma il mio risveglio era più tetro del sogno. E come in sogno io pensavo che qualche misteriosa potenza aveva certamente cambiato le fattezze, gli sguardi, la voce dell’uomo che fino a qualche giorno innanzi era stato mio, e come in sogno io cercavo di rivederlo attraverso quest’altro. Io figgevo il mio sguardo nel suo, lungamente, intensamente, fino ad abbacinarmi, per discoprire nel suo sguardo i lampi del Perduto; poi chiudevo gli occhi ostinatamente, inflessibilmente, imponendogli di tacere, per illudermi, per credermi ancora insieme col Perduto. Ed accadde questo: che i miei avidi tentativi, i miei funebri ardori, la mia lunga pazzia accesero l’animo non del tutto volgare del mio nuovo amante; egli credè ch’io facessi tutto ciò per lui — per lui! — e al soffio della grande passione quel fuoco divampò alto e gagliardo, ed egli trovò inaspettatamente una parola, l’accento dell’Altro... Illusione terribile!... Io m’afferravo a lui, gli prendevo il capo fra le mani, gli dettavo le parole che ancora, che sempre mi risonavano all’orecchio, e gl’ingiungevo di ripeterle, ed egli le ripeteva, pensando che l’amore le suggerisse. E per un attimo io Lo ritrovavo! No, la nausea d’un tempo non mi soffocava più; no, io non potevo scacciare quest’uomo quando l’orrore invadeva l’animo mio, giacchè per suo mezzo recuperavo in qualche modo colui che avevo disconosciuto; giacchè la nausea, l’orrore, il pianto lungo e cocente mi rivelavano ciò ch’io avevo negato: la forza d’una passione che era la mia stessa vita! Non potevo scacciarlo; potevo soltanto e dovevo disingannarlo, dirgli a che mi serviva, perchè facevo tutte queste cose — e glie lo dissi! Gli dissi che mai, mai avevo avuto un palpito, un solo pensiero per lui; lo costrinsi ad ascoltare la confessione dell’amor mio per un altro, gli dissi che cercavo quest’altro in lui; che invece di farmi obliare egli dava nuova forza alla passione mia; che ora, la prima volta, grazie a lui, grazie al mio tradimento, acquistavo la prova luminosa, sfolgorante, irrecusabile di quell’amore. E nella risurrezione della fede il mio spirito acquistava una sovrannaturale chiaroveggenza, un intuito fatidico: io sentivo che una rivelazione eguale alla mia doveva essersi fatta nell’anima del Perduto; che, lontano da me, attraverso nuove esperienze ed impreviste vicende, egli doveva piangere com’io piangevo perchè _sapeva_ che lo piangevo... Un giorno lo rividi. Corsi da lui. Ella quasi gridò: — Chi avrebbe potuto arrestarmi? Riprese con voce più sorda: — Gli dissi: «Sputami in viso, ma ascolta. Tu non mi credesti quando ti giuravo d’amarti. Dell’amor mio non seppi, non potei darti nessuna prova perchè io stessa ne dubitai. Questa prova ora la posseggo. Pensai dimenticarti, e la tua memoria mi ha schiacciata. Ti abbandonai, e t’ho ritrovato da per tutto. Ti porto con me. Nessuno ti strappa più da questo cuore. Metti i tuoi piedi sulla mia faccia, ma lasciati dire, ora, che t’amo...» Egli... egli... Giunse le mani, girò intorno lo sguardo come smarrita, e a poco a poco l’espressione dell’estasi si dipinse sulla sua faccia smorta. — Egli mi si fece vicino, mi guardò tacitamente. Tremava. Mi disse, così piano ch’io compresi piuttosto dal moto delle pallide labbra: «Sei tu?» Io potevo ancora parlare. Gli domandai: «Non m’abborrisci?» Ei rispose: «Ti piango...» Vedete voi queste mani? Qui caddero le sue lacrime, ed erano calde come gocce di sangue. Io non piangevo, sentivo il cuore battermi in gola. Tra le lacrime egli diceva: «Sei dunque tu? Non ho dunque sognato?... Quando io ti sospiravo, l’anima tua se ne veniva incontro a me?... Tu sai ora veramente quanto mi amavi?... Nessuno di noi lo seppe, mai!... Povere creature umane, quali inganni sono i nostri!... Come fummo ciechi e sordi e ostinati nell’errore!... Ora la luce s’è fatta...» A quelle parole, alla certezza che egli mi dava, il cuore avrebbe dovuto allargarmisi dalla gioia, la fascia che mi cingeva la fronte cadere, tutto l’essere mio esultare... e invece un’ambascia muta, un terrore infinito mi piegavano, un gran freddo mi faceva rabbrividire... Egli diceva ancora: «Bisogna che l’aria ci manchi, per riconoscere che ne viviamo!... Neanch’io potei darti la prova d’un amore nel quale non avevo fede... Credetti di poterne trovare altrove uno migliore... Che stolto!... No, non accusarti: io fui colpevole al pari di te. Come te, ora soltanto sono sicuro e posso dire di amarti. Non pensar mai con rimpianto a tutto ciò ch’io ti dissi e che feci per te nei primi giorni della nostra fortuna; non rimpianger mai i giuramenti che l’ebbrezza dettava: nessuna prova d’amore vale questa che oggi ti do...» E il mio terrore cresceva, lo sguardo mi s’appannava, le vene mi si vuotavano: perchè se egli avesse detto che tutto era finito tra noi, io non avrei avuto di questa fine una certezza tanto disperata come udendo quelle parole. Nondimeno, dissi: «Allora, se tu mi ami ancora...» Un sorriso più triste di tutte le sue lacrime, il sorriso di chi muore mentre sente promettersi la salute e i beni della vita, passò nel suo sguardo. Egli prese le mie mani e rispose: «Noi non ci vedremo più.» Mai la sua voce fu così dolce. Egli baciò queste mani e questa fronte — soltanto!... E due lacrime, grosse e roventi come quelle da lei versate quel giorno, solcarono lentamente le sue guance. Quando la sua ambascia si calmò, ella ripetè: — Fu questa la prova dell’amor nostro, ed è questa la grande prova dell’amore operante e attuale. Ma, come una legge spaventevole vuole che tutto si sconti, anch’essa s’acquista quando l’amore è perduto. DIBATTIMENTO _Contessa mia,_ Già: l’amore nasce, vive e muore — muore specialmente, troppo presto, in mille modi. Ella giudica che il modo nel quale morì l’amore delle due persone di cui le narrai ultimamente la storia sia molto triste; ma crede ella che vi siano forme di morte grata?... Io non dimenticherò mai una strana conversazione alla quale assistetti una volta; una conversazione di soli uomini, dove fu appunto proposto e discusso questo soggetto. Le persone che vi presero parte non le riusciranno forse nuove: erano i tre Tedeschi dei quali altra volta le parlai: Ludwig Kopfliche, Fritz Eisenstein e Franz von Rödrich. Scena: la sala d’una casetta di campagna; il tramonto d’una scura giornata di novembre, col cielo coperto di tediose caligini fra le quali l’ultima luce filtrava livida e triste; l’agonia del giorno e dell’anno, un senso di freddo in tutte le cose, nella campagna silenziosa e deserta, negli alberi dai rami sfrondati, nel mare d’un grigio metallico flagellato dal vento, nel cuore degli uomini che aveano visto cadere ad una ad una tutte le loro illusioni... — Pensate voi, — diceva Ludwig, — alle primavere future?... Quante anime nuove esulteranno! Quante speranze fioriranno nelle vergini fantasie! Quante mai vite si schiuderanno ai sorrisi del sole! — Il nostro egoismo si ribella a questo pensiero, — soggiungeva Franz. — Poichè noi ce ne andiamo, vorremmo che l’universo s’inabissasse con noi, che nessun altro potesse più dissetarsi alla coppa distolta per sempre dalle nostre labbra avide ancora... — Ma, — ribatteva Fritz, — anche gli altri morranno! Anche gli altri vedranno mancare il dolce liquore prima di averlo assaggiato... Perchè li invidiate? Dovreste compiangerli!... No, i venturi non sono da invidiare; degni d’invidia son quelli che furono o che non sono mai stati... Quando Fritz tacque, il silenzio ripiombò tutt’intorno; udivasi solamente il gemito lugubre del vento e il leggero tremolìo d’un vetro mal commesso nella intelaiatura della finestra. Gli sguardi dei tre uomini avevano espressioni diverse. Ludwig guardava il mar grigio con i suoi grigi occhi profondi, e sembrava cercare qualcosa di là dalla linea dove l’acqua e le nubi si confondevano; Franz, con una mano fra i capelli, mirava, come affascinato, un punto del suolo ai suoi piedi, e Fritz batteva rapidamente le palpebre, girando il capo, quasi per sottrarsi ad una molesta visione. — I morti amori! Franz, nel silenzio incombente, aveva pronunziato quelle parole; ma, poi che una medesima idea occupava lo spirito degli altri amici, essi si riscossero, ripetendo, a fior di labbra: — I morti amori... Vi fu ancora silenzio; poi Ludwig, il curioso, domandò; — Sapete voi dirmi in quanti modi può morire l’amore?... — No, nessuno può dirlo, — rispose Fritz. — Possiamo dire questo soltanto: che l’amore muore in tanti modi quante vi sono anime amanti. — Ma qual morte è più trista? — Sono tutte tristi del pari. A quel giudizio, Franz sorse in piedi. — Non dite così! Non dite così!... Tristi egualmente? Egualmente strazianti?... Vuol dire che voi non sapete!... Allora, sentite. Vi è una potenza terribile, misteriosa, fatale, che se piomba intorno a voi vi fa misurare d’un subito tutto l’abisso della vostra miseria; una potenza contro la quale non v’ha riparo che valga; una potenza che si rivela tutti i giorni, tutti i momenti, ma della quale voi non v’accorgete se non quando colpisce qualcosa di vostro. Questa potenza è la Morte... Sentite. Esiste al mondo una creatura che è l’anima della vostra anima, per cui dareste tutto il sangue vostro, lontano da cui non potete vivere neppure un istante. Questa creatura, bella, buona, soave, nel fiore degli anni, si è data a voi, per sempre; voi avete imparato, ogni giorno di più, ad apprezzarla, ad amarla. Tutte le vostre confidenze più intime, tutte le vostre parole più tenere, tutte le vostre carezze più blande sono per lei. Voi non vedete se non con i suoi occhi, non respirate se non con le sue labbra, non vivete se non della sua vita. Repentinamente la truce potenza si spiega su lei. Voi potete inginocchiarvi dinanzi agli uomini che, per ironia, si chiamano della scienza, scongiurarli piangendo di sottrarla alla potenza malvagia; voi potete giungere le mani, alzare lo sguardo al cielo, ricordarvi le preghiere apprese da fanciullo, dire a Dio: «Io credo in Voi, abbiate pietà di me...,» voi potete dire a lei stessa, con voce rotta, passandole una mano fra i capelli madidi di sudore, stringendo con l’altra la mano sua sempre più fredda: «Per pietà, non morire, non voglio che tu muoia, non mi lasciare, ho paura!....» voi non riuscirete ad arrestare un minuto l’opera di distruzione. E una notte tremenda voi vedrete il suo sguardo rovesciarsi, le sue labbra dischiudersi, irrigidirsi il suo corpo. Vorrete fuggire lo spettacolo orribile, e un’attrazione più forte della vostra volontà v’inchioderà lì dinanzi. Morta!... Morta!... Morta!... Allora esaurirete tutte le vostre lacrime e tutte le vostre imprecazioni. Morta!... Morta!... Morta!... E ripeterete questa parola fino a smarrirne il significato. A un tratto vi sovverrete di quel che un giorno ella vi disse: «Se morrò prima di te, vestimi di bianco, coi capelli disciolti; non voglio che i becchini mi tocchino....» Ella rabbrividiva da capo a piedi, a quest’idea; ora non ha più un sol moto. Voi contemplate il suo viso dove una bellezza nuova, soprannaturale, divina, si va dipingendo; vorrete recidere una ciocca dei suoi capelli, e di repente vi ricorderete di quella che ella stessa recise, che vi diede un giorno, il giorno delle beate promesse. Voi pensate: «Ho ancora molte ore per contemplarla,» e quelle ore passano, volano. Allora vi mettete a gridare, a soffocare le vostre grida. E se un amico pietoso tenta di confortarvi, voi odiate quell’uomo, odiate ogni vivente, abborrite la vita.... Ah, sono tutte tristi egualmente le morti dell’amore? Ma voi non avete composto in una bara le forme adorate che teneste strette fra le braccia; non avete sentito opprimervi il petto pensando all’oppressione che _ella_ soffrirà sotterra; non avete visto la terra cadere sulla bara, coprirla, nasconderla.... Voi non avete provato che cosa vuol dire sognare che ella è ancora accanto a voi, e risvegliarvi pensando alla vostra solitudine, alla vostra solitudine eterna!... E non avete provato, tormento ineffabile, strazio senza parole, il lento svanire del fantasma, dell’imagine, del ricordo, nonostante tutti i vostri sforzi per vivificarlo, per afferrarlo, per trattenerlo ancora.... Egli tacque. Ludwig pareva non avere ascoltato, immerso sempre nella contemplazione del mare. Fritz, che aveva nervosamente arricciato i suoi baffi, replicò: — Tu dunque credi che la più angosciosa morte dell’amore sia quella prodotta dalla morte della creatura amata? In verità, mi fai ridere. Alla luce sempre più scialba del fosco tramonto, il suo viso appariva pallidissimo; le sue labbra s’atteggiavano a un ironico riso. — Tu accusi la morte! Non sai dunque di che cosa è capace la vita?... Ti duole che una potenza fatale distrugga il sogno d’una gioia senza fine? Ma tu non pensi che, in ragione di questa stessa fatalità, il tuo spirito finalmente s’acqueta! Sta dunque a sentire. V’è una creatura che t’ha detto: «Sono tua, per sempre.» Chi distrugge il senso di queste parole? Ella stessa!... Ella t’ha detto che t’ama, e un bel giorno ti dice: «Non t’amo più!» Bada ancora: al tempo dell’amore felice ella ti ripeteva, malinconicamente: «Sarai tu quello che mi lascerai!» Tu allora protestavi, giuravi, non sapevi nè potevi darle una prova del suo inganno. Adesso, quando ella ti ha detto che non t’ama più, quando t’ha fatto comprendere che fra te e lei non c’è più nulla di comune, che cosa fai? Sei preso da un impeto di sdegno, la colmi di rimproveri, la minacci? No!... Tu ti getti ai suoi piedi, le ricordi le sue parole, le dici: «Com’è possibile? No, non è possibile! Tu vuoi mettermi alla prova, tu vuoi farmi paura. Tu sei mia, tu m’hai detto che non potevi vivere senza di me.... Che cosa t’ho fatto? Quali colpe ho commesse?...» Ella tace. Tu ti batti la fronte e riprendi: «Sì, ho una colpa.... Non t’ho provato ancora abbastanza quanto sia forte l’amor mio.... Comprendi: la parola è impotente, il pensiero non si esprime mai tutto. Ma guardami in fondo all’anima: non vedi come è tutta piena di te? Io sento in questo momento che non ti ho mai amata tanto....» Ella scuote il capo, ti oppone fredde ragioni, ti addebita colpe insignificanti delle quali ella stessa non è immune. Tu non le rimproveri le sue; le prendi una mano, la scuoti, la guardi negli occhi, la chiami col dolce nome antico. Ella s’irrigidisce, ti respinge, evita il tuo sguardo; allora la luce si fa nel tuo spirito: ella ama un altro. E la terra ti manca sotto i piedi. Quella creatura, quell’anima, quel corpo, sono d’un altro! È possibile? Glielo chiedi, con voce strozzata, gemendo ed urlando, ed ella protesta freddamente, risponde che non ha conti da renderti. Il tuo orgoglio d’uomo è ferito; ti senti un gran sdegno ribollire nel cuore: non dici nulla. Ti alzi, le stringi la mano, fai per andar via. Ma sei legato con tanti e così sottilissimi fili a quelle mura, a quella persona, che senti il tuo cuore lacerarsi. Che ti dice ella? Ti dice: «Addio!» All’uscire da quella casa, con la fronte in fiamme, un martello alle tempie, la gola stretta, le labbra inaridite, ti metti quasi a correre, incapace di coordinare le tue idee, non riconoscendo nessuna delle persone che incontri per la via, occupato soltanto dell’oscuro pensiero che ormai la percorri per l’ultima volta. E una parola ti risuona all’orecchio: quell’_addio_ terribile, la parola che si pronunzia nelle agonie, nelle separazioni senza ritorno, nelle ore fatali della vita — la parola che fiacca il tuo sdegno, che seda i tuoi istinti di ribellione, e che ti stringe il cuore, ti brucia gli occhi, ti toglie il respiro.... Tu pensi: «Non la vedrò dunque mai più?... Non sentirò il suo capo appoggiarsi al mio petto, non stringerò più la sua mano, non bacerò più la sua fronte?...» Passano giorni vuoti, monotoni, eterni. Tu ritrovi le sue lettere, i suoi ritratti; ed hai paura di toccarli, di mutarli di posto. Diventi superstizioso. Ad ogni squillo di campanello pensi: «È lei! Mi scrive, si pente, mi chiama!...» Nulla! Tutto è finito! Tu non la vedrai più, mai più, mai più! A queste parole che tu ripeti incessantemente, disperatamente, la tua ragione vacilla. Perchè mai più? Che cosa può vietare che due esseri viventi si rivedano ancora? Quali insuperabili barriere, quali distese di mari e di terre li posson dividere? Quali catene potranno impedire che tu ti slanci verso di lei? E vuoi rivederla; a costo di tutto bisogna che tu la riveda. Davanti a lei la tua passione scoppia selvaggiamente. Minaccioso e supplice, le dici dapprima: «Ti ammazzerò!» e poi le mormori piano: «Io so ancora tante parole d’amore che non t’ho dette ancora!...» Ella si scuote, ti blandisce, ti prega di non farle male, ti scongiura di rassegnarti, di farti una ragione, di accordarle la pace. Naturalmente non si può sempre parlare, gridare, piangere, mordersi. E stanco, esausto, sfinito, vai via; questa volta, comprendi bene, per sempre. Solo, in silenzio, riprendi a piangere, la piangi come morta; ma ella non è morta per gli altri; è morta per te. Tu la scorgi, talvolta; e provi il bisogno pazzo di andare a piangerle vicino, di toccarla, di contemplarla. Se ella fosse morta, se la terra la ricoprisse, il tuo cuore s’acqueterebbe: tu non avresti queste tentazioni, la tua piaga non si riaprirebbe continuamente. Tu non penseresti di tentare ancora una volta la resurrezione di quel passato il ricordo del quale ti brucia come un carbone ardente — perchè, rammentalo, l’idea dell’impossibile, dell’irreparabile repugna in grado supremo all’anima nostra; perciò la speranza è l’ultima a morire. La morte ha questo di buono: uccide la speranza. Invece tu speri ancora; tu dici: «È forse impossibile che questo passato risorga? No: basta che ella voglia....» Allora pensi a tutti i suoi momenti buoni, a tutte le prove di tenerezza che ti diede; vorresti gettarti un’altra volta ai suoi piedi, affidarti alla sua pietà. Tu pensi: «Se ella dice di sì, che tripudio scoppierà nell’anima mia! Questa benda di ferro che mi fascia la testa cadrà! Che aria ravviverà il mio petto oppresso! E come impazzirò di gioia dopo essere stato sul punto d’impazzir di dolore!...» Ed ella ti risponde: «No!...» Accusa la morte, adesso!... Per la creatura morta tu provi una infinita pietosa dolcezza, una soave malinconia rassegnata; per questa creatura viva il rancore, il livore si mescola alla tua passione e la intorbida e la corrode e ti strugge. Tacque anch’egli, ansando un poco. Franz non aveva opposto nessuna ragione agli argomenti di lui; Ludwig se n’era rimasto sempre a guardar l’orizzonte che adesso, nella sera già calante, si veniva perdendo. — Conosco, — diss’egli finalmente, portandosi le mani alla fronte e passando le palme sulle sopracciglia, — conosco una fine d’amore più triste ancora di tutte coteste. I due amici lo guardarono. — La fine d’amore più triste, più tormentosa, più tragica, è un’altra. Non è la brutale che segue alla morte, o all’abbandono, al tradimento: è la fine lenta, lunga e quotidiana, l’esaurimento continuo prodotto dall’azione del tempo, dal fatale svanire d’ogni cosa umana. Il giorno che voi avete confessato l’amor vostro, che ne avete ottenuto il ricambio, avete detto a voi stesso: «E’ per sempre! per sempre!» Voi credete a questa parola, pensate che se qualcosa d’indipendente dal vostro volere non accadrà, l’amor vostro durerà eternamente. Ed è, dapprima, il tripudio più puro fra le proteste più pazze. Un sentimento di meraviglia occupa il vostro spirito: pensate alla creatura che vedeste un giorno da lontano, a cui parlaste col rispetto più timido, per cui sentiste nascere il desiderio più disperato — e questa creatura adesso è vostra, vi appartiene, tutta! Voi quasi nol credete; se la vedete, talvolta, passar da lontano, il dubbio rinasce nel vostro spirito. Nel cuor vostro una gratitudine immensa, una devozione sconfinata raddoppia l’amore. Tutti i giorni voi le scrivete, le mandate qualcosa del vostro pensiero, del vostro cuore. Ella impara a memoria le vostre lettere, ve le ripete, ve ne chiede altre. Voi ricominciate, ancora, sempre; ma, senza accorgervene, le antiche espressioni vi ritornano sotto la penna e, a poco a poco, naturalmente, vi ripetete. Vi mancano le parole? Che importa! Voi pensate che da tutti i vostri atti, da tutta la vostra vita, ella dev’essere assicurata della saldezza del vostro affetto. Ella non pensa così; si lagna perchè vi crede intepidito, fa consistere il bene in certe cose che per voi non hanno significato. State in guardia: voi cominciate a scorgere i difetti nell’idolo. E se chiudete gli occhi per non vederli, altri invece se ne rivelano. Allora voi ve ne fate una ragione; tutte le creature umane non hanno forse i loro?... Sapete che cosa vuol dir questo? Vuol dire che dal periodo epico voi già passate a quello critico. Voi vi ammirate per la vostra penetrazione, per la vostra ragionevolezza. Il vostro egoismo vi mantiene pertanto in una illusione; vi dimostra che, dal canto vostro, voi non avete difetti di sorta; ella non può, non deve trovarne in voi. Un bel giorno, una sua parola, l’accento col quale ella la pronunzia, vi aprono gli occhi; ella ha scoperto i vostri difetti secreti, le vostre debolezze intime, quel che c’è in voi di manchevole, di meno bello. Allora il vostro amor proprio s’impunta. E vi chiudete in un offeso riserbo, o vi vendicate dicendole apertamente i suoi torti. Adesso ciascuno di voi giudica l’altro, senza riguardi, per quel che vale. Un istinto d’avversione vi domina; ma i legami che vi stringono sono tanto forti che non si spezzano. E sapete a che cosa somiglia allora la vostra situazione? Somiglia a quella di due forzati avvinti da una stessa catena, ciascuno dei quali è costretto a non fare un passo che l’altro non faccia. Quando voi pensate all’illusione dei primi giorni, chiedete: «Come mai s’è dissipata?» E non sapete rispondere; il disinganno s’è venuto operando lentamente, inavvertitamente. Presto s’accresce ancora; presto voi domandate un’altra cosa, la cosa opposta: «Come ho potuto illudermi?» Tanto è profondo l’abisso scavatosi!... Tutto ciò vi fa paura, perchè quel complesso di moti diversi ed opposti che si chiama l’amore è ancora in voi. Ecco: voi chiudete gli occhi, abolite la percezione del mondo circostante, guardate in fondo alla vostra memoria. Il ricordo dei giorni sereni vi brilla: perchè non potreste riafferrarli? La donna che voi amate non è morta, non v’ha abbandonato, è sempre vicina a voi; ma sapete che avviene? Ella non è più la stessa che conosceste un giorno. L’assiduità con la quale l’avete contemplata, esaminata, studiata, ha finalmente alterato le linee del suo viso, della sua persona; vi ha fatto scoprire in lei aspetti, attitudini, espressioni che prima non avevate visti. Voi vi sforzate di ritrovarla come al tempo che nacque l’amore; per questo la rimettete nella stessa luce nella quale prima v’apparve, ed esumate tutti i vostri ricordi, e vi riportate continuamente col pensiero al passato. Ogni sforzo è inutile: no, non è più lei, non può esser più lei... Le sue carezze d’ora non sanno più come le prime; le sue parole d’ora non hanno il suono delle antiche. Voi comprendete che uno stesso mutamento accade in lei, ma nessuno di voi ha il coraggio di dirlo. Ella vi domanda di ripeterle le parole innamorate che le prodigaste; le ripetete, e una ironia amara vi torce le labbra. Lontano da lei vi proponete di dirle tutto, sinceramente, di non rappresentare più oltre una commedia; trovate le parole, cominciate una lettera, ma non avete la forza di compiere il vostro proposito. Se qualche momento di tenerezza ritorna, dovreste esultare, è vero? Invece il vostro scontento s’accresce; vi accusate di fiacchezza, di imbecillità; avreste voglia di percuotervi, d’insultarvi... L’ultima luce agonizzava, un chiarore verdastro si diffondeva sotto le nuvole pesanti, illividiva i volti dei tre uomini al cui sguardo la desolata campagna e il mar flagellato formavano come un paesaggio appartenente ad un altro mondo, più vuoto, più freddo, più lugubre. — Chi non ha conosciuto questo, — riprendeva Ludwig, — non sa nulla delle agonie sentimentali, della vanità degli affidamenti, dei giuramenti umani. _Per sempre!_... Non una potenza ineluttabile, non una volontà estranea alla vostra distrugge questa promessa; ma il vostro stesso cuore; siete voi che ridete di voi! La fine più brusca, la rottura più repentina non hanno nulla di tanto lacrimevole quanto questa agonia. La pietà si mescola allo sdegno ed all’ironia; in certi momenti dimenticate il vostro scontento pensando al dolore che si rovescerà su voi due quando le parole irrevocabili saranno pronunziate... E prolungate l’inganno, e soffrite, e fate soffrire; finchè, un giorno, quando meno ve l’aspettate, a proposito di nulla, tutto finisce... Sapete allora che accade? Nessuno rispose. L’oscurità invadeva la stanza; nessuno pensava a far accendere il lume. — Accade, al morale, qualcosa di simile a quel che avviene al fisico, quando una parte del vostro corpo, mortificata, distrutta, è portata via dal ferro del chirurgo. Sapete quel che si legge nei libri: l’infermo, spasimante, s’acqueta sotto l’azione torpente dell’etere. Dapprima un senso di liberazione, un’aura esilarante gli rinfrescano il cervello. Egli ride, si sente più leggiero, quasi trasportato su per l’etere, per quell’altro etere, l’imponderabile. Poi s’accascia, s’addorme, non sente più nulla. Quando riapre gli occhi alla luce, tutto è finito; il suo piede sfracellato, il suo braccio incancrenito non sono più attaccati al suo corpo. Egli guarda il posto vuoto; ma che cosa è il nuovo portento che adesso si compie? Egli _sente_ che il piede, che il braccio portati via aderiscono ancora a lui; le sue sensazioni vi si localizzano ancora; egli vi avverte come un formicolio, crede di poterli muovere, adoperare... Così accade nell’anima. Quando la passione mortificata ne è stata staccata, quando il ragionamento vi dice che non potrà più tornare, il vostro sentimento si proietta ancora in essa e, più di ogni altro moto reale, più d’ogni altro affetto presente, l’anima avverte la presenza dell’amore perduto... La notte era fonda e la voce moriva. IRONIE Credo, mia cara amica, che ella abbia ragione. Quantunque tutte le forme di morte dell’amore siano dolorose e strazianti, se esso muore soffocato, strozzato violentemente dalla persona che noi amiamo e che non ci ama più, il dolore e lo strazio sono massimi e veramente insopportabili. Ciò accade perchè allora non solamente l’amor nostro è disdegnato e respinto, ma tutto il nostro amor proprio è ferito e calpestato. Se ella dunque vuol sapere da me in qual modo questa pena estrema dei traditi e degli abbandonati guarisce, già è in grado di indovinare la mia risposta. Reprimere la nostra passione dicendo a noi stessi e dimostrando che l’oggetto nel quale la riponemmo ne è indegno, non vale a niente: già in una precedente mia lettera io le parlai della contraddizione per la quale proprio l’indegna persona sembra meritevole sopra ogni altra, unicamente. Alcuni credono che il riso sia un buon revulsivo, e non è infatti da disprezzare. Conosco un abbandonato il quale, struggendosi nel suo dolore, cominciò a sorridere e a sentirsi molto meglio quando vide la antica sua amante a braccio di un altro uomo, in un luogo oscuro, pendere dalle sue labbra e stringersi tutta a lui... Ha ella notato come lo spettacolo di due amanti e anche di due sposi ecciti spesso il sorriso beffardo? E perchè mai la vista dell’amore, dell’amore felice, invece di disporre alla gioia dispone alle beffe?... Io credo che si possano assegnare due cause di questo fatto, cioè una sola causa che agisce in due modi differenti. Essa risiede in quelle leggi che dell’amore, d’una cosa cioè molto e fin troppo naturale, hanno fatto una cosa misteriosa, difficile e quasi vietata. Di questa prepotente passione non si deve quasi parlare nel civile consorzio; mentre di tutti gli altri bisogni noi vediamo quotidianamente lo sfoggio, questo qui dobbiamo piuttosto indovinarlo attraverso le ipocrite convenienze. Tutte le volte adunque che esso si rivela o traspare, come quando un corteggio nuziale attraversa le vie d’una città o quando una coppia di amanti erra nelle ombre propizie di qualche deserto bastione, allora l’improvvisa rivelazione d’una troppo celata e contrastata realtà dispone al sorriso. Aggiunga ancora che lo spettatore dell’amore vorrebbe anch’egli, ma non può, per le medesime leggi severe, prendersi sotto il braccio una persona con la quale poter fare ciò che fanno i due attori; e l’invidia umanamente le spiegherà il suo scherno. Chiudiamo questa parentesi e torniamo alla persona di mia conoscenza: costui, vedendo tubare le due tortorelle, una delle quali era il rivale, l’altra la donna che fino a pochi giorni innanzi giurava d’amar lui, sentì tanto più acutamente l’umorismo dello spettacolo e, ridendo, si sollevò. Un altro amante abbandonato guarì in un modo che è alla portata d’ognuno; perchè non sempre il caso ci è tanto propizio da farci spettatori dei nuovi idillii delle nostre antiche fiamme. Ecco il modo: l’abbandonato, spasimando alle memorie del perduto amore, tremava di paura al pensiero di vederne i materiali ricordi. Come contemplare senza entrare in agonia i ritratti dell’amata, i fiori, i nastri, le cose che ella gli aveva donate? Come rileggere senza morire le lettere sue?... Ed un giorno vide i ritratti ed i fiori, e il suo dolore crebbe veramente oltre misura: ma quando egli cominciò a leggere le lettere, le lettere piene di queste espressioni: «L’amor mio per te sarà senza fine... tu solo m’hai rivelato l’amore... fuori di te non c’è, non potrà esserci mai piacere e felicità... non solo l’amor mio è eterno, ma più eterna sarà la mia gratitudine... io voglio morire per provarti che non posso amare nessun altro fuori di te... tu potrai lasciarmi, tradirmi, scacciarmi, io ti sarò fedele da lontano, eternamente...» leggendo queste lettere delle quali aveva avuto paura perchè prevedeva che il dolore di non poterne ricevere più mai di simiglianti lo avrebbe soffocato, egli sentì improvvisamente il suo petto sollevarsi e il riso fiorirgli sulle labbra, perchè la donna che aveva scritto queste cose, ella stessa in carne ed ossa, le scriveva in quel punto ad un altro... Tuttavia questi rimedii, quantunque giovino spesso, spesso anche restano inefficaci. Se è vero — e come negarlo? — che l’amor proprio è massimamente offeso nel tradimento e nell’abbandono, bisogna, per guarire radicalmente, che l’amor proprio ottenga la sua rivincita. Chiodo scaccia chiodo, dice il proverbio; e se a noi parve finito tutto il nostro merito perchè la persona che prima ci amava ora non ci ama più, basterà che, perduto quell’amore, noi ne otteniamo un altro perchè il merito nostro torni a rifulgere. Eppure neanche questo rimedio è infallibile! Noi abbiamo ottenuto un altro amore e non ce ne contentiamo, perchè non ne volevamo un altro, uno qualunque, ma precisamente quello che non potevamo avere: tale il bambino bizzoso grida e strepita e non si cheta se, offrendogli voi le cose più belle o le chicche più dolci, gli negate quel balocco o quella confettura che per l’appunto egli si è fitto in capo di avere! La guarigione infallibile e radicale non avviene pertanto se non quando il nostro amor proprio, offeso perchè ci fu sottratto un amore, è soddisfatto all’idea di poterlo riottenere. C’è anche allora un’ironia, ed è la più sottile di tutte, perchè noi ridiamo — di noi stessi... Eccole a questo proposito un curioso documenta che mi fu mandato una volta: sopprimo l’esordio e le comunico la parte più degna della sua attenzione. «Questo amore era stato tutto ciò che di meglio avevo ottenuto al mondo, il sogno della mia giovinezza, la felicità della mia vita, e nulla era valso a compensarne la perdita. Avevo, sì, tentato di affezionarmi ad altre creature; ma l’imagine di quella donna mi restava sempre dinanzi, impediva quasi materialmente che io scorgessi le altre, e se pure le scorgevo, toglieva loro ogni incanto e sembrava quasi ammonire: «No, mai più troverai dolcezze così grandi come quelle che io ti diedi!» «E dalle sterili prove uscivo sempre più assetato di lei. Sentivo dire, a proposito di grandi dolori, di perdite irreparabili, che il tempo è un sovrano rimedio, che nulla resiste alla sua azione lenta e continua; quest’azione pacificatrice, questo rimedio infallibile io l’avevo provato altre volte; ora ogni giorno che passava accresceva la pena mia. Il lavoro paziente ed assiduo non era anch’esso un diversivo sicuro? Ma non potevo più lavorare, nessun’idea ormai spuntava più nella mia mente tutta invasa dai ricordi, oppressa dai rimpianti; e quando pure avessi potuto ridarmi all’arte mia, l’avrei ora sdegnata. Tutto ciò che avevo fatto non lo avevo fatto per lei, affinchè ella fosse contenta di me, affinchè le apparissi meno indegno di quel che mi sentivo? Le sole lodi ambite ed apprezzate non erano state le sue? Come tutto mi pareva ora inutile, vuoto ed oscuro! Nulla m’interessava più, nulla riusciva a strapparmi dal letargo nel quale ero caduto: contavo i giorni, contavo le ore. Esse scorrevano con lentezza mortale: come affrettarne la caduta? Pensavo: «Se potessi chiudere gli occhi e riaprirli di qui a due anni, a tre anni?...» E poi? Perchè? Che cosa aspettavo? Che cosa avrei ottenuto? Sì, forse tra qualche anno quel cocente ricordo sarebbesi spento; ma, a quest’idea, al pensiero di perdere la stessa memoria di un amore che era stato tutto il mio bene, il cuore mi si stringeva talmente ch’io trovavo nelle torture presenti una specie di felicità e come l’illusione che tutto non fosse ancor morto... Così, invece d’insistere nei miei tentativi di stordimento e d’oblio, cominciai ad attizzare il mio dolore rappresentandomi tutte le gioie conseguite in quel dolce legame, dando un valore perfino alle cose futili, perfino alle cose delle quali mi ero stancato. Perchè, infatti, mi ero stancato di certe sue esigenze che avevo giudicate irragionevoli, di certe sue superstizioni che avevo giudicate puerili. Ora vedevo in esse altrettante inestimabili prove d’amore, altrettante fortune impagabili: per ottenerne ancora una sola che cosa non avrei dato?... Ella aveva sempre voluto che io le scrivessi ogni giorno, anche un rigo soltanto; ed io che negli ultimi tempi non l’avevo più obbedita, pensavo adesso, ahimè troppo tardi, che scriverle continuamente, che aprirle ogni ora l’animo mio era ciò che avrei dovuto far sempre. Anch’ella mi aveva scritto tante volte; e rivedere le sue lettere, aspirare soltanto il profumo del quale erano impregnate, mi turbava fino alle lacrime. Altre volte io avevo restituite le lettere d’amore quando l’amore era finito; ma come paragonare questa passione alle antiche? Ed io non mi separavo da quelle carte, che non osavo rileggere per pietà di me stesso, ma dove era pure la prova che non avevo sognato la svanita gioia... Com’ero dunque stato folle nel lasciarmi sfuggire quel bene! Come incolpavo me stesso della morte d’un amore che invece ella stessa aveva ucciso!... Allora, ripensando alla premeditata freddezza di quella creatura che senza darsi la pena neppure di mendicare un pretesto m’aveva scacciato; ripensando alla crudeltà della quale aveva dato prova nel restar sorda alle mie preghiere, al mio pianto, alla mia disperazione; per un poco il mio dolore si mutava in un sordo rancore, in un odio secreto; ma io riconoscevo ben tosto, nel finale abbattimento di tutto l’essere mio, che questa sua freddezza, che questa sua crudeltà, che l’inflessibile rifiuto opposto a tutte le mie insistenze, erano l’origine della mia disperazione. L’idea di non averla potuta piegare, il sentimento della mia incapacità a ridestare una passione della quale ero andato superbo, mi prostravano, mi umiliavano, mi attaccavano a lei sempre più. E come se tanta miseria non bastasse, la gelosia, una gelosia terribile che non poteva fermarsi sopra una determinata persona, ma che comprendeva tutti gli uomini, mordeva il mio cuore. Perchè dunque m’aveva lasciato, colei, se non per darsi ad un altro? Perchè era stata così dura verso di me se non per riacquistare la libertà, per correre a nuove avventure? Un altro aveva preso il mio posto; e quest’altro poteva essere uno dei miei più intimi amici come il primo sconosciuto che mi passava accanto per via! La credevo capace di tutto; e la disistima, invece di guarirmi, accresceva il mio male! «Avevo pensato di partire, riserbandomi di porre ad effetto questo proposito quando null’altro mi sarebbe rimasto da tentare, come i medici riserbano per i casi disperati certi pericolosi rimedii che, se non affrettano la morte, riescono ad eccitare una crisi salutare nelle fibre vicine a distruggersi. I viaggi m’avevano sempre procurato la più gradita delle distrazioni. Dentro un treno che corre con la velocità di sessanta chilometri all’ora lasciandosi dietro monti, valli, fiumi e città; sopra un piroscafo che fende maestosamente il mare mobile e largo, avevo sempre respirato a pieni polmoni, m’ero sempre liberato da ogni oppressione. Ora non mi decidevo ad andar via. Quantunque la ragione mi dimostrasse fino all’evidenza che non c’era più nulla da fare, io aspettavo non sapevo bene che cosa. L’orgoglio mio era stato crudelmente ferito, nondimeno l’idea di tornar da lei a pregarla, ad umiliarmi, mi tentava certe volte ancora. Io mi ribellavo contro me stesso, m’accusavo di viltà, non facevo nulla — ma restavo. La divorante e mortale curiosità di sapere che cosa sarebbe accaduto di lei, se veramente un altro avrebbe ottenuto i suoi favori, mi tratteneva. E mi umiliavo altrimenti, spiandola da lontano, studiando il modo di far parlare di lei la gente che la conosceva. Alle volte mi sentivo sollevare da tale sdegno contro me stesso per l’incapacità di strapparmi quella donna dal cuore, che la risoluzione di partire era presa, irrevocabilmente. Ma il terrore di portar meco quel ricordo come un vampiro attaccato alla mia carne, intento a succhiare il mio vivo sangue, fiaccava il mio coraggio. E speravo ancora, accoglievo ancora qualche lusinga! Pensavo che ella avrebbe potuto pentirsi del male che m’aveva fatto e cercare un giorno o l’altro di me. E con l’istinto della salute che fa aggrappare anche ad un filo d’erba chi precipita in un abisso, m’afferravo a queste lusinghe, lavoravo a dar loro qualche apparenza di fondata speranza... Fu un giorno del settembre che ricorreva l’indimenticabile anniversario. Lo avevo aspettato con un’ansia ineffabile: i miei ricordi, i miei pentimenti, i miei rimpianti, le mie speranze, tutti i moti dell’animo mio s’erano esasperati talmente che non credevo possibile resistere di più a simile travaglio. Tanti disegni m’erano passati per il cervello, uno più pazzo dell’altro, che non sapevo veramente che cosa imaginare. Spuntò quel giorno, ed io non feci nulla di nulla. Ma se le fossi stato vicino, se l’avessi sentita tutta stretta a me, non sarei stato così pieno di lei come in quelle ore di agonia, occupate a ricordare le altre, le antiche, le divine, le prime e le sole che contassero nella mia vita. Che cosa faceva ella in quei momenti? Era possibile che non ricordasse anch’ella? Nonostante la lunga separazione, nonostante la lontananza, in quel momento le nostre anime non dovevano confondersi come s’eran confuse altra volta? E se così pensava anch’ella, se era pentita, se era libera, non toccava a lei di scrivermi una riga, una parola, perchè tutto fosse detto?... Quando arrivò la posta cercai con mano tremante in mezzo al fascio dei giornali e delle lettere. Non c’era nulla. Ebbi veramente un sorriso di profonda commiserazione per la mia sciocchezza. Calò la sera, e mai tenebre più paurose chiusero il mio cuore. Improvvisamente udii squillare il campanello. Il servo mi venne incontro con un dispaccio in mano. Poichè il cuore non mi si ruppe in quel punto, la fibra dev’esserne molto resistente. Apersi quel foglio: era un mio creditore che mi mandava un vaglia telegrafico. Il giorno dopo partii. «In verità l’esistenza più salda, più tenace, non è già quella delle cose o degli esseri, ma quella delle idee e dei sentimenti. Voi potete spezzare un oggetto materiale, calpestarlo, incenerirlo, darne al vento le ceneri; voi potete uccidere una persona, distruggere quel prodigio che è un corpo vivente: ma dinanzi a questa cosa semplicissima che si chiama un pensiero, così tenue, così alato, fuggevole tanto che un soffio parrebbe doverlo abolire, voi siete inermi. La volontà è l’unico mezzo del quale potreste disporre; ma tutti gli sforzi della vostra volontà per sradicarlo servono invece a configgerlo più profondamente nel vostro cervello. Non voler pensare a una cosa importa rammentarsela continuamente; contro l’invasamento spirituale non vi sono esorcismi... Sì, io partii, con l’anima abbeverata di fiele, con le labbra contorte da un sardonico riso; ma il fischio del treno che si metteva in moto mi parve l’urlo della mia disperazione, e quasi tentai rompermi la fronte contro la gabbia che mi serrava, tentai precipitarmi dallo sportello per finirla una buona volta... E quando fui lontano, quando mi vidi in un paese straniero, fra gente sconosciuta, quando udii risonarmi d’intorno una lingua ignorata, un immenso stupore mi vinse e sedò per un istante il mio cordoglio. Io domandai a me stesso: «Perchè sono qui? Che cosa sono venuto a fare? E potrò respirare soltanto?...» Mi mancava l’aria, mi sentivo morire. In mezzo al vasto tumulto di quella metropoli, dinanzi allo spettacolo di migliaia e migliaia d’uomini correnti dietro agli affari, ai piaceri, agli amori, io sentivo di me stesso la pietà che certi poveri fanciulli smarriti tra la calca in un giorno di festa m’avevano talvolta ispirata. Provai d’annegare il mio dolore negli stordimenti dell’orgia; ma come un legno che noi spingiamo sott’acqua risale rapido a galla appena abbandonato a sè stesso, così il mio dolore risorgeva ogni volta, più acuto. E senza più ritegno, senza più vergogna, m’abbandonai ad esso, interamente. «Avevo portato con me le sue lettere, i suoi ritratti. Una sera mi chiusi in camera e li rividi. Terribile! Terribile! Era dunque lei? la sua fronte? le sue guance? le sue labbra che avevo tanto baciate? Era il suo sguardo che si fissava ancora su me, pieno della mia visione? Tutte quelle lettere, quelle parole d’amore, quei giuramenti, quelle promesse erano stati ispirati da me? Ed io non avrei più riveduto quella figura reale come ora ne rivedevo la mera effigie? Non avrei più ricevuto nessuna di quelle lettere, mai? Era dunque come morta?... Allora, nella nuova e più dura crisi d’ambascia scatenata nell’anima mia, io pensai di fare ciò che prima non avevo voluto: restituirle quelle carte per poterle scrivere ancora. Rapidamente quest’idea mi soggiogò. Io le avrei scritto per mostrarle l’esulcerata mia piaga, per farle intendere che l’amavo ancora tanto da perdonarla, da accusare anzi me stesso, da implorare il suo perdono per me. Fra giorni ricorreva il suo natalizio: ella non aveva parenti, nessuno dei suoi conoscenti sapeva la data che io solo avevo festeggiata, altre volte. Volevo anche ora mandarle una buona parola per questa festa che è sempre un po’ triste... «Nella notte alta, nel silenzio profondo, alla luce d’una candela che si struggeva con fiamma tremula e lunga, io mi misi a scriverle. Scrivevo tre righe e ne cancellavo due. Volevo mettere sopra un foglio di carta tutto ciò che avevo in cuore; ma le parole mancavano, ed anche temevo di contenermi troppo o di troppo lasciarmi trascinare. Ma ero deciso a non levarmi dalla scrivania se non dopo aver finito. Quando finii rilessi la lettera; ne rammento ogni parola, diceva così: «Lasciata l’Italia per un tempo non breve, compio il dovere di rimandarvi alcune carte che non posso esporre al rischio di cadere in mani indiscrete e che per altro mi dorrebbe troppo distruggere. Già io ho sempre pensato che le carte di questa natura si debbano restituire quando restano a testimoniare qualcosa che più non esiste, un passato perduto: serbarle è permesso soltanto quando sono le prove d’una realtà che ricomincia continuamente. Eccole adunque: distruggetele voi stessa, o voi stessa serbatele, secondo stimerete opportuno. Come passa rapido il tempo! Ecco tornare il vostro giorno natalizio che lo scorso anno noi passammo insieme. Mi permettete di presentarvi ancora i miei augurii, fervidi come quelli d’un tempo? Ora e sempre, possiate voi ottenere tutto quel bene che il vostro cuore desidera...» Mi parve di non aver detto niente e d’aver detto fin troppo. Niente, perchè quelle poche righe non mostravano la mia lunga passione; troppo, perchè il rammarico e l’implorazione vi si leggevano, nonostante, in mezzo. Esausto della lunga veglia, andai a letto. Quando mi destai erano le undici; mancavano due ore alla partenza del corriere d’Italia. Senza più pensare a nulla, ricopiai la lettera, feci un pacco di quelle carte, lo suggellai e andai alla posta. Mi movevo come in sogno; non avevo coscienza dei miei atti. Consegnai dapprima il pacco all’ufficio di raccomandazione, poi mi avviai alla buca delle lettere. Quando vi fui vicino, quando cercai in tasca la lettera mia, parvemi che qualcuno m’afferrasse per tirarmi indietro. Il pacco non poteva partir solo? La restituzione di quelle carte aveva forse bisogno di commenti? Nella mia lettera io mi davo vinto, dicevo a quella donna che l’amavo ancora, imploravo ancora da lei il ricambio dell’amor mio — ed ella forse l’avrebbe letta fra le braccia d’un altro. Ella avrebbe riso di me, m’avrebbe risposto due righe di ricevuta — forse non m’avrebbe risposto neppure! Era stata così malvagia, m’aveva fatto tanto soffrire; ed io le davo ancora quest’altra soddisfazione!... Tutto ciò fu pensato nel tempo che la mia mano andò dalla tasca alla buca — perchè vi andò, e vi lasciò scorrer dentro la lettera. «Prima che potessi avere risposta dovevano passare cinque giorni. Impiegai questo tempo a imaginare la risposta. Poteva essere arida e fredda come avevo temuto; ma il pentimento era inutile, ormai. Se invece... se invece... Ed io dicevo a me stesso che, infatti, nel rivedersi dinanzi le sue lettere, le prove dell’amore che m’aveva portato, nel ritrovarmi supplice ancora dopo i torti che m’aveva fatti, nel sapermi tanto lontano, ma nel sentirmi pure così vicino a lei, il suo cuore avrebbe dovuto palpitare più forte e, se non l’amore, almeno la pietà, la simpatia, la compiacenza dettarle una buona parola, indurla a consolarmi... Allora, sostenuto ed infiammato dalla divina speranza, io pensavo all’altra lettera che le avrei subito scritta: «Ebbene, non occorre più ch’io ve lo dica, voi già lo sapete: nonostante tutto, voi siete ancora l’amor mio, l’amor mio forte e grande, il mio unico amore, l’amore che non posso più scordare, che porterò eternamente con me... Se mi volete ancora, dite una parola e sarò ai vostri piedi. Se volete che aspetti, aspetterò quanto vorrete. Sempre, in tutto, la vostra volontà sarà la mia...» Ma una lettera avrebbe messo troppo tempo a dirle queste cose: io mi sarei piuttosto servito del telegrafo, le avrei mandato il mio pensiero con la velocità del lampo. E cercavo le parole del telegramma!... «Al quinto giorno ebbi la sua risposta. L’ebbi alla posta, la lessi per via, tra le spinte della gente, lo strepito delle vetture, gli squilli delle cornette dei _tram_. Diceva così: «Grazie! Nessuna attenzione commuove tanto quanto quella che meno si prevede perchè meno si sente di meritare. I vostri augurii d’oggi sono graditi come quelli d’un tempo, anche perchè come quelli d’un tempo sono stati i soli che ho ricevuti in questa ricorrenza. Mi sono pervenute e non ho distrutto le carte che con rara delicatezza avete creduto di dovermi restituire: c’è un passato che si custodisce gelosamente, come il più reale dei beni; disperderne le tracce sarebbe delitto. Se voi vorrete ancora ricordarvi di questa vostra povera amica, sarà sempre una festa per lei.» Orbene; quando io ebbi finito di leggere questa lettera me ne andai al caffè, perchè avevo fame. Fu la prima volta, dopo tanto tempo, che mangiai con gusto. Tutto il giorno fui in giro al Museo, che non avevo ancora visto. Prima di desinare visitai una bella signora che avevo conosciuto di fresco. La sera andai al teatro con amici, dopo cenammo allegramente. Tornai a casa alle tre della notte e dormii d’un fiato sino alle due del domani. Svegliandomi, mi rammentai della lettera ricevuta la vigilia, e la rilessi. Non c’era bisogno di molta penetrazione psicologica per comprenderne l’intimo significato: «Un’attenzione _che si sa di non meritare_... i _soli_ augurii, graditi _come quelli d’un tempo_... _non ho distrutto_ le carte che _avete creduto_ di dovermi restituire... un passato custodito _gelosamente_, come _il più reale dei beni_... _se vorrete_ ricordarvi ancora di questa vostra _povera amica_...» Il suo rammarico, il suo pentimento, la sua solitudine: ella diceva apertamente tutto ciò; non diceva: «Tornate!» ma questa parola era come scritta su tutte le altre, io quasi la leggevo attraverso la grana della carta. Nel mio farneticamento dei giorni scorsi avevo mai sperato tanto? Non dovevo fremere di gioia, risponderle subito, aprirle il mio cuore?... Per una settimana non trovai il tempo di scriverle. Quando finalmente mi posi a tavolino le scrissi così: «Ho ricevuto la vostra lettera e vi ringrazio della buona memoria che serbate di me. Siate certa della devozione che vi porto, e lasciatemi sperare di potervene dare qualche giorno la prova. Io sono qui per fare qualche studio e per vedere un po’ di mondo. Se potessi giovarvi in qualche cosa, disponete pure liberamente di me: mi farete sempre un regalo...» L’ASSURDO Bisogna dire, mia buona amica, che io ho proprio la mano disgraziata. Mentre mi cullavo nella dolce lusinga d’avere riacquistato la sua benevolenza e d’essere riuscito a farle dimenticare non solo i torti che ho potuto commettere nel corso di questa nostra corrispondenza, ma perfino l’origine prima del suo cruccio, cioè le mie teorie sull’amore, ecco improvvisamente ridestarsi più acre che mai il suo sdegno, eccomi nuovamente segno della sua severità! Pare, infatti, che fra i moltissimi capi d’accusa dei quali io ero chiamato a rispondere, ella avesse finora dimenticato il più grave di tutti, e che una mia imprudenza glie l’abbia rammentato ad un tratto. L’argomento dell’accusa è «l’incredibile scetticismo» col quale io sostengo che la passione più grande, più forte, veramente sovrana ed imperitura non è l’amore ma l’amor proprio; e che l’amore non è altro se non un caso dell’amor proprio, cioè, sono sue parole, «dell’arido, dello sterile, dell’ingrato, del volgare, dello spregevole egoismo!» Il suo sdegno è tanto, che ella mi «vieta» di replicare, d’insistere, di comprovare le mie teorie! Non abbia paura. Se anche ella non me l’avesse inibito, io sarei rimasto zitto. Poichè le dimostrazioni dei rapporti nei quali stanno l’amore e l’amor proprio, cioè l’istinto della riproduzione e l’istinto della conservazione dai quali le due passioni reciprocamente dipendono, non l’hanno persuasa, anzi l’hanno offesa, sarebbe inutile ricominciarle; io non potrei se non trascriverle tali e quali, cosa che finendo di disgustar lei, non divertirebbe molto neanche me. Tuttavia, se ella vorrà un momento, non dico placarsi, ma rammentarsi che agli accusati dei crimini più spaventevoli è pur concesso il diritto della difesa, mi accorderà un momento la parola perchè io dica una cosa soltanto. E questa cosa è la seguente: ella ha ragione di sdegnarsi; dico: _ha ragione_ e, se me lo permette, soggiungo che mi sdegno anch’io. Però, mentre ella se la prende con me, bisognerebbe invece che ella ed io insieme e tutti quanti siamo ad una voce, ce la prendessimo con la vita, con la natura, con quella Necessità dalla quale le cose sono state ordinate. Ella ha tanto ingegno e tanta esperienza da sapere che il predominio dell’amor proprio o egoismo sopra ogni altra passione non ha bisogno d’esser dimostrato filosoficamente, psicologicamente o fisiologicamente: basta affacciarsi nella via, guardarsi attorno, porgere l’orecchio, per vedere e sentire che gli uomini non obbediscono ad altro fuorchè all’interesse proprio. Questa verità è ovvia, ma è pure triste, amara, incresciosa. L’egoismo è basso, chiuso, inesorabile; noi vorremmo che al suo posto stessero il nobile sacrificio, la pietà larga, la carità generosa. Come fare per ottenere questa sostituzione? Potremo noi sperare che gli esempii, le predicazioni, gl’incitamenti assidui e pazienti modificheranno la natura umana e faranno nascere uomini impastati a un modo diverso dall’attuale? Questa speranza è, pur troppo, vana. E ancora, pensandoci bene, se noi potessimo modificare l’ordine al quale obbediamo, ci converrebbe poi veramente modificarlo?... Perchè mai l’egoismo ci pare ignobile e il sacrifizio nobilissimo, se non appunto perchè qualunque uomo può essere, anzi è egoista, come ogni animale che bada a sè stesso; mentre soltanto uno sforzo difficile e penoso permette ad alcuni, ai più forti, ai migliori, di operare contrariamente all’istinto? La parola _raro_ ha dunque due significati che sembrano diversi ma sono infatti intimamente connessi: una cosa è _rara_, cioè preziosa appunto perchè è _rara_, cioè infrequente. Se i diamanti fossero comuni quanto i sassi, che cosa varrebbero? Se la legge naturale fosse quella dell’altruismo, se tra il bene proprio e quello del simile ciascuno preferisse di procacciar sempre quello del simile, dove sarebbe più il merito del sacrifizio? In un mondo dove questa fosse la regola, i migliori uomini, possiamo esserne certi, sarebbero quelli che pensassero un poco a sè stessi; e mentre da noi s’innalzano monumenti a Pietro Micca, là si tramanderebbe ai posteri l’effigie di chi, dinanzi al pericolo, se l’è data a gambe... Zitta! Zitta! Non aggiungo altro, se no mi vedo perduto. Torniamo piuttosto all’amore... Senza alcun dubbio, se l’impero dell’amor proprio è autocratico e tirannico sopra tutte le altre passioni, l’amore soltanto potrebbe ridurlo a più miti consigli e costringerlo a concedere una qualche carta costituzionale. L’amore, infatti, riesce spesso in quest’opera, e noi vediamo che i più induriti egoisti guariscono del loro vizio ed aprono il cuore a sentimenti più generosi per opera del giovane iddio. Quando noi non amiamo nessuno amiamo noi stessi; quando amiamo un’altra persona, l’amore di noi può essere ed è tante volte messo da parte. Il merito dei sacrifizii d’amore non è dunque un poco discutibile? Siccome la mia felicità consiste nel far felice la persona che amo, è troppo naturale che io lavori a farla felice, anche a mie spese. Ma io amante, voglio il piacere della persona amata e il mio proprio insieme; e se questi due piaceri sono conciliabili, se li posso ottenere ad una volta, la felicità è massima; quando invece tra il mio piacere e quello della persona amata c’è contrasto, l’infelicità è senza fine. E disgraziatamente non c’è bisogno di dire che l’accordo degli interessi è molto più raro che non il loro conflitto. Disgraziatamente ancora, comunque il conflitto finisca, il danno è inevitabile: se faccio vincere l’interesse dell’altro a scapito del mio, me ne pento e mi giudico debole e sciocco; se vince il mio, me ne pento egualmente, giudicandomi duro ed ingrato... Come mai siamo venuti a discutere di queste cose? Ah, ecco, rammento: per ciò che le narrai l’ultima volta. Un amante abbandonato, che vuole e non può guarire dell’amor suo perchè spera piuttosto, anzi arde di riottenere l’amore che gli fu sottratto, guarisce improvvisamente appunto quando l’ottiene! La soddisfazione dell’amor proprio è pertanto fatale all’amore. Si potrebbe vedere qui una graziosa assurdità, se appunto il predominio dell’egoismo non spiegasse logicamente l’apparente controsenso. Di controsensi ancora maggiori non mancano gli esempii. Il conflitto inestinguibile tra l’amore e l’amor proprio genera assurdità delle quali non solamente si sdegnano gli spettatori indifferenti o i giudici; ma anche, e più di tutti, le stesse persone nelle quali si producono. Io ne so una che mi pare veramente straordinaria per la sottigliezza dell’argomento egoistico e che prova quanta parte abbia la vanità nell’amore e come l’amore muore quando la vanità non è più contentata. — Bisogna pure riconoscere, — mi narrò una volta una persona, — che noi siamo fatti a un modo assai strano e che, se la felicità ci sfugge, il massimo ostacolo al suo conseguimento procede da noi stessi, dalle intolleranze, dalle contraddizioni di questa nostra inesplorabile natura.... Io v’ho ben detto che l’amore di quella donna fu per me, in un periodo molto oscuro della mia esistenza, un divino nepente, un elisir di vita, la fonte deliziosa alla quale si disseta avidamente l’arso pellegrino che già stava per accasciarsi sull’arena scottante, in attesa di entrare nell’Oasi eterna ed infinita. Quando io paragonavo l’uomo nuovo che quella passione aveva fatto di me, al lamentabile personaggio antico, dal cuore sanguinante, dallo spirito ottenebrato, dalle energie distrutte, io sentivo, sì, dilatarmi il petto come nel respirare l’aria purissima d’una vetta alpina dopo aver traversato una paludosa maremma: però, più forte della gioia era sempre la paura che quell’incredibile metempsicosi si risolvesse in un fatale ritorno alla sciagurata esistenza di prima. Dipendeva forse da me l’impedirlo? Se quella donna che era tutto il mio bene sulla terra non m’avesse voluto più, avrei forse potuto arrestare la nuova rovina?... Questo io le dicevo sovente. Nelle ore radiose che sole misuravano il tempo per noi, quando io non potevo dubitare d’una realtà prodigiosa più d’ogni chimera, quando la tenerezza diventava uno struggimento al quale le carezze non bastavano più, ma che aveva bisogno di traboccare in pianto, io le dicevo, guardandola negli occhi, tenendola per mano: «Se un giorno cesserai d’amarmi, tu me lo dirai, è vero? Non temere, sai, ch’io mi ribelli, ch’io ti importuni, ch’io ti minacci. Accetterò tutto da te. Non v’è parola uscita dalle tue labbra che non sia cara e benedetta, degna di sommessa obbedienza. Vorrà dire che quel giorno crederò di destarmi dopo aver fatto un bel sogno, uno di quei rosei sogni che lasciano per lungo tempo l’anima letificata e quasi fragrante. Riconoscerò che non si può sognar sempre, vedrai che me ne farò una ragione. Ma tu mi confesserai tutto lealmente? Non farai come le altre, tu che sei dalle altre tanto diversa; non farai come quelle che hanno mentito, per innata malvagità, o per una falsa compassione più crudele, nei suoi effetti, dell’odio feroce?...» Allora, tentando di soffocare quelle dolenti parole, annodandomi le braccia intorno al collo, con voce rotta dai singhiozzi, ella protestava amaramente, mi diceva che io non avevo il diritto di sospettar di lei, di farla soffrir così; e le sue lacrime, si mescolavano alle mie — dolcissime lacrime, rugiada benefica che irrorava i cuori innamorati e vivificava il fiore della nostra passione. Ma con gli sguardi chinati e intensamente fissi in un punto, a voce bassa, quasi parlando tra sè, ella soggiungeva che io stesso avrei piuttosto cessato di amarla.... Ah, i sorrisi che mi salivano alle labbra! Le sfide superbe ch’io lanciavo al tempo, alla vita, alla morte! Io lasciarla? Ma il naufrago perduto in mezzo al mare procelloso lascia forse la tavola alla quale gli è riuscito aggrapparsi? Ma sapeva ella soltanto che cosa fosse per me l’amor suo, il prezzo che io davo alla sua vista soltanto; il moto di superbia che mi sollevava sopra tutta l’umanità al solo pensiero che ella si fosse accorta di me?... Da che forza non mi sentivo animato! Come guardavo sicuramente all’avvenire... E come m’ingannavo! «Voi che sapete leggere nel vostro pensiero, che non soffrite più di vertigini nel discendere in fondo all’abisso della coscienza, che non avete paura di riconoscerne le più tenebrose latebre, comprenderete ciò che vi dirò. Quello spirito di emulazione e di sacrifizio che non lasciava ammettere a ciascuno di noi la possibilità di stancarsi, ma che ci dava l’ostinata previsione dell’abbandono che avremmo sofferto, nascondeva un suggerimento dell’egoismo, significava che ciascuno di noi si credeva più capace d’amore dell’altro, più sincero nei suoi affetti, più generoso e in certo modo più degno... E veramente quando io mi guardavo intorno, quando vedevo gli altri uomini da cui ella era circondata, pensavo, sì, nonostante la fiducia che le dimostravo, che ella ne avrebbe potuto notare qualcuno. Provai più d’una volta i primi morsi della gelosia, ma le nubi che minacciavano la serenità del mio cielo spirituale si dissiparono tosto. Per una ragione od un’altra, nessuno di quegli uomini era molto pericoloso; io mi sentivo, ed ella stessa mi diceva, con quell’accento di sincerità che non si finge, superiore a tutti coloro. «Un giorno, però, apparve uno dal quale quella specie di sesto senso che ci fornisce le così dette intuizioni, mi avvertì di guardarmi. Nonostante le persuasioni dell’amor proprio, io riconobbi con una stretta al cuore che quell’uomo valeva più di me. Sotto qualche aspetto io mi sentivo ancora per lo meno eguale a lui, ma egli aveva vantaggi incontestabili: era più giovane, aveva fatto parlare di sè come d’un ingegno artistico pieno di promesse, e — circostanza che doveva agire più d’ogni altra sullo spirito di quella donna — era stato più fortunato di me nell’amore. Io l’avevo sedotta per i miei dolori, ma le fortune di lui dovevano ben altrimenti far lavorare la sua imaginazione. E col cuore sempre più chiuso, riconoscevo che l’effetto temuto si produceva... Ora bisogna che io insista un poco su questo punto, perchè non comprendiate più di quel che dico. L’amore di lei per me non era già intepidito, ella me ne dava prove sempre più eloquenti, nè io avevo assolutamente nulla da rimproverarle; ma da certe domande che mi faceva intorno a quell’uomo, da una certa espressione che il suo sguardo prendeva quando si parlava di lui, da certi altri segni ancora più tenui, comprendevo che quella figura s’imponeva all’attenzione di lei. In una altra età, o più semplicemente in altre condizioni dell’animo, non avrei forse neppur notato quei segni; ma uscendo da prove funeste, con la dolorosa esperienza dei tristi processi sentimentali che distaccano lentamente un’anima da un’altra, io non potevo negar valore a quei sintomi. Se quell’uomo avesse tentato di esercitare attivamente la propria seduzione, che cosa sarebbe avvenuto?... Io non osavo rispondere; vedevo bene però che la mia pace, la mia fortuna, dipendevano da questo: che egli non facesse nulla per portarmela via. «E questo appunto non era da sperare. Che cosa poteva impedirgli di tentar l’avventura? Non aveva nessun dovere verso di me: ci conoscevamo da un pezzo, ma senz’essere quel che si dice amici — e quand’anche!... L’idea che quella donna non era libera, la passione della quale tutti mi sapevano oggetto avrebbe potuto arrestare ogni altro — fuorchè lui. Egli aveva le teorie dei conquistatori di mestiere, che deridono la passione, disistimano le donne, le credono capaci di tutto — ragione per la quale esse li ammirano... Poi, egli doveva aver coscienza dei suoi vantaggi su me; poi, con la sua esperienza di queste cose, una visita di cinque minuti aveva dovuto bastargli per comprendere di non essere il primo venuto per lei... «Imaginate dunque la tortura alla quale fui posto? Se qualcosa di fatale si fosse compiuto, se avessi scoperto che quella donna era già sua col cuore, non so quanto avrei sofferto, ma certo mi sarei rassegnato. Però l’idea che era sempre possibile impedire la mia rovina mi metteva la febbre. Sarebbe stato da stolto fare un’accusa a lei dell’attenzione che quell’uomo sapeva accaparrarsi; io ero in presenza di un fatto umano e naturale, innocente e forse ancora incosciente; con grande probabilità, se egli l’avesse insidiata, ella avrebbe potuto resistere e trionfare. Ma io non volevo neppure che ella fosse posta alla prova! «Reprimendo, adunque, l’ansietà che mi divorava, ricorrendo a sottili artifizii, io cercavo di sapere se quell’uomo si mostrava assiduo presso di lei. Era stato a trovarla due o tre volte, a lunghi intervalli; una sera, al teatro si presentò nel suo palco e vi restò durante un intermezzo; poi non si fece più vedere. Ed invece di sedarsi, la mia inquietudine si raddoppiava. Voi sapete, infatti, che uno dei mezzi ai quali i seduttori ricorrono frequentemente e con felice successo, è quello di mostrarsi indifferenti, di fare i difficili, di fingersi lontani dallo scopo verso il quale, invece, tendono con tutti i loro sforzi. Metteva egli dunque in opera un calcolo raffinato? La trascurava per farsi desiderare di più?... Non potendo altrimenti scoprire il suo giuoco, cercai di lui, lo vidi più spesso di prima. Un giorno che eravamo insieme, egli mi disse che andava via, che sarebbe stato molti mesi lontano. «Non dovevo rassicurarmi? Al suo posto, se avessi desiderata quella donna, avrei potuto allontanarmi da lei? Supporre che il calcolo durasse ancora era un po’ difficile; e il calcolo poteva anche essere sbagliato, produrre effetti del tutto contrarii! Nondimeno, durante la sua assenza, la mia tranquillità non fu mai piena: io prevedevo nuovi tormenti per il suo ritorno. Tornò, e le fece una sola visita in tre mesi. Un bel giorno una notizia scoppiò come una bomba; egli era scomparso con una signora della nostra società. «Avrei dovuto trarre un sospiro di liberazione, — è vero? — e lo trassi infatti. Però, in fondo alla mia coscienza, ma proprio nel fondo estremo dove non arrivava alcun riflesso della luce superiore, avveniva qualcosa d’imprevisto che metteva in ogni mio pensiero come un lievito di scontento: un’assurdità che mi colmava di stupore. A poco per volta le tenebre si diradarono intorno a quella misteriosa operazione. Io consideravo, da una parte, il mio sentimento per quella donna, il valore inestimabile che avevo attribuito all’amor suo, l’inaudita fortuna della quale m’ero creduto segno, esaltandola continuamente, dubitandone perfino talvolta. Dall’altra parte stava il fatto che egli non aveva cercato di rubarmela, quantunque facesse il mestiere del seduttore, quantunque non mi dovesse nulla, quantunque l’impresa non gli dovesse sembrar disperata. Perchè, dunque? Evidentemente, perchè quell’impresa non lo tentava, perchè quella donna non era oggetto del suo desiderio. Ora l’idea che un conoscitore come lui non apprezzasse la creatura in cui io avevo riposto tutto il mio vanto, tutto il mio orgoglio, il cui possesso mi aveva fatto credere oggetto dell’invidia del mondo — questa era l’origine del mio scontento. Avrei dovuto esultare vedendo allontanarsi un pericolo, e invece mi sentivo umiliato scoprendo che al mio concetto intorno a lei non partecipava chi gli avrebbe conferito autorità. Se egli l’avesse desiderata avrei sofferto le pene dell’inferno; perchè la sdegnava ella quasi perdeva ai miei occhi una parte del suo valore, io cominciavo a dubitare d’averla posta più in alto che non meritasse e d’essermi pertanto abbassato un po’ troppo... «In quel momento non cessai certo d’amarla, ma fu questo il primo sintomo d’una lenta evoluzione che s’operò nel mio spirito e che mi tolse finalmente quella donna dal cuore!...» LETTERE DI COMMIATO La sua supposizione potrebbe anche essere, contessa mia carissima, conforme al vero. L’amore è mortale, e la sua morte, quantunque tristissima sempre, pure sarebbe sopportabile se avvenisse ad una stessa ora nel cuore dei due amanti. Ma, per colmo di sciagura, questo sincronismo è molto difficile, e più spesso la passione tramonta da una parte quando ancora splende dall’altra; allora lo strazio di chi ama senza più essere amato è troppo grande e veramente insopportabile. Ed ella dice che il mio confidente, del quale le narrai ultimamente la storia, sapendo queste cose, preferì cercare un qualunque pretesto per trascurare la donna amata piuttosto che correre il rischio d’essere trascurato da lei. Ripeto che la sua spiegazione è plausibile. Le tempeste che si scatenano nel cuore degli abbandonati sono cosi spaventose, che non è da stupire se un’anima veramente e delicatamente amante finisca d’amare o si riduca ad amare come il più volgare egoista pur d’evitare l’immenso pericolo. Io incorsi altra volta nel suo sdegno sostenendo che gli uomini amano meglio delle donne: voglio ora guadagnarmi la sua lode affermandole che, nell’abbandono, soffrono molto più le donne degli uomini. Ma forse noi attaccheremo un’altra volta lite quando io le avrò spiegato che le due proposizioni, apparentemente contrarie, sono in fondo, tutt’una. Consideriamo infatti una coppia amante. Se con la cifra 10 esprimeremo l’amore complessivo di questa coppia, io dico che l’amore dell’uomo è rappresentato da 7, e quello della donna da 3 — meno della metà! — Or dunque, se quest’uomo perde un bel giorno — bello per modo di dire! — l’amore di questa donna, il suo dolore sarà grande, ma non tanto grande come quello che proverebbe invece la donna, se fosse costei abbandonata dall’uomo. Infatti, dato che l’uomo ami come 7 e sia riamato come 3, anche durante il tempo felice egli prova un secreto scontento ed è morso da un qualche dolore, perchè l’amor suo non è ripagato esattamente; perchè questa donna non è tanto sua quanto ei vorrebbe e quanto egli stesso è di lei. Nel perderla del tutto il suo dolore cresce senza dubbio oltre misura; pure egli non è stupito; egli è quasi preparato alla perdita di una creatura che non ha mai sentita tutta sua. Per averla — in parte! — egli ha dovuto pregare, supplicare, tendere la mano: ella gli ha fatto quasi un’elemosina; il mendico cui il ricco, fino a un certo segno generoso, non vuol più fare la carità, è forse stupito di non avere più come sfamarsi? Egli torna quasi rassegnatamente al suo destino, che è l’indigenza!... Se noi consideriamo invece la donna, vediamo che le cose stanno precisamente al contrario. Costei ha visto sempre l’uomo, tutti gli uomini, pregare, supplicare, tendere la mano: come potrà rassegnarsi a essere trascurata e sdegnata? Quest’idea non entra nel suo cervello. Poichè amando come 3 ella è ripagata d’un amore come 7, la sua soddisfazione — di vanità più che d’amore, ma la vanità importa più che l’amore! — è stata immensa; ella non può prevedere che il sovrabbondante amore di quest’uomo abbia a un tratto da ridursi minore del suo e da cessare del tutto. Abbandonata, pertanto, ella darà in ismanie convulsive, e molto difficile sarà l’opera di chi vorrà sedarla. La duchessa di San Severo riuscì una volta in quest’ufficio; e per non insistere nelle teorie che ella rifiuta di ammettere le voglio narrare piuttosto la storia. Emilia di Sclafani, spinta alla colpa da un serpente del quale non so se ella più si rammenta, fu un giorno tradita e congedata dall’amante suo. La duchessa di San Severo se la vide venire dinanzi come una pazza, e dire e far cose da pazza: piangere, gridare, ridere, imprecare, mordersi le mani, strapparsi i capelli. La vecchia dama, che ha molta esperienza, lasciò che il primo impeto del dolore si sfogasse; poi, quando l’altra apparve, non dirò più tranquilla, ma stanca, le domandò: — Che pensate dunque di fare? Emilia, rimasta a capo chino, con gli occhi immoti come attirati magneticamente da qualche visione, con le mani strettamente afferrate ai bracciuoli della poltrona, si scosse a un tratto con un brivido e un sibilo, portò la destra alla fronte e rispose: — Lo so io, forse? Ho una tempesta qui dentro... Sento che mi picchiano sulla fronte, sulle tempie, sul cranio, ferocemente, spietatamente... La febbre mi brucia... Mi par d’impazzire... — Suvvia, coraggio!... — esclamò la dama scotendo un poco la sua bella testa tutta bianca, con un’espressione piena d’indulgente compatimento, come dinanzi all’irragionevole cordoglio d’una fanciulla inesperta. — Fatevi animo!... Non è poi cascato il mondo!... Sapete che non vi riconosco? — Se non mi riconosco neppur io stessa!... Se tutto mi manca d’intorno! Se non vedo più uno scopo alla mia vita! Se qualcosa si è spezzato nel mio cervello, nel mio cuore, in tutto l’esser mio!..... Calma? Coraggio? Ho cercato d’averne. Ho detto a me stessa, precisamente, che il mondo non è poi cascato. Ho pensato ad altri dolori, un tempo creduti inguaribili, ed ora dimenticati a segno da ridere della loro cagione; mi son vista con gli occhi della mente di qui a qualche mese, uscita sana e forte della triste prova, forse anche contenta che tutto sia finito così. Ho chiamato a raccolta tutta la mia ragione, tutta la mia esperienza, per convincermi che non bisogna chiedere alla vita, all’amore, alle creature umane, più di quel che possono dare. Ho detto a me stessa: «Credevi tu dunque davvero che quest’uomo t’avrebbe amata eternamente? Che cosa c’è d’eterno in noi? Non hai tu sorriso degli affidamenti superbi? Poni una mano sulla tua coscienza: alla lunga, non avresti finito d’amarlo anche tu? Sii ancora più sincera: non cominciavi a sentirti già stanca?... — Brava! — interruppe l’altra, approvando insistentemente con una mossa del capo — Brava, questo si chiama farsi una ragione... — Ho pensato tutto ciò ed altro ancora... Mi sono affacciata alla finestra, ho considerato un istante la calma sovrumana di questa sublime natura, delle Alpi nevose imbiancate dalla luna, del lago terso ed immobile come una lastra, delle miriadi di stelle splendenti da miriadi di secoli nell’etere infinito. Ho compreso, nel tempo d’un baleno, la vanità di tutto ciò che è umano, dei dolori, delle gioie, delle passioni dalle quali sono travagliati questi atomi agitantisi un attimo sopra un granello di sabbia; ho visto sparire me stessa, l’umanità, tutta la terra, nel turbine formidabile che soffia sulla polvere dei mondi... Ho bevuto avidamente l’aria fredda, ho richiuso la finestra, sono andata al tavolino, e gli ho scritto una lettera. — Che cosa gli avete detto? L’altra parve non aver udito. Restava ancora assorta, come prima, guardando dinanzi a sè; e nel rilassamento dei muscoli del viso, nella piega sottile degli angoli delle labbra, si leggeva una tristezza così profonda, una contemplazione così sconfortata di qualcosa di pauroso e d’ineluttabile, che la duchessa non ardì ripetere la sua domanda. Emilia si riscosse alfine e riprese: — Ho scritto una lettera, non l’ho mandata. Non so neppure se potrò rileggerla per ricopiarla..... Guardi, piuttosto... Tratto di tasca un minuscolo taccuino di cuoio rosso e tolto il piccolo portamatita d’oro che lo chiudeva, ella voltò alcune pagine, fermandosi ad una che era ricoperta non tanto di caratteri quanto di segni informi tracciati con rapida mano. — Che notte è stata per me!... — esclamò, a bassa voce, guardando quel foglio e come rispondendo ad un intimo pensiero. Poi, volgendosi alla duchessa: — Avrà la pazienza, — le domandò, — d’aspettare che io decifri questa lettera?... Io gli ho scritto così: «Mio buon amico... Anche ora, e come sempre, voi avete ragione. Vi rammentate quante volte mi ripeteste queste parole, nel corso delle discussioni che sorgevano un tempo fra noi?... Adesso sono cambiate le parti e tocca a me riconoscere che la ragione è con voi! Vedete che sono giusta, e che le vostre adulazioni di un tempo non m’hanno guastata. Mentirei se vi dicessi che questa saggezza non mi costa nulla; ma mi dorrebbe egualmente che aveste a provare un rimorso per ciò. La ragione ha spesso qualche ostacolo da vincere prima di farsi accettare; ma, in cambio, il suo riconoscimento procura sempre allo spirito un senso di forte serenità... Io non so precisamente che cosa sono stata per voi — potrei, è vero, rammentarvi tutto quel che me ne avete detto voi stesso; — ma parrebbe allora che io mi lagnassi, e nulla è più lontano dal mio pensiero. Comunque, voi forse rammenterete, qualche volta, senza troppo pentirvene, le ore che passaste al mio fianco; da parte mia ne serberò sempre un dolce ricordo. È vero altresì: quella felicità avrebbe potuto durare più a lungo; ma ciò non era in potestà vostra nè mia. Bisogna accettare la vita com’è, con tutte le sue leggi; e stimarsi fortunati se, fra i tanti giorni vuoti, fra i molti amari, essa ce ne concesse qualcuno di gioia. Grazie a voi io ne ho visti sorgere molti, più di quanti potevo ragionevolmente aspettarne; fate assegnamento sulla mia più sincera gratitudine. Fate assegnamento ancora sulla mia amicizia più fedele: giovatevi di me sempre che potrò esservi utile, e credetemi, con una cordiale stretta di mano...» — Benissimo! — interruppe vivacemente la duchessa. — Mi piace la vostra lettera, sapete! È la lettera d’una donna che sa vivere, che conosce la vita!... — A qual prezzo? — disse l’altra con un ambiguo sorriso. — A prezzo di quanti dolori?... E si può dire di conoscerla mai abbastanza?... Perchè, guardi, questo è il suggerimento della logica, del buon senso; ma se io l’amo ancora quell’uomo? Se il cuore mi sanguina, rileggendo queste fredde parole, queste frasi studiate, dopo le lettere pazze che gli scrivevo fino all’altr’ieri? Se non posso, _non posso_ rassegnarmi all’idea di perderlo, dopo quel che mi costa, dopo quel che siamo stati l’uno per l’altra? Ma non è vero che io prevedessi di non poterlo più amare, non è vero che io fossi già stanca; se pensai così fui sciocca, fui stolta, perchè non potevo giudicare della forza di un amore non ancor messo alla prova... — Badate: qui sotto potrebbe nascondersi quell’illusione molto frequente che consiste nell’apprezzare una cosa per il solo fatto d’averla perduta. — Illusione, realtà: dove cominciano? dove finiscono? — disse la giovane, voltando un foglio del suo taccuino. — Vi sono certe realtà delle quali neppur ci si accorge, e certe illusioni che ci mantengono in vita.... Io sento di non poter vivere senza quest’essere che è stato tanta parte, la miglior parte di me. Io sono impegnata da un giuramento, ed egli pure.... È una cosa sacra, il giuramento; non si può calpestare così. Ho il dovere di rammentarglielo; egli mi ascolterà, perchè ne soffre anch’egli! Io non sono stata eloquente abbastanza; se ha rifiutato di cedere, il torto è mio che non ho saputo assicurarlo della forza di quest’amore. Forse in questo momento, mentre mi struggo per lui, anch’egli anela di rivedermi, anch’egli vorrebbe chiamarmi. Un senso di falso amor proprio ci ha trattenuti: una sola parola basterà a dissipare quest’incubo.... «No....» continuò Emilia, riprendendo a leggere nel suo taccuino, «non è vero, non è possibile che tu m’abbia detto quelle parole. Certe volte i sogni hanno l’intensità della vita vissuta: io ho sognato. Tu sei sempre l’amor mio forte e soave; se anche volessi, non potresti, intendi? lasciarmi. Tu hai dimenticato un momento quel che sono stata per te; ricordati, vedrai se ho ragione! Tu m’hai detto, colle tue labbra, che io sola t’ho compreso, io sola t’ho compianto, io sola ho cancellato i tuoi lunghi dolori, io sola ho compensato le tue infinite amarezze, io sola ti ho fatto pianger di gioia. Tu non me l’hai detto soltanto: io ho visto le tue lacrime, io ho pianto con te. Tu hai voluto riscattare col tuo sangue il mio pianto; ora, comprendi, quando ciò è avvenuto fra due creature, esse non possono dividersi più. Vedi bene che noi siamo legati per la vita e per la morte, come tu mi giurasti, com’io ti giurai. Ed ascolta: vienimi accanto, metti la tua mano nella mia, reclina il tuo capo sul mio petto: ti ricordi quante volte, restando così, tu mi chiedevi di dirti che cosa eri per me, _com’era fatto_ il bene che ti volevo? Ti ricordi come t’aprivo il mio cuore, come _pensavo a voce alta_; e come t’estasiavi a quelle prove d’amore che tu stesso mi suggerivi, senza avvedertene? Ebbene: nessuna di quelle prove era seria, nessuna aveva valore: la prova vera, la prova grande, la prova unica io posso dartela ora, amandoti ancora, amandoti più dopo quel che m’hai fatto: ora soltanto tu puoi credere a questa passione e andarne superbo. Quante volte m’hai fatto giurare che non avrei mai avuto secreti per te! che t’avrei mostrato sempre tutti i moti più intimi del mio cuore, tutti i miei pensieri più reconditi! Vedi dunque che tu _devi_ sapere quel che provo ora: lascia che te lo dica; farai, dopo, quel che vorrai; mi lascerai ancora, se ti piacerà.... No; tu non farai così.... Ascolta ancora. Se tu hai riacquistata la tua fede unicamente per me, io sola, fra quanti ti circondano, ho creduto in te. Non lo sai? Dicono che i tuoi sguardi sono falsi, che le tue labbra mentiscono, che l’anima tua è corrotta.... Io sola ho creduto ad ogni tua parola; non è vero che io sola ho letto in fondo al tuo limpido sguardo? Che cosa sanno gli altri di quello che so io? Ma non fare che anch’io disperi di te; non disperare tu stesso: sarebbe troppo triste, troppo malvagio. Provami ancora una volta che ho avuto ragione, abbii fede in te stesso!... No; non mi dar retta! Ho avuto torto di scriverti queste cose. Ma se non so più quel che dico!... Ah! potessi vederti un istante!... Non ti direi più nulla; credo che morirei ai tuoi piedi.... Una volta io ti dissi: «Come sai bene pregare!...» Ti ricordi quando te lo dissi?... Ebbene, oggi son io quella che ti prega: io ti supplico, ti scongiuro, in nome di Dio, dell’amor nostro, di tutto quel che hai di più caro al mondo, per i tuoi stessi dolori che io ho divisi, per la memoria dei tuoi poveri morti che io ho amati, per la morte che può cogliere d’istante in istante noi stessi, ti scongiuro di non abbandonarmi, di ascoltarmi.... di lasciare, almeno, che io pianga un’ultima volta al tuo fianco....» La voce della giovane tremava un poco; il suo sguardo velato si distoglieva dalla carta, intanto che la duchessa, visibilmente commossa anch’ella, esclamava: — Come l’amate! Ma a quelle parole, come quando una brezza sottile increspa la superficie delle acque, la fisonomia di Emilia si venne corrugando fino ad atteggiarsi ad una sottile ironia. — Come l’amo!... — ribattè ridendo. — Vuol dire come sono sciocca!... Deve bene trionfare costui, è vero? vedendo la mia disperazione; deve ben sorridere di vanità soddisfatta!... Il suo amor proprio sarà, senza dubbio, gradevolmente solleticato dallo spettacolo del mio cordoglio.... — Allora il vostro amor proprio s’impenna.... — Allora la mia tenerezza, la mia sommessione, la mia fiducia, tutti i miei buoni movimenti sono dispersi dallo sdegno, dall’odio, dal bisogno feroce di dirgli in faccia che non so che farmi di lui, che egli s’inganna stranamente se ha creduto al mio dolore! — E dopo la lettera d’implorazione, ne avrete scritta un’altra di sprezzo... — Ciò che ho scritto è appena la millesima parte di ciò che ho pensato. Ella si stupisce delle mie contraddizioni? Non le pare possibile che io passi dalla ragionevole rassegnazione alla passione disperata, dall’umile preghiera alla rivolta sdegnosa?... — Non mi stupisco affatto: nulla di più umano che la contraddizione e l’assurdo. — Io sento dentro di me dieci, cento donne diverse, una moltitudine di esseri ciascuno dei quali vorrebbe operare a sua guisa. E il più strano è che tutte costoro non parlano già ad una per volta, ma insieme! Lo scritto ha il torto di non far vedere questo tumulto... — Consolatevi pensando che anche la parola sarebbe impotente. — È vero! La nostra mente è un abisso!.. Io dovrei dunque implorare costui, per dargli la soddisfazione di respingermi ancora? Ma è una cosa ridicola! Qual donna al mondo ha mai pregato un uomo così? Io potrei implorarlo se fosse un altro, se non fosse una creatura malvagia e bugiarda. Perchè hanno ragione gli altri; e la sciocca son io! Come ho potuto prenderlo sul serio e soffrire tanto per lui? Ed egli avrà riso di me!... Ma se non l’amavo più! Se ero così stufa da non saper che inventare per evitarlo! Se non l’ho amato mai! — Oh, questo poi... — Ma sì, ma sì!... Anche al tempo del nostro idillio io ridevo talvolta fra me delle mie declamazioni! Allora soffocavo le risa; ora esse soffocano me! Ora ho bisogno di prendere la mia rivincita! Ma quel che ho tentato di scrivergli non può dare la più lontana imagine di quel che mi ribolle dentro... — La vostra lettera dice?... — «Caro signore, le sono oltremodo obbligata della iniziativa da lei presa, tanto più che m’ha risparmiato il fastidio di prenderla da me. La buffa commedia che abbiamo rappresentata insieme minacciava di finire tra le fischiate della platea: era proprio tempo di smettere. Non è da dire per questo che essa non m’abbia dato un bel da fare! Mi sono, come si dice, stillato proprio il cervello per mettermi nei panni del mio personaggio; ho soffocato una quantità prodigiosa di sbadigli per mantenere un contegno decente; e il più comico è questo: che m’accorgevo benissimo di sprecare le mie fatiche, perchè ella sbadigliava senza tante cerimonie, spalancando talmente la bocca, soffiando così forte, che era, anzi non era un piacere vederla. Ella per il primo non credeva a ciò che le dicevo: è stata una delle rare prove di spirito che m’abbia date. Gli elogi della gente l’hanno guastato, caro signore; ella s’è formato, intorno ai suoi _mezzi_, un concetto, mi consenta di dire, molto esagerato. Oramai ci conosciamo _intus et in cute_, si scrive così? e non abbiamo più nessuna ragione d’ingannarci scambievolmente. Il suo spirito è, creda pure, molto inferiore all’opinione che ne ha ella stessa; riconosco però che ne possiede abbastanza, e spero che ne mostrerà ancora un poco nella circostanza presente, non credendo neppure alla scena che le recitai l’altro giorno. Mi premeva di fare certe osservazioni, volevo verificare certi miei antichi convincimenti: addebiti a tutto ciò la mia soverchia insistenza. Non importa: debbo averle fatto l’effetto di una famosa seccatrice! Questo pensiero la conforti: che non sarò mai più tentata di occuparmi di lei — glie ne do parola d’onore! Del resto, se l’ho seccata, debbo anche averla fatta ridere un numero infinito di volte; sono però in dovere di aggiungere che il ricordo di certe sue sciocchezze allieterà i miei giorni più tardi... Probabilmente questa mia lettera le parrà poco sentimentale: ma le sentimentalità, signor mio, sono una cosa, e la verità è un’altra. La verità è che ella m’ha dato ciò che poteva darmi, e che io l’ho pagato abbastanza. Adesso ciascuno proseguirà per la sua strada. Si diverta sempre — e le nostre menzogne ci siano rimesse!...» — Eh!... non c’è mica male!... — esclamò la duchessa con un fine sorriso. La giovane rimase un poco a capo chino, senza dir nulla; poi, passatasi lievemente una mano sulla fronte, disse, molto piano: — Ma sa lei che cosa ho provato nello scrivere questa lettera?... Che cosa provo adesso dopo averla riletta?... Un secreto scontento, un pentimento addolorato, quasi un rimorso. Mi par d’avere, con sacrilega mano, profanato tutto quel che c’era di più puro in fondo al mio cuore. Io potrò accusare quest’uomo, io potrò disistimare la creatura che si è rivelata improvvisamente in lui; non potrò dimenticare le divine commozioni che m’ha procurate. Comunque egli sia fatto, è stato per me l’oggetto di un culto; qualcosa delle virtù che gli ho attribuite è rimasta in lui, come qualcosa della santità che i feticisti vedono nell’idolo di cartone resta in esso e lo sottrae alla derisione degli stessi miscredenti... Poi, io penso che quest’uomo, come tutti gli altri, non è responsabile di quel che fa; penso che forse ne sarà punito, un giorno, più crudelmente che io oggi non possa imaginare... E tutto quel che c’è di buono in me protesta contro i propositi di vendetta, m’ispira invece una grande compassione per quest’anima ammalata... Senza tornare ad illudermi sul prezzo che ha potuto dare all’amor mio, penso che non sono stata per lui un’indifferente, che egli ha avuto fede, almeno per qualche tempo, nelle mie parole. Allora giudico che sarebbe degno di un’anima non volgare il dimostrare come, nonostante i torti ricevuti, di questa fede si voglia sempre essere meritevoli... — In altre parole, voi volete fargli vedere che siete migliore di lui! — Sarà forse questo il secreto movente: che importa? Una buona azione non diventa già cattiva perchè ci torna comodo compierla... — Certamente! Così avete abbozzato un’altra lettera ancora? — Sì, ed è questa... — Sfogliato il suo taccuino, la giovane riprese a leggere: — «Voi non volete più rivedermi: parto oggi stesso. Ho l’anima straziata; se voi poteste soltanto imaginare quello che soffro, vi farei molta pietà. Tuttavia, qualunque sia il male che voi m’abbiate fatto, vo’ dirvi, prima di lasciarvi, che non vi porto odio o rancore. La mano che oggi colpisce è la stessa che un giorno si distese a soccorrermi; non potrò dimenticarlo mai. Non vi dico questo per intenerirvi: nessuna speranza mi sorregge, capisco bene che tutto è finito, per sempre. Come sarà triste la vita che comincerà domani per me! Come potrò sopportare il ricordo dei giorni luminosi nell’oscurità che m’aspetta?... Sarà di me quel che vorrà Dio — e perdonatemi ancora questo momento di commozione. Se l’avvenire è incerto per me, potrà anche darsi che ore dolorose vengano per voi: un giorno potrete aver bisogno di qualcuno che vi stia al fianco, che stringa la vostra mano, che v’infonda coraggio. Io desidero ardentemente che questo giorno non sorga; ma, se dovesse arrivare, ricordatevi di me. Dovunque io sia, venite: nulla potrà impedirmi di accogliervi come s’accoglie un fratello...» — E’ bello ed è nobile ciò che voi avete scritto! — disse la duchessa. — Però, se nel vostro cuore si combatte una così fiera battaglia, quale di queste lettere vi risolverete a spedire? — Lo so io, forse? — ripetè la giovane. — Se fossi capace di decidermi non ne avrei scritte tante!... A lei stessa, mia buona amica, io ardisco chieder consiglio... La vecchia signora fece con la mano un breve segno di rifiuto. — Non è un argomento intorno al quale se ne possano dare. — Perchè? Io sono ridotta, non vede? in tale smarrimento d’animo, che non so più discernere da me la via giusta: una parola suggeritami da una persona superiore come lei mi toglierebbe da questa dolorosa incertezza, mi farebbe un gran bene... La duchessa restò un poco in silenzio; poi, guardando negli occhi la sua compagna, le domandò: — Allora, voi farete quel che vi dirò? — Può esserne certa. — Ebbene: se non vi dispiace, riassumiamo in poche parole la vostra situazione. Voi siete stata abbandonata da un uomo. L’avete amato, ma cominciavate ad essere stanca di lui; dopo la rottura la vostra passione si è ridestata. Voi avete scritto quattro lettere che definiscono i principali sentimenti cozzanti adesso nel vostro cuore: in una vi rassegnate filosoficamente, in un’altra implorate con grande calore, la terza è l’espressione della sprezzante ironia, l’ultima d’una tenerezza pietosa e disinteressata. Va bene? — È così. — Però, scrivendo tutte queste lettere una secreta idea vi ha guidata: quella di vivere ancora nel cuore o nella memoria di quest’uomo, di produrre un’impressione nell’animo di lui, di obbligarlo a ricordarsi di voi, per ammirarvi, per rimpiangervi. Ora voi volete sapere da me in qual modo potrete raggiunger meglio l’effetto. — Può darsi che sia per questo; ma siccome, qualunque di queste lettere io manderò, è quasi certo che sarò lasciata senza risposta, imagini che si tratti di prender commiato soltanto. — O per prender commiato, o per quell’altra ragione, il partito è uno solo. — Quale lettera debbo dunque mandare? La vecchia dama rispose: — Nessuna. L’AMOR SUPREMO _Amabile amica,_ La fiducia della quale ella mi onora è veramente grande e — lasci parlare una volta la modestia! — immeritata. Nonostante la disparità delle nostre opinioni, e perdonandomi la vivacità di certe mie argomentazioni, ella si degna ricorrere ancora a me per farmi una domanda e propormi un quesito: «Ma insomma, qual è, a vostro parere, l’amore migliore?» Ahi, contessa! Io potrei risponderle al modo molto laconico della duchessa di San Severo, e dirle: «Nessuno!...» Questa passione è talmente difficile, si dibatte fra tanti contrasti, ha da superare così formidabili ostacoli, che la sua vita è troppo breve e tutta avvelenata. Io non le ripeterò a questo proposito i miei ragionamenti d’un tempo, poichè ella, bontà sua, li rammenta ancora e giudica che, nonostante le «solite» esagerazioni e l’«insoffribile» preconcetto di scetticismo, io potrei anche avere, in fondo in fondo, ragione. Ma ella dice — e la ragione è questa volta con lei! — che se pure in tutti gli amori c’è qualcosa di amaro e di guasto, nondimeno, paragonati gli uni con gli altri, si dovrà pur trovare che alcuni furono pessimi ed altri, se non ottimi, migliori. Il mio dovere è dunque di rispondere meno laconicamente alla sua domanda; ed ella si disponga anzi a temere che la risposta mia sia per essere troppo prolissa. Vuol dunque sapere quale sarebbe, secondo me, per un uomo e una donna, l’amor supremo? Sarebbe questo. L’uomo, fino a trent’anni, ha fatto sua l’antica divisa: _Je prends mon bien où je le trouve._ Egli ha amato in tutti i modi, e di tutti i suoi amori è rimasto scontento. A trent’anni — non un giorno di più! — incontra una vergine, il cui solo sguardo gli rivela — a lui che crede di conoscere tutta quanta la vita — come vi sia ancora un mondo nuovo, inesplorato, insospettato: il mondo dei sentimenti puri, delle cose degne e sante. Questa vergine non è neppur lei una bambina che s’affaccia appena alla vita: ha visto altri uomini, ha creduto d’amarne alcuni; poi, all’idea di legarsi con uno di costoro indissolubilmente, s’è accorta che le sue inclinazioni non erano forti e prepotenti. Quando incontra quest’uomo, ella comprende che il suo sentimento d’ora è invincibile; e questa vergine e quest’uomo si uniscono, per sempre. La loro gioia è l’invidia del mondo. Crede ella che sarebbe maggiore se entrambi fossero stati del tutto inesperti, e che la reciproca gelosia del passato li turbi? No, no. Appunto perchè entrambi hanno altra volta creduto d’amare, la vergine soltanto con l’anima, l’uomo in tutti i modi, appunto per ciò possono ora dire di amar veramente. Ella non è gelosa delle donne che lo sposo suo in altri tempi amò, non le pensa neppure; o se anche le fa oggetto d’un pensiero, accorda loro la sua pietà, perchè ella è buona, sovranamente; ma, nonostante la bontà sua — io le presento creature di carne ed ossa, non perfezioni fuor dell’umano — costei pensa con un moto di superbia: «Per me, per virtù mia, quest’uomo che poteva continuare a prendere il suo piacere dovunque, liberamente, ha fatto il sacrifizio di tutto sè stesso.» Egli non è geloso degli uomini che ella altra volta pensò; egli dice: «A me, a me solamente questa vergine che tanti sospirarono invano ha dato gl’intatti tesori.» E poichè egli conobbe la vita, è ora in grado di difendere, di tutelare la sua fortuna. A questa vita egli inizia, accortamente, la sposa; e come ella gli ha rivelato cose ignorate ed ha fatto di lui un uomo nel miglior senso della parola, così egli fa d’una fanciulla una donna. L’amor loro è fruttuoso; le loro due vite, che essi vorrebbero veramente confondere in una, ma che restano pur separate, si confondono nella vita dei figli. Il tempo passa, e col tempo l’impeto della loro passione si è venuto sedando. Fatalmente, perchè tra due volontà diverse l’accordo non può essere costante ed eterno, essi non potranno evitare i malintesi e i dissensi; ma, comprendendone entrambi la fatalità, si accorderanno reciprocamente indulgenza. Conoscendosi sino in fondo, ciascuno avrà compreso, — ma nello stesso tempo scusato — i difetti dell’altro — perchè essi sanno che nessuno al mondo è senza difetti. La passione sedata non è più passione; e, per una legge ancor essa fatale, nelle anime tranquillate i germi di passioni nuove, le tentazioni d’altri amori si verranno insinuando. Ma se ciascuno di essi avrà pensato di poter ritrovare altrove una scintilla della gran fiamma, avrà pure preveduto che la nuova fiamma si spegnerà troppo presto; e se pure questa previsione non sarà stata capace di trattenerlo, un sentimento che in queste due anime vince tutti gli altri avrà combattuto e distrutto il germe della nuova passione. Questo sentimento al quale entrambi sono educati, è il sentimento dell’onore, del rispetto, della dignità; è, in una sola parola, il Dovere. Obbedirne le voci imperiose sarà facile ad essi se ciascuno sarà, com’è, compreso di gratitudine per la gioia che l’altro gli diede e per il bene che gli fece; sarà ancora più facile solo che essi pensino ai figli, ai quali debbono nascondere gli esempii del male. E se la tentazione fu molto forte, se per seguire la via doverosa uno dei due ebbe a sostenere uno sforzo grande, tanto meglio: la sua soddisfazione sarà tanto maggiore, tanto maggiore sarà la stima che l’altro gli deve. Così varcheranno l’età delle prove, finchè uno chiuderà con mano tremante gli occhi dell’altro. Ecco quale sarebbe l’amor supremo. Ella vede bene, mia cara amica, che io non ho imaginato un idillio, una favola troppo romantica, tutta ideale e fuor della vita. Io ho fatto molte concessioni alla realtà, tante concessioni che nessuno dirà impossibile un tale amore. Eppure di questo amore possibile, possibilissimo, di questo amore che è il sogno delle migliaia e migliaia di sposi che escono ogni giorno nel mondo dal municipio e dalla chiesa, quanti esempii le potrei addurre?... Ahimè! Gli esempii, ho paura, sono rarissimi... Eccomi pertanto costretto, per rispondere alla sua domanda, di cercare altrove. Una volta io andai in casa del mio amico Hans Ruthe. Costui è, come ella sa, Don Giovanni redivivo. Sui mobili del suo salotto vidi molte fotografie di uomini e un solo ritratto di donna. Io pensai tra me: «Senza dubbio costei dev’essere stata la favorita di questo sultano; perchè egli si tenga sotto gli occhi il solo ritratto di lei bisogna che ella gli abbia lasciato i ricordi migliori.» E poichè, per natura e per necessità di mestiere, io sono molto curioso, così non mi contentai di pensare questa cosa, ma la dissi all’amico mio. Il quale, udendola, si mise a ridere di quel suo riso che è pieno di tanta amarezza. «Mio caro,» rispose, «tu hai un intuito proprio meraviglioso! Sì, questa è la donna che m’ha lasciato migliori ricordi. I ritratti di tutte le altre io non li ho più: alcuni li dovetti restituire, quando i tristi amori finirono; altri li lacerai quando ebbi ben conosciuto gli originali; altri sono andati dispersi perchè non avevo proprio ragione di serbarli, giaceranno inutili in mezzo a chi sa quali carte inutilissime. Questo solo ho custodito e tengo dinanzi agli occhi, perchè questa è la sola donna che avrei amata ma che non amai, che forse m’avrebbe amato ma che non m’amò... Ecco, ella dirà, una risposta «delle mie,» cioè una risposta che non significa niente. Infatti, dire che il migliore amore è quello che non fu provato, potrebbe parere una cosa insensata. Vengo pertanto senza perder tempo a più concrete risposte. «Io ero,» mi narrò una volta un amico, «in uno stato d’animo quasi disperato per una serie di ragioni che sarebbe troppo lungo spiegarti, quando una sera fui condotto in casa d’una signora, e poniamo che si chiamasse Donna Paola. La dama, proprio quella sera, stava poco bene e non riceveva. Tornai indietro con la stessa tristezza con la quale ero venuto, ma in cuor mio avveniva qualcosa di nuovo; quel contrattempo mi procurava un certo senso di contrarietà. Il nome di Donna Paola non mi era ignoto; anzi avevo molto udito parlare di lei dalle sue amiche; la marchesa Antonietta, specialmente, m’aveva detto: «Vedrete, vedrete: quando l’avrete conosciuta dimenticherete noi tutte.» Chi era dunque costei? Forse una bellezza straordinaria? No: io avevo sentito dire, non solo dalle donne, probabilmente sospette, ma anche dagli uomini, giudici certamente credibili, che Donna Paola era tutt’altro che bella; uno, anzi, aveva soggiunto che non gli pareva neppure desiderabile. La fantasia non poteva dunque farmi intravedere, dietro quel nome, una figura affascinante; io non potevo costruire per mio uso e consumo un tipo ideale al quale attribuire tutte le perfezioni. La fama di Donna Paola era fondata sulle qualità intellettuali di lei, sul suo spirito, sulla sua coltura, sulla sua scienza del mondo; ora tu mi concederai che queste doti sono le meno capaci di sedurre da lontano. Nondimeno io ero curioso di conoscere questa donna, e la mia curiosità era alimentata dall’insistenza con la quale la marchesa voleva presentarmi e dallo strano rinnovarsi del primo contrattempo. Tre, quattro volte ancora io mi credetti sul punto di incontrarla, e Donna Paola rimase invisibile. Una sera che arrivai tardi in casa della marchesa, verso la mezzanotte, l’amica mi disse con un tono di irritazione quasi comica: «Ma dunque lo fate apposta?... Va via in questo momento!... Parrebbe quasi che ne abbiate paura!...» Io provai di dimostrare la mia innocenza; ma la marchesa non volle sentir ragione: «Lo fate apposta, la fuggite; non mi darete mai ad intendere che arrivate e andate via, per puro caso, proprio quando ella mi lascia o sta per venire! Adesso spero che la finirete; le ho promesso di presentarvi!» Io risposi, con un fare complimentoso che nascondeva un certo senso di stupore: «Dica piuttosto che ha promesso a me stesso!...» ma ella insistè: «Nossignore, ho promesso a lei, proprio a lei, proprio a lei;» e con un’espressione del viso che diceva molto più delle parole, soggiunse: «Vi conosce di nome, ha sentito parlare di voi. Vuol sapere se è vero tutto il male che se ne dice. L’altra sera non eravate al Costanzi? Qualcuno vi ha additato a lei...» Dopo una breve reticenza, concluse: «Badate: le piacete!» A un tratto la mia faccia s’imporporò, poi il sangue mi corse tutto al cuore, e da quel momento non ricordo più che cosa mi accadde nel resto della serata. Fu un vero _coup de foudre_, un fulmine senza lampo — poichè le tenebre che avvolgevano la figura di quella donna restavano impenetrabili. Fu anche come l’ebbrezza prodotta da un liquore dolce, un’eccitazione di tutte le sopite facoltà del corpo e dello spirito, il repentino sollevamento dell’anima oppressa, la rifioritura del sorriso negli occhi, del canto sulle labbra. E cantando i versi musicali di un Poeta come me tremante di gioia: Io sarò forse l’amante, Io felice le mie notti Dormirò sopra il suo cuore, mi misi a vagare per le strade deserte, guardando il cielo, ignaro della terra. No; io ricordo qualche cosa di quella notte: ricordo il pianto muto e soave che sgorgò dai miei occhi quando la gioia die’ luogo alla tenerezza, quando tutta la gratitudine della quale ero capace esalò dal mio cuore, come un vapore d’incenso, verso l’Ombra... E lo strano incontro di casi che m’aveva impedito di conoscere Donna Paola si rinnovò ancora: la marchesa partì improvvisamente per Parigi, chiamata da una malattia del marito; gli amici si dileguarono a uno a uno perchè la stagione s’inoltrava; io stesso dovetti finalmente tornare a casa. La stessa ombra dell’ombra scomparve, io non udii più ripetere il nome di Donna Paola; ma il sentimento destato da quel nome sopravvisse, dolce e tenace, a lungo; e se non potei raffigurarmi quella creatura dalla quale ero stato pensato, alla quale pensavo, la vidi nell’anima quale doveva essere e provai per lei la vitale dolcezza della fede più pura. Questo è stato il mio più degno amore.» Ella dirà: «Se non zuppa, è pan bagnato!» Infatti la passione dell’amico mio per una donna di cui non aveva visto neppure la punta del naso sarà stata, secondo egli dice, degnissima e suprema; ma difficilmente potrà esser presa sul serio. Ma che posso io farci, amica, se solamente gli amori che non hanno lasciato ricordi sono ben ricordati? Oda quest’altra storia; è un poco diversa, ma poco, in verità. E’ una confessione anonima, ma come tutte le altre autentica. «Io conobbi questa donna da bambino, quando avevo otto anni. Ella ne aveva il doppio di me. Bella, bella, tanto bella che non posso dire. Udrete fra poco quanto forte fu l’impressione che ne riportai. Aveva il doppio dell’età mia, era una signorina. Era intimissima della nostra famiglia, anzi mezza parente. Un giorno, salutandoci, ci baciammo in viso. Il domani ella mi disse, senza che altri potesse udire: «Come fu dolce il bacio che mi desti!» Io non seppi dir nulla e quasi non credetti alle mie orecchie; ma le inaudite parole s’incisero nel mio pensiero, indelebilmente. Cresciuto di qualche anno, ella soleva prendere il mio braccio e passeggiare con me «come due sposi,» diceva. Io non dicevo nulla, trattenevo il fiato per paura che quella felicità finisse, e mi pareva che tutta la bellezza fosse in lei, e tutta la dolcezza, e tutto l’amore. La notte io la sognavo; e nel sogno, con lei, conobbi la voluttà. C’era fra noi troppa differenza di età perchè potessi pensare a sposarla: quando ebbi sedici anni ella ne aveva ventiquattro. Ella mi aveva detto un giorno: «Ti aspetterò». Neppure allora io avevo risposto nulla; ero bambino ancora, ella si divertiva a giocare all’amore con un bambino. A venticinque anni andò a marito, in un’altra città. Io che ne avevo diciassette feci quello che fanno tutti, a diciassette anni. E quando provai la realtà dell’amore, risi dei miei sogni, dell’amoretto infantile. Ma accadde questa cosa: che il sogno, di tanto in tanto, tornò: io la vedeva in sogno, l’udivo dire arcane parole d’amore, la vedevo offerirmisi; e tra le sue braccia incorporee io spasimavo come non mai con le creature viventi. Alla lunga me ne venne quasi un senso di sdegno, anzi di vergogna: era possibile che solo un’ombra mi facesse tanto felice? Non dovevo io essere infermo perchè questa cosa accadesse? Pensavo, per confortarmi, che ciò accadesse perchè le creature viventi con le quali potevo trovarmi erano indegne; aspettavo pertanto di avere un’amante, un’amante che fosse mia soltanto e non già di tutti, affinchè la realtà trionfasse finalmente del sogno. Ed ebbi l’amante e con l’anima i sensi tripudiarono, e mi credetti guarito; ma una notte, uscendo io dalla casa di lei estenuato dalla voluttà e caduto pieno di sonno sul mio letto, Ella, l’Altra, m’apparve. La sua fronte era velata dalla tristezza, il suo sguardo era pieno di lacrime. «Tu m’hai tradito! Hai potuto tradirmi!... Non ti rammenti più il nostro primo bacio? Come fu dolce il bacio che mi desti!...» Io le risposi, sentendomi struggere dal dolore: «Tu stessa m’hai tradito, sei d’un altro, te ne sei andata lontano...» Ella mi guardò con gli occhi lacrimosi e stupiti. «D’un altro? Ma non sai che io sono la sposa tua, soltanto? Non sai che mi sono serbata a te, intatta? Non sai che tu sei il mio desiderio, la mia speranza, il mio sospiro?...» E le nostre braccia si strinsero, e le nostre bocche si unirono, e io mi destai morente d’ebbrezza... Orbene: questo sogno tornò e tornò ancora, molte volte, durante quell’amore, durante altri amori. Tornò a intervalli or brevi ed or lunghi, talvolta di un anno, talvolta di due; ma quando l’ombra m’appariva e dopo che era svanita, io sentivo, destandomi, che quell’ombra, che quel ricordo trionfava d’ogni realtà. Un giorno, dopo moltissimo tempo, la rividi in persona; era una rovina, invecchiata, disfatta, non più donna. E dopo averla riveduta così nella vita, io la sognai ancora una volta, più bella di prima: «Che cosa hai creduto? Guardami bene: non sono sempre la stessa? Non sono la tua sposa, l’amante tua unica?...» E ancora le sue parole e i suoi atti d’amore m’inebriarono come non mai. Ora ella è morta; intendete: ella è putrefatta sotterra, è ridotta uno scheletro fra quattro assi marcite; e quantunque ella sia morta, e quantunque io stesso sia sulle soglie della morte, pure ella continua ad apparirmi, a quando a quando, e a deliziarmi; e oramai ho compreso: il supremo amore della mia vita è il primo, l’amore dell’infanzia, perpetuato nella memoria, vivificato dal sogno...» Siamo sempre lì: ella dice che questi non sono amori nel vero senso della parola. Ella vuole che io le parli di gente che abbia amato creature di carne e d’ossa, non già sconosciute o meri ricordi. E il mio imbarazzo è troppo grande, perchè tutti gli amori dei quali ella vorrebbe ch’io ragionassi lasciano tante amarezze che nessuno pare da preferire ad un altro. Senza le nequizie del tradimento, gli stessi malintesi inevitabili, il disaccordo, lo svanire dell’illusione, il ribadirsi d’una catena che pareva di rose ma che diventa un triste giorno di spine, sono causa di troppa pena. La vita è tanto malvagia e l’amore è tanto difficile, che bisogna quasi augurarsi il caso orribile del quale invece ci dogliamo, il caso di veder morire la creatura amata prima di odiarla e quando il piacere non s’è mutato ancora in disgusto... Se in questo augurio c’è un troppo feroce egoismo, non si potrà far altro che capovolgerlo e desiderare che la morte colga noi stessi nella troppo rapida fase dell’amore felice. Non sa ella del resto che questo è il voto istintivo d’ogni coppia amante? Quasi una profetica voce ammonisca i due amatori della caducità della loro fortuna, quasi presaghi che questa fortuna è la massima e l’ultima ad un tempo, essi chiamano la morte, la pregano, e sfogliando le cronache dei giornali non è difficile trovare l’esempio di alcuni che se la sono procurata. E se pur vogliamo lasciar da parte la morte, vuole ella sapere quali sono gli amori migliori, quelli dei quali serbiamo una tutta pura e tutta dolce memoria? Sono gli amori troncati bruscamente, ma in tempo, cioè quando ancora il verme della dissoluzione non ha cominciato la nefanda opera sua. Quando Carlo Landini perdette, senza saper perchè, Anna Solari; quando la contessa Bianca des Fayolles dovè lasciare per sempre Roberto Berni — ella forse rammenta ancora queste antiche storie — i ricordi di questi amori restarono nel cuore dei due uomini come uno struggimento ineffabile, come l’aspirazione suprema, come tutta la poesia della loro vita. E se finalmente le risposte che le ho date finora non la contentano, se ella vuole l’esempio d’un amore che sia sommamente raro e ineffabile, io ho ancora qualcosa per lei. È l’avventura della quale una sera, a Ginevra, udii la narrazione da uno degli stessi protagonisti. Non posso dirle i loro nomi, ma non le sarà difficile indovinarli. Per sapere chi è l’uomo cerchi fra gli scultori che in più fresca età sono venuti maggiormente in fama; se vuol sapere chi è la donna, cerchi fra la breve schiera delle scrittrici — italiane s’intende, — di romanzi e di novelle. Lo scultore e la novellatrice non si conoscevano ancora di persona, vivendo in città lontane, ma molto di nome; e, senza conoscersi e neppure prevedendo di conoscersi un giorno, avevano pensato l’uno all’altra e l’altra all’uno. Udendo parlare dell’ingegno della scrittrice, ed anche della sua bellezza — ecco che ella ha indovinato chi è — lo scultore s’era messo a pensare a lei come a una creatura l’amor della quale doveva essere una gran cosa. E la scrittrice, pensando all’ingegno dell’artista ed alla sua maschia venustà — è uno dei più belli campioni del sesso mascolino, e un’altra volta, all’orecchio, le dirò un particolare inaudito e quasi incredibile — s’era messa a pensare a lui con lo stesso sentimento fatto di desiderio. Ora un giorno, a una festa giornalistica, a Roma, inopinatamente si incontrarono e qualcuno fece la presentazione. Restarono entrambi come fulminati. Tutto scomparve ai loro occhi: la gente che li circondava, il luogo dove si trovavano, lo scopo per il quale ciascuno d’essi era venuto. Un impeto, un’ansia, una febbre di vedersi, di toccarsi, di unirsi, faceva tremare i loro polsi. Egli le disse: « Vieni?» Ed ella rispose: « Andiamo». Uscirono; non seppero, non rammentano più come; non dissero una parola per via. Egli la condusse nel suo studio. E appena entrati caddero sul tappeto disteso al suolo, avvinghiati furiosamente. Se la nativa freddezza o l’acquisita ipocrisia suggeriscono alle donne una resistenza che annoia ed offende gli uomini fervidamente amanti; se la diversità dei sessi fa che la coppia non si formi tosto; questo accordo fulmineo, questa perfetta intesa, questa esatta reciprocità degli impulsi sarebbero, come già dicemmo, l’ideale. Se non che le leggi della natura non sono arbitrarie. Ora l’amore del nostro scultore e della nostra scrittrice è per questo il loro migliore ricordo: perchè durò un’ora e non ebbe domani. La donna partì quando lasciò quella casa; e i due non si sono riveduti mai più... «NESSUN MAGGIOR DOLORE...» _Cara amica mia,_ Oggi ho chiuso il mio grosso baule; domani, all’ultim’ora, farò le valige; indi: partenza! Riprendo il mio vagabondaggio primaverile ed estivo; non so ancora bene quale itinerario seguirò; ma è certo che, all’andata o al ritorno, passerò da lei. Quantunque io stia per rivederla, un senso di malinconia mi occupa nell’atto di scriverle questa che è, per l’anno corrente, l’ultima mia lettera. Tutte le fini sono malinconiche, comprese quelle delle cose tristi. E quando penso che, nonostante le discordie e le liti, noi abbiamo ragionato intimamente, durante circa sei mesi, di ciò che tanto importa al cuore degli uomini; e che i nostri ragionamenti, senza farci mutare opinione, ci hanno fatto molto pensare e molto ricordare; e che pure pungendoci, noi abbiamo riso e ci siamo commossi ad un tempo, mi duole che la nostra corrispondenza abbia ora a mancare. Chi sa quando la riprenderemo e se la riprenderemo? Chi sa che cosa sarà accaduto di noi, chi sa in qual altro modo penseremo di qui ad altri sei mesi? Il segno dell’interrogazione è il gran simbolo del pensiero umano. L’ignoranza e il dubbio sono lo stato abituale della nostra mente. _Forse_ e _ma_ sono due grandi parole. Ella non si stupirà molto, è vero, se col tempo, che fa mutare le idee dei saggi, io stesso muterò di sentimento, che sono appena un dilettante? Le asserzioni troppo rigide, le asseveranze troppo esclusive mi pare che siano fatte apposta per provocare le smentite e le contraddizioni. E che cosa penserà ella quando le avrò detto che ho messo tanto zelo nel sostenere contro di lei certi concetti, appunto perchè ella li ribattesse più vivacemente? Dirà forse: «L’avevo capito!...» Tutte le sentenze umane si possono rivoltare, come un abito scolorito dalla diritta, e fare ancora una discreta figura dalla rovescia. È proprio per questa ragione che all’ultimo suo comandamento di concludere, io sono dolentissimo di non poter obbedire. Se pur ella vuole che in un modo qualunque io le risponda, le presenterò un mazzo di conclusioni tra le quali ella non avrà da far altro che scegliere la più gradita. E le dirò pertanto che l’amore sarebbe la più grande illusione se non fosse anche la massima verità; l’origine d’ogni male e la fonte del solo bene; la passione più forte e salda ma anche più debole e peritura. E le dirò che questo amore importerà più dell’amor proprio, ma che l’amor proprio importa sopra ogni cosa. E soggiungerò che i sentimenti dell’anima vincono gl’istinti corporali quando questi non vincono quelli. E finalmente le concederò che le donne amano meglio degli uomini, avvertendo tuttavia che gli uomini amano meglio delle donne... E non creda che, per lasciarle la bocca dolce, io le dica queste cose scherzose. Tutte le opinioni sono legittime, e il continuo capovolgersi di quelle che un po’ troppo arbitrariamente noi chiamiamo verità non è tanto argomento di riso quanto di dolore. Nel momento che le scrivo, il miliardo e tanti milioni di creature che popolano il mondo giudicano la vita, le passioni, gl’interessi ed i simili in un miliardo e tanti milioni di modi diversi; fra un’ora il loro giudizio sarà mutato; come concludere, pertanto? Quale sentenza, in mezzo a questo vertiginoso caleidoscopio delle opinioni umane, sarà così larga, così profonda, così immutabile da meritare l’universale consenso? Quest’ansia di volere ma di non potere esprimere l’ultima verità della vita è dolorosa; io direi anzi che è il massimo dolore se non mi fossi vietato di formulare sentenze. Ciascun dolore sembra massimo; e come dice un altro motto che ha il suo lato vero: al peggio non c’è fine. Affermò il Poeta che il dolore maggiore è ricordarsi del tempo felice nella miseria; e infatti il misero che rammenta la felicità perduta crede d’essere arrivato al sommo della pena; ma il dolore di quello sciagurato che non ha gioie neppure da rammentare non è anche maggiore? Il bene perduto e ricordato, mentre è un nuovo motivo di cruccio, non potrà essere anche argomento di qualche conforto? Ed ecco, mia cara amica, che se io non posso concludere, come ella vorrebbe, con qualche sentenza, posso e voglio concludere questa non breve serie di apologhi con un apologo nuovo. Poichè ella si è degnata di dirmi che non le dispiacciono quelle inchieste sentimentali e psicologiche esperienze delle quali le ho riferito più volte i risultati, eccone un’ultima! C’erano una volta tre uomini, i quali erano giunti tutti e tre insieme a quell’età quando il cuore ed i sensi entrano nella calma foriera della morte. Costoro s’incontrarono un giorno e parlarono dell’amore. Le parole di tutti erano piene di tristezza. Un giovane che venne a trovarli volle sapere il perchè della tristezza loro. — Tu vuoi sapere il perchè? — disse uno. — Odimi, adunque!... Io fui giovane come te. La mia fronte nuda fu già cinta di chiome! Le mie guance rugose furono fresche e colorite! La mia persona incurvata e tremante già fu salda e diritta. Queste cose sembrano impossibili, è vero? Quando noi vediamo un bambino ci sembra che egli non debba crescere; non pensiamo che diventerà uomo. Così quando tu vedi un vecchio come me non ti pare possibile che sia stato adolescente. Ebbene: tu forse hai ragione! Io fui giovine d’anni, ma di ciò che forma l’orgoglio della giovinezza nulla conobbi. Vedi: se io parlo con tanta tristezza dell’amore, ciò è perchè, forse esempio unico al mondo, o se non unico certamente rarissimo, io non conobbi l’amore. Intendi: io non fui amato. Dentro all’anima mia c’era la lava di un vulcano; e non potei dire a nessuna donna una sola parola appassionata. Quando udivo parlare delle passioni degli altri, ne ridevo: tanto esse mi parevano scialbe e meschine paragonatamente alle fiamme che mi struggevano. Quando profanavo i miei sogni e le mie speranze comprando il piacere, piangevo di dolore. Nessuna donna avrebbe compreso di che tesori di sentimento ero ricco? Ed aspettai, ed aspettai, ed aspettai: invano! Mi mancò l’ardimento? Qualcosa, nella mia faccia, negli occhi miei, dispiaceva e respingeva? Non ti so dire. Nessuna mi amò. E io vidi il tempo trascorrere, e come gli anni passavano la mia speranza diveniva più tormentosa perchè tanto più difficile ne era l’ottenimento. E fino all’ultimo, fin dopo che i miei capelli imbiancarono e caddero, io sperai ancora, disperatamente; quando un giorno dovetti acquetarmi nella rinunzia. Comprendi dunque bene; aver saputo dagli altri, aver letto nei libri, aver visto e sentito che l’amore è la massima gioia, ciò che più piace, ciò che più importa, e aver sperato d’amare come in sogno, e aver perduta questa gioia prima d’assaporarla: non ti pare che io abbia ragione d’essere triste? Quando egli tacque disse l’altro vecchio: — Io l’assaporai! Io conobbi l’amore, un amore molto più bello, più grande, più forte, di quello che i sogni rappresentarono a costui. Io fui fortunato come nessuno al mondo mai; perchè ottenni l’amore d’una creatura così rara, che se l’avessi formata con le mie proprie mani, se le avessi spirato la mia propria vita, non avrei potuto farla migliore. Ma questo amore, che io credetti eterno, finì; perchè niente sotto il sole è eterno. E quando questo amore finì, io passai la mia vita a cercarne un altro eguale, perchè senza un simile bene non potevo più vivere — e non potei più ritrovarlo. Come una piaga, allora, il ricordo del perduto bene sanguinò nel mio cuore, inguaribilmente. Io avrei dato senza esitare tutta la mia vita perchè solo un istante di quella felicità tornasse: impossibile! Io non vivevo più del presente ma del passato, e ogni giorno il passato era più lontano; tendevo ad esso disperatamente le braccia e non potevo afferrarlo. Comprendi bene dunque, o giovane, il motivo della mia tristezza? Avessi come costui sconosciuto la felicità! Non la piangerei come la piango. Chi è nato mendicando si rassegna alla sua povertà; ma chi fu già ricco come potrà tollerare di vivere nell’indigenza? E quando anche costui tacque, disse il vecchio che non aveva ancora parlato: — Tutt’altra è la ragione della mia tristezza. Io non posso dire d’avere conosciuto l’amore nella sola speranza, come costui che primo parlò. Io non amai neppure una sola volta e non mi ridussi a vivere di memorie come quest’altro. Io amai, riamai, più e più volte, continuamente. Finito un amore un altro ne cominciava; e prima ancora che il nuovo fosse morto della morte naturale, io stesso lo soffocavo per assaporarne ancora un altro. Fu soverchio ardimento? Qualcosa nella mia faccia, negli sguardi miei attirava e seduceva? Non so; ma quasi tutte le donne che richiesi d’amore mi si concessero. E più amavo, più ero ansioso d’amare; e quando la stanchezza doveva fiaccare i miei nervi, una specie di furore li esasperava, e nulla potè mai arrestarmi: nè le lacrime delle supplicanti, nè le minacce delle furibonde, nè il pericolo che io stesso correvo: il pericolo che la mia fibra e la mia stessa ragione non resistessero allo spaventevole abuso. Finchè un giorno questo effetto immancabile si produsse; e il male e la pazzia m’agguantarono stretto. Guarii, come vedi; ma per miracolo, e forse perchè potessi dire a te, a costoro ed a tutti gli uomini una verità spesso intuita, ma troppo disconosciuta. Sai tu il perchè dell’avidità, dell’ingordigia mia, dell’ansia implacabile che mi faceva moltiplicare tumultuariamente le prove? Ascolta, o giovane, e impara. Mi fu troppe volte ripetuto che l’amore è l’unica cosa degna d’essere desiderata, la sola sorgente del massimo piacere; la più grande e la più divina delizia. E quando io conobbi l’amore, ne godetti, sì, molto; ma paragonando il godimento ottenuto con quello che avevo imaginato e che m’avevano promesso, trovai che la realtà non raggiungeva l’imaginazione; e, senza paragonare l’aspettazione all’ottenimento, trovai che queste gioie dell’amore, quantunque grandissime, non erano sempre e tutte pure, e che talvolta il piacere costava troppo ed era troppo vicino al disgusto. E allora volli riprovare, perchè io dicevo tra me: «È impossibile che m’abbiano ingannato! Se tutti m’han detto a una voce che l’amore è la somma gioia e il piacere sovrano, e se io non ho potuto confermare questo giudizio, vuol dire che sono stato disgraziato, che sono capitato male; bisognerà pertanto rivolgersi altrove». E ricominciai ad amare, e poi ricominciai un’altra volta, e poi un’altra volta ancora, sempre più scontento e sempre più ansioso; perchè la distanza fra la promessa e l’ottenimento invece di scemare cresceva. Ma accadeva ancora un’altra cosa, più triste, inesplicabile e quasi diabolica: che, quando io uccidevo uno di questi amori dei quali ero troppo scontento e nauseato per cercare in un altro il paradiso aspettato, allora l’amor nuovo e attuale che doveva darmi il paradiso mi repugnava, e il vecchio, il morto, l’amore che io stesso avevo ucciso, risplendeva nella mia memoria, purificato, nobilitato, così allettante come la speranza d’amare. E questo fu ed è il maggior dolore: d’aver tanto amato senza apprezzar mai giustamente l’amore. Perchè, o giovane, l’imaginazione distende nei cieli dell’anima questi miraggi, e quando tu ti guardi intorno vedi tutto povero e arido come in un deserto; ma se spingi dinanzi a te lo sguardo o se ti volgi indietro, nell’avvenire o nel passato, come costoro, tu vedi solamente spettacoli degni. Diffida dunque delle speranze troppo grandi, guàrdati dalle memorie troppo abbellite; e, nell’amore come in tutta la vita, non esagerare. FINE Opere di Antonio Fogazzaro *Piccolo mondo antico*, romanzo — Ventitreesima ed. 5 — *Malombra* — Quattordicesima edizione 5 — *Il mistero del poeta*, romanzo — Quindicesima ediz. 4 50 *Un pensiero di Ermes Torranza*, novella 1 — *Daniele Cortis*, romanzo — Quindicesima edizione 4 — *Valsolda. Poesia dispersa* — Un volume elzevir con ritratto dell’autore, in fototipia — Terza edizione 3 — *Eva*, poemetto — Quinta edizione 1 — *Miranda*, novella in versi — Un volume elzevir della _Biblioteca pergamena_ — Ottava edizione 3 — *Un’opinione di Alessandro Manzoni — Giacomo Zanella* — Un volumetto — 25 *Per un recente raffronto delle teorie di S. Agostino e Darwin circa la creazione* — Sesta ediz. 2 — *Per la bellezza di un’idea* — Terza edizione 2 — *L’origine dell’uomo e il sentimento religioso* — Discorso letto in Roma il 2 marzo 1893 alla _Società per l’istruzione della donna_, presente S. M. la Regina — Un volume in-16 — Terza ediz. 3 — *Fedele*, ed altri racconti — Settima edizione 4 — *Racconti brevi* — Un volume in-16 1 — *Poesie scelte* — nuovissimo 4 — *Antonio Fogazzaro*, la sua vita, le sue opere, i suoi critici, di _Sebastiano Rumor_. — Elegantissimo volume in-16 con illustrazioni 2 — _Le opere suddette rilegate in tela e oro, per dono, una lira in più._ _Si accettano ordinazioni per legature speciali_ Dirigere commiss., vaglia, domande di catalogo alla Casa Editr. _Galli_ — Milano ———— *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK GLI AMORI*** A Word from Project Gutenberg We will update this book if we find any errors. This book can be found under: http://www.gutenberg.org/ebooks/39289 Creating the works from public domain print editions means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Its 501(c)(3) letter is posted at http://www.gutenberg.org/fundraising/pglaf . Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s principal office is located at 4557 Melan Dr. S. Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered throughout numerous locations. Its business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email business@pglaf.org. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s web site and official page at http://www.pglaf.org For additional contact information: Dr. Gregory B. Newby Chief Executive and Director gbnewby@pglaf.org Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without wide spread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit http://www.gutenberg.org/fundraising/donate While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff. Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: http://www.gutenberg.org/fundraising/donate Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works. Professor Michael S. Hart is the originator of the Project Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For thirty years, he produced and distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Each eBook is in a subdirectory of the same number as the eBook’s eBook number, often in several formats including plain vanilla ASCII, compressed (zipped), HTML and others. 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